Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
LA LOMBARDIA
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO MILANO E LOMBARDIA
I MILANESI ED I LOMBARDI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ??
Quello che i Milanesi ed i Lombardi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Milanesi ed i Lombardi non avrebbero mai voluto leggere.
Milano: la città da bere e la città di tangentopoli; la città delle toghe rosse e dell’impunità.
Milano: la città del.......
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LOMBARDIA. TERRA DI EVASORI FISCALI.
PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.
LA MILANO DEI MORATTI.
MAFIA, PALAZZI E POTERE.
LA STRAGE DI STATO ED IL SUICIDIO DI STATO: IL RAPIDO 904, PIAZZA FONTANA E GIUSEPPE PINELLI.
LA BUFALA DELL’INQUINAMENTO.
LA TERRA DEI FUOCHI DEL NORD.
MILANO CAPITALE DELLO STUDIO.
MILANO: DA CAPITALE MORALE A CAPITALE DEL CAZO.
IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.
TRENORD: IL RACKET DEI BIGLIETTI.
DA FERROVIE NORD ALL'ATAC: CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
BERLUSCONI, CRAXI E IL PARTITO DELLE TASSE E DELLE MANETTE.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA……
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
TROPPI TESTIMONI INUTILI? PENA PIU’ ALTA!
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA. PARE UNA BARZELLETTA.
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.
QUEL CHE SUCCEDE NEI TRIBUNALI. GENTE CHE VA, GENTE CHE VIENE. GENTE CHE IMBROGLIA O SPARA.
BUROCRAZIA E SOLIDARIETA’. LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.
IL SUD TARTASSATO.
L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
ESSERE BAUSCIA.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
PATRIA, ORDINE. LEGGE.
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
CASE POPOLARI A MILANO: DI EROI E DI MAFIOSI.
"JE SUIS CRAXI”. LA MORALE CHE AVANZA. CRAXI, PISAPIA, ROBLEDO E GLI ALTRI. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.
SONO PROCURE O NIDI DI VIPERE?
PALAZZO DI GIUSTIZIA: NON C'E' POSTA PER TE!
MAFIA E MAFIOSITA' IN LOMBARDIA.
LA LOMBARDIA E L’ESERCITO DEI CONSULENTI INUTILI.
PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?
C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.
I MANETTARI INFILZATI.
ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.
IPOCRISIA ITALICA. E' TUTTO UN VOTO DI SCAMBIO. ERGO: SIAM TUTTI MAFIOSI.
ITALIANI. SIAM TUTTI LADRONI E MAFIOSI.
Il CASO DI MOTTA VISCONTI.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.
LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.
BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.
LOMBARDIA, LA MADRE DEGLI AFFARI TRUCCATI.
MILANO: IL PALAZZO DI GIUSTIZIA, DEI VELENI E DEGLI INSABBIAMENTI.
MILANO: MA CHE SUCCEDE?
ANTIMAFIA ALLA MILANESE.
CLEAN CITY. TANGENTI A COLOGNO MONZESE.
I CUTRI'. MORIRE D'INGIUSTIZIA.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
GIUSTIZIAMI.IT. OMERTA’ GIUDIZIARIE SVELATE DA GIORNALISTI LIBERI.
LE RAGAZZE DOCCIA, LA BABY PROSTITUZIONE E LA SOLITA INDIFFERENZA.
LA DIFFAMAZIONE, I GIUDICI, I GIORNALISTI ED ALTRE COSE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
LA LEGA MASSONICA.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
MILANO E L'EVASIONE FISCALE.
IN TRIBUNALE. PROFESSIONISTI SENZA DIGNITA’.
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
SILVIO BERLUSCONI: UN SIMBOLO PER TUTTE LE INGIUSTIZIE.
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
MILANO: TOGHE SCATENATE.
CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.
ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
POPULISTA A CHI?!?
LA LOMBARDIA DEGLI SPURGHI.
OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE INSABBIATE.
SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.
MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.
MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.
MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?
LA ZONA GRIGIA. QUANDO LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.
SUD? NO GRAZIE! LA LOMBARDIA DEGLI ONESTI…CHI? MA MI FACCIA IL PIACERE!!!!!!!
RIFIUTI. MILANO COME GOMORRA.
LA PIOVRA PARLA LOMBARDO. MILANO, LE MANI SULLA CITTA’.
QUALE MAFIA? IL PREFETTO AL MARE, PAGA LIGRESTI.
PARLIAMO DELLA MILANO CORROTTA.
FILIPPO PENATI. IL SISTEMA SESTO NON ESISTE.
PARLIAMO DELLA MILANO MAFIOSA.
MILANO: OMICIDI DI STATO.
MILANO MAFIOSA - MILANO CRIMINALE.
MAI DIRE MILANO.
MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”
PARLIAMO DELLA MILANO OMERTOSA: SOLO 4 TESTIMONI SU 20 CONFERMANO NEL PROCESSO LE DICHIARAZIONI RESE DURANTE LE INDAGINI.
PARLIAMO DELLA LEGA NORD PADANIA: RAZZISTA? LADRONA? TRAFFICONA? MAFIOSA?
PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE.
CARROCIOPOLI.
LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA.
ROMA LADRONA? NO. MILANO LADRONA!
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI?
IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.
MILANO: CAPITALE MORALE ?!?
GIUSTIZIA. SE SI LAMENTA CHI GESTISCE IL POTERE POLITICO ED ECONOMICO, COSA DEVE DIRE IL POVERO CRISTO……...
VECCHIE E NUOVE TANGENTOPOLI.
AFFITTOPOLI.
MAFIOPOLI.
PROCESSO AI ROS.
LA VERA STORIA DI TANGENTOPOLI.
MAGISTROPOLI.
IL CASO BOCCASSINI.
IL CASO MARRA.
IL CASO PIACENTINI.
IL CASO GROSSI.
IL CASO FORLEO.
IL CASO SANTANIELLO.
IL CASO PINATTO.
IL CASO CASTELLANO.
MALAGIUSTIZIA.
DENUNCE PENALI MAI ISCRITTE NEL REGISTRO GENERALE.
IL TRIBUNALE CONVOCA TOPOLINO E PAPERINA.
MORIRE A CAUSA DELL'INETTITUDINE DELLO STATO.
IMPUNITOPOLI.
ESAMOPOLI.
GASSOPOLI.
MALASANITA'.
RACKET DELLE POMPE FUNEBRI.
"VEDI MILANO E POI MUORI". SANITA': ARRESTI AL SANTA RITA.
TANGENTI: CONDANNA ALL'EX MINISTRO GIROLAMO SIRCHIA.
SERVIZIOPOLI TELEFONICA: INTERCETTAZIONI ILLEGALI.
SICUREZZOPOLI: BANDE IN DIVISA.
SPRECOPOLI.
CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.
INGIUSTIZIA.
I BAMBINI DI BASIGLIO.
IL CASO BARILLA’.
IL CASO PALAU GIOVANNETTI.
I CASI MARIANI E CROSIGNANI.
GIOVENTU' A PERDERE.
PARLIAMO DI BERGAMO
PARLIAMO DI MAFIA.
PARLIAMO DI MASSONERIA.
PARLIAMO DI MAGISTROPOLI.
DOLORE E DELUSIONE.
POLIZIOTTI ALLE SLOT, NON PER STRADA.
PARLIAMO DI SPRECHI.
BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
PARLIAMO DI BRESCIA
BRESCIA INQUINATA.
ADRO E L’ARRESTO DEL SINDACO LEGHISTA.
PARLIAMO DEI BAMBINI MORTI AD ONO SAN PIETRO.
SPRECHI.
CARROCCIOPOLI.
INGIUSTIZIA.
AVVOCATOPOLI.
USUROPOLI.
SICUREZZOPOLI.
MAGISTROPOLI.
LA BANDA IN DIVISA.
IMPUNITOPOLI.
PARLIAMO DI COMO
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
LA STRAGE DI ERBA.
PARLIAMO DI CREMONA
MALAGIUSTIZIA.
PASSEGGERI ABBANDONATI.
PARLIAMO DI LECCO
LECCO MAFIOSA.
LA BANDA DEGLI ONESTI LECCHESI.
VIOLENZA DI STATO.
MALAGIUSTIZIA.
PARLIAMO DI MANTOVA
MANTOVA MAFIOSA.
CONCORSI PUBBLICI. E POI PARLANO DI MERITO.
STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.
QUANDO I BUONI TRADISCONO. POLIZIA VIOLENTA.
PARLIAMO DI MONZA/BRIANZA.
QUALE MAFIA?
PARLIAMO DI PAVIA
QUALE MAFIA?
AMMINISTRATORI IN GALERA. NON SI SALVA NESSUNO.
MAFIE A PAVIA.
CHIARA POGGI. IL DELITTO DI GARLASCO. ALBERTO STASI. 16 ANNI: POCHI PER UN COLPEVOLE; TANTI PER UN INNOCENTE.
PARLIAMO DI SONDRIO
SONDRIO E LA MAFIA.
PARLIAMO DI VARESE
IL CALCIO: PEGGIO DI GOMORRA!
TRIBUNALE SOTTO ESAME.
VARESE E LA MAFIA.
VARESE E LA MASSONERIA.
AMMINISTRATOPOLI.
A PROPOSITO DI EVASIONE FISCALE.
OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.
SESTO CALENDE. La storia di ordinaria follia.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
"Caso Expo insabbiato". Venezia indaga i giudici di Milano e Brescia. Le toghe lombarde nel mirino della Procura per la gestione dei fondi destinati alla giustizia, scrive Luca Fazzo, Martedì 19/09/2017, su "Il Giornale". Giudici sotto inchiesta, nel palazzo di giustizia che fu il simbolo della legalità: il tribunale di Milano, il tempio di Mani Pulite, roccaforte di magistrati inflessibili con chi bara con i soldi dello Stato, chi trucca gli appalti ed aggira le leggi. Ma la inflessibilità, a quanto pare, vale solo quando a sgarrare sono i comuni mortali. Se a violare le regole è un magistrato, tutto tace. Così per accendere i riflettori sugli inverosimili pasticci avvenuti sotto l'egida di Expo è dovuta muoversi una Procura molto lontana: Venezia, a 270 chilometri di distanza dagli affari e dai silenzi del tribunale milanese. È qui, in riva alla laguna, che è stato aperto il fascicolo di inchiesta che rischia di terremotare la giustizia milanese: e non solo. Che i quindici milioni di euro stanziati in nome di Expo per ammodernare la giustizia siano stati spesi (e in taluni casi sperperati) senza alcun controllo, saltando gare d'appalto con i pretesti più svariati, il Giornale e il blog Giustiziami lo hanno scritto a più riprese a partire dal 2014. Risultato: silenzio, muro di gomma. Fino a che non si muove l'Anac, l'Autorità anticorruzione, che ordina alla Guardia di finanza di indagare. A maggio scorso la Finanza invia a Raffaele Cantone, capo dell'Anac, un rapporto impressionante: dei 15 milioni stanziati, dieci sono stati spesi violando la legge. E per gli appalti più ricchi i vincitori sono stati individuati a tavolino prima ancora di scrivere il capitolato l'appalto, da un «gruppo di lavoro». Il guaio è che di quel gruppo di lavoro facevano parte tutti i capi degli uffici più delicati del «palazzaccio» milanese: tribunale, procura, corte d'appello, procura generale. Il Comune di Milano, cui il nuovo presidente del tribunale milanese, Roberto Bichi, cerca di rifilare la colpa, replica: nelle riunioni a decidere le spese e a indicare le aziende vincitrici erano i magistrati. Cantone manda il rapporto al procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco. Greco dovrebbe fare una cosa semplice: poiché i magistrati che avrebbero commesso i reati erano all'epoca tutti in servizio a Milano, e la legge, come è ovvio, prevede che una procura non possa indagare su se stessa, bisognerebbe prendere il fascicolo e mandarlo alla Procura di Brescia. Invece Greco si tiene le carte di Cantone, e le affida a due pm di sua fiducia; dopodiché non accade più nulla. A Brescia, nel frattempo, tutto tace: e d'altronde neanche Brescia potrebbe aprire una inchiesta, perché uno dei magistrati protagonisti degli appalti Expo è Claudio Castelli, allora in servizio a Milano e ora presidente della Corte d'appello bresciana. Ci sono, insomma, tutti i presupposti perché la storia dei milioni dai giudici milanesi alle aziende fidate finisca nel dimenticatoio. In questo risiko di insabbiamenti, alla fine arriva l'imprevisto: scende in campo la procura di Venezia, dove a giugno è arrivato un nuovo procuratore, Bruno Cherchi, lontano dai giochi correntizi. La procura del capoluogo veneto decide di muoversi per un motivo semplice: se tra i sospettati c'è Castelli, allora la competenza dell'intero fascicolo spetta proprio a Venezia. E la decisione di Venezia di scendere in campo vuol dire due cose precise: a Milano intorno agli appalti in tribunale sono stati commessi dei reati, e tra gli indagati - o da indagare - ci sono i magistrati milanesi. Cherchi, ieri, non commenta la notizia, anzi nemmeno riceve («il procuratore è impegnato tutta la settimana», fanno sapere dal suo ufficio). Ma la decisione di aprire il fascicolo è senza ritorno. «Adesso - dice una fonte vicina all'inchiesta - se ne vedranno di tutti i colori». Speriamo.
La casta dei giudici di Milano si autoassolve sui propri appalti. Sotto accusa oltre 12 milioni di commesse. Corte dei conti e Anac si rimbalzano la pratica. Che ora finisce a Venezia, scrive Luca Fazzo, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale". Sono abituati a giudicare, adesso si ritrovano sotto tiro: e cose inconsuete accadono nel tribunale di Milano da quando l'Autorità Anticorruzione ha messo sotto accusa spese pazze e appalti disinvolti nel nome di Expo. Soldi che dovevano servire a migliorare l'efficienza della giustizia milanese; che sono stati, invece, sperperati in larga parte in spese inutili; e che sono comunque tutti andati ai soliti noti, saltando qualunque procedura di gara pubblica. Tutti i venticinque presidenti di sezione sono stati convocati dal presidente, Roberto Bichi, per organizzare la linea difensiva. Si chiudono in un'aula, all'uscita non rispondono. Facce tirate, clima alla Todo Modo. Bichi dirama un comunicato rivendicando l'onestà del tribunale di Milano e scaricando la grana: «Non eravamo noi la stazione appaltante», cioè non abbiamo assegnato noi i lavori. E così cerca di lasciare il cerino in mano in parte al ministero della Giustizia, in parte al Comune di Milano, retto all'epoca da Giuliano Pisapia. Ma il Comune ha in mano carte che spiegano come gli appalti siano stati gestiti seguendo proprio le indicazioni dei giudici. Una rogna gigantesca, insomma, che si è cercato di insabbiare. A tirare fuori i documenti che raccontano le malefatte in tribunale nel nome di Expo sono il 2 luglio 2014, quasi tre anni fa, il Giornale e il blog Giustiziami. Carte che non è stato facile avere: l'allora presidente della Corte d'appello Giovanni Canzio, ora primo presidente della Cassazione, si era rifiutato di consegnarle alla stampa; il funzionario del Comune addetto agli uffici giudiziari, Carmelo Maugeri, aveva sostenuto che andavano secretate. Alla fine era stata l'assessore ai Lavori pubblici del Comune, Carmela Rozza, a dare in visione il malloppo. E si era capito il perché di tanta discrezione: dodici milioni e mezzo di lavori, e neanche una gara d'appalto. Nel tempio della giustizia era come se le leggi non esistessero. Il 2 luglio 2014 il Giornale e Giustiziami divulgano i documenti. Nei mesi successivi, approfondiscono la vicenda con altri articoli. Incredibilmente, nulla accade. La Procura della Repubblica, sempre pronta a aprire inchieste, non muove un dito. L'Autorità nazionale Anticorruzione, così solerte a indagare quando ci sono di mezzo dei politici, adesso che di mezzo ci sono magistrati fa finta di niente: d'altronde il suo capo, Raffaele Cantone, è anche lui un magistrato (in aspettativa). Tace la Corte dei Conti. Un muro di gomma. Bisogna aspettare l'estate scorsa perché Marta Malacarne, che regge la Corte d'appello dopo la promozione di Canzio, e il nuovo procuratore generale Roberto Alfonso, decidano che si è taciuto troppo, e mandano una lettera all'Anticorruzione. In febbraio Cantone manda la Finanza in Comune. E ora stende un rapporto in cui si scopre che in un anno l'Anticorruzione non ha scoperto niente di nuovo: le irregolarità sono le stesse denunciate per filo e per segno dal Giornale. Diciotto appalti, in buona parte finiti a Finmeccanica attraverso Elsag, in parte a un altro colosso della stessa orbita, la Net Service di Bologna, tutti senza gara. A volte le gare vengono eluse col pretesto della «continuità» con lavori precedenti, a volte usando lo schermo della Camera di Commercio. Ma adesso chi indagherà? Cantone manda le carte alla stessa Corte dei Conti che da tre anni ha insabbiato un'altra inchiesta sugli sprechi giudiziari milanesi; e alla Procura di Milano, che apre lunedì scorso un'indagine «contro ignoti». Siccome a decidere furono all'epoca magistrati milanesi, il fascicolo in realtà dovrebbe andare per competenza alla Procura di Brescia, dove però è ora presidente della Corte d'appello Claudio Castelli, che delle operazioni milanesi fu uno dei registi. Quindi il fascicolo dovrebbe approdare addirittura a Venezia. Sarà un lungo psicodramma, quello che sta per investire il palazzaccio milanese.
Moratoria dei pm su Expo? Il pm snobba la questione. Nel suo ultimo discorso pubblico da Procuratore, Edmondo Bruti Liberati liquida con poche ma esplicite righe il tema della presunta "moratoria" concessa durante Expo per non infierire con arresti e avvisi di garanzia sull'andamento dell'esposizione universale, scrive Luca Fazzo Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. "La Procura di Milano ha svolto il ruolo che le compete di accertamento rigoroso dei fatti di reato. "La magistratura penale non deve farsi carico di "compatibilitá"". Nel suo ultimo discorso pubblico da Procuratore, Edmondo Bruti Liberati liquida con poche ma esplicite righe il tema che da settimane, ma soprattutto nelle ultime ore, incombe sulla sua gestione della Procura di Milano: la presunta "moratoria" concessa durante Expo per non infierire con arresti e avvisi di garanzia sull'andamento dell'esposizione universale. Una sorta d conferma dell'esistenza della moratoria é venuta ieri dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che nel suo discorso milanese ha ringraziato la magistratura per la "responsabilità " dimostrata in questi mesi. "Non ci siamo fermati checché se ne dica oggi in alcuni commenti", ha detto Bruti replicando agli articoli odierni innescati dal "ringraziamento" di Renzi. Bruti, che aveva assunto su di sé il coordinamento delle indagini sull'evento milanese, nega che una moratoria vi sia stata. Rivendica le inchieste compiute prima dell'avvio dell'esposizione, "la massima celerità" impressa alle indagini, che "ha consentito alla struttura Expo 2015 di adottare te elettivamente i provvedimenti per la sostituzione dei manager colpiti da custodia cautelare evitando ogni stasi nel periodo delicatissimo di predisposizione delle strutture di base dell'evento". "Spettava ad altre articolazioni istituzionali operare affinché seguissero iniziative gestionali ed amministrative atte a assicurare la prosecuzione delle opere in condizioni di ripristinata legalità ". Il riferimento é alle indagini che portarono all'arresto di alcuni tra i collaboratori più stretti del commissario di Expo Giuseppe Sala e di alcuni sopravvissuti di Tangentopoli. Se altre indagini si sono accumulate nel frattempo nei cassetti, e se daranno i loro frutti dopo la chiusura di Expo, lo si scoprirà solo nelle prossime settimane. Oggi Bruti Liberati dá l'addio alla carica, presentando il Bilancio sociale della procura che ha guidato per cinque anni. Alla presenza del ministro Andrea Orlando, Bruti rivendica numeri alla mano una serie di numeri che dimostrano come il lavoro quotidiano dei suoi ottanta sostituti abbia risposto sempre meglio alle esigenze di una città alle prese con i multiformi aspetti della criminalità. Vero. Ma lo stesso Procuratore sa bene che il tema cruciale é quello del rapporto con il potere politico. E su questo punto le polemiche non sono destinate a chiudersi con la sua uscita di scena.
Trattativa Pd-magistrati. Renzi svela l'accordo con la procura di Milano: grazie per la vostra sensibilità, scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. In visita ieri a Milano per il dopo Expo, Matteo Renzi ha detto: «Ringraziamo i magistrati che hanno avuto sensibilità nel rispetto rigoroso delle leggi», svelando così un segreto di Pulcinella. Perché quello che tutti sapevano, e che nessuno osava dire, è che c'è stata una trattativa sull'asse Quirinale-Palazzo Chigi-Procura di Milano per sospendere le inchieste giudiziarie sui vertici dell'Expo per tutto il periodo della rassegna universale. Non si doveva rovinare la festa al governo di sinistra, non scalfire l'immagine di Giuseppe Sala, capo di Expo e futuro candidato sindaco del Pd a Milano. Altro che trattativa Stato-mafia. Qui siamo alla trattativa Stato-magistrati, che evidentemente - ce lo dice Renzi in persona - è andata a buon fine. Sarebbe interessante sapere chi ha trattato con chi, chi ha ordinato ai magistrati di fermarsi e chi a Palazzo di giustizia si è fatto garante dell'accordo. Verrebbe da dire: finalmente qualcuno fa valere l'interesse di Stato sulla furia devastatrice di pm incoscienti. Ma ci chiediamo anche perché questo sano principio non sia stato applicato durante la ventennale caccia a Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, che enormi danni ha provocato all'interessato ma soprattutto al Paese. Ricordate l'avviso di garanzia - il primo a un premier in carica nella storia repubblicana - spedito da questi stessi magistrati a Berlusconi a Napoli, nel pieno della conferenza internazionale sulla criminalità organizzata? Non ci fu alcuna «sensibilità», né «rispetto delle leggi», tanto che l'allora premier fu poi totalmente assolto. Così come gli interessi del Paese sono stati negli anni calpestati con inchieste farlocche sui vertici delle nostre grandi aziende, da Eni a Finmeccanica, da Fastweb a Unicredit. Solo con un governo di sinistra i magistrati abbassano la testa e ripongono nei cassetti i faldoni delle intercettazioni. Questa è la prova che l'uso politico della giustizia non è una fantasia di qualche squilibrato. È un fatto. Le procure si muovono contro una parte, che è sempre la stessa, ma anche a difesa di una parte che, guarda caso, è pure quella sempre la stessa. Tutto ciò spiega anche perché Giuseppe Sala stia prendendo tempo prima di accettare la candidatura del Pd a guidare Milano: vuole sapere se il suo lasciapassare è scaduto con la chiusura dei cancelli di Expo o se sarà rinnovato fino alle elezioni, meglio all'infinito. Ma così la partita è truccata. E addio democrazia.
Trattativa Pd-pm milanesi: presto cadranno tutti i segreti. Dopo il plauso di Renzi ai giudici che hanno salvato Expo e Sala, il procuratore smentisce: "Nessuna moratoria". Bruti va in pensione, se ripartono le inchieste sarà la controprova, scrive Luca Fazzo Giovedì 12/11/2015 su “Il Giornale”. Procuratore, cosa c'è nei vostri cassetti? La domanda rimane senza risposta. Edmondo Bruti Liberati scivola via, inghiottito nel nugolo di agenti che scortano, pochi metri più in là, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per Bruti è il giorno dell'addio. Nell'aula magna del tribunale il Procuratore ha tenuto il suo ultimo discorso. Tra tre giorni andrà in pensione. È un addio amaro. Non solo perché Bruti se ne va anzitempo, sull'onda delle polemiche furibonde che hanno lacerato la Procura milanese, e che lo esponevano al rischio di essere esautorato dal Csm. Ma anche perché, manco a farlo apposta, alla vigilia del suo addio gli è piombato addosso un ringraziamento che somiglia a un killeraggio: quello del presidente del Consiglio.«Voglio ringraziare i magistrati di Milano per il rispetto rigoroso della legge ma anche del sistema istituzionale», aveva detto Matteo Renzi. Parole che a chiunque (compresi numerosi magistrati) sono suonate come la conferma ufficiale di quanto da mesi si dice nel Palazzo di giustizia milanese, e che solo un vecchio reporter iconoclasta come Frank Cimini aveva osato scrivere: l'esistenza di una moratoria tacita, un accordo tra potere politico e procura milanese per consentire a Expo di svolgersi al riparo da retate e avvisi di garanzia. «Nessuna moratoria - dice ieri Bruti - io sto ai fatti: le indagini su Expo sono state fatte». Se un riguardo c'è stato, dice il procuratore, è consistito nella «celerità dell'indagine» perché non si bloccassero i lavori dell'esposizione». Nient'altro. E il ministro Orlando prova anche lui a smosciare, spiegando che il «rispetto istituzionale» dimostrato dalla Procura milanese ha significato soltanto «fare ciò che impone la legge»: frase evidentemente priva di significato. E dunque? Di cosa parla davvero Renzi, quali accordi taciti o espliciti sono intercorsi in questi mesi perché non si disturbasse l'Expo di Giuseppe Sala? Per capire la portata di questi interrogativi bisogna andare indietro, alla nomina di Bruti alla guida della Procura cinque anni fa, conquistata grazie ad un accordo bipartisan in Csm fortemente voluto da Giorgio Napolitano: e a come il Quirinale abbia sempre vegliato su Bruti, considerandolo un magistrato non ottusamente chiuso nei codici ma aperto anche alle esigenze della società e della politica, e poi difendendolo apertamente anche nel momento più difficile, lo scontro con il suo vice Alfredo Robledo.Di questa interpretazione «politica» del suo ruolo, Bruti ha beneficiato a volte anche il centrodestra: come quando evitò il carcere a Alessandro Sallusti, o aprì la strada all'affidamento ai servizi sociali di Silvio Berlusconi. Ma è oggettivo che il caso più eclatante, l'inchiesta Sea dimenticata in cassaforte, ha tolto una rogna dal cammino della giunta rosso-arancione di Milano. Ed è altrettanto evidente che le inchieste su Expo che ieri Bruti rivendica si sono fermate tutte alla vigilia dell'esposizione. Dopo le retate del 2014, le indagini si sono fermate.Solo nelle prossime settimane, chiusa Expo e pensionato Bruti, si capirà se davvero, come si dice da tempo in tribunale, le notizie di reato relative all'esposizione siano continuate ad arrivare, e siano tenute sotto nomi di copertura in attesa della fine della moratoria.
Tutti a Milano, la città dove ogni cosa accade. La buona amministrazione, la rinascita urbanistica, il successo di Expo. Grandi imprese pubbliche e private trasferiscono da Roma uffici e dirigenti. Il potere si sposta sotto il Duomo. Ritratto del capoluogo lombardo in piena rinascita, scrive Denise Pardo su “L’Espresso”. Milano. Una veduta dello skyline dei grattacieli di Porta Nuova, tra le guglie del Duomo. No, non è solo l'Expo il volano, l’algoritmo, la soluzione della metamorfosi. C’è pure Porta Nuova e il Bosco Verticale, ne vogliono uno identico anche in Cina. E l’Hangar Bicocca, Citylife, la Torre Isozaki di Allianz e la Fondazione Prada, ex distilleria recuperata ad arte, il bar serve unicamente panini gran gourmet, la Miuccia dice che il genere socializza. Poi la darsena, da non credere, ora finalmente è riempita d’acqua. Milano, città nuova dove tutto succede. Dopo anni grigi, di colpo, ha cambiato pelle. E si è rinnamorata di se stessa. Sono apparsi gli alberi e i piccoli giardini, il rilancio delle aree verdi lo varò il sindaco Albertini, con quel nome, per forza. Passano in fila indiana ricche cinesi vestite gran moda con il naso in su ad ammirare i grattacieli. Cerca casa Fabio Gallia, nuovo ad di Cassa Depositi e Prestiti, la cassaforte piena di dobloni pubblici. Il suo presidente Claudio Costamagna, avuto da Cesare-Matteo quel che aspettava da Cesare-Matteo, lascia malvolentieri il suolo meneghino, e se la Cassa dev’essere più di mercato, lui e la chiave del tesoro stanno il più possibile a Palazzo Litta, Corso Magenta. Torna a casa Corrado Passera, la Capitale è stata assai amara, Milano, come già in passato, forse potrebbe dare di più. A maggio si libera il Comune e lui ha parlato con Paolo Glisenti che al fianco di Letizia Moratti sognò l’Expo, vedi mai, si può provare. Il sindaco, Giuliano Pisapia, gran borghese rosso che non vuole ricandidarsi nonostante le suppliche romane è venerato come Padre Pio. Non è sovrannaturale la trasformazione di Milano in brulicante città turistica? Il traffico è spesso infernale. Le corsie sono ristrette in nome del ciclismo cittadino e Pisapia e cinque assessori danno il buon esempio, tanto non si spalancano i buchi e i crateri di Roma. Si fa lo slalom nelle strade invase dai viaggiatori, la città è al secondo posto tra le più visitate d’Italia, Firenze si piazza dopo di lei e sembra uno scherzo. Il dato non dipende dall’effetto Expo applaudito dalla stampa di mezzo mondo, dopo mesi di apocalittici anatemi e scandali nostrani. L’ascesa inizia ben prima. Ecco, il miracolo a Milano. Se questo non è miracolo, allora cos’è? A Milano, a Milano, persino per un week end, per famiglie e sublimi snob, la città è nel grand tour. Un grand tour in un crocevia più che mai politico, economico, internazionale, bancario esteticamente rivoluzionato e frutto di una ritrovata passione civile e del rigore calvinista della città. È bastato che saltasse il tappo del berlusconismo e nella Milano dalle mille anime - culturali, etniche, di censo - e dalle quattro linee della metropolitana, è tornato di botto il senso e l’orgoglio della comunità. Sette università, un quarto di milione di studenti da tutto il mondo, due orchestre sinfoniche, la Scala e va bene, ma anche la Verdi che è privata e un po’ arranca un po’ no, ma sopravvive. Intanto Etihad per togliersi dai pasticci romani valuta la possibilità di potenziare gli uffici milanesi e di incrementare il cargo su Malpensa sottraendolo al disastrato Fiumicino ancora in attesa del restyling. Che schiaffo per Roma! C’è chiasso allegro e tanti giovani, e persino la musica vicino alla Triennale completata e bellissima, accanto alla Galleria Vittorio Emanuele restaurata, e sulle rive dei Navigli. Anche le file all’Expo, nonostante ora siano esagerate, da class action come si è visto, sprigionano energia, elettricità. Nuovi bar ovunque, mentre il Comune è preso d’assalto dalle richieste di dehors, come a Parigi come a Londra. Chi se ne importa se il clima è quello che è. I romani che provengono da una Capitale diseredata, abbandonata a se stessa, ammutoliscono e commentano: «Prima Milano non era così». No, non era così. E ora che il restauro delle facciate, i virtuosismi architettonici, i segni dei mecenati mostrano l’inaspettata grande bellezza, è in arrivo un’altra svolta sostanziale, profonda, forse chirurgica: il cambio degli uomini, si aspettano nuovi venuti. C’è l’attesa del dopo. Il dopo Expo, il 31 ottobre si chiude. Il dopo Pisapia, a primavera tutti a casa. Il dopo Edmondo Bruti Liberati, il procuratore generale è già scaduto: sarà Francesco Greco o Ilda Boccassini che ha presentato la richiesta o magari la poltrona toccherà invece all’ex marito di lei, Alberto Nobili? Attendendo l’Antitrust, ecco anche il dopo “Mondazzoli”, la fusione Mondadori-Rizzoli: quali saranno i prossimi capitani delle letture? Si profila forse il dopo Angelo Scola viste le voci insistenti su un ritiro anticipato dell’arcivescovo di Milano, uno dei tredici disobbedienti firmatari della lettera al Papa contro il metodo del Sinodo (lui ha smentito). Molti metri sopra al cielo, in due delle torri simbolo della città si scruta l’avvenire. Cambierà qualcosa al vertice della Torre Unicredit, 239 metri zona Porta Nuova, a ridosso di Corso Como, (acquisti proibitivi, effetto assicurato da naufraga depressa), sopra piazza Gae Aulenti (altro luogo di turismo cult) dove Fabrizio Palenzona, vice presidente dai mille incarichi, anche presidente degli Aeroporti di Roma, è indagato dalla Direzione Antimafia di Firenze? Il cda della banca ha confermato la fiducia. Ma fino a poco fa, lui sembrava un intoccabile totem. Da una torre all’altra, a quella del Pirellone, sede del Consiglio regionale lombardo dove il vice presidente Mario Mantovani è stato arrestato per corruzione e la vicenda ha aperto una crisi negli equilibri politici già traballanti del Consiglio. A palazzo Marino, l’eredità Pisapia peserà come un macigno. Per la valenza politica a livello nazionale del risultato locale e per il ruolo della città nelle comunità economiche finanziarie del nuovo mondo: «i giovani del Far East», ha raccontato l’ad Expo Giuseppe Sala, «considerano Milano una delle mete più desiderate d’Europa». Meglio non farlo sapere a Parigi. A differenza di altre città italiane - si stenda un velo pietoso sulla Capitale - c’è ancora una società civile pronta a mettersi al servizio del bene comune. L’ha fatto l’avvocato Umberto Ambrosoli, sconfitto da Roberto Maroni. Sollecitato da Palazzo Chigi, proverà anche Sala, ex dirigente Pirelli, presentato a Letizia Moratti da Bruno Ermolli, ora diventato ardente renziano. C’è il tormentone Ferruccio de Bortoli, a sinistra, al centro, con una lista civica, non si sa! L’ex direttore del “Corriere della Sera” non è tipo da primarie. Nicchia, si favoleggia di un incontro con Renzi definito da lui in un editoriale «maleducato di talento». Ma le settimane passate nella Capitale come presidente della Commissione per il concorso Rai non saranno certo trascorse invano. La nebbia che non c’è più a Milano, è fitta invece intorno al nome del prescelto sull’altare berlusconian-leghista. Il potere si sposta e così anche Roma. L’hotel più alla moda è il nuovo Mandarin Oriental, ex Goldman Sachs, ex Cariplo. Chi c’è dietro? Giuseppe Statuto, l’immobiliarista saltato agli onori delle cronache con «i furbetti del quartierino» (anche l’albergo Four Seasons è suo). L’archistar Massimiliano Fuksas viene e va, racconta che la figlia Lavinia, designer di gioielli cresciuta tra Parigi e Roma, preferisce di gran lunga Milano. Si corre di qua e di là, c’è tanto da vedere, i lavori della Fondazione Feltrinelli, 2700 metri quadrati su cinque piani, il restauro della casa di Alessandro Manzoni, ossessione del banchiere Giovanni Bazoli, per decenni gran capo della finanza cattolica e di Banca Intesa-Sanpaolo, appena entrato nell’affollato club italiano dei presidenti emeriti. Comincia anche Bookcity, si parla del fatto che primo in Italia, il liceo classico Tito Livio sia diventato bilingue, anche il latino è spiegato in inglese. Pochi mesi prima di morire, il finanziere Robert de Balkany ha comprato uno stabile in via Bagutta, diventerà un luxury shop. A due passi, dal grande antiquario Carlo Orsi c’è un via vai di tycoon. Poi si attraversa la strada e su via Monte Napoleone appare la coda davanti alla nuova pasticceria Marchesi, storico marchio meneghino, panettoni indimenticabili, comprata da Miuccia Prada. Ora i petit choux e i bignè sono da passerella. Naturalmente i milanesi si lamentano un po’, elencano i difetti comuni a tante amministrazioni mentre Pisapia inaugura con il sindaco di Mosca Serghei Sobyanin una «diplomazia economica parallela delle città», canale complementare a quello fra Russia e Italia. A Mosca a Mosca! A Milano, a Milano! Ci sta tutta.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
LOMBARDIA. TERRA DI EVASORI FISCALI.
Biglietti Atm, scoperta truffa: 7mila abbonamenti venduti in nero. Nuovo esposto in Procura sulla truffa dei ticket: «Abbonamenti venduti in nero fino al 2105». L’azienda ritira la licenza a un rivenditore di Piola: scoperti incassi indebiti per 70 mila euro, scrive Gianni Santucci l'1 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sono sei o settemila le tessere scomparse. Card «vergini» sulle quali inserire i codici per gli abbonamenti dei mezzi pubblici. Quelle tessere sono ancora oggi registrate (solo a livello virtuale) nei sistemi informatici dell’Atm, come se fossero ancora in mano dei dipendenti agli sportelli degli Atm Point: e invece non si trovano più. Il sospetto è che siano state «trafugate» da impiegati infedeli, masterizzate «in nero» e vendute ai clienti dirottando gli incassi.
L’ultima denuncia. Oltre ai biglietti clonati all’interno degli Atm Point e ai ticket venduti sottobanco dalle edicole, quello degli abbonamenti è il terzo filone attraverso il quale per anni, dall’interno, una cricca di impiegati ha sottratto incassi che invece sarebbero dovuti finire all’azienda, e dunque al Comune. A gennaio scorso Atm ha denunciato e licenziato 11 dipendenti che clonavano i biglietti. La settimana scorsa il Corriere ha raccontato che le proporzioni della truffa sono molto più ampie di quanto ipotizzato all’inizio (l’azienda parlò di 70 mila euro, mentre i danni sono al momento «incalcolabili») e che anche le edicole erano coinvolte. Una conferma di questo «fronte degli edicolanti» è arrivata qualche giorno fa: negli ultimi mesi Atm ha messo in campo «controlli maniacali» e grazie a queste nuove verifiche ha scoperto che l’edicola della fermata «Piola» sulla linea 2 del metrò stampava e vendeva biglietti in nero. La licenza è stata già revocata. In quattro mesi il titolare avrebbe accumulato 70 mila euro di «incassi indebiti» (che ora l’azienda recupererà non restituendo la fidejussione).
Le falle nel sistema. Il «buco» degli abbonamenti è riassunto in un esposto depositato qualche giorno fa in Procura. Risale al 2015, ma ancora oggi i sistemi informatici (per quanto descritto in quell’atto) ne tengono traccia. La procedura funziona così: ogni dipendente dello sportello ha fisicamente in mano una quota di tessere «vergini»; il numero di quelle tessere è registrato anche nella «fiduciaria», una cartella del profilo informatico personale dell’impiegato. Ogni volta che il dipendente vende un abbonamento, automaticamente il sistema dell’azienda legge l’operazione e la «contabilizza». In ogni momento, dunque, il numero di tessere registrate nella «fiduciaria» dovrebbe corrispondere a quello delle carte che l’impiegato ha fisicamente in mano. E qui sta il punto: negli scorsi mesi alcuni dipendenti hanno chiesto ai propri superiori come devono comportarsi perché hanno in mano un numero di card molto inferiore rispetto a quello ancora registrato dal sistema. L’ipotesi più plausibile è che la cricca che clonava i biglietti si sia appropriata di quelle sei-settemila tessere scomparse e le abbia vendute sottobanco. Le tessere sarebbero state masterizzate grazie a un computer (detto «diagnostico») che si trovava negli uffici Atm in Duomo ed era l’unico a poter caricare gli abbonamenti sulle carte al di fuori delle postazioni allo sportello. Per quanto risulta al Corriere, che ha incrociato diverse fonti per le verifiche, il filone degli abbonamenti in nero si sarebbe chiuso nel 2015, quando alcuni responsabili vennero a conoscenza della truffa, ma decisero di non denunciarla e non trasferire l’informazione ai vertici dell’azienda. Da quel momento però il computer al centro del raggiro è «scomparso».
Il finto rimborso. Con gli abbonamenti è stata fatta però anche una truffa più recente. A fine novembre 2017, un dipendente ora sotto inchiesta vende un abbonamento annuale «Viaggio ovunque in Lombardia» (che dà accesso all’intera rete dei trasporti regionali e costa 1.027,5 euro), ma stampa anche il suo «doppione» clandestino; il primo lo consegna al cliente, con il secondo simula che lo stesso cliente l’abbia restituito, chiedendo il rimborso (che, con tutta probabilità, è rimasto nelle mani dell’impiegato). Nella «distinta di restituzione», come destinatario, compare il nome di uno dei dipendenti licenziati. Un’ingenuità, che dice però la disinvoltura con la quale venivano fatte le truffe dentro l’azienda.
I controlli rafforzati. Da tempo Atm è impegnata in una politica di «smaterializzazione» del biglietto (obiettivo: 80 per cento di biglietti senza carta in 5 anni) e sta creando un nuovo sistema di «bigliettazione elettronica». L’attuale sistema informatico, quello con le falle che hanno consentito agevoli e prolungate truffe interne, sarà dunque sostituito. Ecco perché Atm non si concentrerà sulla revisione di una «macchina» ormai superata. L’azienda ha però incaricato la Kpmg di studiare tutte le procedure interne, individuare i punti deboli e trovare possibili soluzioni. Rispetto ai suggerimenti, Atm si è concentrata su controlli e organizzazione: non si accettano più assegni bancari (se non circolari); maggiore tracciabilità («pos» collegati alle casse degli sportelli); nuove verifiche informatiche su consegne e rese dei rotoli dei biglietti da stampare; accentramento di conteggi e rendiconti; verifiche su ogni cassa a fine turno.
Evasione, la Lombardia in testa alla classifica con 19,3 miliardi all’anno. "Stasera Italia" raccoglie le testimonianze dei commercianti tra le vie di Milano in debito con lo Stato, scrive il 19 settembre 2018 TGcom24. Con quasi 20 miliardi di euro all’anno non corrisposti, la Lombardia si piazza al primo posto nella classifica dell’evasione fiscale in Italia. Secondo i dati della Cgia di Mestre, ammonterebbe a 19,3 miliardi il conto che i lombardi dovrebbero all’erario. Tra le strade di Milano, però, si raccolgono testimonianze sconfortanti: “Ormai in questo Paese, chi ha un'attività è costretto a non intestarsi nulla, così se accade qualcosa, nessuno può venirci a prendere", dice un piccolo imprenditore ripreso dalle telecamere nascoste di "Stasera Italia". “Ormai evadere è diventato inevitabile. In città ci sono situazioni disperate, attività commerciali che devono al fisco 30-40mila euro. Ma come si fa a versarli tutti?” dice un commerciante della Galleria Vittorio Emanuele. In molti, infatti, aspettano il condono fiscale - ribattezzato "pace" – caldeggiato dalla Lega, con il quale potrebbero essere abbattuti debiti con lo Stato fino a un milione di euro.
Fisco, il procuratore Greco: «La Lombardia è la terra degli evasori». La regione è «di gran lunga» in testa per le istanze di «voluntary disclosure», seguita da Piemonte ed Emilia Romagna. Calabrò: «Il costo per le imprese per la presenza di mafia, camorra e ‘ndrangheta è molto alto», scrive il 23 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". «La Lombardia è la terra degli evasori fiscali. Ci sono state il 49,07% delle istanze di voluntary disclosure, in termini di capitalizzazione siamo al 47/48% del totale complessivo, che è di circa 60 miliardi di euro». Lo ha detto il procuratore di Milano, Francesco Greco, intervenendo al convegno su criminalità e tutela delle imprese, in Bankitalia a Milano. «È un problema serio - ha aggiunto - La Lombardia è di gran lunga al primo posto, poi ci sono il Piemonte e l’Emilia Romagna». «Mi fa piacere pensare - ha poi spiegato Greco - che qui si sia creato un network positivo, un circolo virtuoso, tra Procura, Guardia di Finanza, Agenzia delle entrate, commercialisti, per cui c’è stata una maggior richiesta» di emersione con la voluntary disclosure. Secondo il procuratore, la voluntary è un sistema positivo «perché è difficile aggredire capitali all’estero. Quindi meglio farli rientrare pacificamente». In più «ci ha creato un patrimonio informativo enorme, con cui tuttora stiamo organizzando per le nostre attività di indagini».
La criminalità organizzata. «Il costo per le imprese, per la presenza di mafia, camorra e ‘ndrangheta è molto alto. Si turba il mercato e si introducono elementi di concorrenza illecita, che penalizzano chi lavora onestamente. C’è un timore molto forte per le imprese». Così il vicepresidente di Assolombarda, Antonio Calabrò. «L’evasione fiscale, la corruzione e le illegalità mettono in seria difficoltà il meccanismo economico della Lombardia, del Piemonte, dell’Emilia Romagna, della Liguria e del Veneto, le aree in cui cresce di più il sistema Paese», ha aggiunto. «Ci sono molti anticorpi, un ottimo lavoro già in corso da parte degli inquirenti e della magistratura. Un lavoro fatto anche dall’Anac, ma è necessario anche avere una sensibilità dell’opinione pubblica, a partire dal mondo delle imprese. La mafia è un concorrente assoluto della civiltà», ha concluso Calabrò.
Milano, "Lombardia terra di evasori": l'allarme del procuratore Greco. Il capo della procura di Milano: "Qui quasi il 50% delle domande di voluntary disclosure". Calabrò, Assolombarda: "Evasione, corruzione, illegalità mettono a rischio il Paese", scrive il 23 ottobre 2018 "La Repubblica". "La Lombardia è la terra degli evasori fiscali. Ci sono state il 49,07% delle istanze di voluntary disclosure, in termini di capitalizzazione siamo al 47/48% del totale complessivo, che è di circa 60 miliardi di euro". Lo ha detto il procuratore di Milano, Francesco Greco, intervenendo al convegno su criminalità e tutela delle imprese, in Bankitalia a Milano. "E' un problema serio - ha aggiunto - La Lombardia è di gran lunga al primo posto, poi ci sono il Piemonte e l'Emilia Romagna". "Mi fa piacere pensare che qui si è creato un network positivo, un circolo virtuoso, tra procura, guardia di finanza, Agenzia delle entrate e commercialisti, per cui c'è stata una maggior richiesta di voluntary disclosure". In Veneto, fa notare il procuratore, "le percentuali sono vicine allo zero". Secondo Greco, la voluntary è un sistema positivo "perché è difficile aggredire capitali all'estero. Quindi meglio farli rientrare pacificamente". In più "ci ha creato un patrimonio informativo enorme, con cui tutt'ora stiamo organizzando per le nostre attività di indagini". Solo dalla Svizzera, ad esempio, sono arrivati 400mila conti bancari. Una preoccupazione forte, quella emersa al convegno, anche sul tema della criminalità organizzata. A margine è intervenuto il vicepresidente di Assolombarda Antonio Calabrò: "Il costo per le imprese, per la presenza di mafia, camorra e 'ndrangheta è molto alto. Si turba il mercato e si introducono elementi di concorrenza illecita, che penalizzano chi lavora onestamente. C'è un timore molto forte per le imprese". E ha aggiunto: "L'evasione fiscale, la corruzione e le illegalità mettono in seria difficoltà il meccanismo economico della Lombardia, del Piemonte, dell'Emilia Romagna, della Liguria e del Veneto, le aree in cui cresce di più il sistema Paese", ha aggiunto. "Ci sono molti anticorpi, un ottimo lavoro già in corso da parte degli inquirenti e della magistratura. Un lavoro fatto anche dall'Anac, ma è necessario anche avere una sensibilità dell'opinione pubblica, a partire dal mondo delle imprese. La mafia è un concorrente assoluto della civiltà". Anche il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, ha sottolineato che "il codice degli appalti non basta più, le mafie hanno trovato strade diverse per acquisire gli appalti che lo superano". Serve invece "una banca dati per inserire le imprese che partecipano agli appalti e smascherare i cartelli che puntualmente vengono costituiti" dalle organizzazioni criminali.
Evasione fiscale record in Italia: in testa Lombardia e Veneto, scrive Franco Busalacchi l'1 ottobre 2018 su I Nuovi Vespri. Guarda caso, le Regioni italiane dove di evade più il Fisco sono le due Regioni che vorrebbero attuare la ‘secessione dei ricchi’ tenendosi il cosiddetto residuo fiscale: Lombardia e Veneto. Questa mega evasione fiscale spiega perché la manovra del Governo tra grillini e leghisti è sbagliata: invece di indebitare l’Italia avrebbero potuto far pagare le tasse agli evasori. In perfetto stile democristiano, il governo del popolo dell’accoppiata Salvini-Di Maio, per racimolare un po’ di soldi da spendere dissennatamente e assicurarsi il favore del popolino, invece di aprire la stagione della caccia agli evasori fiscali, indebita pericolosamente le finanze statali. L’evasione fiscale in Italia rappresenta uno dei principali ostacoli al risanamento economico del Paese. Una vera e propria piaga. Lo dicono, ancora una volta, i numeri: a maggio 2018 l’imponibile evaso in Italia è cresciuto del 4,7% rispetto allo stesso mese dello scorso anno, con punte record nel Nord dove ha raggiunto il 6,5%. In termini di imposte sottratte all’Erario siamo nell’ordine di 180,7 miliardi di euro l’anno. Il nobile, operoso, civile Nord è il principe degli evasori.
In testa, poi, tra le Regioni, dove sono aumentati numericamente gli evasori fiscali, risulta la Lombardia, con +6,3%.
Secondo e terzo posto spettano, rispettivamente, al Veneto con + 5,4% e la Valle d’Aosta con +5,1%.
A seguire la Liguria con +4,8%, il Piemonte con 4,7%.
Chiudono la graduatoria la Sacra Corona unita, con il 2,6%, la Camorra, con 1,0% e Cosa nostra con lo 0,6%.
La Lombardia, anche in valore assoluto, ha fatto registrare il maggior aumento dell’evasione fiscale. In percentuale, il dato lombardo aumenta, nel 2018, di circa il 7,2%.
In Italia i principali evasori sono gli industriali (33,2%) seguiti da bancari e assicurativi (30,7%), commercianti (11,8%), artigiani (9,4%), professionisti (7,5%) e lavoratori dipendenti (7,4%).
Non dobbiamo quindi farci illusioni di cambiamento. I dati riportati spiegano con cruda chiarezza perché nel “contratto Lega 5 stelle” (per carità non chiamatelo accordo politico che i 5 Stelle si risentono! Che ipocrisia!) la lotta all’evasione fiscale è affidata alla flat tax, e si basa sul seguente ragionamento ad minchiam: se diminuisce la pressione fiscale i contribuenti diventano onesti e pagheranno tutti tulle le tasse. Si può essere più subdoli e fasulli di così? E i 13 milioni di evasori totali che faranno? I pentiti? Quante sciocchezze contrabbandate per genialate! Mi riferisco ovviamente ai 5 Stelle e non a Salvini, che anche in questo settore ha portato a casa il risultato che voleva. Salvaguardando tutti i nordisti e segnatamente i lombardi, incivili e disonesti come lui. Questo patto è stato sottoscritto dal partito del popolo, quello stesso che ha abolito la povertà secondo le deliranti parole di Di Maio, il Robin Hood dei creduloni, senza togliere un centesimo ai ricchi e quindi contraendo debiti che qualcuno, non certo i ricchi con i soldi all’estero, prima o poi dovranno pagare.
PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.
Quando Craxi sfido Pinochet nel cortile di casa, scrive Paola Sacchi il 16 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Settembre 1973, il giovane dirigente socialista vola a Santiago e rende omaggio alla tomba di Salvador Allende ucciso pochi giorni prima dai militari golpisti. A Milano e a Roma ancora non ci sono, ma nel resto del Paese e del mondo si continuano inaugurare vie e piazze a Bettino Craxi. Il Cile oggi renderà omaggio allo statista socialista, per l’impegno a favore delle cause di libertà e di democrazia, intitolandogli una “plazoleta” nello stesso cimitero dove è sepolto Salvador Allende. Era il settembre 1973, pochi giorni dopo il golpe del generale Augusto Pinochet, quando Craxi rischiò letteralmente la vita per deporre fiori sulla tomba del presidente trucidato dalla “Junta”. «Un paso mas y tiro» intimarono i carabineros al giovane e coraggioso vicesegretario e responsabile esteri del Psi, che sfidò la “Junta” alla guida di una delegazione socialista e dovette lasciare sulla ghiaia, sotto i mitra puntati, i garofani rossi. Provando, però, «più che paura rabbia». Il tributo di oggi non nasce solo da quel temerario gesto ma, come ricorda Stefania Craxi, figlia dello statista socialista, dall’impegno a sostegno del popolo cileno. La Plazoleta Bettino Craxi, che sorgerà nel Cementerio general de Recoleta di Santiago, sarà inaugurata nel corso di una cerimonia ufficiale, alla presenza della stessa Stefania, neo- senatrice di Forza Italia, dell’ex presidente Ricardo Lagos, dell’ambasciatore italiano Marco Ricci e del sindaco di Recoleta, Daniel Jadue. La Fondazione intitolata al leader socialista celebra l’evento con la pubblicazione di uno speciale del suo trimestrale Le-Sfide- Non c’è futuro senza memoria dove Stefania nella prefazione ricorda i suggerimenti di Craxi a Reagan per una transizione democratica in Cile e, senza ipocrisie, anche l’aiuto finanziario che il leader socialista dette alle cause di liberazione nel mondo. Un aiuto che Craxi tenne sempre separato e distinto dalla “miseria delle vicende giudiziarie che lo colpivano” negli anni di Tangentopoli. Ma, nell’opuscolo, è il “ricordo” che Craxi fa di quei giorni a Santiago a far venire un brivido. È un racconto lucido, asciutto, realistico, quasi da grande reporter più che da politico. Descrive la Moneda, cannoneggiata chirurgicamente, come «un grande monumento alla morte della democrazia». Osserva che «neppure nei quartieri bene del barrio alto la borghesia festeggiava, anzi lo champagne le si seccò in gola». Denuncia, come farà pubblicamente al suo rientro in Italia – le centinaia di cadaveri finiti alla morgue (da qui la cruda definizione “mattatoio Cile”) e le responsabilità del Nord America nel “soffocamento” dell’economia cilena, con un’analisi da provetto economista, che pur non dimentica di raccontare i disperati tentativi di nazionalizzazione di Allende. Ridicolizza l’ossessione anti-marxista dei militari che, ormai, attribuivano a Marx anche il libello più innocente, fino a liquidare il generale Leight, considerato il cervello della “Junta” e secondo il quale andava «estirpato in cancro marxista dal Paese», come «niente più che un gorilla gallonato». Denuncia poi l’arbitrio con il quale si spedi- va in galera un ladro di bicicletta, analizza le cause della fine del governo di Unidad popular, ma soprattutto, racconta la visita sulla tomba di Allende pochi giorni dopo il golpe militare. «Di buon mattino eravamo partiti da Santiago e avevamo raggiunto Vina del Mar. Quando arrivammo al cimitero di Santa Ines, dove Allende è sepolto nella tomba della famiglia Grove ( i Grove, sono parenti della moglie), il clima sembrava tranquillo…». Non fu così. Craxi capì subito che qualcosa non andasse affatto per il verso giusto quando, racconta, «all’ingresso del cimitero mi rivolsi all’impiegato dicendogli in spagnolo: siamo qui per visitare la tomba del presidente Allende. E l’uomo, un giovane, mi guardò come sorpreso. Poi, abbassò gli occhi senza rispondere». Quindi, «ho insistito più energicamente, alzando un poco la voce. E lui zitto. In quel momento arrivò un ragazzino, uno di quei bambini tragici e meravigliosi che si incontrano in tutti i Paesi sottosviluppati e che si guadagnano la vita facendo da guida agli stranieri. Il bambino ci dice: vi mostro io dove è la tomba del presidente». La giornata viene descritta come «splendida», ma «l’atmosfera idilliaca dura poco», infranta dall’arrivo di un manipolo di carabineros, con «facce truci ed i mitra puntati» che si pararono davanti. Il più giovane dei soldati si piantò gambe tese e puntò il mitra carico, con un Craxi che potè sinistramente udire il clic della pallottola in canna. È a quel punto dovette lasciar cadere sulla ghiaia i garofani. «Ho avuto paura? Forse. Ma più che paura era rabbia la mia». Il tutto, fu filmato da un operatore della Rai a seguito della delegazione che, senza dare nell’occhio, chiede a Craxi una sigaretta e, come racconta il leader socialista, «mi buttò il rullino nel giubbotto». Craxi, costretto sotto tiro ad ordinare alla delegazione un dietro- front, si imbatte sulla via del ritorno in una donna: «Onorevole, chiedete per favore clemenza nei vostri paesi per i cileni». E così fu. L’impegno di Craxi per il popolo cileno, si manifestò in ogni sede, anche nel suo intervento davanti al Congresso degli Stati Uniti.
Lagos, ricorda il sostegno del socialismo mediterraneo, ma in special modo, l’aiuto di Craxi, che non li abbandonò mai: «In lui avemmo sempre un orecchio disposto ad ascoltarci, un leader a sostegno di tutte le cause della libertà». Oggi con la “Plazoleta” intitolata al compañero Craxi e non lontana dalla tomba del presidente Allende, fa capolinea, in un gioco del destino, una pagina di storia. Una tappa importante per quella che Stefania definisce «l’operazione verità sulla figura di mio padre».
Pillitteri: «Nella mia Milano da bere Armani sistemava le vetrine e la gente mi offriva il caffè». L’ex sindaco: nelle cene di Natale Bettino zittiva il fratello, scrive Pier Luigi Vercesi il 17 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". L’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, 77 anni.
Paolo Pillitteri, le tirano ancora le monetine quando passa per strada?
«Quando mai? I milanesi sono sempre stati affettuosi con me. C’è stato un periodo che non avevo la macchina e andavo in centro a piedi. La gente diceva: “Piliteri, vegn chi a bev el cafè!”. Anche adesso mi fermano per strada: “Lei è mica il nostro sindaco?”. Io rispondo: sì, e sono interista».
Vuol farmi credere che c’è nostalgia della Milano da bere?
«Quando c’era la pubblicità del Campari la trovavano tutti bella. Anche i comunisti. La storia della Milano da bere corrotta l’hanno inventata dopo».
Negli anni Ottanta, però, arrivarono i nani e le ballerine...
«Muchela lì, ma in che film? Milano era la città della Scala, di Giorgio Strehler. La politica è finita quando si è cominciato ad aggredire gli avversari con gli slogan. Se quello là aveva l’amante, pensa che poi siano arrivati i chierichetti e i mariti fedeli? Si stava semplicemente passando dal comunismo al luogo-comunismo. Io ho fatto il sindaco dal 1986 al gennaio del ’92. Carlo Tognoli, prima di me, aveva fatto un lavoro magnifico. E siccome mi ritengo fortunato, a me è andata ancora meglio. La città balzò all’onore delle cronache internazionali perché vennero in visita Gorbaciov e poi Eltsin. Me la vedo ancora la folla in Galleria, i milanesi orgogliosi di essere al centro del mondo. E l’esplosione della moda? Lo sa com’è avvenuta? Un giorno, passeggiando in via Manzoni, alzo gli occhi e vedo Giorgio Armani in calzini che trafficava nella sua vetrina; picchio sul vetro e lui mi fa segno di entrare; cos’è, fai anche il vetrinista adesso?; lui: “Se non hai cura tu delle tue cose, chi deve averla?”. Ecco, il segreto di Milano è lì. Quando arrivai a Palazzo Marino, dopo un po’ feci la giunta con il Pci: i miglioristi li sentivo vicini. Bettino lasciava fare. A volte aggrottava il sopracciglio, ma non parlava e io facevo finta di non capire se era a favore o contrario».
Quindi la Milano da bere l’avete allestita con i comunisti?
«Erano in giunta! Il Pci si è messo a fare il moralista dopo. Come nei film, c’è stato il primo tempo e il secondo. Nel primo tutti partecipavano alla Milano da bere; nel secondo la Milano da bere diventava una vergogna».
Anche Mario Chiesa si sono inventati?
«Fu preso con le mani nel sacco. È una cosa diversa, non c’entra Milano. Io ero suo amico e sono rimasto di stucco. Poi è arrivata la valanga...».
La storia della caduta del Muro di Berlino, dello sfaldamento degli equilibri internazionali...
«Balle: è il caso. Certo, era il momento che sui partiti piovevano critiche. Bettino non l’ha capito. E non ha capito che il bersaglio principale era lui. Era l’anello più debole, si accorsero che arrancava e ci diedero dentro. A me piovvero in testa quattro o cinque processi. Uno chiamava l’altro e mi sono fatto un anno di servizi sociali da don Mazzi. Di Pietro lo conoscevo bene. Andavo a casa sua. Poi tutto è cambiato improvvisamente. Cosa doveva fare? Tonino ha cavalcato la sua ora e alla fine ha distrutto una Repubblica. Bettino intanto continuava a non crederci e la spallata definitiva ce la diedero il Pci, i loro amici e i poteri forti».
Quali poteri forti?
«Gli Agnelli, i De Benedetti, i Pirelli, quelli lì. Per salvarsi. Appena furono lambiti, fecero di tutto per sviare l’attenzione».
Lei li frequentava, per saperla così lunga?
«Certo. A Milano la figura del sindaco è eminente: ci sono il cardinale, il sindaco e basta. Se Romiti doveva parlare di una cosa importante andava dal sindaco. Romiti è un genio, cattivissimo nei giudizi. Lo portavo a passeggiare nei saloni di Palazzo Marino così si lasciava andare. Adesso deve riferire tutto al suo superiore, lo provocavo. Lui mi fissava: “Lo chiama superiore? Le cose le ha ereditate. Io e lei siamo mica qui per eredità!”».
Così mi alza la palla: non era lì per eredità ma perché era il cognato di Craxi!
«Lo ero da una vita. Prima era facile fare il cognato: contava niente. Dopo il Midas, quando divenne segretario del Psi, io avevo già una lunga esperienza politica, prima nel Psdi, con cui me ne andai quando ci fu la scissione, poi come assessore nel Psi. Fuori non me lo facevano pesare. Dentro al partito sì».
Ha conosciuto prima Bettino o la sorella Rosilde, diventata sua moglie?
«Rosilde. Eravamo in coda insieme per iscriverci all’università. Io Lettere, lei Giurisprudenza. Abbiamo cominciato a frequentarci con un po’ di tiramolla perché io avevo in testa il cinema. Mio papà, un maresciallo maggiore dei carabinieri siciliano andato a combattere con i partigiani in Valtellina, mi aveva regalato una sedici millimetri. Mi ero iscritto alla scuola di cinema, mi occupavo del Centro cinematografico universitario e cominciai a girare dei documentari. Bettino l’incontrai quando era assessore all’Economato. Un fornitore del Comune mi disse che voleva girare un documentario per far vedere che dava le merendine ai bambini nelle scuole. Mi precipitai e girai un filmato, che scontentò Craxi: gli avevo dedicato pochi secondi. Comunque sia, quando mi accorsi che trovare i produttori era impossibile, cercai di fare il critico cinematografico. Fidia Sassano, un bravo giornalista dell’Avanti!, mi disse che se ne stava andando il loro critico, così m’infilai».
Grazie a Bettino!
«A Bettino non gliene fregava niente né del cinema né dell’Avanti!. Per di più, nel 1969 me ne andai con i socialdemocratici. Mi aiutò Renato Massari, un leader del Psdi. «Paolo — mi disse —, scadono le presidenze degli enti, una culturale la prendi tu». Mi propose la Triennale. Sei sicuro?, gli dissi. Capii dopo perché non me l’aveva contesa nessuno. C’era stato il ’68 e dopo un anno di occupazione era stata rasa al suolo. Renato, hanno spianato tutto! “Non importa, parliamo con Mariano Rumor” (presidente del Consiglio, ndr). Così mi spedirono a Palazzo Chigi con un tal Tonino Colombo, uno alto-alto, amico di un sottosegretario. Rumor ci venne incontro e si diresse verso il mio accompagnatore: “Carissimo presidente”, e lo abbracciò. Veramente sarei io quello della Triennale... “Ah sì, certo caro amico”. Rumor pagò i danni della Triennale e Massari mi candidò al Comune. Eletto, Renato chiese un assessorato per me. L’ultimo rimasto era quello alle Istituzioni culturali, al nulla, in pratica. Sindaco era Aldo Aniasi. Gli chiesi: dove mi metto? “Ci dev’essere un posto dalle parti della Guastalla. Già che ci sei, perché non aggiungi anche il turismo? Suona bene: assessore alla Cultura e al Turismo”. Io m’intendo di cinema — feci notare —, mettiamoci anche lo Spettacolo. “Perfetto”, concluse Aldo».
Craxi cercò mai di riportarla nel Psi?
«A un certo punto non mi trovavo bene nel Psdi e decisi di rientrare nel Psi. Nel frattempo c’era stato il Midas e Bettino era diventato segretario perché tutti pensavano: “Dura minga, dura no”. Invece era una spanna sopra gli altri. Il partito era allo sfascio perché non aveva una politica. Bettino puntò su un gruppo di giovani: Tognoli, io, Martelli, Gangi, Manzi, Ripa di Meana. Non era un solitario: decideva da solo, però ci sentiva spesso. Il lunedì ci vedevamo al Toulà o alla Cassina de’ pomm. Lui prendeva la matita e cominciava a tirare delle righe: “Forlani fa questo, bisogna vedere se Lama preme e come reagiscono i berlingueriani”, c’erano persino i liberali, Biondi... poi si rivolgeva a me... “e il tuo Saragat?”. Ma Bettino, sarà anche morto. Per dire che non lasciava nulla al caso».
Quando cominciaste a procurare soldi per il partito?
«Quando arrivò Bettino il Psi non aveva più un centesimo in cassa. C’erano da pagare gli stipendi dei funzionari e gli affitti delle federazioni. Chiese a chi aveva incarichi pubblici di contribuire. Poi c’erano i versamenti dei privati, come hanno sempre avuto tutti i partiti».
E dovevate rende favori con gli appalti...
«È storia, sì, però diciamo che c’era una sostanziale devozione al partito che si traduceva anche in forme di partecipazione. Quando il Psi cominciò a crescere arrivarono quelli che la passione per il Psi l’avevano meno».
Sta parlando anche di Silvio Berlusconi?
«Su Berlusconi bisogna capirsi. Quando decise di fare una Rai privata aveva già costruito interi quartieri, aveva dato case e lavoro. A Milano queste cose pesano. Ovvio che era un buon cavallo su cui puntare. C’era sotto un ragionamento di politico».
Come è stato vissuto in famiglia il dramma di Craxi?
«Rosilde non si è mai interessata granché alla carriera del fratello e non era particolarmente attratta nemmeno dalla mia. Insegnava alle scuole medie, tirava su i figli e doveva accudire il padre Vittorio. Quando rimase vedovo, venne a vivere con noi. Ogni tanto arrivava Antonio, l’altro fratello Craxi che faceva l’imprenditore, si era preso un’imbarcata per Sai Baba, era andato in India e ci credeva, contento lui. Bettino veniva da noi a Natale. Se Antonio attaccava il discorso del santone, diceva: “Sì, ne parliamo il prossimo Natale”. Vittorio, che era stato prefetto di Como e viceprefetto di Milano, morì nel ’92, ma fece in tempo a vedere che le cose si mettevano male. Stava comunque con Bettino. Chissà se intuì che avrebbe pagato per tutti...».
Strette di mano e aiuti personali per agganciare un componente laico del Csm e ottenere la nomina a presidente di tribunale, ma anche giro di favori e corruzione tra giudici e professionisti. Corruzione e nomine pilotate, inchiesta sui magistrati: trema anche la casta delle Marche. Strette di mano e aiuti personali per agganciare un componente laico del Csm e ottenere la nomina a presidente di tribunale, ma anche giro di favori a corruzione tra giudici e professionisti, scrive Stefano Pagliarini il 7 settembre 2018 su Anconatoday.it. Strette di mano e aiuti personali per agganciare un componente laico del Csm e ottenere la nomina a presidente di tribunale per Tito Preioni (attuale presidente della sezione Civile a Lodi) da una parte. Dall’altra un giro di presunti favori tra Giuseppe Bersani (presidente di sezione penale e facente funzioni di presidente, a Cremona, per anni giudice per le indagini preliminari a Piacenza) e una serie di professionisti che avrebbero sempre ottenuto con troppa facilità incarichi nell’ambito dei fallimenti. Parliamo di avvocati e commercialisti. Ed è soprattutto quest’ultima indagine ad interessare la Procura di Ancona che, sotto la supervisione del Procuratore capo Monica Garulli, ha inviato due sostituti dorici prima a Piacenza e poi a Cremona, per perquisire la casa e l’ufficio giudiziario del magistrato Giuseppe Bersani, indagato per corruzione. Mentre la Procura di Ancona è competente per reati commessi a Piacenza, quella di Venezia lo è su eventuali fatti a Cremona. I pm anconetani, al fianco dei colleghi della Procura di Venezia, sono convinti di come il giro di affari, che legava i professionisti privilegiati al magistrato compiacente, arrivasse fino alle Marche e Ancona. Il motivo? Quei professionisti hanno molti interessi e affari nel territorio marchigiano. Dunque le domande a cui cercano risposta gli inquirenti sono: il giro di corruzione fin dove poteva arrivare? E’ confinato all’area lagunare o si estenderebbe dal Po fino al Tronto? E la lista dei nomi iscritti sul registro degli indagati si potrebbe ampliare. Fatto sta che a Piacenza e Lodi, il pool di investigatori, piacentini e veneziani, presente anche il procuratore vicario di Venezia Adelchi d'Ippolito, ha perquisito le abitazioni dei due giudici e lo studio dell'avvocato Virgilio Sallorenzo, come raccontato in esclusiva già a Giugno da ILPIACENZA. Alla perquisizione dello studio del legale ha assistito anche, in qualità di difensore, l'avvocato Paolo Fiori. Una bufera giudiziaria esplosa nella città di Piacenza perché arriva a lambire il Consiglio superiore della magistratura (organo di autogoverno dei giudici) e svela un’indagine della procura di Venezia che ha indagato i due magistrati, con l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Poi c’è il giudice Tito Preioni. I magistrati veneziani hanno aperto da mesi un fascicolo di indagine, su presunti tentativi di condizionare le procedure di nomina dei capi degli uffici giudiziari in favore dell’elezione di Preioni, movimenti che sarebbero stati effettuati fuori dalle procedure ufficiali. Infatti, secondo una più datata inchiesta de Il Corriere della Sera, sarebbe stato un avvocato piacentino, tale Virgilio Sallorenzo, a mettere in contatto i due giudici con un avvocato romano per agganciare un componente laico del Csm (Paola Balducci, ex parlamentare dei Verdi) e cercare voti che avrebbero garantito a Preioni l’incarico di presidente del Tribunale di Cremona. Sallorenzo, attualmente, è indagato dalla procura di Piacenza - le due indagini non sono collegate - con le ipotesi di bancarotta, falso e abuso di ufficio.
Favori per fare carriera, nei guai un giudice di Lodi. Perquisizione in Tribunale, i pm di Venezia: corruzione in cambio di una promozione, scrive Carlo D'Elia il 7 settembre 2018 su Il Giorno. Poco prima delle 8 è scattata la perquisizione in Tribunale a Lodi. Alcuni carabinieri in borghese si sono presentati nella sede di viale Milano, nell’ufficio del presidente della sezione civile Tito Ettore Preioni, indagato per corruzione in atti giudiziari. Il giudice di Lodi ha assistito all’attività degli inquirenti che avrebbero anche portato via per analizzarlo un pc dal suo ufficio. Il quadro accusatorio riguarda la nomina a presidente del Tribunale di Cremona cui Preioni, 65 anni, a Lodi dal 2012, avrebbe puntato. Indagato con lui il collega Giuseppe Bersani (presidente di sezione penale e facente funzioni di presidente a Cremona, per anni giudice per le indagini preliminari a Piacenza). Una bufera giudiziaria scoppiata a fine giugno che corre lungo il Po e arriva a scalfire il Consiglio superiore della magistratura (organo di autogoverno dei giudici). Ieri mattina, i carabinieri di Venezia hanno perquisito gli uffici dei due indagati nei rispettivi uffici di Lodi e Cremona. Nella vicenda è finito anche l’avvocato piacentino, curatore fallimentare, Virgilio Sallorenzo che, secondo l’indagine partita da Venezia, procacciava utili incontri a Roma. Secondo la procura di Venezia, Sallorenzo avrebbe pagato una trasferta (con treno, pranzo e albergo) nella Capitale ai due giudici per incontrare un avvocato romano e arrivare a un membro laico del Csm. Si tratterebbe di una spesa totale di circa 2mila euro. Alla trasferta avrebbero partecipato i giudici Preioni e Bersani. Durante la missione romana i due giudici avrebbero dovuto contattare un componente laico del Csm (Paola Balducci, ex parlamentare dei Verdi) per cercare voti fondamentali per garantire a Preioni l’incarico di presidente del Tribunale di Cremona. Un appoggio che poi non è stato trovato. La nomina infatti è andata al magistrato Anna di Martino (ex gup di Brescia) che si insedierà il 10 settembre. Le accuse sono ancora tutte da dimostrare, ma un altro aspetto delicato dell’indagine riguarda il ritorno lavorativo che avrebbe ottenuto il curatore fallimentare. Secondo l’accusa, l’avvocato piacentino avrebbe ricevuto un incarico professionale relativo a curatele e fallimenti proprio dalla toga lodigiana che era in corsa per la promozione.
Dopo Venezia, il giudice Bersani indagato anche ad Ancona. Nel mirino gli incarichi fallimentari all'amico avvocato, scrive "La Provincia Cr" il 7 settembre 2018. Dopo la procura di Venezia, anche la procura di Ancona indaga per "corruzione per l'esercizio della funzione" il magistrato Giuseppe Bersani, già Gip/Gup e giudice delegato ai fallimenti quando era al tribunale di Piacenza, la città dove risiede, e dal luglio dello scorso anno presidente di sezione a Cremona. In particolare, il fascicolo aperto dalla procura diretta da Monica Garulli e competente sulle indagine delle toghe emiliane, riguarda il filone principale dell’inchiesta nata a Piacenza a carico dell’avvocato Virgilio Sallorenzo e della moglie Marisa Bottazzi, lei commercialista, i quali, per l’accusa, avrebbero distratto centinaia di migliaia di euro dai fallimenti. Dall’amico Bersani, Sallorenzo ha ricevuto numerosi incarichi nelle pratiche fallimentari seguite dal magistrato. Incarichi definiti dai pm anconetani «privilegiati, in cambio di presunte dazioni di denaro». Dall’indagine piacentina sul «caso fallimenti» (pare che siano coinvolti altri professionisti, ndr), sarebbero emersi i tentativi di condizionare, al plenum del Csm, la nomina del presidente del tribunale di Cremona, posto a cui aspirava Tito Preioni, già magistrato a Cremona, presidente di sezione al tribunale di Lodi, in lizza con Anna di Martino, magistrato a Brescia, poi nominata capo dei giudici (arriverà a Cremona lunedì prossimo). E’ il filone dell’indagine aperta dal procuratore aggiunto di Venezia Adelchi D'Ippolito, competente sulle indagini delle toghe lombarde, che contesta ai magistrati Bersani e Preioni la corruzione in atti d’ufficio, in concorso con Sallorenzo. Secondo l’accusa, Sallorenzo ha pagato una trasferta a Roma (2 mila euro tra viaggio e soggiorno in un hotel di lusso) ai due magistrati e avrebbe fatto da intermediario affinché uno dei membri laici del Csm promettesse la nomina di Preioni a presidente del tribunale. Due giorni fa, su delega delle due procure, i carabinieri hanno perquisito la casa di Piacenza e l’ufficio in tribunale a Cremona di Bersani, l’ufficio a Lodi di Preioni e lo studio di Sallorenzo.
Nomine al tribunale: perquisito l'ufficio del giudice Giuseppe Bersani, scrive Sara Pizzorni il 6 settembre 2018 su Cremona Oggi. Era il 27 giugno scorso quando la notizia dell’inchiesta di Venezia su tentativi di condizionare le nomine al tribunale aveva scosso il palazzo di giustizia di Cremona per il presunto coinvolgimento di due magistrati e di un avvocato: il giudice Giuseppe Bersani, attuale presidente della sezione penale, il collega Tito Preioni, ora presidente della sezione civile del tribunale di Lodi, in passato giudice a Cremona, e l’avvocato Virgilio Sallorenzo, tutti indagati con l’ipotesi di accusa di corruzione in atti d’ufficio. Oggi, a poco più di due mesi di distanza, gli uomini della polizia giudiziaria di Venezia, guidati dal procuratore Adelchi D’Ippolito, hanno effettuato una serie di perquisizioni a Piacenza, Lodi e Cremona negli uffici dei due magistrati e in quello dell’avvocato Sallorenzo, oltre che nell’abitazione di Bersani. A Cremona, la polizia giudiziaria, composta da sette persone, si è presentata alle 12,40 nell’ufficio del giudice Bersani, rientrato lunedì dalle ferie. Alla perquisizione, durata un’ora, ha assistito lo stesso magistrato. Già lo scorso mese di luglio gli inquirenti di Venezia avevano effettuato un primo accesso, ma in quell’occasione avevano solo acquisito della documentazione. Al centro dell’inchiesta, la corsa alla presidenza del tribunale di Cremona, vinta il 27 luglio scorso da Anna di Martino, già gip e presidente della sezione penale del tribunale di Brescia e che si insedierà a Cremona il prossimo lunedì. Si indaga su presunti tentativi di condizionare le procedure di nomina dei capi degli uffici giudiziari in favore dell’elezione di Preioni, movimenti che sarebbero stati effettuati fuori dalle procedure ufficiali, e anzi, come scriveva a giugno il Corriere della Sera, “con l’intervento di mediatori esterni che offrono alle toghe – magari alle stesse toghe dalle quali ricevono gli incarichi professionali – opportunità di accesso e di interlocuzione diretta con consiglieri del Csm in vista del voto”. Figura chiave nell’inchiesta sarebbe quella di Virgilio Sallorenzo, mantovano, avvocato e curatore fallimentare con studi a Piacenza e a Mantova, già indagato a Piacenza per abuso d’ufficio, falso e bancarotta per decine di fascicoli inerenti procedure fallimentari. Ipotesi di reato di abuso d’ufficio anche per la moglie Marina Bottazzi, lei commercialista, dimessasi il 9 giugno scorso dalla sua carica di amministratore unico di Tempi, agenzia per il trasporto pubblico di Piacenza. Oggi in procura a Piacenza, il procuratore di Venezia D’Ippolito si è presentato accompagnato da due pm della procura di Ancora, che per competenza si occupa delle indagini riguardanti i magistrati dell’Emilia Romagna. Nell’inchiesta di Venezia Sallorenzo avrebbe organizzato e pagato una trasferta romana dell’aspirante presidente del tribunale di Cremona Tito Preioni e del suo amico Giuseppe Bersani, che nel suo precedente ruolo di giudice fallimentare a Piacenza aveva affidato allo stesso Sallorenzo diversi incarichi come curatore fallimentare. Scopo del viaggio a Roma sarebbe stato quello di caldeggiare con un componente laico del Csm eletto dal centrosinistra (l’avvocato ed ex parlamentare Paola Balducci, che però poi non si era spesa in favore di Preioni) alleanze utili nel plenum per spostare i due voti necessari che sarebbero serviti per far vincere il magistrato in lizza, già fiducioso nei voti dei togati di centrodestra. Durante il viaggio a Roma, Sallorenzo, Preioni, Bersani e la Balducci avrebbero partecipato ad una cena insieme ad Antonio Villani, avvocato cassazionista già socio dello studio legale romano del consigliere Balducci e amico di Sallorenzo. A pagare sarebbe stato proprio il curatore fallimentare, che avrebbe sborsato 2.000 euro tra ristorante, treni e pernottamento per i due giudici in un albergo a cinque stelle di Roma. Pochi giorni prima, peraltro, proprio un collegio presieduto da Preioni aveva assegnato a Sallorenzo un incarico professionale. A dire no alla proposta di elezione di Preioni come presidente del tribunale di Cremona era stato il neo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che aveva informato il Csm dell’inchiesta della procura di Venezia riguardante i due magistrati Preioni e Bersani. “Non ritengo opportuno rilasciare dichiarazioni”, si era limitato a commentare a giugno il giudice Giuseppe Bersani, “confidando di chiarire la vicenda nel più breve tempo possibile”.
Pm sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati». Il magistrato Agostino Abate è indagato per la gestione di un fascicolo relativo a interessi di imprenditori e politici varesini. È accusato di favoreggiamento. Le testimonianze dei colleghi, scrive Giuseppe Guastella il 16 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". L’ex pm di Varese Agostino Abate, campano di origine, ha coordinato tra l’altro, le inchieste sull’omicidio di Lidia Macchi e sulla morte di Giuseppe Uva. Abuso d’ufficio e favoreggiamento sono reati pesanti sulle spalle di un pm accusato di aver «intenzionalmente» aiutato le persone su cui indagava ad uscire indenni da una sua inchiesta. Un’indagine della Procura di Brescia apre un nuovo squarcio su anni di lavoro nella Procura di Varese del sostituto Agostino Abate, che dal 2015 è stato trasferito d’ufficio dal Csm a fare il giudice a Como con l’accusa di irregolarità nei casi Uva e Macchi. Su Abate si riversa un’inchiesta della Procura di Brescia, competente sui magistrati di Varese, chiusa dal sostituto Mauro Leo Tenaglia e dal procuratore aggiunto S.ndro R.imondi, che ora guida la Procura di Trento. Al centro ci sono alcune indagini sulla gestione della clinica privata «La Quiete» di Varese che vedevano coinvolti i fratelli Enrico Antonio Riva, Michele Riva e Sofia Riva Cristi che, dopo aver ceduto la struttura alla Ansafin dei fratelli Sandro e Antonello Polita, furono denunciati nel 2010 per non aver pagato tasse, contributi e sanzioni per 3,3 milioni, ma non furono iscritti nel registro degli indagati da Abate il quale, omettendo «qualunque approfondimento», ordinò anche a un capitano della Gdf di non lavorare più al caso. Tra le contestazioni c’è anche quella di essere riuscito, sostenendo un collegamento con una sua indagine, a farsi trasmettere dal collega Tiziano Masini un fascicolo con le denunce reciproche tra i Riva e i Polita, trattenuto per due anni senza indagare sui Riva. Per la Procura di Brescia, Abate ha violato la Costituzione che impone ai magistrati imparzialità e l’obbligo dell’azione penale procurando ai Riva un «ingiusto vantaggio» aiutandoli ad «eludere» le indagini e facendogli risparmiare spese legali, sanzioni e danni di immagine. Il ritardo nelle iscrizioni è l’accusa per Abate nei casi Uva, il giovane morto nel 2008 dopo essere stato arrestato e picchiato, e in quello di Lidia Macchi, violentata e uccisa nel 1987, che gli sono costati anche la perdita di 10 mesi di anzianità. «Addebiti basati su dati falsi», ha sostenuto. Le testimonianze agli atti descrivono il «clima anomalo» in Procura, come l’ha definito Masini, pm a Varese fino al 2012, ora aggiunto ad Alessandria. «Chi davvero comandava era il dottor Abate e si doveva tendere a non mettersi in collisione con lui». Luca Petrucci, che a Varese lavora dal 2005 come pm, racconta di quando Abate durante una riunione «minacciò i presenti dicendo: “Attenzione perché io so tutto di tutti”». Abate ha chiesto di essere interrogato dai colleghi bresciani. «Chiariremo tutto, siamo estranei alle accuse e respingiamo ogni accusa», dichiara il suo legale, l’avvocato Alberto Scapaticci. L’indagine è nata dalle denunce di Sandro Polita (per le altre i pm bresciani hanno chiesto l’archiviazione) il quale, assistito dall’avvocato Ivano Chiesa, dice che nonostante il fallimento di Ansafin e la perdita di 16 milioni per queste vicende, continua le sue attività. Ha scritto a ministro della Giustizia, Csm e Pg di Cassazione e di Milano. Chiede «provvedimenti urgenti» per gli anni di «illogica tolleranza» riservati al magistrato.
Ilda Boccassini, la figlia indagata per omicidio stradale: morto l'anziano travolto con lo scooter, scrive l'11 Novembre 2018 di Michele Focarete su Libero Quotidiano. Stava attraversando sulle strisce pedonali, di ritorno dal supermercato dove aveva fatto la spesa, quando è stato centrato in pieno da uno scooter. Un colpo tremendo e per il malcapitato non c' è stato più niente da fare: trasportato in ospedale, è morto qualche giorno dopo in sala di rianimazione. Vittima dell'incidente, avvenuto intorno alle 20 in viale Montenero a Milano, Luca Voltolin, 61 anni, medico infettivologo di tanti «ultimi»: si occupava infatti soprattutto di Aids e aveva lavorato nelle carceri di San Vittore e di Opera. Ad investirlo Alice Nobili, 31 anni, figlia dei magistrati Alberto Nobili e Ilda Boccassini. L'episodio è avvenuto il 3 ottobre scorso, ma nessuno ne ha dato notizia. Ad occuparsi della vicenda fu nientemeno che il capo della polizia locale, Marco Ciacci. Arrivò sul posto, dove incontrò il padre della giovane. Chiamò lui una pattuglia che arrivò in tre minuti e fece fare i rilievi del caso, acquisendo i filmati delle telecamere della zona. Luca Valtolin era cresciuto tra Brugherio e Monza, prima di trasferirsi a Milano per motivi professionali e familiari. Il magistrato aveva disposto l'autopsia così i funerali si sono potuti effettuare solo mercoledì 17 ottobre. Valtolin era responsabile della gestione dei malati terminali di Aids per Città metropolitana di Milano, ma aveva partecipato anche a missioni all' estero: In Yemen, Kazakistan, Congo, Russia. «Un medico - come ha detto don Leopoldo Porro durante l'omelia - che si è preso cura degli ultimi. Era vicino a coloro che la società emargina». Ora Alice Nobili è stata denunciata per omicidio stradale. Ma questo episodio è la goccia che ha indotto l'Usb, l'unione sindacale di base della polizia locale, ad uscire domani con un comunicato nel quale si mette in evidenza il perché non sia stata resa nota la notizia e si denuncia l'uso improprio delle pattuglie. A tal proposito, si fa riferimento ad un recente furto in casa di un dirigente comunale, per il quale sono state inviate sei pattuglie. Mai successo l'intervento dei «ghisa» per un furto in appartamento e mai accaduto che si facessero arrivare sei auto. Forse solo nel caso di una rapina in banca.
Milano, con lo scooter investe 61enne: la figlia dei magistrati Boccassini e Nobili indagata per omicidio stradale. L'incidente all'inizio di ottobre in viale Montenero. L'uomo ferito, il medico Luca Voltolin, era deceduto alcuni giorni dopo il ricovero. Sul posto era intervenuto il capo dei vigili, Marco Ciacci: polemiche, scrive "La Repubblica" solo l'11 novembre 2018. Attraversava sulle strisce pedonali in viale Montenero a Milano quando uno scooter l'ha travolto. Sembrava un incidente come tanti quello del 3 ottobre in viale Montenero in cui era rimasto coinvolto un pedone di 61 anni, Luca Voltolin, medico infettivologo, esperto di Aids. Ma Voltolin, trasportato in codice giallo al pronto soccorso, è morto pochi giorni dopo il ricovero a causa delle conseguenze dovute alla caduta, durante la quale aveva sbattuto la testa a terra. Lo scooter era guidato da Alice Nobili, 35 anni, figlia dei magistrati Ilda Boccassini e Alberto Nobili che ora è stata denunciata per omicidio stradale. Sul posto, dopo l'incidente, era intervenuto direttamente il capo della polizia locale Marco Ciacci. E proprio su questa circostanza, è scoppiata una polemica su Facebook alimentata dalla pagina "Comitato verità e giustizia per Antonio Barbato" che da mesi riporta i comunicati dell'ex comandante della polizia locale ed ex capo del sindacato dei vigili Usb. Barbato è stato sostituito, per volontà del sindaco Sala, proprio da Ciacci al vertice del comando della polizia locale, dopo che era rimasto coinvolto in un'indagine di Ilda Boccassini. "Se le cose sono andate come descritte - si legge in un post - riteniamo che il comandante debba dimettersi immediatamente". Chiediamo che anche su questa vicenda intervengano il consiglio comunale e tutti gli organi preposti a valutare in ogni sede i comportamenti tenuti dal comandante". Secondo quanto riportato dal quotidiano Libero che ha riportato la notizia, Voltolin è stato ricordato dal parroco Leopoldo Porro nell'omelia del suo funerale come "un medico che si è preso cura degli ultimi, vicino a coloro che la società emargina". Il suo funerale è stato celebrato lo scorso 17 ottobre.
Boccassini: figlia indagata per omicidio stradale. Ma nessuno parla..., scrive Lunedì, 12 novembre 2018 Affari Italiani. La figlia di Ilda Boccassini e Alberto Nobili ad ottobre urta con lo scooter un 61enne provocandone la morte. Ma la notizia non viene fatta trapelare. La figlia di Ilda Boccassini e Alberto Nobili indagata per omicidio stradale. E scoppia la polemica perchè sul tragico investimento, avvenuto il 3 ottobre a Milano, fino a ieri c'era stato un insolito riserbo che aveva impedito ai media di apprendere e divulgare le generalità delle persone coinvolte. Tutto è avvenuto in viale Monte Nero. Alice Nobili, 35 anni, urta con il proprio scooter sulle strisce pedonali il 61enne Luca Voltolin, medico infettivologo e dirigente della sanità pubblica, da febbraio responsabile dell'assistenza extraospedaliera ai malati di Hiv per conto dell'Ats di Milano. Morirà al Policlinico dopo sei giorni di coma. Alice Nobili finisce indagata per omicidio stradale ma nessuno, tra ambulanze, ospedali, magistrati di turno, polizia locale, forze dell’ordine, prefettura, divulga informazioni sui fatti. Ne riesce a scrivere solo ieri il quotidiano Libero. E il caso esplode. Perchè l'Usb, sindacato di base dei vigili urbani, solleva alcuni interrogativi sulle procedure adottate, spalleggiato dal "Comitato verità e giustizia per Barbato”, che sostiene Antonio Barbato, l’ex capo dei ghisa avvicendato dal sindaco Sala col dirigente di polizia giudiziaria Marco Ciacci. Sindacato e comitato sostengono che sul posto quel 3 ottobre si sarebbe recato lo stesso Ciacci, già collaboratore della Boccassini quando dirigeva la sezione di polizia giudiziaria della Procura. Una "violazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici", è l'accusa. Alla quale l'Usb ne aggiunge un'altra, come riporta il quotidiano Il Giorno: "A fine ottobre è stato richiesto l’intervento di ben sei pattuglie in emergenza, oltre pare a 2 auto della Polizia di Stato per un furto nell’appartamento di un alto dirigente del Comune. Le poche risorse della Polizia Locale non possono essere riservate al servizio del potente di turno".
Figlia Ilda Boccassini indagata per omicidio stradale. Ultime notizie, “insolito riserbo” sulla notizia. Alice Nobili, figlia di Ilda Boccassini indagata per omicidio stradale: investì in scooter un pedone poi morto, l’insolito riserbo sulla notizia fino ad oggi, scrive l'11.11.2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". Sono numerose le polemiche suscitate dalla notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati per omicidio stradale della figlia di Ilda Boccassini e Alberto Nobili, due popolari magistrati. Alice Nobili avrebbe investito lo scorso 3 ottobre un medico 61enne sulle strisce, uccidendolo. L’uomo sarebbe morto poche ore dopo il ricovero a causa delle violenta botta alla testa riportata a causa dell’incidente. Oltre ad essere indagata per omicidio stradale, alla Nobili è stata ritirata la patente e sequestrato il mezzo. All’indagine però, come spiega Il Messaggero, ora fa seguito la polemica sollevata da Usb e relativa alla presenza sul luogo dell’incidente del comandante dei vigili urbani Marco Ciacci: “Siccome è risaputo che Ciacci ha collaborato per anni con Ilda Boccassini” quando dirigeva la sezione di polizia giudiziaria della Procura, la sua presenza, scrivono integrerebbe “una violazione del codice di comportamento”. Ma la polemica ora è anche un’altra, come spiega AffariItaliani: sul tragico investimento nel quale ha perso la vita un uomo, infatti, ci sarebbe stato un “insolito riserbo”. Ovvero, la notizia sarebbe trapelata solo nelle passate ore poichè i media erano stati impossibilitati ad apprendere e divulgare le generalità delle persone coinvolte. Solo ieri, infatti, a parlare della figlia di Ilda Boccassini e del medico 61enne, Luca Voltolin, rimasto vittima, è stato il quotidiano Libero. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
POLEMICHE SU INTERVENTO CAPO VIGILI. Stava attraversando sulle strisce pedonali quando uno scooter l’ha travolto. Sembrava un incidente stradale come tanti quello in cui era rimasto coinvolto un medico esperto di Aids. Trasportato in codice giallo al Pronto soccorso, è morto pochi giorni dopo il ricovero a causa delle conseguenze dovute alla caduta. Alice Nobili, figlia dei magistrati Ilda Boccassini e Alberto Nobili, è stata denunciata per omicidio stradale. Sulla vicenda è scoppiata una polemica anche perché sul posto era intervenuto direttamente il capo della polizia locale Marco Ciacci. L’ex comandante Barbato era stato sostituito, per volontà del sindaco Sala, dopo che era rimasto coinvolto in un’indagine di Ilda Boccassini. «Se le cose sono andate come descritte, riteniamo che il comandante debba dimettersi immediatamente», si legge in un post su Facebook, dove è stata creata la pagina “Comitato verità e giustizia per Antonio Barbato”. (agg. di Silvana Palazzo)
ILDA BOCCASSINI, FIGLIA INDAGATA PER OMICIDIO STRADALE. La figlia dei due magistrati Ilda Boccassini e Alberto Nobili è indagata dalla Procura di Milano per omicidio stradale. L’incidente risale al 2 ottobre, quando Alice Nobili piombò addosso ad un pedone in viale Monte Nero, in mezzo alle strisce pedonali. Il medico infettivologo Luca Voltolin cadde pesantemente a terra sbattendo la testa violentemente: fu trasportato in ospedale dall’ambulanza in codice giallo, ma le sue condizioni peggiorarono in codice rosso. I neurochirurghi del Policlinico provarono a salvarlo con un intervento, ma il 61enne morì dopo sei giorni di coma. Come riportato dal Corriere della Sera, è stata ricostruita la dinamica dell’incidente. Erano le 19.30 quando il pedone, al centro delle strisce pedonali, venne investito. L’impatto avvenne dopo che un’auto davanti allo scooter avrebbe bruscamente svoltato. Pur senza provocare lesioni dirette al pedone, Alice Nobili ha «indubitabilmente determinato la caduta mortale della vittima, che lascia la moglie e un figlio».
LE POLEMICHE PER L’INTERVENTO DI CIACCI. Per la figlia dei due ex procuratori aggiunti Alberto Nobili e Ilda Boccasini, si profila la certezza di dover scegliere un rito alternativo – quindi patteggiamento o rito abbreviato – per stare nella parte più bassa dell’etichetta di pena, che la legge fissa da 2 a 7 anni per questo reato. Il pm di turno intanto ha sequestrato il motorino ad Alice Nobili, mentre la prefettura ha in via amministrativa ritirato già la patente per 5 anni. Ma attorno alla 35enne è scoppiato anche la polemica del sindacato Usb, a causa della presenza del comandante dei vigili Marco Ciacci. Per il sindacato e il Comitato Barbato quel giorno sul luogo dell’incidente «sarebbe intervenuto sul posto prima delle pattuglie» proprio Ciacci, che per anni ha collaborato con Ilda Boccassini quando dirigeva la sezione di polizia giudiziaria della Procura. Questo integrerebbe «una violazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici». Si fa riferimento all’articolo 7, secondo cui “il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale”.
Uccide pedone: indagata la figlia della Boccassini, scrive Cristina Bassi, Lunedì 12/11/2018, su "Il Giornale". Un pedone investito da uno scooter sulle strisce, morto alcuni giorni dopo per le ferite riportate, e una persona indagata per omicidio stradale. Quest'ultima è Alice Nobili, 35enne figlia di due noti magistrati milanesi, Alberto Nobili e Ilda Boccassini. È stata lei a provocare lo scontro avvenuto intorno alle 19.30 del 3 ottobre scorso in viale Monte Nero, in una zona centrale della città. A riportare la notizia, non trapelata in un primo momento, è stato il quotidiano Libero. La vittima si chiamava Luca Voltolin, medico infettivologo di 61 anni. Stava rientrando dopo aver fatto la spesa. Travolto dallo scooter, ha battuto la testa sull'asfalto. In ospedale è sopravvissuto solo sei giorni. Alice Nobili è stata denunciata a piede libero. Il fatto ha acceso un aspro scontro interno alla polizia locale. Nel mirino è finito il comandante Marco Ciacci, ex capo della polizia giudiziaria in Procura. Lo accusano il sindacato Usb dei vigili, con un comunicato, e su Facebook il «Comitato verità e giustizia per Antonio Barbato». Barbato è l'ex comandante dei vigili, rimosso e sostituito con Ciacci un anno fa per essere finito (non indagato) in una intercettazione ambientale agli atti di una inchiesta anti mafia coordinata proprio dall'allora capo della Dda Boccassini. Secondo Usb e Comitato, Ciacci sarebbe stato chiamato immediatamente e sarebbe intervenuto di persona sul luogo dell'incidente, prima dell'arrivo delle pattuglie. Avrebbe quindi gestito «in modo personalistico» i rilievi e le indagini. «Da fonti interne - accusa il gruppo a sostegno del vecchio comandante - abbiamo appreso che non sarebbe stato eseguito l'alcol test, cosa che di norma, anche se non obbligatorio, in incidenti del genere andrebbe fatto». L'iniziativa di Ciacci viene spiegata così: «È risaputo che ha collaborato con Ilda Boccassini per numerosi anni». E ha violato l'articolo 7 del Codice di comportamento che impone al dipendente pubblico di non intervenire in vicende che coinvolgano parenti, amici o «persone con cui abbia rapporti di frequentazione abituale». Nel chiedere le dimissioni del comandante, si denuncia un secondo caso: «L'invio di ben sei pattuglie di polizia locale a casa del direttore generale del Comune che aveva subito un semplice furto».
Ilda Boccassini, la figlia e il pedone travolto e ucciso: l'inquietante scoperta sull'alcol-test, scrive il 13 Novembre 2018 Michele Focarete su "Libero Quotidiano". Come prevedibile, il Consiglio comunale di Milano di ieri è stato di fatto “un atto di accusa” nei confronti del comandante della polizia Locale, Marco Ciacci. In riferimento al suo comportamento durante l’incidente per il quale è stata indagata per omicidio stradale Alice Nobili, e sull’uso improprio delle pattuglie dei “ghisa”, i consiglieri Patrizia Bedori (M5S), Massimiliano Bastoni(Lega), Alessandro De Chirico, (FI) e Gianluca Corrado (M5S), hanno parlato di «atti gravi». Patrizia Bedori (M5S) ha addirittura usato termini pesanti come «episodi inquietanti», aggiungendo che «Ciacci non deve rispondere alla Procura, ma al Comune di Milano». Ha poi toccato l’argomento dell’ex vice comandate Silvio Scotti e direttore del settore procedure sanzionatore che fu costretto ad andarsene su pressioni dell’allora capo dei vigili, Tullio Mastrangelo e da Marco Granelli, ex assessore alla Sicurezza e alla polizia Locale, perché aveva fatto «un regalo» da 800 mila euro alla ditta per il recupero di auto abbandonate di Domenico Inga, rinnovandogli l’appalto. «C’è da chiedersi come mai Scotti», sottolinea Bedori, «dopo essere stato allontanato, viene ripreso nello stesso settore sempre come responsabile».
COMMISSIONE. Gianluca Corrado ha invece posto l’accento sull’intervento di sei pattuglie e la scientifica inviate per un furto nell’appartamento di un dirigente comunale. «Se fosse accaduto a me», sottolinea Corrado, «sarei andato al più vicino commissariato o dai carabinieri a sporgere denuncia. Come fanno tutti i comuni cittadini». È stata poi chiesta una commissione ad hoc per l’audizione del numero uno di piazza Beccaria. La richiesta di convocazione è firmata dai consiglieri del M5S, FI Lega e Milano Popolare. A questo punto c’è stata una difesa d’ufficio del vicesindaco con delega alla sicurezza, Anna Scavuzzo, che ha promosso un incontro per le 14 con le rappresentanze sindacali della polizia Locale che avevano mosso appunti all’operato in occasione dell’incidente stradale del 3 ottobre, nel quale aveva perso la vita un medico di 61 anni, investito sulle strisce pedonali dallo scooter guidato dalla Boccassini jr. «Da una prima analisi dell’attività svolta dagli agenti intervenuti negli episodi contestati», dice Scavuzzo, «appare che si siano eseguite le procedure standard che regolano l’attività della polizia Locale di Milano».
LA DINAMICA. «Riteniamo necessario», ribatte Giovanni Aurea, delegato Rsu della polizia Locale, «un chiarimento in risposta alle gravi accuse di scorrettezza lanciate dal sindacato Usb e la richiesta di dimissioni dell’ex comandante Antonio Barbato». All’incontro dovrebbe intervenire in videoconferenza anche il comandante Marco Ciacci, che in questi giorni si trova all’estero. È proprio sulla presenza di Ciacci sul luogo dell’incidente prima delle pattuglie che c’è contestazione. È risaputo che lui ha collaborato per anni con Ilda Boccassini quando dirigeva la sezione di polizia giudiziaria della Procura, e questo integrerebbe una violazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che all’articolo 7 dice: “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale”. C’è anche discussione tra gli agenti del radiomobile sul non aver eseguito l’alcol test che non è obbligatorio ma in genere lo si fa anche per incidenti meno gravi. A dire però dei vigili intervenuti quella sera, la dinamica era chiara e la ragazza non dava segni che potessero indurre a pensare che avesse bevuto. L’omicidio stradale prevede una pena da 2 a 7 anni di carcere. Ma da 8 a 12 anni, quando chi provoca la morte è in stato di ebbrezza. Michele Focarete
«Vittima di complotto» Ex capo «ghisa» contro il Comune e la procura. L'esposto di Barbato alla Procura generale è l'accusa di un uomo voluto da tre sindaci, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 16/05/2018, su "Il Giornale". La grana si preparava da dieci mesi, fin da quando Antonio Barbato, capo dei vigili, era stato rimosso dall'incarico. L'aveva presa malissimo e aveva giurato di vendicarsi. Da allora, un crescendo incessante di invettive sui social avevano tenuto viva la sua voglia di rivalsa. E ieri arriva la mossa finale: l'ex comandante dei «ghisa» si presenta a Palazzo di giustizia e deposita in Procura generale un esposto in cui chiama pesantemente in causa l'ex assessore alla Sicurezza, Carmela Rozza, che indica come la responsabile della sua cacciata; e investe inevitabilmente anche il ruolo del sindaco Beppe Sala. Barbato, costretto alle dimissioni dalle sue intercettazioni con l'imprenditore Alessandro Fazio, arrestato poi per i suoi rapporti con la criminalità organizzata, sostiene in sostanza di essere stato vittima di una macchinazione per lasciare spazio al suo successore: Marco Ciacci, dirigente della Polizia, a lungo capo della sezione investigativa della Procura della Repubblica. Ciacci, dice Barbato, doveva diventare capo dei vigili per fare un favore alla Procura. Nell'esposto, Barbato attribuisce alla Rozza una serie di confidenze in proposito. «Il nome di Marco Ciacci era già stato fatto al sottoscritto dall'assessore Carmela Rozza nel settembre 2016, quando in una conversazione privata la stessa aveva confidato che tale ufficiale da tempo ambiva di ricoprire il ruolo di comandante della Polizia locale di Milano e che all'uopo si doveva valutare la sua assunzione del Comune di Milano e specificamente nella polizia locale. Tale esigenza secondo l'assessore Rozza rispondeva al fine di assecondare la richiesta effettuata direttamente dai vertici della Procura di Milano al sindaco Sala, aggiungendo che sarebbe stata una buona cosa agevolare la richiesta della stessa Procura, viste le condizioni in cui versava il sindaco con i procedimenti giudiziari che aveva in corso». È un'accusa assai grave che insieme al sindaco e all'ex assessore tira in ballo anche la Procura della Repubblica: e infatti Barbato presenta l'esposto alla Procura generale che deve vigilare sui comportamenti della Procura. «Il sottoscritto - scrive l'ex comandante - non è in grado di valutare se, come asserito dall'assessore Rozza, la nomina di Ciacci sia stata effettivamente pilotata dai vertici della Procura della Repubblica»», né «se la fuga di notizie che lo hanno riguardato e gli sono costate il ruolo di comandante della polizia locale, siano state prodromiche a tale obiettivo». Le intercettazioni tra Barbato e Fazio, insomma, sarebbero state passate ai giornali per liberare il posto destinato a Marco Ciacci. Commenta la Rozza: «Sono le affermazioni di un uomo turbato che ancora non si è reso conto delle sue azioni e a cui non vale neanche la pena di replicare». È comunque un uomo che sotto tre sindaci è stato ai vertici della polizia locale, prima come vicecomandante e poi come capo. E la cui polemica da Facebook transita ora in un fascicolo giudiziario; quindi in qualche odo si dovrà venire a capo di cosa realmente sia accaduto. E lo stesso vale per un altro esposto, anch'esso mirato contro la Rozza, che un altro vigile ha depositato in Procura per accusare l'ex assessore di avere trasformato la gestione degli sfratti degli abusivi in una macchina per consenso elettorale, scegliendo d'intesa con i sindacati inquilini, gli occupanti da cacciare con la forza pubblica e quelli da salvare. «Certo - dice la Rozza - abbiamo scelto di sgomberare per primi i violenti e i pericolosi. E allora?». Nel frattempo, Barbato rende noto che i vertici di Amat, l'azienda comunale cui è stato destinato, hanno deciso di sottoporlo ad una visita attitudinale. «La finalità di tale accertamento è ovviamente la rimozione dall'incarico», dice.
Caso Barbato, l'affondo dell'ex comandante: "Dietro il mio successore c'è la Procura". E in un altro esposto un agente di Polizia locale accusa l'ex assessore Carmela Rozza, scrive il 15 maggio 2018 Il Giorno. Con un esposto depositato oggi, martedì 15 maggio, alla Procura generale di Milano, l'ex comandante della Polizia Locale di Milano Antonio Barbato chiede di far luce sulla nomina del suo successore, Marco Ciacci, che, stando alla sua ricostruzione, sarebbe stata "pilotata dai vertici della Procura di Milano". Nel documento, consultato dall'Agi, Barbato ricorda la sua "rocambolesca e fulminea sostituzione dal Comando della Polizia Locale" nell'agosto del 2017 dopo che il suo nome era finito negli atti dell'inchiesta della Dda sugli affari di presunti referenti e imprenditori legati al clan mafioso dei Laudani. In particolare, nelle carte venivano riferiti degli incontri tra Barbato (non indagato) e l'ex sindacalista Domenico Palmieri per l'idea (mai messa in pratica) di pedinare un delegato della Cisl. "Il nome di Marco Ciacci - scrive Barbato - mi era già stato fatto dall'assessore Carmela Rozza nel settembre del 2016 (Ciacci era un funzionario e non era ancora diventato dirigente della polizia di Stato), quando in una conversazione privata la Rozza aveva confidato che tale ufficiale, da tempo, ambiva a ricoprire il ruolo di Comandante della Polizia Locale e che all'uopo si doveva comunque valutare la sua assunzione nel Comune di Milano". Tale esigenza - è la tesi di Barbato, attuale dirigente della società Amat che affianca l'amministrazione nella gestione di mobilita ambiente e territorio - secondo l'ex assessore Rozza rispondeva al fine di assecondare la richiesta effettuata direttamente dai vertici della Procura di Milano al sindaco Sala, aggiungendo che sarebbe stata buona cosa agevolare la richiesta della stessa Procura di Milano, viste le condizioni in cui versava il sindaco con i procedimenti giudiziari che aveva in corso". Nel settembre del 2016, prosegue l'ex comandante, "Ciacci non aveva alcun requisito per ricoprire il ruolo di Comandante della Polizia Locale di Milano tanto è vero che non partecipava alla selezione pubblica vinta dal sottoscritto superando ben 31 partecipanti". L'"occasione buona", nella prospettiva di Barbato, "si è materializzata con l'audizione del sottoscritto alla Dda nel luglio del 2017". Secondo il denunciante, "Ciacci attualmente, secondo il Regolamento degli Uffici e dei Servizi del Comune di Milano, non possiede i requisiti minimi per occupare quel ruolo che sono partecipare a una selezione pubblica avendo svolto i compiti di dirigente per almeno 5 anni precedentemente all'incarico". Inoltre, nel suo caso "non è stata effettuata alcuna selezione pubblica e la procedura che lo ha riguardato si è tradotta in chiamata diretta, ad personam". Sempre oggi, un agente della Polizia Locale di Milano ha depositato in Procura un corposo esposto in cui ipotizza i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico, traffico d'influenza e scambio di voto a carico dell'ex assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, Carmela Rozza. Secondo l'esposto, "Rozza ha utilizzato il suo ruolo e il tema della gestione degli alloggi di edilizia popolare al fine di raggiungere l'obbiettivo di essere eletta nel Consiglio regionale della Lombardia, come poi avvenuto, conseguendo un successo notevole proprio per le sua attività che hanno sconfinato nella consumazione dei reati". In particolare, "sarebbe stata creata una rete sul territorio di persone che condizionavano in modo fazioso la scelta degli sgomberi da eseguire".
Le sorelle d'omertà “lombarde”, scrive il 23 giugno 2017 Ombretta Ingrascì su “La Repubblica”. Ombretta Ingrascì - Docente di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano. Il grande merito dei maxiprocessi istruiti dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano nei primi anni novanta fu di mettere in luce non solo la presenza delle mafie in Lombardia, ma anche il ruolo delle donne al loro interno. A svelare la componente femminile delle famiglie mafiose fu soprattutto Rita Di Giovine, prima collaboratrice di giustizia della ‘drangheta, la cui testimonianza permise al dottore Maurizio Romanelli di colpire il feudo criminale che la madre di Rita, Maria Serraino, aveva instaurato negli anni ottanta intorno a Piazza Prealpi nella zona Nord-Ovest di Milano. Nipote di Ciccio Serraino della montagna, esponente di primo piano della 'drangheta di Reggio Calabria, Maria gestiva assieme al figlio Emilio un imponente traffico internazionale di stupefacenti (eroina, hashish e cocaina) e di armi, e operava nelle piazze milanesi in accordo con le altre famiglie della 'drangheta presenti nel territorio. Come l’operazione investigativa “Belgio” contro il clan Serraino-Di Giovine, anche l’indagine “Fiori della notte di San Vito”, condotta nel 1994 contro il gruppo 'dranghetista dei Mazzaferro attivi nella zona del Comasco, contribuì a sfatare lo stereotipo dell’assenza delle donne nella mafia. Nel banco degli imputati compariva Maria Morello, alla quale il collaboratore di giustizia Marcianò nelle sue deposizioni attribuì la qualifica di “sorella d’omertà” e il collaboratore Foti quella di “sorella d’umiltà”, carica che prevedeva, come scritto nella sentenza, servizi di “fiancheggiamento in ruoli non prettamente militari”. Nel 1976 il suo ristorante a Laglio, sul lago di Como, ospitò un summit di 'dranghetisti, finalizzato a creare su iniziativa di Mazzaferro una “camera di controllo” per l’attribuzione delle doti della 'drangheta in Lombardia. Anche dai processi celebrati in Lombardia negli anni 2000 emergono figure di donne pronte ad assumere ruoli attivi nelle mafie. Più istruite e libere di muoversi rispetto al passato e al contempo ancora insospettabili per la loro appartenenza al genere femminile, le donne vengono usate per custodire le armi, riscuotere il denaro presso le vittime di estorsioni e usura, e per condurre operazioni di reinvestimento del denaro illecito nell’economia legale (si pensi per esempio ai casi di Luana Paparo e delle donne del clan Valle). Nonostante il crescente e sostanziale coinvolgimento delle donne nelle mafie, al di là del tradizionale ruolo di trasmissione del sistema culturale mafioso, permane la loro esclusione formale. Alle donne infatti non è concessa l’affiliazione tramite il rito di iniziazione e pertanto nemmeno la possibilità di ricoprire ruoli apicali (se non in modo temporaneo durante l’assenza degli uomini della famiglia). Non è un caso che l’indagine Crimine-Infinito del 2010 non abbia individuato nessuna donna in posizione di vertice. Infine, la penetrazione della 'drangheta in Lombardia non si è limitata al trasferimento delle strutture di base dell’organizzazione, i cosiddetti “Locali”, ma anche di pratiche di genere basate sul codice dell’onore. In altre parole la riproduzione del fenomeno non è avvenuta solo sul piano criminale, ma anche su quello culturale. Non sono rare storie di giovani donne cresciute nell’hinterland milanese costrette a fidanzarsi e a sposare uomini più anziani per motivi di alleanze tra clan; oppure di donne ossessivamente controllate per ragioni di reputazione onorifica; o anche di donne picchiate, come nel caso di Maria Serraino che, nonostante fosse temuta dagli uomini del suo gruppo e dagli avversari in veste di capo dell’organizzazione, subiva le violenze del marito. È a partire da questa condizione di subordinazione che alcune donne hanno trovato il coraggio di ribellarsi collaborando con la giustizia, come la già citata Rita Di Giovine nel 1993, oppure testimoniando contro i propri famigliari, come Lea Garofalo nel 2006, che venne uccisa nel 2009 per aver infranto la regola dell’omertà. La sua storia e quella della figlia Denise, che ha testimoniato durante il processo contro il padre, assassino della madre, non ha lasciato indifferenti un gruppo di studentesse delle scuole medie superiori e dell’università, che con la loro costante presenza in aula l’hanno supportata durante l’intero processo, lasciando un’importante testimonianza di senso civico di cui la città di Milano ha da cogliere l’eredità.
Inizio e fine della "mala" bergamasca, scrive il 15 agosto 2017 Luca Bonzanni su "La Repubblica". Dalle voci dei protagonisti sgorga il racconto di un fenomeno peculiare, caduto quasi nel dimenticatoio. È la Bergamo a cavallo degli Anni Settanta e Ottanta: rapine in banca, sequestri di persona, gioco d'azzardo. Ad agire sono gruppi autoctoni, biografie forgiate tra le valli della Bergamasca, con strutture organizzative solide, una diffusione capillare, un codice culturale forte e vincolante. La tesi "La malavita bergamasca: nascita, evoluzione, eredità di un fenomeno criminale", è lo spaccato di una criminalità che non c’è più, sgretolatasi di fronte all’avanzata di nuovi business illegali e di nuovi protagonisti, quella 'Ndrangheta giunta a colonizzare anche gli ultimi spicchi liberi del profondo Nord. Per quasi un ventennio, invece, il lato oscuro di Bergamo è stato rappresentato soprattutto dall’insieme organico delle «batterie», le «forme amicali-organizzative dei rapinatori degli anni Settanta», sorte prima in valle Seriana e poi «esplose» in val Cavallina sulla base di rapporti amicali e familiari, costantemente mediati dal ruolo fondamentale della «dimensione di paese». E' in quelle piccole cittadine di poche migliaia di abitanti, spesso arroccate nella morfologia della valle, che solidificano coperture e complicità tra criminalità e tessuto sociale. Perché? Perché, raccontano banditi, giudici, osservatori intervistati nel lavoro di ricerca, l’«assalto alle banche» fa «chiudere un occhio». Non è – a differenza dell’estorsione mafiosa – il piccolo commerciante a venir colpito: a finire nel mirino del crimine, ribaltando la tradizionale «asimmetria» carnefice-vittima, è la ramificazione territoriale di un’istituzione – la banca – avvolta di un forte ruolo economico, sociale, persino politico. Dall’inizio degli Anni Settanta alla fine degli Ottanta, la malavita bergamasca attraversa profonde trasformazioni. All’inizio c’è la scelta criminale di giovani appena usciti dalla ricostruzione post-bellica, poi è il turno di ragazzi cresciuti all’ombra del boom economico, nella continua tensione tra un benessere che lentamente va affermandosi e un consumismo travolgente che si riflette da Milano, metropoli di riferimento. Le “batterie” si amalgamano all’interno del carcere: è nel penitenziario cittadino che si forgia il codice culturale della malavita bergamasca. I membri «anziani» cooptano i giovani, sottoponendoli a un rito di iniziazione concreto, la «prova del silenzio»: chi non parla viene «protetto», entra in una «società di mutuo soccorso» basata sulla condivisione dei proventi delle rapine e sarà poi coinvolto in nuove rapine. La storia della malavita bergamasca racconta inoltre di un «pendolarismo criminale» verso Svizzera e Francia e della tentazione del grande salto: i sequestri di persona, che portano talvolta a contatti – rapimenti su commissione, compravendita di ostaggi – che lambiscono il mondo della ‘Ndrangheta. A fine Anni Ottanta, il fenomeno si esaurisce. Pesano i fattori tecnologici che «blindano» le banche, i fattori investigativi che conducono a pesanti carcerazioni, ma anche fattori criminali: il boom della droga e la crescente posizione delle mafie al Nord avviano la stagione della malavita bergamasca al tramonto. Nell’«atomizzazione» di questa criminalità autoctona, resistono solo sparute bande: gli ultimi bottini delle rapine diventano allora l’«accumulazione originaria» per un nuovo business illegale, l’usura. Ma il prestito a strozzo cambierà profondamente il rapporto tra questa criminalità e il tessuto sociale circostante.
Rapina con mitra, arrestato il figlio del procuratore di Brescia. Gianmarco Buonanno è accusato di far parte di una banda entrata in azione a Zogno, nella Bergamasca, in un supermercato alla fine di gennaio, scrive La Repubblica" il 5 febbraio 2018. Gianmarco Buonanno, 32 anni, figlio del Procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno, è stato arrestato su ordinanza di custodia cautelare per rapina a mano armata. E' accusato di far parte di una banda entrata in azione mercoledì scorso a Zogno, nella Bergamasca, in un supermercato Conad. Buonanno, che avrebbe impugnato una mitraglietta durante la rapina, è stato riconosciuto da alcuni video. I carabinieri, che hanno reso noto oggi la notizia, lo hanno arrestato sabato notte in casa. L'auto utilizzata da Gianmarco per allontanarsi dopo la rapina era intestata al padre procuratore capo di Brescia. Il particolare ha consentito ai carabinieri, oltre alle immagini della videosorveglianza, di risalire al figlio del magistrato, che è stato arrestato. Un suo complice era già stato arrestato subito dopo il colpo, che aveva fruttato 12 mila euro. Lo scorso marzo era finito nei guai, agli arresti domiciliari, l'altro figlio del procuratore, Francesco, per spaccio e consumo di cocaina tra gli ultras dell'Atalanta.
“Col mitra in una rapina”, arrestato il figlio del procuratore capo di Brescia. Gianmarco Buonanno è accusato di aver fatto parte di un commando che ha assaltato un supermercato, scrive Federico Gervasi il 5/02/2018 su "La Stampa". Gianmarco Buonanno, figlio del Procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno, è stato arrestato dai carabinieri di Zogno e di Bergamo in esecuzione dell’ordinanza del gip per rapina a mano armata. L’uomo, 32 anni, è accusato di far parte della banda di tre malviventi che lo scorso mercoledì sera a Zogno, nella Bergamasca, ha assaltato un supermercato Conad. Buonanno, armato di mitra, avrebbe minacciato i dipendenti per farsi consegnare l’incasso. In quell’occasione i banditi, tutti e tre a volto coperto, riuscirono a trafugare dalle casse ben 12 mila euro. Riconosciuto grazie alcuni filmati che avrebbero fotografato la targa della sua auto (intestata al padre), è stato fermato sabato notte mentre si trovava in casa e condotto nel carcere di Bergamo. Il primo complice, Luigi Mazzocchi, un 49 enne pregiudicato di Seriate, era stato fermato alcune ore dopo il colpo, mentre il terzo avrebbe le ore contate. Mazzocchi nella propria abitazione nascondeva parte del bottino della rapina oltre che diverse armi utilizzate per effettuare l’assalto. Buonanno invece, 33 anni da compiere il prossimo 12 marzo e con problemi di tossicodipendenza, è attualmente coinvolto nell’inchiesta che ha denunciato due anni fa i maltrattamenti subiti dai pazienti ospiti della comunità Shalom di Palazzolo sull’Oglio, fondata da suor Rosalina Ravasio. Soltanto a febbraio dello scorso anno anche Francesco, secondogenito di Tommaso e fratello di Gianmarco ebbe alcuni guai con la giustizia. Infatti, il suo appartamento di Bergamo venne perquisito nell’ambito dell’operazione che ha portato in carcere ben quarantuno ultras dell’Atalanta per spaccio e consumo di cocaina poco prima di compiere le azioni violente fuori dallo stadio.
Gianmarco Buonanno, la rapina al Conad con l’auto del padre procuratore. Il figlio del capo della procura di Brescia avrebbe brandito la pistola per intimorire le cassiere del supermercato di Zogno, scrive Mauro Paloschi il 6 febbraio 2018 su "Bergamonews.it". È stato inchiodato dalle telecamere che hanno ripreso l’auto intestata al padre. Il secondo arrestato per la rapina al Conad di Zogno dello scorso 31 gennaio non è un nome qualunque. Gianmarco Buonanno, 33 anni da compiere a marzo, tossicodipendente, è uno dei figli del procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. I carabinieri della Compagnia di Bergamo e i colleghi di Zogno lo hanno arrestato nella notte di sabato 3 febbraio per rapina a mano armata. Era a casa del fratello più giovane Francesco. Il 32enne è accusato di far parte della banda che ha assaltato il supermercato zognese. Gli autori, almeno tre e con il volto coperto, avevano agito armati di mitraglietta, pistola e bastone. Dopo aver minacciato i cassieri si erano impossessati di circa 12mila euro. Buonanno avrebbe brandito la pistola per intimorire le cassiere. Gli investigatori sono risaliti al figlio del procuratore grazie ad alcuni filmati che avrebbero inquadrato la targa dell’auto intestata a suo padre. Gianmarco viaggiava con quella, i suoi complici con un’altra vettura, un’Audi A3, anch’essa individuata attraverso le immagini. Importante per le indagini, condotte dal pubblico ministero di Bergamo Lucia Trigilio, anche la testimonianza del titolare del punto vendita. Difeso dall’avvocato Roberto Bruni, Buonanno si trova nel carcere di Bergamo. Nelle prossime ore sarà interrogato dal gip per la convalida. Il primo a essere arrestato era stato Luigi Mazzocchi, un 49 enne pregiudicato di Seriate, fermato alcune ore dopo il colpo. Durante la perquisizione nella sua abitazione, gli inquirenti avevano trovato parte del bottino della rapina, oltre che diverse armi impugnate quella sera. Ora all’appello manca il terzo componente della banda. Gianmarco Buonanno è già coinvolto nell’inchiesta che ha denunciato due anni fa i maltrattamenti subiti dai pazienti ospiti della comunità Shalom di Palazzolo sull’Oglio, fondata da suor Rosalina Ravasio. A febbraio dello scorso anno anche Francesco Buonanno, secondogenito di Tommaso e fratello di Gianmarco ebbe alcuni guai con la giustizia. Infatti, il suo appartamento di Bergamo venne perquisito nell’ambito dell’operazione che vide coinvolti una quarantina di ultrà dell’Atalanta per spaccio e consumo di cocaina poco prima di compiere le azioni violente fuori dallo stadio.
Gianmarco Buonanno e quella strana denuncia contro il padre nel 2012. Il figlio del procuratore di Brescia, arrestato per rapina, nel 2012 aveva denunciato il padre, coinvolgendolo nell’inchiesta sulla Comunità Shalom, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca, Autore dalla news su it.blastingnews.com". Proprio un destino strano quello della famiglia #Buonanno, Papà Tommaso è il procuratore capo di Brescia dall’8 ottobre 2013. Non si può dire che i suoi due figli, Gianmarco e Francesco, abbiano intrapreso la stessa carriera. Questa mattina all’alba, lunedì 5 febbraio, Gianmarco Buonanno è stato arrestato dai carabinieri di Bergamo e del paese vicino di Zogno con l’accusa di rapina a mano armata. È sospettato di aver fatto parte di una banda di tre persone che mercoledì 31 gennaio scorso, a volto coperto, avevano fatto irruzione armi in pugno in un supermercato Conad proprio nell’abitato di Zogno, riuscendo ad impossessarsi di 12mila euro di incasso. Gianmarco Buonanno sarebbe comunque stato riconosciuto grazie ai video girati dalle telecamere della zona. Il fratello minore, Francesco, era invece stato coinvolto nel febbraio 2017 in una indagine per spaccio di cocaina che coinvolgeva alcuni ultras dell’Atalanta. Ma sono i burrascosi rapporti tra Gianmarco e il padre Tommaso, e il mistero sul caso della #Comunità Shalom, a destare sospetti.
Il passato di Francesco e Gianmarco Buonanno. Per concludere il discorso sul 29enne Francesco Buonanno, durante l’inchiesta per spaccio sui tifosi della ‘Dea’ di un anno fa, la sua casa di Bergamo venne anche perquisita. Alla fine, però, il suo nome non è risultato tra i 41 arrestati. Qualcosa in più c’è invece da raccontare su Gianmarco Buonanno, 33 anni da compiere il 12 marzo, il quale, prima dell’arresto per rapina a mano armata di oggi, era già un nome noto alle forze dell’ordine, visti i suoi problemi con la tossicodipendenza.
E proprio all’abuso di sostanze stupefacenti è legata la vicenda che ha visto protagonista nel 2012, nei panni stavolta della parte lesa, proprio Gianmarco che, con le sue accuse, ha coinvolto in un’inchiesta giudiziaria il padre Tommaso.
La famiglia Buonanno e l’inchiesta sulle violenze nella Comunità Shalom. Prende avvio nel 2012 l’inchiesta sulle presunte violenze compiute sui pazienti della Comunità Shalom, il centro di recupero per tossicodipendenti di Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia, dove, secondo le accuse di alcuni familiari degli ospiti della struttura, si sarebbero verificati episodi di maltrattamenti, lesioni e veri e propri sequestri di persona. Tra le 36 vittime di queste presunte violenze ci sarebbe stato anche Gianmarco Buonanno il quale, denuncia di essere stato portato e trattenuto nella Comunità Shalom contro la sua volontà, venendo malmenato, costretto a lavori pesanti e imbottito di ansiolitici. Il padre Tommaso Buonanno, a quel tempo procuratore a Lecco, è ritenuto responsabile dal figlio, in quanto membro del comitato etico della Comunità Shalom. La procura di Brescia, nel 2012, non può far altro che indagare il collega Tommaso Buonanno, anche se la sua posizione verrà archiviata in breve tempo. Sorte contraria rispetto alle 43 persone per le quali è stato invece chiesto il rinvio a giudizio. A quel punto, l’8 ottobre 2013, Buonanno senior, viene nominato procuratore capo di Brescia. Intanto, il 26 luglio 2012, Gianmarco era riuscito a fuggire dalla comunità per restare nell’ombra fino ai clamorosi fatti accaduti oggi.
Spaccio e rapine, operazione contro ultras dell’Atalanta: indagato anche il figlio del procuratore di Brescia. Ventisei le misure cautelari per detenzione e spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. Al figlio del magistrato Tommaso Buonanno, Francesco, contestato lo spaccio di gruppo che sarebbe avvenuto nel suo appartamento di Bergamo, che si trova nello stesso stabile di quello in cui risiede il padre procuratore, scrive Andrea Tornago il 7 marzo 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Nuova tegola sul procuratore di Brescia Tommaso Buonanno, già nel mirino del Csm per la “fuga” nell’arco di sei mesi di 9 pubblici ministeri su 21. In un’operazione della Squadra mobile di Bergamo e dello Sco della Polizia questa mattina è stata eseguita una perquisizione nell’abitazione del figlio, Francesco Buonanno, colpito dalla misura cautelare dell’obbligo di firma disposta dal gip di Bergamo. Il figlio del magistrato è finito nell’indagine condotta dal pm bergamasco Gianluigi Dettori nei confronti di 41 persone, in gran parte tifosi dell’Atalanta, che prima di assistere alla partita acquistavano e assumevano droga vicino allo stadio, incappucciandosi poi per compiere azioni violente. Ventisei le misure cautelari per detenzione e spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. A Buonanno è contestato solo lo spaccio di gruppo che sarebbe avvenuto nel suo appartamento di Bergamo, che si trova nello stesso stabile in cui risiede il padre procuratore. La vicenda ha creato imbarazzo per il ruolo del padre del ragazzo coinvolto nella maxi inchiesta antidroga. Buonanno è infatti a capo della Procura che si occupa della Direzione distrettuale antimafia sotto cui ricadono anche gli uffici giudiziari di Bergamo. Prima di arrivare a Brescia, quando era ancora procuratore di Lecco, figurava tra gli indagati di un’inchiesta condotta dai colleghi bresciani su una comunità di recupero per tossicodipendenti, la ultracattolica Shalom di Palazzolo sull’Oglio. L’accusa per il magistrato era di sequestro di persona nei confronti del figlio Gianmarco, che sarebbe stato trattenuto per tre anni nella struttura contro la sua volontà: un fascicolo poi archiviato su richiesta del procuratore aggiunto S.ndro R.imondi il 9 maggio 2013, poche settimane prima della nomina di Buonanno a capo della procura bresciana. Nel giugno del 2016 il Csm aveva aperto un procedimento nei confronti del procuratore Buonanno, in seguito al trasferimento di 9 pm, inclusi i due magistrati che sostenevano l’accusa nel processo Shalom, i pm Francesco Piantoni e Leonardo Lesti. Su richiesta del consigliere Nicola Clivio, la Prima commissione ha avviato un’istruttoria per accertare se “una così significativa defezione sia dovuta al casuale convergere di scelte personali dei magistrati, ovvero se criticità strutturali e ambientali abbiano in qualche misura determinato o favorito il fenomeno”. Ora la misura cautelare sul figlio del procuratore, su richiesta di un ufficio del suo stesso distretto, potrebbe portare a una nuova segnalazione al Csm, questa volta da parte della Procura generale di Brescia.
Ultrà Atalanta: 20 arresti per spaccio, rapine e violenze negli stadi. Indagato anche il figlio del procuratore. Giri di cocaina dentro e fuori lo stadio, poi i raid incappucciati. Coinvolti anche un 73enne e 63enne. Obbligo di firma per il figlio del procuratore capo di Brescia Buonanno, risponde di detenzione e spaccio di droga, scrive Paolo Berizzi il 7 marzo 2017 su "La Repubblica". I "bomboni" e le torce sparate contro la polizia intervenuta per fermare un assalto a un pullman di tifosi interisti. Le cariche in pieno centro, in mezzo allo shopping del sabato pomeriggio, come non si erano mai viste prima a Bergamo. Gli scontri di quel 16 gennaio 2016 al termine di Atalanta-Inter erano rimasti impressi nella memoria di chi c'era: ma tutto il resto, o meglio il "contorno" - lo spaccio sistematico di cocaina prima e durante le partite, gli scontri scatenati sotto effetto delle sostanze, le rapine, i tentativi di estorsione e le spedizioni punitive per recuperare i crediti delle attività di spaccio - è un mondo che viene a galla adesso, almeno da un punto di vista investigativo. La Squadra Mobile di Bergamo e lo Sco della polizia di Stato ci hanno lavorato su per un anno e mezzo: il risultato, per ora, sono venti persone arrestate, quasi tutti ultrà atalantini. Tra gli indagati anche il figlio del procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. Francesco Buonanno ha avuto la misura cautelare dell'obbligo di firma disposta dal gip. Il figlio del magistrato dovrà presentarsi il sabato e la domenica in questura a Bergamo per firmare. In mattinata le forze dell'ordine hanno effettuato una perquisizione a casa del figlio del magistrato: è accusato di detenzione e spaccio di droga. Ma lo spaccio era "una attività sistematica per una parte degli ultras nei confronti dei supporter", ha spiegato il direttore dello Sco, Alessandro Giuliano. Tra i 42 indagati figura anche Claudio "Bocia" Galimberti, leader della curva atalantina lontano dagli stadi perché oggetto di nove Daspo. Dalle indagini emerge quello che, secondo gli investigatori, era diventato una sorta di modus operandi adottato dalle frange più estreme della Curva Nord: caricarsi di coca prima di incappucciarsi e entrare in azione all'esterno dello stadio per cercare lo scontro con le tifoserie avversarie. Gli scontri dopo Atalanta-Inter del 16 gennaio di un anno fa sono stati uno dei casi più eclatanti. Stando all'indagine denominata "Mai una gioia" (dal titolo di uno striscione esposto in curva dagli ultrà, anche una loro frase abituale), c'era dunque un giro di spaccio nell'ambiente della tifoseria organizzata nerazzurra. Alcuni dei soggetti fermati sarebbero stati anche protagonisti di rapine. La polizia ha stretto il cerchio intorno a un gruppo di italiani, a un cittadino albanese e un serbo, in prevalenza ultras dell'Atalanta, dediti alla cessione di ingenti quantitativi di droga, anche tra i tifosi della tifoseria stessa. Tra gli indagati figurano anche un 73enne e 63enne. Le misure cautelari firmate dal giudice delle indagini preliminari (i reati di cui si parla sono resistenza a pubblico ufficiale, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, rapina) riguardano dunque una ventina di persone: 11 finiranno in carcere, le altre 9 saranno sottoposte ad altri provvedimenti, tra arresti domiciliari e obblighi di firma. I particolari dell'inchiesta verranno spiegati nel dettaglio dal procuratore della Repubblica di Bergamo, Walter Mapelli, dal sostituto Gianluigi Dettori e dal questore Girolamo Fabiano, con i dirigenti dello Sco. Si torna dunque a parlare degli ultrà dell'Atalanta, e ancora una volta per casi di cronaca nera e giudiziaria. Uno spartiacque, in questa lunga storia di tifo e violenze, era stato il maxi processo a carico di 143 persone (tra cui anche alcuni ultrà del Catania) per una scia di episodi tra i quali l'assalto alla Berghem Fest di Alzano Lombardo ad agosto 2010: bombe carta lanciate durante la manifestazione della Lega Nord per protestare contro l'introduzione della tessera del tifoso voluta dall'allora ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Il maxi processo agli ultrà, procedimento inedito per Bergamo, si era chiuso in primo grado con condanne per 47 anni, 10 mesi, 10 gg di carcere e 30 mila euro di multe, nel complesso, a 50 supporter atalantini (37 quelli assolti). L'imputato numero 1 era proprio Claudio "Bocia" Galimberti. Per lui il pm Carmen Pugliese aveva chiesto una pena di sei anni: il giudice Maria Luisa Mazzola l'ha dimezzata (tre anni). La sentenza di appello, a novembre 2016, ha confermato nel complesso il verdetto di primo grado ma ha ridotto di un mese le pene ai tifosi che hanno partecipato all'assalto di Alzano Lombardo perché il reato di radunata sediziosa è stato considerato prescritto (anche la pena inflitta a Galimberti è stata scontata a 2 anni e 11 mesi). Gli ultrà e il loro capo, dunque. Quel "Bocia" che, nonostante i Daspo, secondo la Digos continua a essere il leader indiscusso della curva atalantina. Tra le misure applicate a Galimberti anche la sorveglianza speciale (riservata solitamente ai mafiosi): la sera del 5 settembre 2015, fresco di notifica di un nuovo Daspo quinquennale, mentre allo stadio Comunale l'Atalanta giocava per il trofeo Bortolotti, il Bocia si presentò in questura spalleggiato da un centinaio di ultrà. A quanto pare non fu solo un sit-in di protesta: stando alle accuse Galimberti - già protagonista in passato di un'aggressione ai danni del giornalista de l'Eco di Bergamo, Stefano Serpellini - entrò in questura arrabbiatissimo, minacciando e insultando il dirigente della Digos, Giovanni Di Biase. Comportamento che gli costò una denuncia per minacce aggravate e oltraggio a pubblico ufficiale.
Dottor Borrelli, come risponde al giudice Salvini? Chiede Piero Sansonetti il 24 giugno 2017 su "Il Dubbio". Ieri abbiamo pubblicato su questo giornale un’intervista al magistrato Guido Salvini, il quale ci ha svelato una storia veramente inquietante. Ci ha raccontato di come fu ostacolato in tutti i modi dalla Procura di Milano, quando stava lavorando alacremente all’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. All’epoca guidata da Francesco Saverio Borrelli, il magistrato celeberrimo per avere governato il pool di “mani pulite”, quello di Di Pietro e Davigo, che nei primi anni novanta rase al suolo la Prima Repubblica, la democrazia cristiana e il partito socialista. Dottor Borrelli, cosa ci dice di quelle inchieste sulle stragi? Salvini ricostruisce una delle vicende più oscure della storia italiana del dopoguerra: la stagione delle stragi. Che precedette, e certamente in qualche modo influenzò, la lotta armata e gli anni di piombo. Precisamente parliamo della prima fase delle stragi, e cioè del quinquennio che va dal 1969 al 1974 (poi ci fu una seconda fase, sanguinosissima, negli anni 80). La ricostruzione di Salvini avviene non sulla base di uno studio storico, o di una sua opinione di intellettuale, ma sulla base delle indagini che lui stesso ha svolto, con un certo successo, negli anni ottanta e novanta. Queste indagini riguardarono, in momenti diversi, due degli episodi chiave dello stragismo, e cioè il devastante attentato alla Banca dell’Agricoltura di di piazza Fontana, che avvenne e Milano nel dicembre del 1969 e che diede il via alla strategia della tensione, e poi la strage di Brescia, fine maggio 1974. Per la strage di Brescia si è arrivati martedì scorso alla conclusione giudiziaria con la condanna all’ergastolo, 43 anni dopo, di due degli autori. Per la strage di piazza Fontana, che cambiò faccia alla lotta politica in Italia – dando la parola alla violenza e alle armi e provocando la morte di quasi 2000 persone, tra le quali molti leder politici, compreso Aldo Moro, e molti poliziotti, magistrati, giornalisti – nessuno è in prigione, anche se, soprattutto grazie alle indagini di Salvini, si è ormai scoperto quasi tutto. Gli autori e i mandati della strage di piazza Fontana e quelli della strage di Brescia erano gli stessi: militanti neonazisti collegati a settori dei servizi segreti. E l’obiettivo – sostiene Salvini – era quello di destabilizzare il paese e rendere possibile una svolta reazionaria, o addirittura un colpo di stato simile a quello avvenuto nel 1967 in Grecia. Questa strategia si interruppe intorno al 1974 con la fine del regime dei colonnelli greci e poi con la caduta degli ultimi due governi totalitari di destra in Europa, e cioè quello della Spagna e quello del Portogallo.
Cosa denuncia Salvini? Racconta di come quando toccò a lui prendere in mano una indagine (quella su piazza Fontana) nata male e proseguita peggio, tra omissioni, incompetenze e depistaggi, le cose iniziarono a cambiare e pezzo a pezzo apparve un mosaico che lasciava capire le responsabilità e le complicità nell’attentato del ‘ 69. Si trattava di lavorare su indizi e anche su prove precise, che Salvini aveva individuato. Ed era possibile e vicina la conclusione dell’inchiesta. A quel punto però in Procura nacque una forte opposizione a Salvini. Per quale ragione? Questo, Salvini non lo spiega, ma noi ci permettiamo di avanzare qualche ipotesi. E’ assai probabile che l’opposizione fosse dovuta essenzialmente alle invidie e alle lotte del potere dentro la magistratura. E lui fu ostacolato, e persino messo sotto inchiesta e accusato davanti al Csm. Per sette anni di seguito dovette pensare a difendersi, mentre la sua inchiesta andava alla malora, le prove si perdevano per strada, i testimoni venivano messi fuori causa. Probabilmente alla Procura di Milano interessava poco assai della strage, che ormai era vecchia di 20 anni e aveva scarse possibilità di influire sulla lotta politica e sui rapporti di forza. Mentre l’inchiesta su Tangentopoli era molto più attuale, e aveva riflessi enormi sulla battaglia politica, sui rapporti tra i partiti, sull’orientamento dell’opinione pubblica. E anche sui nuovi assetti di potere dentro la magistratura. Alla fine Salvini vinse la battaglia, e il Csm riconobbe la sua assoluta innocenza. Però ebbe la carriera stroncata, e cioè l’obiettivo che si poneva qualcuno in Procura fu raggiunto. Noi possiamo anche stabilire che della carriera del dottor Salvini, e delle ingiustizie che ha subito, non ce ne frega assolutamente niente. Benissimo. Però è difficile dire che non ci frega niente neppure della verità su quegli anni, che hanno modificato la storia dell’Italia. E dunque, a parte le scuse a Salvini, dal dottor Borrelli ci aspettiamo qualche spiegazione.
Guido Salvini: «La mia guerra solitaria per sconfiggere gli stragisti», scrive Rocco Vazzana il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio". «Un periodo storico è ormai ricostruito: Ordine Nuovo spargendo il terrore doveva fungere da detonatore affinché il mondo militare attuasse una svolta autoritaria simile a quella greca». «Un periodo storico è ormai ricostruito: Ordine Nuovo spargendo il terrore doveva fungere da detonatore affinché il mondo militare attuasse una svolta autoritaria simile a quella che vi era stata in Grecia con il golpe dei colonnelli». Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano sulla strage di Piazza Fontana, commenta così la sentenza definitiva della Cassazione su Piazza della Loggia.
Ci son voluti 43 anni per arrivare a una verità processuale. È una vittoria o una sconfitta dello Stato?
«Contrariamente a ciò che pensano molti, per me è una vittoria dello Stato di oggi. È stato possibile ottenere la verità perché solo a partire dagli anni 90, con la caduta del Muro di Berlino e l’apertura degli archivi dei servizi d’informazione, sono arrivate le prime testimonianze dagli ambienti della destra eversiva che hanno fatto luce sulle stragi. Inevitabilmente nei processi di questo tipo i tempi sono molto lunghi, si tratta comunque di un risultato che illumina un’altra pagina del quinquennio più tragico della strategia della tensione: quello che va dal 1969 al 1974».
Possiamo dire che tutti i responsabili della bomba a Brescia siano stati individuati?
«Non tutti i responsabili delle stragi di Piazza della Loggia e Piazza Fontana sono stati individuati. Possiamo però dire che con le sentenze di Brescia e Milano, la paternità dell’ideazione e dell’esecuzione di queste stragi è certa. Le stesse sentenze di assoluzione per Piazza Fontana affermano che la strage fu commessa dalle cellule venete di Ordine Nuovo ed è riconosciuta in via definitiva la responsabilità di Carlo Digilio (neofascista reo confesso, ndr), come confezionatore dell’ordigno, che beneficiò della prescrizione grazie alla sua collaborazione. E la sentenza di Brescia irroga condanne all’ergastolo indirizzate ad appartenenti alle stesse cellule venete di Ordine Nuovo».
Due stragi e un’unica firma dunque…
«Sì, e probabilmente un identico esplosivo: il Vitezit di fabbricazione jugoslava. Due stragi che rappresentano l’inizio e la fine di un progetto eversivo. Nel mezzo, tante altri attentati e altre stragi, come quella del luglio 1970: un treno deragliò vicino alla stazione di Gioia Tauro per una bomba sui binari. Ci furono 6 vittime e a piazzare l’ordigno, secondo la sentenza, furono esponenti di Avanguardia Nazionale di Reggio Calabria, l’organizzazione gemella di Ordine Nuovo che operava nel Sud».
Cosa succede nel 74? Perché quel progetto eversivo viene accantonato?
«Perché ormai la situazione era mutata: cadono i regimi fascisti in Grecia, Portogallo e Spagna. Inizia una distensione internazionale, finisce anche l’epoca di Nixon e quel progetto diventa antistorico».
Chi sono Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, i due uomini condannati per la strage di Brescia?
«Due militanti che si pongono ai due estremi della catena di comanda degli ordinovisti veneti. Carlo Maria Maggi era il responsabile dell’organizzazione per tutto il Veneto, non solo un ideologo, ma il capo che pianificava le campagne operative. Era in diretto contatto con il centro di Roma e con il mondo militare. Maggi era quindi lo stratega del gruppo. Maurizio Tramonte, invece, è un personaggio di modesta levatura che a un certo punto raccontò al Sid di Padova di aver partecipato alle riunioni preparatorie della strage di Brescia e di aver fornito appoggio logistico all’operazione. Lo racconta come fonte “Tritone”, cioè come informatore. Era dunque un elemento di collegamento, che dimostra come una parte dei Servizi segreti e il mondo dei neofascisti fossero allora in stretta connessione».
Dunque la condanna di “Tritone” rappresenta un’implicita condanna a una parte dello Stato?
«È certo molto indicativa delle collusioni dello Stato in quell’epoca. E non dimentichiamo che nel processo di Catanzaro su Piazza Fontana furono condannati i vertici del SID per aver fatto fuggire in Spagna imputati o testimoni decisivi come Guido Giannettini, un agente di alto livello dello stesso Sid legato a Freda e Marco Pozzan, che di Freda era il braccio destro».
Cosa ha rappresentato Ordine Nuovo per la storia del nostro Paese?
«Era un’organizzazione di stampo decisamente neonazista, con un buon livello ideologico e organizzato a due livelli, con circoli pubblici e cellule segrete molto esperte nell’uso dell’esplosivo e delle armi. Si trattava di un’organizzazione che, per il suo anticomunismo, era considerata da una parte dello Stato come “cobelligerante” per impedire uno scivolamento a sinistra del quadro politico italiano. Moltissimi uomini di Ordine Nuovo erano del resto legati al mondo militare o al Sid».
Cosa dice la sentenza della Cassazione di pochi giorni fa sulla stagione della tensione?
«Insieme a tutte le altre ci dice che tutti gli attentati di quell’epoca, circa un centinaio, furono materialmente commessi da Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale con un benevolo “controllo senza repressione” da parte dei Servizi di sicurezza italiani e probabilmente americani nell’ottica di un mantenimento dell’Italia in quadro decisamente conservatore».
Lei ha detto che l’esito del processo «premia l’impegno della Procura di Brescia», mentre su Piazza Fontana «la Procura di Milano non ha fatto altrettanto ed ha usato la maggior parte delle sue energie soprattutto per attaccare il giudice istruttore». A cosa si riferiva?
«Per parecchi anni la Procura di Milano non si è mai occupata della destra eversiva, nonostante le mie sollecitazioni. Quando decise di intervenire, Saverio Borrelli incaricò di affiancarmi una sostituta appena arrivata in Procura e completamente digiuna di indagini sul terrorismo. Perdipiù una collega che invece di collaborare dichiarò guerra a me, allora giudice istruttore, con l’idea che l’indagine fosse interamente assorbita dalla Procura».
Non si fidavano di lei?
«Credo che si trattasse di un senso di fastidio perché un altro ufficio, l’Ufficio Istruzione, aveva raggiunto risultati impensabili mentre la Procura aveva sottovalutato il caso. Quando si fecero vivi i sostituti della Procura entrarono, per inesperienza, in collisione con tutti i testimoni, non mossero un passo avanti e invece di collaborare con me pensarono bene di far aprire dal Csm un procedimento di incompatibilità ambientale nei miei confronti cioè di farmi cacciare da Milano. L’obiettivo era impadronirsi di un’indagine sulla quale comunque da soli non erano in grado di ottenere alcun risultato. Ad esempio quando la Procura andò a Catanzaro per fotocopiare gli atti del vecchio processo su Piazza Fontana acquisì l’agenda del 1969 di Giovanni Ventura. Non si accorsero nemmeno che lì dentro c’era il nome di Carlo Digilio e i riferimenti ad un casolare vicino a Treviso dove Ventura, Zorzi e tutti gli altri veneti avevano la base logistica con le armi e gli esplosivi. Digilio aveva raccontato di questo casolare e le assoluzioni in dibattimento vi furono anche perché quella base non era stata trovata. La conferma stava in quelle agende, ma la Procura non si accorse nemmeno di avere in mano la prova regina. Qualche anno dopo la Procura di Brescia studiò la stessa agenda e trovò subito il casolare che stava ancora lì. Ma ormai era tardi».
Perché la ritenevano incompatibile con la sede di Milano?
«II Csm, che all’epoca accoglieva qualsiasi cosa dicesse la Procura di Milano, aprì nei miei confronti il procedimento per “incompatibilità”, una procedura barbara che spesso significa solamente che sei diventato sgradito a qualche magistrato più potente di te. Mio padre è stato magistrato a Milano per 40 anni. Io, all’epoca lo ero da 20, avevo fatto importanti indagini in tutti i settori, lì c’era tutta la mia vita. Sette anni di procedimento con la minaccia di trasferimento possono schiantare una persona. E in più, non riuscivano a capirlo, hanno paralizzato l’ultima parte dell’indagine su Piazza Fontana, la fase decisiva. Io dovevo difendermi tutti i giorni dai loro attacchi e contemporaneamente correre a fare gli interrogatori con Digilio. Furono sette anni di inferno anche se alla fine vinsi il procedimento al Csm. Francesco Saverio Borrelli, che di mio padre era stato collega per tanti anni in Assise, dovrebbe ricordare che ha giocato con la mia vita e con quella della mia famiglia. Aspetto ancora le sue scuse».
«Giustizia milanese affidata a società dei paradisi fiscali», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 giugno 2017 su "Il Dubbio". Lo storico cronista di giudiziaria Frank Cimini ha rivelato per primo il caso che scuote Palazzo di Giustizia: le gestione dei fondi Expo da parte dei magistrati. Ora pronostica: “La verità verrà fuori grazie allo scontro fra le correnti”. Intanto l’Ordine dei Milano sceglie la procedura più trasparente per la gara sui servizi di supporto, finanziati dall’avvocatura. “Solo le correnti della magistratura sono in grado di fare chiarezza sul modo in cui sono stati spesi al Palazzo di giustizia di Milano i fondi governativi assegnati in occasione di Expo2015”. Non usa mezzi termini Frank Cimini, lo storico cronista di giudiziaria del Mattino che per primo, già nel 2014, raccontò sul sito giustiziami.it le “anomalie” nelle procedure di spesa dei 16 milioni di euro stanziati per informatizzare il Tribunale del capoluogo lombardo. Affidamenti senza gara ai quali fa da contrappunto la procedura con “gara europea” adottata dall’Ordine forense di Milano per scegliere il servizio di supporto agli uffici. Sulle spese di competenza delle toghe, finite nel mirino dell’Anac, l’altro giorno il gruppo di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice dei giudici, ha chiesto formalmente al Csm di fare chiarezza “per salvaguardare il prestigio e la credibilità dell’Ordine giudiziario”. “L’Anac di Cantone – dice Cimini arriva con anni di ritardo. Molti affidamenti, fin da subito, presentavano aspetti poco chiari”. Ad esempio quelli alla Ediservice del gruppo Edicom, società che si occupa fra l’altro della pubblicità accessoria dei procedimenti esecutivi o fallimentari che i giudici della seconda e della terza sezione civile impongono ai loro delegati. Questa società fornisce anche il personale per le cancellerie. “Oltre ad aver vinto la gara – dice Cimini – con un ribasso da brivido del 72%, è normale che una società che lavora per il Tribunale abbia la sede nel Delaware, un paradiso fiscale, e nessuno ad oggi sia in grado di dire di chi sia la proprietà?”. I servizi offerti dalla Ediservice hanno fatto storcere la bocca a diversi magistrati. “Inutili e dispendiosi” disse in una riunione il giudice della terza civile Marcello Piscopo. Su queste vicende, prima dell’intervento dell’Anac che ha trasmesso il dossier alla Procura ed alla Corte dei Conti, un procedimento penale a Milano era stato comunque aperto. Nel 2016 il pm Paolo Filippini, dopo aver scritto che “lo sviluppo dell’indagine deve passare necessariamente dalle condotte dei magistrati milanesi fruitori di questi servizi resi dalla ditta Edicom”, trasmise gli atti ai om bresciani. I quali, dopo 8 mesi, restituirono gli atti ai colleghi di Milano in quanto “il mero sospetto” non era sufficiente per determinare la loro competenza che scatterebbe solamente se si iscrivesse un magistrato nel registro degli indagati. “Ripeto, questa vicenda potrà essere risolta solo con l’intervento delle correnti delle toghe e Mi ha in questo momento la forza per farlo”, aggiunge Cimini. Il riferimento è al fatto che Magistratura indipendente ha avuto solo di recente un exploit a Milano: 51 voti nel 2008, 181 alle elezioni dello scorso maggio per l’Anm. Milano è poi il feudo del togato di Mi Claudio Galoppi, alle ultime elezioni per il Csm il magistrato più votato in Italia. Da quanto emerso fino ad oggi, furono soprattutto le toghe di Unicost e Area ad essere coinvolte nelle procedure di affidamento dei fondi Expo. Da qui, forse, il desiderio di Mi di regolare qualche conto. Ed a proposito di risorse economiche destinate al funzionamento della giustizia milanese, si segnala dunque la decisione dell’Ordine degli avvocati di Milano di fornire anche per i prossimi 2 anni il personale di supporto agli uffici. Un servizio affidato con gara europea, per maggiore trasparenza e nel rispetto della più recente normativa in tema di concorrenza e appalti. “Continuiamo ad offrire il nostro contributo al funzionamento del sistema giustizia milanese, sia pure nel quadro di un graduale ridimensionamento da tempo annunciato e concordato con i capi degli uffici”, ha dichiarato il presidente dell’Ordine Remo Danovi.
Appalti con i fondi di Expo collaudati dai magistrati contro la legge. Le procedure di affidamento da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari. La segnalazione della Guardia di Finanza: «Violato il codice su chi deve verificare le commesse», scrive Luigi Ferrarella l'11 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, al pg della Cassazione e alla Corte dei Conti, c’è un problema non solo sul «prima», cioè sulle violazioni-deroghe-frazionamenti-conflitti di interesse che nel 2010-2015 avrebbero viziato le procedure di cui si è qui riferito ieri, ma anche sul «dopo», e cioè sul momento dei collaudi. I finanzieri del generale Gaetano Scazzeri hanno infatti segnalato a Cantone come la verifica della conformità o del funzionamento delle commesse appaltate risulti essere stata svolta in 13 occasioni da commissioni di collaudo delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge, posto che il Codice degli appalti, in tema di collaudi, alla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del drp 207/210 stabilisce: «Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati ai magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori dello Stato, in attività di servizio». Tra funzionari comunali e dirigenti ministeriali e consulenti, i ruoli non appaiono sempre chiari all’Anac. È il caso della già trattata presenza informale e tuttavia operativa nei tavoli tecnici di Giovanni Xilo quale apparente consulente del Tribunale (ma forse pure della Camera di Commercio, e comunque anche, rileva ora l’Anac, socio unico di un’azienda in rapporti diretti e indiretti con una delle società assegnatarie degli appalti). Ed è il caso anche di un aspetto collaterale alla fornitura da 2,8 milioni che nel giugno 2015 venne fatta convogliare su Maticmind spa e Underline spa argomentando come giustificazione l’«opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze. Qui la principale doglianza dell’Anac resta che non vi fosse invece alcun nesso tra l’appalto per l’hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici; ma, oltre a ciò, all’Anac non appare comprensibile né che il direttore del settore Gare Beni Servizi del Comune di Milano, Nunzio Paolo Dragonetti, sembri aver compiuto atti in qualità di Responsabile unico del procedimento (Rup), incarico invece ufficialmente del direttore comunale della Gestione Uffici giudiziari, architetto Carmelo Maugeri; né che nella commissione di collaudo degli hardware figuri poi il dirigente del Cisia di Milano (terminale locale dell’informatica del ministero), Gianfranco Ricci, che come referente per la stazione appaltante aveva già partecipato proprio al progetto di potenziamento dei centri dati gestiti dal Cisia. Un ulteriore capitolo di anomalie investe le forniture informatiche sottoposte all’adesione al Mepa-Consip, cioè al Mercato elettronico della Pubblica amministrazione. Qui, quando arrivano le offerte delle varie società, la stazione appaltante deve per legge rispettare il termine minimo di 10 giorni per la ricezione: invece in 5 gare, del valore totale di 600.000 euro nel 2010 e 2012 e 2014 e 2015, il Comune di Milano non ha rispettato questo termine, aggiudicando le forniture già dopo 5, 7 o 8 giorni a Telecom Italia, Itm Informatica Telematica Meridionale srl, Dottcom srl. In altre due gare sul circuito MePa-Consip, inoltre, l’Anac critica l’artificioso frazionamento della spesa con il quale una commessa unitaria sarebbe stata divisa in due procedure da 47.890 euro (i progetti «Udienza facile» e «Orientamento interattivo») aggiudicate entrambe alla Eway Enterprise Business Solutions.
Appalti informatici al tribunale di Milano. E’ giallo nel giallo. Non solo commesse assegnate a sigle e imprese in odore mafioso, ma addirittura, per svariati lotti, poi collaudate da magistrati. E contro la legge. Ai confini della realtà. Invece, ben dentro il pianeta giustizia di Casa nostra, scrive il 12 giugno 2017 Paolo Spiga su “La Voce delle Voci”. Scrive il Corriere della Sera del 12 giugno: “magistrati collaudatori d’appalti nonostante il divieto di legge. In 18 delle 72 procedure d’appalti da 8 milioni per l’informatica degli uffici giudiziari di Milano con i fondi Expo 2015, al centro dell’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone alla Procura, c’è un problema non solo sul prima ma anche sul dopo e cioè sul momento dei collaudi”. Commissioni di collaudo “delle quali facevano parte anche 9 magistrati, alcuni provenienti anche da fuori Milano. Il che è vietato dalla legge che stabilisce: ‘Incarichi di verifica della conformità non possono essere affidati a magistrati ordinari, amministrativi o contabili, e agli avvocati e procuratori di Stato, in attività di servizio’”. Se succede addirittura al Tribunale di Milano, per appalti giudiziari, e con la presenza di magistrati nelle stesse commissioni di collaudo, figurarsi cosa può succedere in altre parti d’Italia. Sorge spontanea la domanda: ma quella normativa così pomposamente recitata dalla lettera A del comma 3 dell’articolo 314 del DPR numero 207/210 cosa ci sta a fare? Al solito, facciamo le norme inondate da codici e codicilli che non vengono rispettate da nessuno, tantomeno dagli stessi magistrati? Uno dei casi più eclatanti di giudici-collaudatori fu, negli anni ’80, quello delle toghe incaricate di verificare i lavori del dopo terremoto in Campania, sisma che si è trasformato in una grande occasione per il decollo della camorra spa, di faccendieri e imprese di partito, ma anche un ottimo ingranaggio per tanti professionisti, in pole position i magistrati. Resta storico un documento presentato da alcuni magistrati contro altri magistrati nel 1989 davanti al Csm nel quale veniva puntato l’indice contro le toghe collaudatrici, un folto numero in Campania, chiamate a suon di milioni di lire, all’epoca, per verificare la congruità – non si sa con quale perizia tecnica – di opere pubbliche costate una barca di soldi. Opere sulle quali avrebbero caso mai indagato in un momento successivo, come è successo con l’inchiesta sul dopo terremoto, dieci anni di carte e processi buttati al vento, e a loro volta costati altre palate di milioni allo Stato. Un processo – quello del post sisma ’80 – ovviamente morto di prescrizione, tanto per cambiare…
Cantone: con i fondi Expo 18 appalti illeciti del Tribunale di Milano. L’Anac su Comune, magistrati e ministero: 8 milioni tra gare aggirate e conflitti d’interesse, scrive Luigi Ferrarella il 10 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Almeno 18 delle 72 procedure d’appalti per l’informatica del Tribunale di Milano, per oltre 8 dei 16 milioni di euro di fondi Expo 2015 stanziati da un decreto legge nel 2008, per l’Anac sono stati viziati fra il 2010 e il 2015 da violazioni del codice degli appalti, da illeciti affidamenti diretti senza bando con la scusa dell’unicità del fornitore per straordinarie ragioni tecniche, da artificiosi frazionamenti pianificati o da accorpamenti privi di senso, da immotivate convenzioni con enti esterni come la Camera di Commercio, e da potenziali conflitti di interesse nei tavoli tecnici. È una radiografia-choc l’esposto che l’«Autorità nazionale anti corruzione» di Raffaele Cantone ha inviato — sulla scorta di un rapporto del Nucleo della GdF del generale Gaetano Scazzeri — non solo alla Corte dei Conti (per i danni all’erario), ma anche alla Procura Generale della Cassazione (per eventuali profili disciplinari a carico di magistrati), e alla Procura della Repubblica di Milano per gli impliciti rilievi penali di turbative d’asta. Benché solo cartolare, la ricostruzione Anac è impietosa sul quinquennio dei tecnici del Comune stazione appaltante (era Moratti e Pisapia); dei vertici del Tribunale (con la presidenza di Livia Pomodoro e l’Ufficio Innovazione dell’attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli); dei dirigenti Dgsia/Cisia (braccio informatico del ministero della Giustizia di Alfano-Severino-Cancellieri-Orlando); della Camera di Commercio di Carlo Sangalli; di singole toghe e consulenti. La conclusione dell’Anac, nutrita anche dalle mail pre-contratti, è infatti che i membri del «Gruppo di lavoro per l’infrastrutturazione informatica degli uffici giudiziari di Milano» in molti casi avessero già deciso di non fare gare pubbliche e di affidare invece in via diretta, nel preteso nome di una più spedita efficienza, gran parte delle commesse a società già “mirate” come Net Service e Elsag Datamat; e che il Comune-stazione appaltante, oltre a individuarle preliminarmente, incaricasse poi il ministeriale Dgsia/Cisia di trovare di volta in volta cosmetiche giustificazioni tecniche. Nel 2015, ad esempio, «urgenti migliorie» a un pezzo del processo civile telematico sono suddivise in due contratti da 256.000 e 835.000 euro assegnati, su richiesta della ministeriale Dgsia, alla Net Service nel presupposto riguardassero «lo stesso codice sorgente (il cuore del software, ndr) mantenuto dalla società», e si trattasse quindi di un affidamento diretto per eccezionalità tecnica del fornitore (II comma art. 57). Ma in realtà, proprio in base ai precedenti contratti con la società, il suo codice sorgente era già diventato proprietà del Ministero, dunque libero di rivolgersi ad altri fornitori meno onerosi, e di così sottrarsi all’altrimenti monopolio di fatto. Analogo meccanismo, prospettato dal comunale responsabile unico del procedimento, arch. Carmelo Maugeri, nel 2013 porta ad esempio 323.000 euro alla Guerrato spa per la centrale elettrica di una sala server.
Altro esempio nel giugno 2015, quando la ragione per convogliare su Maticmind spa e Underline spa una fornitura da 2,8 milioni viene addotta nella «opportunità di individuare un unico interlocutore» e un unico lotto per due accorpate esigenze: peccato, nota l’Anac, che non vi fosse alcun nesso tra l’appalto per hardware e l’appalto per la segnaletica degli uffici giudiziari. Singolare, poi, la convenzione del maggio 2013 che, per potenziare il sito Internet e la rete Intranet del Tribunale, il Comune stipula con la Camera di Commercio in quanto «gli Uffici giudiziari hanno comunicato che da tempo è in essere un rapporto consolidato con la Camera di Commercio in ordine all’esecuzione di attività varia», e quindi «risulta opportuno» andare avanti così. Un prolungamento che vale in due rate 250.000 euro. Sui quali ora l’Anac esprime «forti perplessità», vista anche la facile reperibilità sul mercato di quelle competenze. Per tacere dell’infelice precedente dell’autunno 2012, quando il presidente della Digicamere scarl (controllata da Camera di Commercio) non aveva segnalato di aver patteggiato il reato di omesso versamento dell’Iva.
Pur senza un ruolo formale, al tavolo tecnico partecipava come consulente del Tribunale un esperto di organizzazione (già per Camera di Commercio e Ordine Avvocati), Giovanni Xilo, che però l’Anac ora lamenta fosse anche altro. Nel 2012 e 2014 la sua società C.O. Gruppo srl aveva avuto rapporti economici (in qualità di fornitore) con la Net Service, una delle aziende assegnatarie degli appalti del Tribunale; Net Service nel 2012-2013-2014 aveva retribuito incarichi a tre persone; e nel giugno 2014 queste tre avevano comprato da Xilo l’82% della sua società C.O. Gruppo srl, continuando a lavorare per Net Service. Collegamenti diretti o indiretti tra Xilo e Net Service — li riassume ora l’Anac — tali da aver potuto «influenzare», anche solo potenzialmente, il ripetuto ricorso del Comune alla norma sul fornitore unico a favore di Net Service.
L’accusa del funzionario del Comune: «Gli appalti irregolari dell’Expo li gestivano i magistrati», scrive il 16 giugno 2017 "Il Dubbio". La vicenda era stata tirata fuori qualche giorno fa dall’Anac di Raffale Cantone che aveva rilevato 18 irregolarità su 72 procedure di appalto relative all’informatizzazione del Tribunale milanese. I bandi dei fondi Expo destinati all’informatizzazione del tribunale venivano gestiti dai magistrati. Lo dice al Dubbio Carmelo Maugeri, un architetto che seguiva la gestione degli uffici giudiziari per conto del comune. Ma andiamo con ordine. Non più tardi di due settimane fa, l’Anac di Raffale Cantone ha rilevato 18 irregolarità su 72 procedure di appalto relative all’informatizzazione del Tribunale milanese per un valore di 8 milioni di euro (su 16) di fondi governativi stanziati per Expo2015. Il dossier è stato trasmesso la scorsa settimana alla Corte dei Conti (per eventuali danni erariali), alla Procura di Milano (perché valuti eventuali aspetti di carattere penale) e alla Procura Generale presso la Cassazione (per la valutazione, sotto il profilo disciplinare, delle condotte dei magistrati che si sono occupati di queste procedure). Fra le toghe prese di mira da Cantone, in particolare, l’ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, ora in pensione, e l’ex presidente dell’Ufficio Gip Claudio Castelli, attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia. La contestazione principale è quella di aver speso senza gara ma con affidamenti diretti la maggior parte dei fondi a disposizione. “L’escamotage” usato è stato l’articolo 57 comma due del vecchio codice sugli appalti, quello che consente di fare affidamenti diretti allo stesso fornitore già in precedenza individuato dall’amministrazione. Il sito giustiziami. it, gestito dal celebre cronista giudiziario Frank Cimini e dalla collega Manuela D’Alessandro, già due anni fa, prima di essere ripreso da tutti i quotidiani, aveva segnalato che qualcosa nelle procedure d’informatizzazione del Tribunale di Milano non andava nel verso giusto. Roberto Bichi, attuale presidente del Tribunale di Milano e all’epoca dei fatti vicario di Livia Pomodoro, mercoledì ha convocato una riunione con i suoi 25 presidenti di sezione per fare il punto della situazione. Alcuni partecipanti hanno descritto un clima teso dove l’imbarazzo era palpabile. Al termine un comunicato che “scarica” tutte le responsabilità sul comune di Milano: «Non risulta che il Tribunale abbia mai assunto il ruolo di stazione appaltante». «Se ci sono state irregolarità – prosegue Bichi – auspico che emergano al più presto per dirimere dubbi, evitare illazioni, e non ledere l’immagine del Tribunale». All’epoca direttore del Settore Uffici Giudiziari per il comune era l’architetto Carmelo Maugeri. Fino allo scorso anno, prima della riforma voluta dal Ministro Andrea Orlando che ha affidato questo compito al dicastero di via Arenula, i comuni avevano in carico la gestione degli uffici giudiziari. Maugeri, tirato indirettamente in causa, non ci sta e ribatte. «Si sta facendo grande confusione in questa vicenda, cercando di scaricare le responsabilità», dice al Dubbio. In particolare «è vero che il comune di Milano in questa vicenda ha svolto il ruolo di stazione appaltante, ma è anche vero che erano i magistrati milanesi e i dirigenti della Dgsia (Direzione Generale per i Sistemi Informativi del Ministero della Giustizia) coloro che decidevano in che modo dovessero essere spesi i fondi Expo 2015. L’autonomia degli uffici del comune di Milano era molto limitata. Parole pesanti alla quali Maugeri aggiunge: «Ci sono le mail fra gli uffici del comune e i magistrati che provano ciò. Io non sapevo – prosegue Maugeri nemmeno cosa fosse, per fare un esempio, il processo civile telematico: il comune di Milano ha sempre fatto quello che dicevano i magistrati. Anzi, quando si decise di non procedere più con gli affidamenti diretti ma con una gara europea per l’automatizzazione dell’Unep (Uffici Notificazioni Esecuzioni e Protesti), un progetto che doveva rendere elettroniche le notifiche dei provvedimenti giudiziari, ci fu un “irrigidimento” da parte di alcuni magistrati», aggiunge Maugeri. «Alle riunione operative – sottolinea l’architetto – partecipavano tutti i vertici degli uffici giudiziari milanesi dell’epoca, nessuno escluso. Io, comunque, ritengo di aver fatto tutto correttamente, anche per quanto attiene i vari affidamenti diretti», precisa Maugeri sottolineando come «nei mesi scorsi la Guardia di Finanza ha sequestrato tutti gli incartamenti relativi ai fondi Expo. Compresi i vari verbali delle riunioni operative». Su come andrà a finire questa vicenda Frank Cimini è tranchant: «Ci sono di mezzo magistrati, la verità non la sapremo mai».
La mensa delle beffe, scrive Sabato 20 maggio 2017 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". A Milano il presidente del Codacons, paladino dei consumatori, non paga da anni la mensa scolastica delle figlie perché - dice - il cibo non è un granché. Riesco a malapena a immaginare le sofferenze quotidiane di questo esteta. Al bar paga il caffè soltanto quando è buono, altrimenti niente. In edicola compra tre giornali ma ne paga uno, perché gli altri due hanno dei titoli che non lo convincono. Stesso discorso per i parcheggi: paga quelli all’ombra. I posti al sole francamente no. Quanto agli autobus, dipende. Se lo costringono a restare in piedi, il presidente viaggia senza obliterare. Se invece riesce a sedersi, allora timbra il biglietto con magnanimità. A meno che l’autista prenda una buca: in quel caso ritiene suo dovere di cittadino indignato astenersi. Non si creda che il dottor Marco Maria Donzelli sia mosso da bieco menefreghismo. Al contrario. È il ruolo istituzionale che lo obbliga a prendersi cura dei diritti dei consumatori, cominciando dai suoi per mere ragioni di prossimità. Nell’illuminante intervista rilasciata a Rossella Verga del Corriere ha spiegato che il cibo della mensa «non è in linea con l’alimentazione che intendiamo seguire». Quale sia questa linea non è dato sapere. Ma è quanto basta perché si senta autorizzato a non pagare. Vorrei denunciare al Codacons le migliaia di cittadini milanesi fuori linea che si ostinano a finanziare la mensa dei figli per consentire a quelli del presidente di mangiare a sbafo e a lui di recitare la parte della vittima.
Il presidente del Codacons non paga la mensa del figlio: «Cibo indigesto». Donzelli tra i morosi storici del Comune: «Non pago dal 2008, ma io mi sento danneggiato. Noi vorremmo portare il cibo da casa. Invece ci viene impedito», scrive Rossella Verga il 19 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Tra gli insolventi storici della Milano Ristorazione c’è anche lui: l’avvocato Marco Maria Donzelli, presidente nazionale del Codacons, in prima fila nelle proteste dei consumatori e nella regia della class action contro la Spa del Comune partita nel 2010 e sulla quale non si è ancora scritta la fine. Da anni non paga la mensa delle tre figlie, ma non si sente in difetto. Anzi. «Ci sentiamo danneggiati, non morosi», dice.
Avvocato Donzelli, nell’elenco dei morosi c’è anche lei, il paladino dei consumatori. Non è un po’ bizzarro?
«Ho una causa personale aperta con il Comune, che è partita parallelamente alla class action intrapresa come Codacons. Come famiglia abbiamo deciso di non pagare più la mensa perché gli inadempimenti di Milano Ristorazione e del Comune erano troppo gravi».
Da quanto tempo non versa la quota a MiRi?
«Da quando è cominciato l’iter giudiziario, attorno al 2008. Un percorso lunghissimo tuttora in fase istruttoria. Ma solo l’ultima delle mie figlie è ancora alle elementari e per lei, che ha 10 anni, non stiamo pagando i bollettini. Le altre, che hanno 15 e 18 anni, sono uscite. Mi pare che per la loro refezione non ci siano pendenze debitorie».
Sua figlia ogni giorno usufruisce della mensa: le sembra giusto non pagarla?
«Siamo obbligati a usufruire di questa mensa. Noi avremmo voluto portare il cibo da casa, ma ci è stato impedito. Non potevamo fare altrimenti. Io e mia moglie lavoriamo, per noi è impossibile andare a prendere la bambina all’ora di pranzo».
Di fatto la scuola garantisce il pasto, sempre.
«Ripeto: non abbiamo potuto fare diversamente che mandare nostra figlia a scuola sottoponendola a Milano Ristorazione. Lei mangia pochissimo: solo pane e arance. Il cibo della mensa o non è buono o comunque non è in linea con l’alimentazione che intendiamo seguire noi».
Sa che a Milano ci sono 28 mila insolventi per le mense scolastiche. Un bel peso sulle spalle della collettività.
«Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che non tutti hanno problemi legati alla crisi economica. Per molti evidentemente non pagare è una scelta, perché non è stata data la libertà di alimentare diversamente i propri figli. Il vicesindaco e assessore all’Educazione, Anna Scavuzzo, sulla possibilità di far consumare a scuola il pasto portato da casa ha un atteggiamento che sembra ispirato a principi del Medioevo, in contrasto con la direzione scolastica».
Torniamo alle inadempienze di Milano Ristorazione. Perché ha fatto causa?
«Per il comportamento illecito della società. Mi riferisco alle inadempienze rispetto al contratto stipulato con il Comune. All’epoca delle contestazioni, nel 2008, veniva utilizzata la carne trita vietata, pesce extracomunitario non conforme. Olio in bottiglie di plastica e non nel vetro. Niente grammature ma cibo distribuito ad occhio».
Se dovesse perdere la causa pagherebbe gli arretrai?
«Beh certo, saremmo costretti».
Maroni e le consulenze d’oro ad amici e avvocati all’ombra della Regione, scrivono Andrea Sparaciari e Valerio Mammone il 9 maggio 2017 su "it.businessinsider.com". Roberto Maroni è un ottimo passepartout: basta aver lavorato una volta per lui per vedersi spalancate le porte delle società controllate o partecipate da Regione Lombardia. Così è successo a Luca Morvilli, l’esperto in comunicazione olistica che nel 2013 ha contribuito alla sua vittoriosa campagna elettorale per le regionali. Tra il 2014 e il 2016, Morvilli ha ottenuto tre consulenze in tre anni da due società controllate dalla Regione, per un importo totale di 192 mila euro. Il primo a ingaggiarlo è stato Eupolis – l’istituto di ricerca, statistica e formazione della Regione – che gli ha commissionato lo sviluppo di “una strategia di comunicazione olistica, nell’ambito del Programma di attività Ufficio Studi”. Il contratto prevede un compenso di 48 mila euro in 10 mesi. Nel 2015 e nel 2016 Morvilli fa il bis con Ferrovie Nord Milano SpA, la holding che gestisce i trasporti ferroviari lombardi, guidata dal leghista ed ex segretario generale della Regione Andrea Gibelli. I contratti – di cui Business Insider è in grado di dare conto in esclusiva – sono due: nel 2015 Fnm affida a Morvilli una consulenza di sei mesi per il “riposizionamento del brand Fnm”. Valore: 48 mila euro, come era già accaduto per Eupolis. Nel 2016 l’esperto in comunicazione raddoppia impegno e stipendio: la consulenza annuale vale 96 mila euro, ma qualcosa va storto e il 31 ottobre 2016 il contratto viene rescisso in anticipo. Alla fine Morvilli incasserà “soltanto” 26 mila euro. Fnm – un po’ come la Cia – non conferma e non smentisce le cifre: durante l’ultima assemblea degli azionisti dello scorso aprile il presidente Gibelli si è limitato a ribadire che «la comunicazione olistica è una cosa seria». Silenzio anche da parte di Morvilli, al quale abbiamo chiesto – fra l’altro – se avesse mai lavorato con società partecipate o controllate da Regione Lombardia prima dell’insediamento di Maroni. “Le clausole di riservatezza previste dai contratti – ci ha scritto – non mi consentono di rispondere”. Secondo Isabella Votino, portavoce del Governatore Maroni, “le collaborazioni di Morvilli con Eupolis ed Fnm non sono certamente state decise dal Presidente”. L’esperto in comunicazione olistica, in ogni caso, è un “amico alle prime armi” se paragonato al vero pupillo di Bobo Maroni, il suo confidente e avvocato personale Domenico Aiello. Nel 2015 il legale calabrese ha ottenuto almeno due consulenze da Fnm: la prima, come si legge nel verbale dell’assemblea degli azionisti del 2016, “ha ad oggetto la costituzione in un procedimento penale ed ha un corrispettivo, valutato secondo tariffa, per la fase del giudizio per massimi 100.000 euro a seconda delle udienze; (…). La seconda consulenza ha un ammontare massimo di 50.000 euro». Tutto normale, si penserà, se non fosse che il giorno prima dell’assemblea Aiello negò di aver ricevuto incarichi dalla holding dei trasporti lombardi. “Me lo ricorderei – disse al Fatto Quotidiano – Al massimo potrei essere stato pagato per le spese legali come controparte di Fnm, ma non ho firmato nessun contratto con Norberto Achille (ex presidente della holding, finito male per una storia di “spese pazze”, ndr) per una consulenza legale”. Aiello, insomma, era consulente di Fnm a sua insaputa. Il sodalizio tra Aiello e Maroni risale ai tempi del Ministero degli Interni, quando il non ancora governatore della Lombardia fu indagato per finanziamento illecito ai partiti (la sua posizione fu poi archiviata). Da quel momento, il legale si è trasformato nel “Mr Wolf” personale del Presidente e ha gestito una lunga serie di patate bollenti: lo scandalo dei diamanti comprati con i fondi del Carroccio; la costituzione di parte civile di Regione Lombardia nel processo Maugeri: un compito che Aiello ha svolto bene, ottenendo dal tribunale, come scrive in un’interrogazione il consigliere regionale del Pd Bruni, il versamento di circa “15mila euro di spese legali alla Regione» a fronte di una parcella da 188 mila euro (pagata con soldi pubblici). Una cifra «spropositata», secondo Bruni che si è rivolto alla Corte dei Conti per danno erariale. Non basta, aiello ha ricevuto dal Pirellone incarichi anche nel processo contro l’ex capo di Infrastrutture Lombarde, Antonio Giulio Rognoni, in quello per i danni dell’ex enfant prodige della Lega, il consigliere Fabio Rizzi, accusato di aver intascato tangenti da Maria Paola “Lady Dentiera” Canegrati. Non mancano poi le consulenze alle altre controllate della Regione: oltre alla già citata Fnm, Aiello viene arruolato anche da Aler (nel 2013) e da Pedemontana. Ma dove il rapporto tra Maroni e Aiello si dimostra granitico è nel processo che vede imputato iBobo per induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente. Secondo il pm Fusco, Maroni avrebbe fatto ottenere un contratto di lavoro in Eupolis a una ex collaboratrice (Mara Carluccio) e avrebbe fatto pressioni affinché un’altra sua ex collaboratrice (e per i pm, sua amante), Maria Grazia Paturzo, partecipasse a un viaggio istituzionale a Tokyo a spese di Expo. Quando il presidente della Lombardia scopre di essere indagato dai pm Fusco e Addesso nomina immediatamente Aiello – ça va sans dire – suo difensore personale, il quale giustamente inizia le sue lecite e doverose indagini difensive. Chiede quindi alcuni documenti a Expo spa, ma il cda della società ne fornisce solo una parte. Pur di averli, Aiello si rivolge in procura, lamentando di non riuscire a ottenere le carte. Tuttavia, anche i magistrati milanesi ritengono che quei documenti non siano necessari né pertinenti all’inchiesta. A quel punto Maroni, con un colpo a sorpresa, decide di far dimettere il rappresentante della Regione nel cda di Expo spa, Fabio Marazzi, sostituendolo con chi? Esatto, proprio con l’avvocato Domenico Aiello, che da quel momento, in qualità di consigliere avrà accesso a tutte le carte della società. In molti allora sottolinearono quanto fosse quantomeno inopportuno che nel cda di Expo spa sedesse l’avvocato di un indagato, azionista di Expo spa, finito nelle pesti proprio per aver fatto presunte pressioni sulla società. Per Maroni questo conflitto non c’è mai stato e ha tirato dritto, facendo guadagnare da allora ad Aiello 27 mila euro l’anno come membro del board della società. Torniamo a oggi: quel processo si sta celebrando (si fa per dire) in questi giorni e, in caso di condanna, Maroni decadrebbe dalla sua carica in base alla legge Severino. In realtà non si sta celebrando affatto, visto che le udienze saltano una dopo l’altra a colpi di legittimo impedimento: prima perché Bobo era candidato come consigliere comunale a Varese, poi perché l’avvocato Aiello era in sciopero, oppure perché colpito da mal di schiena talmente lancinanti da impedirgli di essere in aula. Malesseri certificati dai medici, che però stanno trasformando il procedimento in una pantomima: alla terza udienza consecutiva saltata a causa del mal di schiena del legale, i giudici hanno ordinato una visita fiscale a casa. Neanche fosse un impiegato pubblico assenteista. «Questo processo è fermo da più di due mesi e così rischia uno stop fino alla primavera del 2018», ha sbottato il solitamente mite pm Fusco. Di questo passo si potrebbe andare avanti ancora per un anno, proprio quando si dovrebbe tornare a votare in Lombardia. Una coincidenza? Forse, di sicuro chi trova un amico (presidente), trova un tesoro.
A Milano il tribunale è un colabrodo. Nel palazzaccio fascicoli incustoditi e controlli inefficaci Per l'aula bunker spesi 11 milioni. E non ci si può entrare, scrivono Luca Fazzo e Monica Serra, Domenica 09/04/2017, su "Il Giornale". L' armadietto con la vetrina è al suo posto, al terzo piano del palazzo di giustizia di Milano: a due passi dalla sala stampa, a quattro dalle aule di tribunale sempre affollate di processi. Dentro dovrebbe esserci il defibrillatore, l'attrezzo salvavita obbligatorio per legge nei luoghi di lavoro.
Ma l'armadietto è vuoto, da anni. Se qualcuno - avvocato, giudice, imputato - si sentisse male nei pressi, i soccorritori seguendo le frecce si troverebbero davanti alla vetrina vuota, e il tizio andrebbe al Creatore. Che fine abbia fatto il defibrillatore non si sa. Ma una cosa è certa: se questa violazione avvenisse in una società privata, il titolare verrebbe incriminato dai magistrati. Ma qui, dove comandano i magistrati, nessuno incrimina nessuno. La faccenda del defibrillatore è solo un dettaglio, nel lungo viaggio che il Giornale ha compiuto nel tempio della Giustizia milanese. Un viaggio che da oggi e per tre puntate verrà raccontato con immagini forti sul sito internet, ilGiornale.it: e sarà interessante scoprire se davanti alla cruda eloquenza di queste immagini si continuerà a fare finta di niente. La sfilza di leggi che vengono violate nel palazzo che delle leggi è il simbolo è lunga e variegata: dalle norme sugli infortuni alla tutela della privacy, qui sembra che lo Stato chiuda un occhio. Per buona parte di queste mancanze è già pronta la solita scusa: mancano le risorse. Peccato che contemporaneamente vengano sprecati soldi in grande quantità per opere interminabili, inutili, bizzarre, di cui nessuno - ovviamente - è disposto a prendersi la responsabilità. Tra gli sprechi (lasciando stare le due Passat blindate nuove di zecca, assegnate a magistrati di cui non risulta siano esposti a particolare pericoli; o episodi grotteschi come il tappeto rosso di trentacinque metri apparso di recente nell'anticamera del Procuratore generale) l'esempio più vistoso sono sicuramente gli innumerevoli megaschermi affissi in ogni angolo del palazzo, costati quasi tre milioni di euro, da anni perennemente accesi e mai utilizzati: a parte due di essi a pian terreno, che trasmettono gli slogan della Associazione magistrati (gli avvocati della Camera penale hanno protestato contro l'abuso a fini privati di un bene pubblico: invano). Ma il caso più eclatante è quello dell'aula bunker che i vertici del tribunale chiesero all'inizio degli anni Novanta di realizzare accanto al carcere di Opera, e mai del tutto terminata, oggetto di una inchiesta anch'essa interminabile (in fondo sono colleghi...) della Corte dei Conti. La versione ufficiale è che ora il bunker è quasi pronto. Purtroppo manca la strada per raggiungerlo. Il procuratore generale Roberto Alfonso, intervistato dal Giornale.it, dice che a realizzarla sarà il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ma al Dap replicano che al massimo possono ricavare un percorso all'interno del penitenziario: così per assistere a una udienza pubblica si dovrebbe passare per un carcere. Oltretutto a cosa serva un simile bunker in un'epoca in cui i maxiprocessi non si fanno quasi più è di difficile comprensione. Costo dell'opera, di rincaro in rincaro: oltre undici milioni di euro.
Di fronte a questi sperperi, diventa difficile giustificare il degrado che regna all'interno del Palazzo. Cortili e sotterranei trasformati in discariche. Aule affollate lungo i cui muri si aggrovigliano matasse di fili scoperti. Cantieri in cui non potrebbe entrare nessuno, e invece di libero accesso. Le famose balaustre che ad ogni piano separano dallo strapiombo delle scale e degli androni, e che arrivano a stento al ginocchio, col rischio di cadere nel vuoto al primo malore: oltre a costituire un incentivo a gesti inconsulti da parte di chi qui si aggira in condizioni di fragilità emotiva. e infatti in passato già due persone si sono lanciate nel vuoto. Da anni si parla di rialzarle ma, tranne un piccolo tratto non è stato fatto nulla. Dell'incuria e del degrado che regnano all'interno del tribunale il sintomo più sconcertante sono però le centinaia e centinaia di fascicoli giudiziari che giacciono alla mercè di chiunque, pronti per essere consultati o addirittura prelevati. Anche in zone «sensibili» del palazzaccio, come l'ufficio del Giudice per le indagini preliminari, basta aprire un armadio per venire a scoprire passaggi delicati e dolorosi della vita delle persone incappate nei meccanismi della giustizia. I filmati che troverete sul sito del Giornale dimostrano senza possibilità di smentita la facilità di accesso a questi dati in teoria super-riservati. Infine il tema della sicurezza antiterrorismo, reso drammatico dall'impresa di Claudio Giardiello, l'imprenditore che il 9 aprile 2015 uccise un giudice, un avvocato e un coimputato. Nel primo anniversario del massacro, il procuratore generale Roberto Alfonso annunciò l'avvio di un piano per la sicurezza del palazzo, «la proposta sarà inviata al ministero che la vaglierà e potrà dare il via libera. Per fine 2016 la prima tranche di lavori dovrebbe essere ultimata». Ultimata? Oggi, secondo anniversario della tragica impresa di Giardiello, non è neanche cominciata.
Milano, Vallanzasca e io. Rapine, sequestri, omicidi. Era la Banda della Comasina, guidata da uno dei banditi più mediatici d’Italia. Il suo ex braccio destro, Rossano Cochis, racconta quegli anni di sangue e follia: «Bische, night club, coca, auto, donne e mitra. Eravamo una miscela esplosiva», scrive Piero Colaprico il 23 marzo 2017, su "L'Espresso". Ancora scuote la testa e ride, Rossano Cochis, al ricordo: «C’era un pugile, uno che ha vinto la medaglia alle Olimpiadi e ha conquistato anche il titolo mondiale, e lo portavo io in macchina a una bisca. Era così contento, in quel periodo, che s’è messo a ridere e a gridare dal tettuccio aperto della Porsche il suo slogan e il suo programma. «Per tre cose vale la pena vivere, la coca, la figa e la malavita», così continuava a ripetere nel vento. Eh, insomma, a volte penso che sia un po’ la sintesi di quei nostri anni. Il bandito più carismatico di Milano era Francesco Turatello, Francis Faccia d’Angelo, ed era lui, prima degli incontri di questo pugile, che faceva passare la voce, così nessuno poteva dargli nemmeno un grammo, e non si sgarrava, guai con il Francis». Erano gli anni Settanta, che per Cochis e i suoi compari si chiusero con sei mesi vissuti da mucchio selvaggio. Era il tragico ’76, consumato tra evasioni dalle carceri, sparatorie mortali, sequestri di persona, guerre di gang. Con lui, Renato Vallanzasca e gli altri della banda della Comasina trasformati in un «pericolo pubblico». Oggi, dopo trentasette anni di detenzione, «venticinque sempre in cella», Cochis, detto Nanun, è tornato nelle strade e ha accettato d’incontrarci nello studio del suo avvocato, Ermanno Gorpia.
Arrivato ai settant’anni d’età, l’ex rapinatore conserva la faccia di uno con il quale sarebbe meglio non litigare. Un piccolo dettaglio aiuta a capire: da semilibero era stato mandato a lavorare in una comunità di recupero. Là era facile che qualche parente si presentasse con un paio di amici, per riprendersi i figli fermati per furto. Da quando è toccato a Cochis aprire la porta della comunità agli estranei, quelle scene sono radicalmente cessate. La notizia ci era arrivata da un magistrato di sorveglianza e gli chiediamo se corrisponde al vero: «Sì, andava così, gli spiegavo chi ero, gli motivavo perché insistere non sarebbe servito e che era meglio pensare al bene dei ragazzi, quindi se ne andavano. Strano che proprio uno come me dovesse fare l’uomo d’ordine, eppure…».
Eppure, è un sopravvissuto. Gli altri del gruppo originario? «Ormai», risponde, «sono tutti morti, a parte me e Renato», il bel René, tornato clamorosamente dietro le sbarre per una storia di mutande rubate in un supermercato. E come cominciò la loro storia funesta? «Ero nel carcere di Lodi, in attesa di giudizio, per una rapina che non avevo commesso, e grazie alla legge Valpreda, che stabiliva un tetto massimo alla carcerazione preventiva, uscii. Ero stato rappresentante di un grissinificio vicino a Bergamo, provai a tornare, ma mi dissero “Ti riprendiamo, però niente stipendio, solo provvigioni, se ti va”. Non era un ricatto? Decisi di trasferirmi a Milano e con un altro conosciuto in carcere, Vito Pesce, frequentavo il bar gelateria Adriana, in via Padova. C’erano anche Pino Digirolamo, Franco Cornacchini, Antonio Rossi, Enrico Merlo, insomma, una batteria di rapinatori. Tramite un altro, che è vivo e non nomino, facemmo qualche colpo a Milano, a Vimodrone, poi la Edilnord di Brugherio, la banca del Monte dei Paschi di Siena a Milano 2, che poi rifeci con Renato Vallanzasca nel ’76, appena evaso, e tutt’e due le volte c’erano in cassa esattamente dieci milioni di lire. A proposito, mentre nel ’76 tornavamo nel nostro imbosco, che era a Milano San Felice, ci facemmo al volo anche un’altra banca a Pantigliate e il giorno dopo sul giornale c’era un titolone: “Arrestati tre minorenni, li hanno riconosciuti”. Uhè Renato, leggi, e che cosa facciamo?, dissi. Quando ci presero, chiamammo il giudice Gatti. “Quando l’impiegato è scappato è caduta la macchina per scrivere, in paese c’era un funerale”, insomma gli spiegammo che eravamo stati noi a colpire, così i minorenni vennero scarcerati e noi ci prendemmo 14 anni, anche perché era stata ferita una guardia giurata. Avevamo portato con noi uno che ripeteva “Non me la sento, non me la sento”, sudava freddo, allora gli ho detto di smetterla e di non preoccuparsi, che avremmo fatto tutto noi. Bastava che lui tenesse sotto tiro “il” guardia e stesse calmo. Infatti, ha puntato la pistola e gli ha tirato, e l’ha preso alla gamba, ma si può? Che gente…».
Più si ascolta il flusso di parole di Cochis, più fluisce il magma incandescente di quell’epoca di morte perennemente in agguato. Sembra quasi incredibile confrontare le epoche, ripensare a quanto alto fosse il tasso di violenza quotidiana, spicciola o mortale, comunque inevitabile: «Io fui arrestato per il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio, ma non c’entravo nulla, e lo sanno tutti. Quello che se la cantò, il suo amico, il Fioroni, lo disse espressamente a verbale. “Ho incontrato Cochis insieme con Carlo Casirati, che ha ucciso Saronio con l’iniezione sbagliata, e gli abbiamo proposto di fare il sequestro con noi, ma ha rifiutato”. Chiaro, no? Invece mi mandò a chiamare il magistrato Gerardo D’Ambrosio. “So che lei sa tutto, perciò se lei parla, esce con me da San Vittore stasera stessa. Se invece fa l’omertoso, le spicco il mandato di cattura per sequestro e omicidio”, disse. Beh, gli ho scaraventato addosso la scrivania e m’hanno portato in isolamento sotto il Primo Raggio. Il giorno dopo mi consegnano davvero il mandato di cattura. Allora m’arrabbio e vado sui tetti del carcere, quando mi acciuffano, mi portano a Pisa, poi alla Capraia, poi alla Spezia, da dove evado d’estate, con le lenzuola. E così, aprendo una macchina posteggiata grazie alla chiave della scatoletta del tonno, arrivo a Voghera, poi a Milano, dove ritrovo Vito Pesce e, con lui, Renato Vallanzasca. L’avevo già conosciuto in carcere, per la rapina che aveva fatto al supermercato di via Monterosa. Così, da evaso, andai a dormire con lui, che allora stava con Patrizia Cacace, dividevamo il lettone matrimoniale. E lì per lì, con Marco Carluccio, con Antonio Colia detto Pinella e un bergamasco, Silvio Zanetti, di cui adesso posso fare il suo nome, ho saputo che è morto, nacque l’anima della banda Vallanzasca, quelli che io chiamavo i muli, perché tiravamo gli altri. In questi ultimi anni è apparsa sui giornali Antonella D’Agostino, che poi ha sposato Renato, ma nessuno di noi sa chi è. Anzi la prima volta che l’ho vista era il ’90, o il ’91, ed era la donna di un certo Cicciobello».
Rapine e sparatorie si moltiplicano, un delirio di proiettili circonda la banda come un nugolo di mosche circonda i cadaveri. Oggi si ascoltano non pochi politici straparlare di «città della paura» o commentare il ruolo dei giornalisti, ed è come se si fosse smagnetizzata la memoria: «Noi non evitavamo il conflitto a fuoco, tutto qui». In che senso, Cochis? La spiegazione è brutalmente lineare: «Non c’era uno studio, un piano, niente. Noi arrivavamo su macchine rubate di grosse cilindrata, in cinque. Due uomini che entrano in banca, uno fa la cassaforte e l’altro i cassetti. Due che stanno in strada, con i mitragliatori, e uno fa da palo sulla porta. Sapessi quante volte arrivava una pattuglia e faceva velocemente inversione, noi tiravamo bene, in via Serra a Milano, quando andammo a fare le buste paga dell’Alfa Romeo, io e Mario Carluccio bloccammo da soli sette macchine della questura, e non so quanti caricatori abbiamo sparato. Sì, se penso a molte delle nostre azioni provo rammarico. E poi, guardami, è passata la mia vita, ma come è passata? In una gabbia, ecco come».
Una gabbia rimasta sotto i riflettori. La banda della Comasina, nonostante siano passati i decenni, non viene dimenticata: «L’avvocato Rosica, uno che ci difendeva, ci chiese un favore. Andammo dalle parti di piazzale Corvetto, dove abitava, e Renato rilasciò un’intervista a un giornalista amico dell’avvocato, uno che mi pare lavorava al “Corriere d’Informazione”. Ecco, Renato con le parole ci sa fare» e, da quel momento, diventa uno dei banditi più mediatici d’Italia, di quell’Italia in cui l’Anonima sequestri mette angoscia alle famiglie, il terrorismo incalza, Cosa nostra fa affari al nord (Luciano Liggio, capo della mafia, viene arrestato nel 1974 a Milano, in via Ripamonti) e si muore ammazzati in pieno centro, come accadde in piazza Vetra: «Era il novembre del ’76, eravamo andati là solo per un sopralluogo. L’obiettivo erano le esattorie comunali, ma non da fare quel giorno stesso. Infatti Franco Careccia cammina disarmato, c’eravamo resi conto che un’irruzione armata rischiava di diventare una carneficina, che era meglio filare il furgone Mondialpol e attaccare dopo che caricano le valigie, piazzando dietro il cinema Alcione una macchina di copertura. Dunque, per il sopralluogo ci sono Careccia, Carluccio e un marsigliese. I tre entrano nel bar all’angolo, che è di fronte a una banca e un impiegato chiama la questura, segnalando facce sospette. Così arrivano due volanti e l’agente Ripani scende e spara, colpisce Mario Carluccio al fianco, ma Mario spara a sua volta e centra Ripani con sei colpi, e nel frattempo un altro poliziotto, Zanetti, spara e prende Mario in fronte, e cade accanto a Ripani, sono lì, uno accanto all’altro, e in via Molino delle Armi riesco a caricare Pinella, il migliore di tutti noi, e Renato, e me li porto via. Renato diceva sempre che con me dietro e con Colia davanti sarebbe andato contro chiunque. Colia aveva carisma, lui aveva la batteria della Comasina, io quella di via Padova, Mario Carluccio i rapinatori della Brianza. Ci consideravamo un’élite, ma eravamo una miscela esplosiva. Renato era brillante, divertente, quando si lavorava era molto deciso, anche perché la sua megalomania era troppo forte, non lo faceva arretrare su niente. Tant’è vero che siccome ero stato nei paracadutisti avevamo pensato di attaccare la caserma a Pisa, per prenderci i Fal, non se n’è fatto niente perché avevamo troppa carne al fuoco».
Messi in cima alla lista dei ricercati, cominciano anche con i sequestri di persona. Il più citato è quello di Emanuela Trapani, che aveva sedici anni: «S’è detto anche troppo, lei stessa sa che non è stata trattata male. Una volta, per esempio, s’è lamentata che nella stanzetta dov’era chiusa vedeva la tv in bianco e nero, allora Renato l’ha portata dove stavano gli altri, davanti alla tv a colori e tutti si sono messi in testa il cappuccio per non essere riconosciuti, lei era l’unica a vedere il programma a volto scoperto». Possibile? Una scena che sembra tratta da un quadro di Magritte? «Oppure, un’altra volta s’è lamentata mangiava da schifo, e voleva la pizza, ma solo quella che fanno vicino casa sua. Renato ha detto va bene, ma ai tri or de not soo andà mii in quella pizzeria».
A Milano non s’è mai capito come nacque la guerra tra la banda Vallanzasca e la banda Turatello. Non si davano ombra, frequentavano gli stessi locali, uno del Lello Liguori in corso Europa, uno in piazza Santa Tecla, poi il famoso Derby del cabaret milanese di via Monterosa, un teatrino in Porta Romana dove si esibiva Gianni Magni, il William’s, il New Gimmy, che era di Turatello, e per ballare si andava al Parco delle Rose, ma solo in estate. Perché dunque spararsi addosso? Semplicemente perché esistono notti difficili che non si dimenticano: «Ero con Vito Pesce, venivamo via dalla latteria che aveva in corso Lodi Lia Zennari, era tardissimo, ma andammo giù al night che Francis Turatello aveva in piazza Cantore, a fianco della gelateria Pozzi. Dentro c’erano già Tigre e Spaghettino, io ero con le stampelle e avevo lasciato all’Isola la mia auto, con un mitra nel cofano. Non sapevo che c’era un casino in corso, perché Spaghettino aveva assaltato una bisca di Francis e il mio amico Vito nella stessa bisca aveva cambiato un assegno da 25 milioni per perdita di gioco. Quindi, poteva sembrare che c’entrasse, comunque li lascio a discutere, sono tutti amici, e vado tranquillamente a prendere la macchina, ma quando torno c’è Vito che esce tutto sballato. “Guarda”, ed è pieno di sangue. Allora tiro fuori il mitra e glielo do, lui corre alla porta del night e mitraglia verso le scale, poi salta su in macchina e filiamo. Mi dice che Francis ha acchiappato Spaghettino, gli ha aperto la gola e ha detto al Tigre di bloccare Vito, ma quello ha preso il coltello per tagliare il pane e gliel’ha infilato nella schiena. La lama gli era rimasta dentro, l’ha estratta, è tutta storta. “Rossano, mi dice, non farmi morire, vendicami”. Sono tornato indietro e ho sparato anch’io, sfiorando Turatello».
Da allora, le bande s’inseguono per farsi fuori, anche se nel night sia Pesce sia Spaghettino s’erano salvati: «Una volta ci arriva dritta che portano a Turatello i soldi delle bische, allora io, Renato e Tonino Furiato, che poi morirà nella sparatoria al casello di Dalmine, gli fottiamo tutti i soldi, e non ci siamo tenuti 5 lire, li abbiamo fatti arrivare ai detenuti: “Dite a Francis che stavolta prendo soldi, la prossima volta la pelle”, è il messaggio che lascia Renato. E quasi ci riusciamo in via Mac Mahon, quando vediamo due auto ferme davanti al bar della sorella dell’attrice Agostina Belli e riconosciamo Gianni Scupola e Spedicato. “Se ci sono loro, c’è anche Francis”, allora torniamo indietro, nel frattempo si sono spostati, ma li affianchiamo, Renato si sporge dal finestrino e gli tira due cannonate con la 357 Magnum e filiamo. E l’unico che salta giù dalla macchina chi è? Francis, con la mitraglietta Skorpion, e ci corre dietro. All’altezza di via Caracciolo sento un colpo alla testa, “Renato forse è finita” dico, invece erano pezzi di vetro. La strada fa un saltino, quello mi ha salvato. La sera ho contato tutti i buchi che aveva fatto nella carrozzeria, pareva un gruviera. Quando abbiamo fatto pace, Francis voleva sapere, “Ma chi era quell’autista della madocina?”».
La banda Vallanzasca finisce la sua corsa nel febbraio del ’77: «Renato era andato nella bergamasca per curare un nipote del miliardario Pesenti e io, con Tonino Rossi e Merlo a Torino, per un nipote di Pirelli. Volevano mettere a segno due sequestri e scappare dall’Italia. Renato quando guidava faceva lo scemo, sorpassa a destra, cambia corsia, così qualcuno segnala un auto con tre drogati a bordo e la polizia va a bloccarli al casello. Un agente tiene il mitra puntato, Renato scende dalla macchina e invece dei documenti, come faceva sempre, prende un libretto d’assegni, l’agente istintivamente abbassa il mitra e lui gli spara al volo, centrandolo al cuore. Scende anche Furiato, che spara all’agente a terra, ma dall’altra auto rispondono. Furiato muore, Renato che cercava di prendere il mitra all’agente morto viene centrato al sedere. Riesce a scappare a piedi e vado io a prenderlo. Lo portiamo a fare le lastre in un centro diagnostico di Milano, poi a Roma, dove abbiamo un contatto con un medico. Ma il destino è strano».
Saranno presi tutti, ma non grazie alle indagini: «Ci sono due sorelle che hanno ciascuna un amante, una sta con il medico che cura i criminali, e l’altra con un colonnello dei carabinieri, capito che intreccio? Poi il medico è morto, l’hanno riconosciuto solo dallo stetoscopio, ma non siamo stati noi».
Quel «noi» della Comasina s’è perso. Antonio Colia, uscito dal carcere, è morto in un incidente di moto, e Cochis non è potuto andare al funerale: «Ho il divieto di frequentare pregiudicati e là, per salutarlo, c’era tutta la Milano di quegli anni», dice e, per quanto possa apparire strano a chi non conosce la mala, Cochis diventa talmente triste che smette di parlare.
Milano, l’ultimo saluto al boss tra applausi e alleanze. Volo di palloncini e parata di capi clan al funerale spettacolo di Mimmo Pompeo. In chiesa serbi, skin e le curve «nere» dello stadio. Dalla Svizzera due uomini a bordo di una misteriosa Porsche, scrive Cesare Giuzzi il 19 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Venti palloncini bianchi e rossi salgono verso il cielo di via Antonini. Dalla chiesa di Santa Maria Liberatrice un applauso saluta l’uscita della bara di legno chiaro. Ad accogliere l’anima di Mimmo Pompeo, la mattina del 28 febbraio, c’è un cielo grigio e carico di pioggia. Dentro e fuori la chiesa ci sono uomini che si muovono circospetti. A gruppetti di due o tre per volta. Ci si scambia un saluto veloce, ma soprattutto si osserva. Gli occhi cercano chi manca. Perché l’assenza, ai funerali come ai matrimoni, segna alleanze rotte, accordi spezzati, amici e nemici. E l’assenza a un funerale come quello di Mario Domenico Pompeo, morto a 64 anni per un tumore, prima ancora che uno sgarbo verso il morto e la sua famiglia, può valere una croce sul proprio futuro.
Porsche e trafficanti di droga. Ci sono due tizi arrivati dalla Svizzera, cantone dei Grigioni, stretti in giacche blu troppo leggere per il cielo incerto di fine febbraio. Hanno indosso identiche scarpe Hogan, stesso colore del blazer. La Porsche Cayenne è intestata a una società di leasing, viene parcheggiata frettolosamente davanti all’ingresso della chiesa, tanto che sarà necessario spostarla poco più tardi per permettere ai mezzi delle pompe funebri di accompagnare il feretro di Mimmo verso l’ultimo viaggio. I due tizi arrivati dai Grigioni hanno gli occhi lucidi. Restano in piedi sul sagrato e fissano lo sguardo oltre il portone della parrocchia lasciato aperto. Si vede l’altare e il prete che celebra le esequie davanti ai familiari in prima fila. Ma si vedono anche tizi serbi vestiti in scarpe nere e giubbotto scuro di pelle. Ci sono i ragazzi dello stadio, cresciuti a curve ed estrema destra, e con loro il capo milanese del movimento skin Domenico Bosa, quel Mimmo Hammer amico del trafficante montenegrino Milutin Tiodorovic e degli uomini del clan di Pepé Flachi. Ci sono i Tallarico e i Pittella, nomi in ascesa nel quadrilatero delle vie dei fiumi di Bruzzano. Perché nonostante Mimmo Pompeo vivesse da anni in via Antonini, il suo regno è sempre stato dalla parte opposta della città. In quella Bruzzano dove ha rappresentato gli interessi della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto nel Crotonese, o a San Siro dove per trent’anni ha gestito il ferreo e inespugnabile controllo dei paninari, quelli della salamella fuori dallo stadio che senza il benestare di Pompeo non avrebbero neppure potuto versare un bicchier d’acqua. C’era tutta la malavita che conta quel 28 febbraio in via Antonini, riunita per le grandi occasioni: compaesani calabresi, ma anche siciliani e slavi. Perché il potere dei Pompeo inizia negli anni Ottanta all’epoca dei catanesi di Epaminonda, affonda le sue radici nella parentela con Ginetto Di Paola, killer degli otto morti al ristorante «La strega» di via Moncucco nel ‘79, fino all’alleanza con i calabresi del boss Pepé Flachi, legato al potentissimo clan De Stefano di Reggio Calabria. Lo chiamavano il letterato, il filosofo, perché aveva la casa piena di libri. Nessuno sa se li abbia letti tutti per davvero, ma dicono fosse soprattutto un uomo di pace. Di mediazione. Il collante che per anni ha tenuto in piedi le flebili alleanze tra killer cocainomani e boss della droga, ras di quartiere e piccoli padrini. E ora la morte di Pompeo potrebbe riaprire vecchie ferite e lasciare campo libero alla brama dei giovani cresciuti mentre i padri marcivano in galera dopo le retate e gli ergastoli degli anni Novanta. E ridisegnare la mappa della criminalità a Milano. Perché nonostante per la politica lo spauracchio siano soprattutto stranieri e povericristi, la malavita a Milano resta potente ed effervescente.
La coop e Mafia capitale. Lo confermano gli ultimi due agguati avvenuti a Bruzzano e a Quarto Oggiaro, che con gli uomini dei Pompeo hanno più di un legame. E lo indicano le ultime analisi degli investigatori che si occupano di droga e criminalità organizzata: «A Milano nonostante qualcuno forse può pensare il contrario — riflette un inquirente — coca e mafia vanno di pari passo. Si pensa molto al riciclaggio e alle infiltrazioni finanziarie, ma la mafia povera, quella delle estorsioni e della droga sta risalendo indisturbata» In mezzo ci sono traffici, vecchi nomi (sempre gli stessi) ma anche affari, che somigliano agli scenari evocati da Mafia capitale. Con una cooperativa che dà lavoro ai detenuti semiliberi e che ottiene appalti pubblici in affidamento diretto e d’urgenza grazie ai contatti con le istituzioni e la politica. Un caso che riguarda in particolare un comune dell’hinterland di Milano. Motore (e ideatore) della cooperativa un ex detenuto per concorso in omicidio, un nome pesantissimo della mala degli anni Novanta. Con lui, proprio grazie al lavoro all’interno della cooperativa, anche un ex killer (fine pena 2030) ancora molto influente sulla mala della zona. E subito tornato a interessarsi di droga ed estorsioni. Altra storia, altri scenari. Sui quali gli accertamenti sono appena partiti ma che vedrebbero insieme malavitosi e complicità politiche locali, in particolare con esponenti cresciuti nelle file del Partito democratico. «Un caso di scuola», raccontano gli investigatori. Di come la mafia è tornata a riprendersi il terreno lasciato dopo le retate degli anni Novanta. Del resto, lo dicevamo, i nomi sono sempre gli stessi. E questo è importante per due motivi: una garanzia di «serietà» nell’ambiente criminale, e la certezza che nessuno avrà bisogno di farsi altre domande di fronte a nomi che da più di trent’anni segnano la presenza criminale nell’hinterland di Milano.
Pallottole ed equilibri mancati. Ma torniamo a quel 28 febbraio e alle esequie del fu Mimmo Pompeo. In chiesa insieme ai parenti c’erano anche uomini della famiglia Pittella. Anche loro sono originari del Crotonese e come i Pompeo vivono da una vita a Bruzzano. Qui, in via del Danubio, i poliziotti del commissariato Comasina hanno arrestato il 13 marzo Paolo Pittella, 37 anni, una lunga lista di precedenti sulle spalle. Stava per salire su una Porsche Panamera e sparire verso la Calabria. Un mese prima, la sera del 15 febbraio, aveva avuto una discussione in strada con un uomo di 57 anni, titolare di una lavanderia di via Achille Fontanelli, Giorgio Melis. Gli aveva sparato un colpo di pistola a una gamba. Nell’ambiente si pronuncia una parola a bassa voce: estorsione. E anche se gli investigatori per il momento vanno molto cauti, sono anni che si parla del ritorno del racket nelle zone della Comasina e di Bruzzano. Del resto lo hanno confermato anche le inchieste antimafia Redux e Caposaldo, che sei anni fa hanno riportato dietro le sbarre gli uomini di Pepé Flachi. Paolo Pittella, in passato, è stato fermato dalle forze dell’ordine insieme a Gino Pompeo, nipote di Mimmo, e dal quale si dice abbia ereditato il controllo del business dei paninari. Con Pittella viene controllato anche un altro pregiudicato per «rapina, sequestro di persona, armi e droga». Si chiama Salvatore Geraci, ed è legato ai Pompeo e ai Tallarico. Tre giorni dopo il funerale di Mimmo, a Milano si torna a sparare. E questa circostanza, secondo gli investigatori, potrebbe non essere casuale. Ma anzi un segnale che qualcosa nei delicati equilibri della mala rischia di rompersi. È il pomeriggio del 3 marzo e davanti a un bar di via Longarone, a Quarto Oggiaro, viene ferito a una gamba Gianluca Ricatti, 27 anni, qualche precedente legato allo spaccio. Suo padre Giuseppe ha un lungo pedigree criminale, soprattutto per rapina. Per gli investigatori dietro all’agguato c’è un regolamento di conti legato a un debito di droga. Pompeo, Pittella, Tallarico, Flachi, Scirocco, Toscano, nomi che tornano anche in un’altra storia che ruota intorno ad un’officina della zona nord di Milano. Stavolta insieme alla droga si parla di traffico d’armi e di doppifondi ricavati in auto sportive. Affari che servono a mantenere intere famiglie e che ingrassano i clan della droga che dalla periferia cittadina si stanno trasferendo verso l’hinterland dove il presidio delle forze dell’ordine è inferiore e dove, tra capannoni, aree dismesse e villette identiche, si confondono senza attirare l’attenzione. Nella geografia criminale ci sono luoghi che resistono. Come la Comasina, lo stesso Quarto Oggiaro, Bruzzano, ma anche l’intramontabile piazza Prealpi, regno del clan Serraino-Di Giovine. I Serraino sono stati spazzati via dalla seconda guerra di mafia in Calabria a metà degli anni Ottanta. Ai Di Giovine è toccato invece in dote il pentito Emilio, che grazie alla sua collaborazione negli anni Novanta ha portato a un centinaio di arresti. Oggi ci sono quelli che allora erano solo bambini. E il traffico di droga è ripreso. Completamente. Ma il clan di piazza Prealpi potrebbe cadere ancora a causa di un collaboratore. Un narcos catturato di recente in Spagna che dal carcere sta raccontando affari e anche il (presunto) progetto di un attentato a un uomo delle istituzioni.
…DI BERGAMO. Le toghe a tavola fanno festa coi boss del narcotraffico. Spuntano le foto di tre magistrati bergamaschi con Patrizio e Massimo Locatelli: finiti in carcere dopo il papà per traffico di droga. Della famiglia di malavitosi parla Roberto Saviano nel suo ultimo libro "ZeroZeroZero", scrive Matteo Pandini il 9 aprile 2013 su “Libero Quotidiano”. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno». Lo scrive Roberto Saviano nel suo ultimo libro, ZeroZeroZero, in cui parla di cocaina e spiattella la storia del boss bergamasco Pasquale Claudio Locatelli. Attualmente è in carcere: poco dopo il suo arresto finirono in cella pure i due figli Patrizio e Massimiliano. Saviano si sorprende che nessuno, neanche nella provincia lombarda, avesse sentito puzza di bruciato quando i rampolli facevano fortune con un’industria edile come la Lopav Spa, mentre il papà-boss era già in galera con accuse pesantissime e il sospetto di legami con i clan di mezzo mondo, tra cui quello camorristico dei Mazzarella. Saviano ha ragione: nessuno sembrava sospettare. Neanche i magistrati bergamaschi. Tanto che alcuni di loro, tra i più seri e brillanti, facevano festa e pranzavano proprio con i figli del narcotrafficante. Facendosi addirittura fotografare per una rivista locale. Era infatti successo che poco prima di essere arrestati per ordine del gip di Napoli, i due ragazzi avessero organizzato un evento per riunire i 150 dipendenti e le relative famiglie. Era domenica 19 settembre 2010. Alle Ghiaie di Bonate, oltre ai titolari e agli operai, c’erano parecchi ospiti vip. Qualche politico. Alcuni religiosi, come l’arcivescovo Gaetano Bonicelli. E soprattutto tre magistrati: Carmen Pugliese, Angelo Tibaldi, Mario Conte. Non erano soli. C’era anche un ispettore di polizia in servizio in Procura. Questo dicono le fotografie. In più, alcuni dei presenti ricordano di aver visto pure il direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino e un sottoufficiale della Guardia di Finanza. Carceri e fughe - Circa un mese dopo, Patrizio e Massimiliano Locatelli finiranno in manette con l’accusa di concorso in traffico di stupefacenti e riciclaggio. Gli hanno sequestrato beni per circa 10 milioni. Già questo avrebbe dell’incredibile. Ma il peggio è che il padre, Pasquale Claudio, era un fuoriclasse della malavita. Saviano lo racconta bene nel libro. Quando aveva vent’anni si dedicava al furto di auto di grossa cilindrata. Locatelli - scrive Saviano - è furbo e inizia a imparare le lingue per allargare i suoi interessi. Austria. Francia. Poi Spagna. S’inventa parecchi soprannomi e si stabilisce in una villa nei dintorni di Saint-Tropez. Viene arrestato nel 1989. In casa gli trovano 41 chili di coca colombiana. Finito nel carcere di Grasse per scontare una decina di anni, si rompe un braccio. Gli agenti lo trasportano a Lione. Quando arriva a destinazione, un commando attacca la scorta e scappa col boss. È fuga. Va in Spagna e si fa chiamare «Mario di Madrid». Come racconta Saviano, è l’uomo di riferimento dei narcos colombiani in Europa e proprietario di una flotta navale per il traffico internazionale di cocaina. Non proprio un pesce piccolo, insomma. Lo scrittore lo definisce un «broker della polvere». E scrive: «Ha intuìto che l’eroina come mercato di massa stava finendo, mentre il mondo ne consumava ancora tonnellate». Nel 1991 riuscirà a scappare da una villa nel Bresciano, dove era andato dalla sua compagna Loredana. Pochi anni più tardi verrà pizzicato con un avvocato e il sostituto procuratore di Brindisi: nel processo il magistrato riuscirà a dimostrare di non sapere chi fosse Pasquale Locatelli e verrà prosciolto. Evidentemente, qualche boccone con le toghe sono un vizio di famiglia. Dopo anni di galera in Spagna, il boss torna nella prigione di Grasse (quella dell’evasione), ma nel 2004 devono estradarlo a Napoli. Una sentenza della Corte di cassazione gli ridà la libertà. E Locatelli senior torna in Spagna, dove fa dentro e fuori da galera distribuendo false identità. Intanto i due figli sono rimasti in Italia e mettono in piedi la Lopav Spa, che si occupa di pavimentazioni. Vincono pure un appalto da 500mila euro all’Aquila. Oltre a quello per il nuovo centro commerciale di Mapello, Bergamo, che a fine 2010 verrà scandagliato per la scomparsa della 13enne Yara Gambirasio, inghiottita nel buio di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo. Nel maggio 2010 Pasquale Locatelli finisce in carcere, dopo che gli inquirenti avevano pedinato proprio il figlio che lo stava raggiungendo in Spagna. Pochi mesi dopo, anche i rampolli subiranno lo stesso trattamento. Nel corso delle indagini su Yara, era emerso che il padre della ragazza, Fulvio Gambirasio, aveva avuto rapporti di lavoro con la Lopav. Per Saviano, aveva addirittura testimoniato in un processo contro Pasquale Locatelli. Ma la pista di un possibile collegamento con la scomparsa della 13enne è stata abbandonata in fretta. Sostituti procuratori - Erano tanto sicuri di sé, i rampolli Locatelli, da invitare a pranzo dei magistrati. Angelo Tibaldi fu tra i più giovani ed efficaci sostituti procuratori che indagarono sugli episodi di corruzione che, nell’era di Tangentopoli, riguardavano anche Bergamo. Da anni è giudice del tribunale civile. Carmen Pugliese è attualmente il sostituto procuratore di maggior anzianità della Procura orobica. Si è occupata di più settori: dallo spaccio di droga alla pedofilia. Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e oggi giudice del tribunale civile, negli anni ’90 ha lavorato anche a Milano con Di Pietro. Recentemente è stato assolto dalla Corte d’assise di Milano dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti nel procedimento che lo vedeva imputato per i suoi rapporti con i carabinieri del Ros del generale Giampaolo Ganzer. Questa volta ha ragione Saviano. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno».
CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.
Malasanità anche in Lombardia: pazienti fantasma, protesi 14 volte, scrive il 15 settembre 2016 la Redazione Blitz Quotidiano. Malasanità anche in Lombardia: pazienti fantasma, protesi 14 volte. Pazienti fantasma che esistono solo per giustificare fatturazioni inventate, ticket imposti a esenti ignari di esserlo, protesi applicate anche 14 volte, medicazioni refertate per interventi mai eseguiti… L’elenco delle malefatte negli ospedali di mezza Lombardia, escludendo la grassa corruzione nel sistema degli appalti, è scritto nero su bianco sul rapporto che l’ex generale della Finanza Mario Forchetti ha redatto per incarico di Roberto Maroni: oggetto, i troppi casi di malasanità in Lombardia, proprio la regione che negli anni si è guadagnata una altissima reputazione per la gestione della salute pubblica. Pubblica fino a un certo punto: se vuoi curarti i denti, prenoti all’ospedale ma vieni visitato in ambulatori privati, quasi sempre di proprietà di Paola Canegrati, la “zarina dei denti” lombarda, ci informano Simona Ravizza e Gianni Santucci sul Corriere della Sera. “A titolo esemplificativo – scrive Forchetti – sono stati individuati in un solo ospedale (in un anno) 338 pazienti con esenzione per patologia che hanno ricevuto prestazioni in solvenza. Non è chiaro se i pazienti fossero consapevoli di avere diritto al trattamento con il Servizio sanitario nazionale con il pagamento del solo ticket”. C’è chi, rimbalzato come una pallina da ping pong tra Vimercate e Niguarda, s’è visto inserire per quattordici volte la stessa protesi provvisoria. Ai malati numero 22, 58 e 164 sono state fatturate medicazioni delle ferite chirurgiche in assenza di un’estrazione del dente (ma com’è possibile disinfettare una ferita se non c’è stata un’incisione?). Ad altri sono stati messi ponti con una sola corona (quando il minimo sono tre). (Corriere della Sera) La cosa grave, anche rispetto ai clamorosi scandali di corruzione esplosi negli ultimi anni, riguarda la qualità delle cure, cioè l’impatto reale di certi maneggi sulla pelle dei pazienti. Scrive l’ex generale: “È evidente che i controlli non sono stati efficaci (…). Il sistema di compartecipazione da parte dell’ospedale (che prende una percentuale sul fatturato, ndr) ha sicuramente attenuato l’interesse-dovere allo svolgimento di puntuali controlli”.
«La protesi messa 14 volte e i ticket chiesti a chi è esentato». Lombardia, il dossier voluto da Maroni sui casi di corruzione nella sanità, scrivono Simona Avizza e Gianni Santucci il 15 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. Nei meandri della sanità corrotta, lì nell'ospedale modello alle porte di Milano, nell'edificio nuovo di zecca di Vimercate, in un solo anno ben 338 pazienti sono stati costretti a pagare pesanti parcelle per le cure ai denti anche se avevano il diritto di curarsi gratis in quanto malati cronici. E c'è chi, rimbalzato come una pallina da ping pong tra Vimercate e Niguarda, s'è visto inserire per quattordici volte la stessa protesi provvisoria. Ai malati numero 22, 58 e 164 sono state fatturate medicazioni delle ferite chirurgiche in assenza di un'estrazione del dente (ma com'è possibile disinfettare una ferita se non c'è stata un'incisione?). Ad altri sono stati messi ponti con una sola corona (quando il minimo sono tre). Una storia di scandali I casi sono messi uno in fila all'altro in un verbale di 75 pagine firmato dall'ex generale della Finanza Mario Forchetti, oggi uomo forte del governatore Roberto Maroni e da lui incaricato di passare al setaccio il sistema sanitario lombardo, troppo spesso travolto da scandali giudiziari. L'ultimo è quello che lo scorso 16 febbraio ha portato in carcere (e poi al patteggiamento) il leghista Fabio Rizzi, padre della riforma della Sanità. L'inchiesta della Procura di Monza, partita dalla denuncia di un revisore dei conti, Giovanna Ceribelli, ha portato alla luce appalti truccati per un valore annuo di 34 milioni nel business delle cure dentarie. Coinvolti gli ospedali di mezza Lombardia. Sulla pelle dei malati te evidenziato dalla Procura. Le carte mostrano, per la prima volta, come la corruzione può danneggiare direttamente i malati. Succede che i pazienti pensano di entrare in un ospedale pubblico, ma in realtà gli ambulatori dove vengono curati sono privati, in mano sempre alla stessa imprenditrice, Paola Canegrati, la cosiddetta «zarina dei denti» (che si trova ancora agli arresti per corruzione). E così, malati con il diritto di curarsi gratis per patologie croniche vengono invece dirottati su interventi a pagamento; i preventivi di spesa sono artefatti; i ticket possono essere pagati inutilmente; le prestazioni sono ripetute allo scopo di fare cassa; i materiali scadenti. Pazienti fantasma? Lo scenario della corruzione è duplice, ma in entrambi i casi allarmante: o negli ospedali di mezza Lombardia per anni sono stati curati pazienti fantasma, inventati al solo scopo di fatturare a danno delle casse pubbliche; oppure ai malati sono state fatte prestazioni inutili, eseguite per guadagnare sulla loro pelle. Si scoprono porcherie d'ogni tipo: «A titolo esemplificativo scrive Forchetti tariffa più vantaggiosa rispetto a quella prevista per il Servizio sanitario: una prima visita costa 24 euro contro 28 euro. Tale scelta tariffaria ha consentito probabilmente di dirottare prestazioni dal Sistema sanitario al regime di solvenza con conseguente danno erariale per la Regione e un maggiore incasso per il service e l'ospedale». Le prestazioni vengono ripetute sullo stesso malato in ospedali diversi, ma sempre a guida di società di Paola Canegrati: «Può essere utile un controllo dettagliato sulle prestazioni erogate a questi utenti. Su un codice fiscale scelto casualmente si riscontrano (...) prestazioni in quantità ripetute (14 inserzioni di protesi provvisorie in un paziente esente per patologia)». Addio qualità delle cure Per curare bene i malati ci deve essere un obiettivo irrinunciabile: «Bisogna tutelare Il caso Fatturate medicazioni di ferite chirurgiche, ma non era mai stato fatto l'intervento il cittadino che accede ai servizi sanitari, tanto più se esternalizzati (...). Il paziente che accede al service è convinto di entrare in uno degli ospedali prestazioni in solvenza. Non è chiaro se i pazienti fossero consapevoli di avere diritto al trattamento con il Servizio sanitario nazionale con il pagamento del solo ticket». C'è chi paga anche se non deve e chi paga più del dovuto: «Ci si può chiedere se il ticket è stato calcolato in modo corretto, scrivendo su ogni ricetta otto prestazioni (più ricette vengono fatte, più ticket vengono pagati, ndr)». Le visite a pagamento Ogni metodo è buono per incassare: «Per le visite si riscontra nel listino solventi una del Servizio sanitario regionale e a esso si affida con una certa sicurezza». Un principio che è stato dimenticato: «E evidente si legge nei documenti che i controlli non sono stati efficaci (...). Il sistema di compartecipazione da parte dell'ospedale (che prende una percentuale sul fatturato, ndr) ha sicuramente attenuato l'interesse-dovere allo svolgimento di puntuali controlli». Alla faccia della qualità delle cure.
Scandalo sanità, le intercettazioni: il pianto della dirigente per l’assunzione del figlio. Tra soldi nascosti in mansarda e appalti «esclusivi» per i«lumbard», i protagonisti dell’inchiesta che ha portato all’arresto, tra gli altri, di Canegrati e Rizzi e quello che si sono detti al telefono, scrive Cesare Giuzzi il 17 febbraio 2016 su "Il Corriere della Sera".
1. Paola Canegrati, la Mandrake della Sanità. Nata a Monza, 54 anni. Partita come impiegata, viene nominata amministratore delegato della società per la quale lavora. In pochi anni fonda un impero di aziende odontoiatriche e si aggiudica la maggior parte degli appalti della Sanità lombarda. È la mattina del 16 aprile 2014, Paola Canegrati parla al telefono con il dirigente degli Istituti clinici di perfezionamento di Milano, il fedelissimo Massimiliano Sabatino. Il «Gruppo Canegrati» vuole mettere le mani sugli Icp di Milano e Sabatino, che dovrebbe controllare la regolarità delle procedure d’appalto in realtà tiene aggiornata la manager e si confronta costantemente con lei, anche sulle procedure per evitare i controlli. L’imprenditrice deve rispondere ad una lettera di chiarimenti sull’attività delle sue aziende. La preoccupazione è massima: «Bisogna fare una roba che abbia un senso».
Paola Canegrati: Senti, allora due cose....la prima cosa è: stamattina io ho telefonato a una certa dottoressa Restelli perché ieri mi chiama il dottor Ortaglio.....fregola che gli devo mandare l’elenco di tutte le attrezzature di Cusano, Cologno...non mi ricordo più quali...mi pare questi due...stamattina arrivo in ufficio, vedo la lettera...che mi è arrivata ieri pomeriggio...consegna per oggi!...ho chiamato e gli ho detto...allora...va bene che io sono brava e che sono Mandrake...ma neanche...cioè...sulle acque non mi viene ancora molto bene...camminare...ci sto provando ma affondo...capisci? e quindi...
Sabatino: Sì è lui che vuole accelerare per poter produrre il capitolato che non so a chi caz... deve farlo vedere.
Canegrati: Io capisco perfettamente ma non mi può chiedere la roba la sera per la mattina..perché...
Sabatino: E tu gliela mandi quando puoi....gliela mandi quando...
Canegrati: esatto cioè...te lo volevo dire cioè che non è cattiveria ma la lettera è mandata ieri ore dodici con scadenza per oggi....anche perché io gli devo fare un lavoro serio, gli voglio allegare tutte le fatture con tutti i valori...pipi e pipà...cioè fare una roba che ha un senso!
2. Fabio Rizzi, l’uomo di Maroni e i soldi in mansarda. Varesino di Cittiglio, medico anestesista, ex senatore della Lega Nord, Fabio Rizzi 49 anni, è il plenipotenziario del governatore Roberto Maroni. Viene nominato presidente della commissione Sanità ed è a lui che il governatore affida la stesura della nuova legge regionale sulla Sanità. È la mattina del 17 gennaio 2015, Fabio Rizzi viene intercettato in un’ambientale mentre parla con la compagna Lorena Pagani, 43 anni, ora ai domiciliari, di 15 mila euro nascosti in soffitta. Denaro che, durante le perquisizioni eseguite martedì mattina dai carabinieri, però non sarà ritrovato.
Pagani: Tu come fai i pezzettoni da cinquecento che hai su...in mansarda?
Rizzi: Perché?
Pagani: E’ un casino adesso versarli.
Rizzi: Perché è un casino versarli?
Pagani: E non li prendono in banca eh!
Rizzi:I cinquecento?
Pagani: Neanche i duecento!
Rizzi:I duecento! I duecento perché ......c’è stato una roba di...falsificazione.
Pagani: Va beh!, a me quando salgo in Banca...
Rizzi: Vabbè c’ho anche qualche duecento mi sa.
Pagani: Uhe!!! Un botto ne hai di duecento.
Rizzi: No! Cinquecento e cento.
Pagani: Ah! te li ho rimessi su eh i quattrocento Fabio!, il giorno dopo, ...te li volevo mettere su già la sera stessa.
Rizzi: Terribile! Quei soldi lì probabilmente finiranno...nell’arredamento (i due devono arredare la nuova casa, ndr).
Pagani: : Quant’è che c’è su, quindicimila euro? E che ci fai con quindicimila euro?
Rizzi: Beh!!.... (La donna ride, ndr).
Pagani: Prendi la cucina!
3. Mario Longo, in Lombardia lavorano i lombardi. Mario Longo, 50 anni, già consulente della società Eupolis, riconducibile a Regione Lombardia, imprenditore nel settore odontoiatrico, è nello staff del presidente della Commissione Sanità, Fabio Rizzi. È lui a tenere i rapporti con l’imprenditrice Paola Canegrati, è lui ad intervenire quando bisogna «aggiustare» le cose. È il 14 gennaio 2015. Mario Longo e il presidente Fabio Rizzi vengono intercettati mentre parlano dell’affare Stomatologico. I dirigenti dell’ospedale vogliono rivolgersi ad un’azienda svizzera. La «cricca» interviene sui vertici dell’Azienda ospedaliera. La regola? Gli appalti devono rimanere in Lombardia.
Longo: Il messaggio per lo Stomatologico forte e chiaro!
Rizzi: recepito o no?
Longo: Tu pensa che il presidente manco lo sapeva!
Rizzi: A posto siamo! Molto bene.
Longo: Sai chi è che faceva il furbo tanto per cambiare? Seghezzi.
Rizzi: Bella testa di caz...!
Longo: Che ti manda tanti saluti...io l’ho ricambiato e gli ho detto: vieni a farti vedere, però! Che ti spiego un paio di dettagli.
Rizzi: Bravissimo.
Longo: Hai capito? E io gli ho detto chiaramente che in Lombardia lavorano i lombardi!Rizzi: e beh è chiaro cazzo!
Longo: E che siccome noi siamo azionisti di quella struttura privata perché come Regione Lombardia gli diamo un puttanaio di soldi...
Rizzi: no ma al di là di tutto, voglio dire...se stiamo portando avanti il discorso della rete del chilometro zero e tutto il resto, voglio dire...si fa quello e basta! punto.
Longo: no no gliel’ho detto...
Rizzi: l’importante è che lui abbia recepito forte e chiaro!
Longo: forte e chiaro, l’ho perd...l’ho battezzato e perdonato per la questione Bruccoli...perché lui, sai, già era molto sulla difensiva ...gli ho detto guarda, sbagliano tutti...tu sappi che noi siamo qui e ascoltiamo tutti, hai un problema? chiamami io ti ricevo, lo risolviamo! sei nella nostra...se ovviamente possibile per noi. E poi gli ho detto: tu l’hai letta la riforma?...ah no a dirti la verità...ho detto, guarda, adesso te la mando...
Rizzi: (ride).
Longo: leggitela bene...e capirai che il chilometro zero è il...la colonna portante...
4. Roberto Maroni e la riforma della Sanità targata Rizzi. Roberto Maroni, governatore lombardo dal 2013, ex ministro e leader della Lega Nord. Varesino, è lui a scegliere la nomina di Rizzi alla guida della commissione Sanità lombarda. Attualmente Maroni, dopo l’arresto dell’ex assessore Mario Mantovani, detiene proprio le deleghe sulla Sanità. È il 7 luglio 2014. Paola Canegrati è diretta in Svizzera insieme a Luca Galli. In auto parlano della nomina di Rizzi, della sua ascesa voluta dal governatore Roberto Maroni in vista della riforma della Sanità in Lombardia. Canegrati: Ho sentito Longo stamattina... m’ha detto... “allora...il Senatore Rizzi è stato ufficialmente nominato come l’interlocutore per la sanità dal presidente Maroni”...g’ho dit (gli ho detto, ndr) “congratulazioni”... Luca... (inc)... adesso questo qui s’è fatto fare questa.... progetto dentiere pazienti anziani... el ciapa utantamila euro l’anne (prende ottantamila euro l’anno, ndr).
Galli: Il Mario?
Canegrati: Si... per non fare un caz...
Galli: Sì, lo so, tu devi vedere cosa (inc) conviene fare ... le cazzate...
Canegrati: Che poi il lavoro g’al fu mi ne (lo faccio io, ndr).
Galli: Si comunque... se puoi tienilo buono... che comunque sono quelle persone pericolose...
Canegrati: Quello sì, figurati... lo tengo altro che buono... più buono di così... lui prende i soldi e io lavoro...ascolta...cosa fa?
Galli: Purtroppo.
Canegrati: Non va bene... non è sufficiente tenerlo buono così?...
Il nome del governatore Maroni sbuca anche in un’altra intercettazione, quella tra Longo e Paolo Enzo Brusini, dirigente ospedaliero del 12 maggio 2014. Ecco il sunto dei carabinieri: Longo e Brusini parlano del progetto di cui fa parte Longo agli Icp, dicendo che è stato fortemente pubblicizzato da Rizzi e dallo stesso Maroni. In tal senso Longo si lamenta della poca collaborazione (del Dg degli Istituti clinici di perfezionamento, ndr).
Longo: tu sai che lui l’ha osteggiato in tutti i modi possibili e immaginabili... Fabio (Rizzi, ndr) ha fatto una prova di forza e gliel’ha messo lì in modo inconfutabile (il progetto, Ndr) e lui adesso vuol far fare una figura di mer...a Fabio... perché quello è... poi io gli sto sul culo di riflesso...
Brusini risponde che lui (il Dg) è un direttore e non deve fare politica. Longo aggiunge che lui non comprende che è lì dov’è (il Dg di Icp) in quanto scelto dalla politica. Longo e Brusini continuano a commentare la figura del Dg e poi iniziano a parlare di altre vicende e di una riunione che ha convocato Maroni per l’indomani con tutti i direttori generali. Brusini si aspetta che Maroni li esorti a fare attenzione e Longo afferma che si tratterà di una riunione operativa in quanto gli è stato spiegato in un incontro con Fabio (Rizzi, ndr) che le aziende (ospedaliere) sono tutte ferme. Longo dice che dopo li fatti giudiziari Maroni deve dare un segno di controllo. Brusini teme che per far vedere che Maroni controlla, blocchi gli spostamenti dei Dg.
5. Pietrogino Pezzano, il dottor Dobermann e la Canegrati. Nato a Palizzi (Reggio Calabria) 68 anni fa, ex direttore dell’Asl di Monza, allevatore di dobermann, al tempo dell’indagine è il compagno di Paola Canegrati e direttore sanitario delle sue aziende. L’indagine viene avviata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano seguendo proprio le vicende di Pietrogino Pezzano. Il manager della sanità viene fotografato durante l’inchiesta Infinito-Crimine sulla ‘ndrangheta in Lombardia, insieme ad alcuni esponenti dei clan di Desio. La vicenda provoca molte polemiche culminate poi nel 2011 nella rivolta di 19 sindaci dell’hinterland milanese contro la sua nomina a direttore dell’Asl Milano 1. La nomina viene bloccata e Pezzano si ritira. Va in pensione ma non abbandona il business della Sanità e diventa direttore sanitario delle aziende della compagna Paola Canegrati. I carabinieri seguono i movimenti del «dottor dobermann» come viene soprannominato dagli amici e scoprono la rete di aziende del «Sistema Canegrati». L’indagine, partita dai legami con la ‘ndrangheta al Nord, finisce per concentrarsi sulle vicende di corruzione in Lombardia. Intercettati dai carabinieri Paola Canegrati e il commercialista delle sue società Giancarlo Marchetti parlano della vendita di una parte dell’azienda. Canegrati commenta che ha dato un sacco di soldi a un sacco di gente. Dice anche di aver dato un sacco di soldi anche a Pietro. La conversazione termina con i due che si chiedono cosa ne faccia Pezzano di tutti quei soldi e che commentano come la storia d’amore tra il Pezzano e la Canegrati stia volgendo al termine. Marchetti si poneva il problema di giustificare agli aspiranti acquirenti il costo del suo esorbitante stipendio (nel 2013 risulta avere percepito 210.999 euro da Elledent e 50.000 euro da Servicedent).
Marchetti: il dottor Pezzano...non sta facendo assolutamente…non è assolutamente un direttore generale, ma neanche lontanamente lo è.
Canegrati: dobbiamo giocarci…dobbiamo pensare in questo tempo come gli vendiamo Pezzano… questo sì… non posso dirgli che non ha mai fatto niente...
6. Massimiliano Sabatino, il «controllore» e la «cucciola». Massimiliano Sabatino è il dirigente della struttura “Gestione e controllo dei processi organizzativi e marketing sanitario” degli Istituti clinici di perfezionamento. Grande amico della manager Paola Canegrati, secondo i magistrati non solo è al suo servizio ma CP. Massimiliano Sabatino, scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, «si è dimostrato avere una relazione più che amicale (oltre che professionale) con Canegrati, finanche appellata ‘cucciolo’, ‘amore’; la frequentava in occasioni extralavorative e si prodigava di darle consigli e informazioni anche su futuri controlli da parte della Asl nei centri dalla stessa gestiti, così da permetterle di trovarsi preparata o di regolarizzare per tempo eventuali situazioni critiche”. Prosegue il giudice per le indagini preliminari: «La sua vicinanza a Canegrati è tale che la propria funzione di dirigente pubblico preposto anche alla vigilanza della corretta gestione dei centri, è totalmente svilita ed assoggettata a favore del pressoché quotidiano interessamento e intervento in via riservata al fine di favorire Paoletta, mettendola al corrente di informazioni riservate, concordando con la stessa condotte e strategie da tenere nell’ambito della gestione dei centri e scagliandosi contro i suoi più solerti colleghi. Intercettata è la stessa Canegrati a spiegare, chiaramente, il ruolo del dirigente degli Istituti clinici di perfezionamento nel sistema di corruzione: Canegrati: chel bagai chi (questo ragazzo qui, in dialetto, ndr) gli voglio bene davvero...è un ragazzo...direzione generale degli Icp... quello col quale sto facendo la “marchetta dell’Opt”.
7. Pietro Caltagirone, una carriera ai vertici della Sanità. Pietro Caltagirone, 56 anni, direttore generale dell’ospedale di Desio e Vimercate. Ex socialista craxiano, uno dei manager di punta dell’era formigoniana. Per lui, il giudice ha disposto l’obbligo di dimora. Pietro Caltagirone, nel suo ruolo di Direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate, si occupa della nuova gara per i servizi Odontostomatologici dell’ospedale. Bando che secondo gli inquirenti viene «costruito su misura» sulle esigenze del gruppo Canegrati. Scrive il gip: «Gravi indizi della responsabilità penale derivano proprio in ragione della carica da ciascuno rivestita e dell’attiva partecipazione nella formazione di siffatto bando illegittimo e farcito di clausole e di termini palesemente pregiudizievoli e univocamente orientati a favorire Canegrati». E Caltagirone non è nuovo a vicende di corruzione: «Quanto ai precedenti penali, va, in particolare evidenziato che Caltagirone è stato condannato, tra l’altro, per i reati di cui agli artt. 323, 479 c.p. (falso e abuso d’ufficio, ndr)».
8. Patrizia Pedrotti e il pianto per l’assunzione del figlio. Patrizia Pedrotti, 53 anni, direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera di Desio e Vimercate. È finita ai domiciliari. Era già stata coinvolta in un’indagine per reati analoghi e sospesa dalle funzioni in seguito ad un’indagine della Procura di Milano. In un’intercettazione scoppia in lacrime quando la manager Canergati le annuncia l’assunzione del figlio Davide. È l’aprile del 2014, Patrizia Pedrotti, direttore amministrativo dell’ospedale di Desio e Vimercate, parla al telefono con l’imprenditrice Paola Canegrati. La manager le comunica l’avvenuta assunzione del figlio Davide presso una delle sue aziende, la Servicedent srl. «La gratitudine di Pedrotti, commossa fino alle lacrime, era infinita», scrivono gli inquirenti. Ecco la telefonata:
Pedrotti: Paola...(piangendo).
Canegrati Eh... cosa c’hai?
Pedrotti: Scusami...
Canegrati: Non piangere, hai un bellissimo ragazzo...
Pedrotti: Oh Paola, tu non sai...
Canegrati: Hai un bellissimo ragazzo, veramente proprio un...
Pedrotti: Era felicissimo, mi ha detto mamma finalmente qualcosa di positivo anche per...
Canegrati: Allora, hai un bellissimo ragazzo, mi sembra una persona molto seria... Pedrotti: Sì lo è.
Canegrati: Io sono stata molto determinata...
Pedrotti: Me l’ha detto, m’ha detto mi sembrava di parlare con te, vi assomigliate un casino...
Canegrati: Eh... io sono stata molto determinata, venerdì viene firma il contratto, lunedì comincia, io gli ho detto per me non ci sono... cioè... figli e figliastri, tu fai il tuo mestiere...
Pedrotti: Esatto, guarda davvero devi dirglielo, riprendilo, sgridalo, perché deve capire nel mondo del lavoro quanto si fa fatica, però guarda, ti giuro Paola... poverino...
Canegrati: Mi è sembrato, mi è sembrato veramente un ragazzo che ha valore, l’unica cosa che gli ho detto, gli ho detto lei comincia da questo posto che è il Cup, tra virgolette dopodiché se io valuterò che lei ha le capacità e le possibilità, di spazio e di tempo per migliorare ce n’è per tutti.
Successivamente Canegrati dice a Pedrotti che farà togliere il piercing all’occhio al figlio dell’interlocutrice e la stessa la ringrazia più volte piangendo.
Canegrati: Venerdì alle 11 viene firma il contratto lunedì comincia.
Pedrotti: Madonna guarda, veramente mi hai reso la donna più felice della terra in questo momento ti giuro...
Canegrati: Sono felice per te.
Pedrotti: No davvero guarda...
Canegrati: Ti abbraccio.
Pedrotti: Anch’io, non sai quanto guarda, potessi ti... ti... ti farei un monumento ti giuro.
Sanità lombarda: 20 anni di scandali giudiziari. L'arresto di Rizzi è soltanto l'ultimo capitolo. Da Poggiolini a Poggi Longostrevi fino a Mantovani: i casi di appalti pilotati, corruzione e malaffare in Regione, scrive di Francesca Buonfiglioli il 16 Febbraio 2016 su “Lettera 43”. Appena il tempo di spiegare la portata della riforma - o, meglio, «evoluzione» come la preferisce definire Roberto Maroni - del Sistema socio-sanitario lombardo, «perché 'riforma'», spiegava il governatore il 18 gennaio 2016, «evoca qualcosa che non funziona, mentre il Sistema socio-sanitario in Lombardia è una eccellenza» - che ecco piombare sul Pirellone un nuovo scandalo. Tra i 21 arresti spiccati il 16 febbraio nell'ambito dell'operazione Smile su presunte irregolarità in appalti odontoiatrici presso aziende ospedaliere lombarde c'è pure Fabio Rizzi, presidente della Commissione Sanità e Politiche sociali del Consiglio regionale nonché braccio destro di Bobo e padre di quell'«evoluzione» della Sanità più volte decantata dal governatore. L'accusa nei confronti del leghista è pesante: associazione per delinquere. L'indagine della procura di Monza è però solo l'ultimo capitolo del libro nero della Sanità lombarda. Che va dall'arresto di Duilio Poggiolini, il Re Mida della Sanità o il boss della malasanità, e arriva fino alle manette scattate ai polsi di Mario Mantovani, console berlusconiano, ras della sanità regionale ed ex vice presidente lombardo. In mezzo ci sono mazzette, truffe, vacanze e viaggi sospetti, turbative d'asta. Ma anche emoderivati infetti e cliniche degli orrori.
1993: Tangentopoli scoperchia gli affari di Poggiolini. Nella bufera milanese di Tangentopoli finì nel 1993 Duilio Poggiolini, presidente della Commissione per i farmaci dell'allora Comunità economica europea e iscritto alla P2. Secondo il pool di Di Pietro, Poggiolini era a libro paga delle case farmaceutiche per fare inserire i farmaci nei prontuari manipolandone i prezzi. A riscuotere le mazzette delle multinazionali era la moglie Pierr di Maria, anch'essa arrestata e morta nel 2007. Quando venne catturato latitante sotto falso nome in una clinica di Losanna, gli inquirenti trovarono su un conto svizzero intestato alla consorte 15 miliardi di vecchie lire. Nulla in confronto al cosiddetto 'tesoro Poggiolini': lingotti d'oro, gioielli, quadri, monete antiche, rubli e banconote nascoste perfino nei puff e nei materassi della sua abitazione all'Eur. Il boss della malasanità è poi tuttora sotto processo nell'ambito dell'inchiesta napoletana sul plasma infetto fornito dal Gruppo Marcucci. Secondo l'associazione politrasfusi, tra il 1985 e il 2008 le vittime di trasfusioni sono state 2.605. Ironia della sorte, l'ottobre 2015 l'87enne Poggiolini è stato trovato in una casa di riposo abusiva alle porte di Roma, tra anziani maltrattati, ammassati e confezioni di sedativi.
1997: Poggi Longostrevi e lo scandalo delle prescrizioni d'oro. Per un Re Mida della Sanità nazionale, ce n'era uno di quella lombarda: Giuseppe Poggi Longostrevi, medico e proprietario di una rete di cliniche private nel Milanese. Nel 1997 un'inchiesta mise con le spalle al muro centinaia di medici di famiglia che prescrivevano scintigrafie presso le strutture convenzionate di proprietà di Longostrevi dietro compenso (dalle 50 alle 100 mila lire) più il 15% del valore degli esami di laboratorio e regali da parte del manager. Secondo l'accusa, molti esami non vennero nemmeno effettuati. In compenso fioccavano i rimborsi da parte della Regione. La Corte dei conti stimò i danni causati all'erario in 60 miliardi. Ma c'è di più: Poggi Longostrevi tra il '96 e il '97 aveva pagato una mazzetta da 72 milioni di lire a Giancarlo Abelli, allora presidente della Commissione Sanità in Regione Lombardia. «Una consulenza», spiegò Abelli, già braccio sanitario di Roberto Formigoni. «Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione», confessò invece Longostrevi, che dopo nove mesi agli arresti si tolse la vita con una overdose di barbiturci. «Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto... Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore». Ciò che accadde ad Abelli che dopo lo scandalo delle ricette ottenne la poltrona alla Sanità. Alla fine se la cavò con un processo per false fatture. Ma visto che non si dimostrò la volontà di evadere le tasse, fu assolto dall'accusa di frode fiscale, continuando la sua carriera al Pirellone al fianco del Celeste e poi come fedelissimo di Silvio Berlusconi a Roma. È scomparso il 26 gennaio 2016.
2011: Daccò e l'impero del Celeste. In piena era formigoniana la sanità regionale è stata sconvolta da un altro scandalo: il crac della Fondazione San Raffaele, centro d'eccellenza di Don Verzé. Nel mirino nel novembre 2011 è finito Pierangelo Daccò, uomo vicino a Comunione e liberazione, accusato di distrarre milioni dall'ospedale: avrebbe ricevuto denaro in contante dal vice di Verzé, Mario Cal, poi finito suicida. Tra l'altro fu lui a gestire l'acquisto del nuovo aereo privato del prete-manager, intascandosi una consulenza da un milione di euro. Affare che provocò 10 milioni di buco nel bilancio dell'ente. Il nome di Daccò però è legato anche all'inchiesta sui fondi neri del Pirellone alla clinica Maugeri in cui è accusato di aver distratto circa 70 milioni di euro sotto forma di consulenze e finti appalti. Vicenda che vede imputato anche l'amico ed ex governatore lombardo Formigoni con cui il faccendiere condivideva feste, cene, vacanze e viaggi. Che, secondo l'accusa, in realtà erano benefit per ottenere favori dalla Regione. Il Celeste è stato così rinviato a processo per associazione a delinquere e corruzione assieme, tra gli altri, all'ex assessore regionale alla Sanità Antonio Simone e allo stesso Daccò. Nel 2012 Formigoni si difese parlando di quelle vacanze in Sardegna come «scambi tra persone amiche» e «viaggi di gruppo in cui alla fine si conguagliano le spese», negando di aver mai ricevuto «regalie». Ferie a tre che la moglie di Simone Carla Vites - accusata di riciclaggio - aveva invece definito «weekend “romantici” a cui mio marito non mi portava. Daccò trascinava in vacanza gente che aveva fatto voto di castità, povertà e obbedienza, facendoli ballare come bambini deficienti».
2015: bufera sul ras della Sanità lombarda Mantovani. I guai della Sanità lombarda dall'impero del Celeste passano alla gestione di Roberto Maroni, colui che brandendo una ramazza aveva promesso di disinfestare la Lega dagli scandali bossiani. Eppure il Barbaro sognante si è dovuto arrendere alla realtà dei fatti. A ottobre del 2015 è infatti finito in manette il suo vice ed ex assessore alla Sanità, il forzista Mario Mantovani con l'accusa di corruzione e concussione per appalti nella sanità, compresa una gara sul trasporto dei dializzati. In carcere sono finiti pure il collaboratore del berlusconiano, Giacomo di Capua, capo di gabinetto dell'assessorato e mente dei manifesti «Via le Br dalla procura», e Angelo Bianchi, ingegnere del provveditorato alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria, già rinviato a giudizio per presunti appalti truccati in Valtellina. Tra i 12 indagati compare anche il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e vicinissimo a Maroni. Avrebbe agito per turbare la gara «per l'affidamento del servizio di soggetti nefropatici sottoposti al trattamento dialitico». Mantovani - signore di Arconate di cui è stato sindaco per quasi 15 anni, badante di Mamma Rosa, la madre di Berlusconi, che ha assistito fino all'ultimo e organizzatore dei pullman di anziani in occasione delle manifestazioni di Silvio - è un altro dei ras della Sanità lombarda: alla sua famiglia fanno capo la società Immobiliare Vigevanese che realizza residenze socio assistenziali e la Fondazione Mantovani che gestisce alcune di queste strutture. Come slogan ha: «Il valore della vita, il calore della famiglia, la forza della solidarietà».
2016: Rizzi, Longo e il legame tra imprenditoria e politica. E ora con l'arresto di Rizzi, medico anestesista e rianimatore, segretario provinciale del Carroccio di Varese dal 2006 al 2008, e dal 2008 al 2013 senatore, Bobo deve fare fronte a un nuovo terremoto. L'indagine, coordinata dalla procura di Monza, ha ricostruito l'operato di un gruppo imprenditoriale accusato di aver corrotto funzionari delle gare di appalto pubbliche lombarde, bandite da diverse aziende ospedaliere per la gestione esterna di servizi odontoiatrici, riuscendo ad aggiudicarsele. Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, alla corruzione e alla turbativa d'asta per i servizi odontoiatrici esternalizzati in Lombardia. Con Rizzi è finito in carcere l'imprenditore Mario Valentino Longo, componente dello staff del consigliere. I due sarebbero stati pagati dal gruppo imprenditoriale al centro dell'inchiesta con il finanziamento della campagna elettorale di Rizzi per le elezioni regionali del 2013. E successivamente con versamenti tra cui una tangente di 50 mila euro e una serie di finte consulenze, per 5 mila euro al mese, fatturate dalla moglie di Longo. Al centro dell'inchiesta c'è l'imprenditrice Maria Paola Canegrati, considerata il «vertice» del sistema corruttivo. Secondo gli inquirenti, le società a lei riferibili tra cui la Elledent e la Service Dent (del gruppo Odontoquality con sede ad Arcore-Monza), in 10 anni avrebbero preso il monopolio dei servizi odontoiatrici appaltati in esterno dagli ospedali lombardi. Rizzi e Longo avrebbero favorito l'imprenditrice in gare di appalto bandite dalle Aziende Ospedaliere Istituti Clinici di Perfezionamento (del 2015, da 45 milioni di euro) e Ospedale di Circolo di Busto Arsizio (del 2014, da 10 milioni di euro). Gare che secondo l'accusa erano puramente formali. Canegrati stessa, dal 2013, avrebbe tessuto una rete di azione a livello amministrativo con funzionari pubblici corrotti, i quali erano a libro paga del suo gruppo imprenditoriale. Si parla di un giro di affari di 400 milioni di euro.
2007: non solo tangenti, anche i morti della clinica Santa Rita. Ma la malasanità lombarda non è solo fatta di mazzette, benefit e appalti truccati. È fatta anche di morti. Nel 2007 un'operazione della Guardia di finanza e della procura di Milano hanno portato alla luce gli orrori della clinica Santa Rita di Milano dove venivano effettuate operazioni chirurgiche senza che fossero necessarie solo per incassare i rimborsi della Regione. Il primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone è stato condannato all'ergastolo anche in Appello con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e 45 casi di lesioni.
Expo, l'inchiesta per mafia arriva dopo la vittoria di Sala. Le mani di Cosa nostra sugli appalti e sull'allestimento degli stand: 11 in cella e c'è l'ombra di Messina Denaro, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 7/07/2016, su “Il Giornale”. Le mani di Cosa nostra sull'Expo. Sul padiglione della Francia, sulla passerella, sui presidi della Guinea Equatoriale, del Qatar, di altri Paesi e sponsor. Pare una fiction è la realtà che sfregia il tanto celebrato modello Milano. E non tanto per il risvolto penale, pure corposo, con l'arresto di 11 persone, tutte però estranee al circuito di Fiera-Expo. Ma per il contesto, per l'assenza disarmante di controlli, per il fatto, sottolineato dal pm Paolo Storari in conferenza stampa, «che i codici etici fossero solo carta e ancora carta che rimaneva lì». E Ilda Boccassini, che ha coordinato l'inchiesta in cui si contesta l'associazione a delinquere con l'aggravante della finalità mafiosa, rimarca con un sorriso disincantato che «nella storia della repubblica italiana non è cambiato mai nulla». E così alla fine della catena troviamo gli affidamenti diretti, come li chiamano i magistrati, che la Nolostand, società controllata da Fiera Milano spa, dà all'oscuro consorzio Dominus Scarl per montare e smontare alcuni padiglioni di Expo. E ci imbattiamo in un lessico conosciuto da chi scava nei rapporti fra criminalità organizzata e criminalità economica: le cartiere che producono false fatture, i prestanome, i doppi fondi a casa degli indagati per nascondere il denaro nero. E lo sconcertante scivolone dell'avvocato Danilo Tipo, stimato ex presidente della Camera penale di Caltanissetta oggi in manette, che viene fermato con 300mila euro e si giustifica serafico: «È una parcella in nero che non c'entra con questa storia». Il consorzio Dominus, specializzato sulla carta nell'allestimento di stand, fattura 20 milioni in tre anni, soldi che i due protagonisti di questa storia, Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, fanno girare, dopo aver evaso tutte le tasse possibili, anche verso i forzieri siciliani di Cosa nostra. E le famiglie di Pietraperzia e Castelvetrano, il «regno» del boss dei boss Matteo Messina Denaro. «Un fenomeno inquietante», lo definisce il procuratore capo Francesco Greco. Vengono i brividi e ci si chiede cosa sarebbe successo se l'inchiesta fosse emersa prima del ballottaggio fra Stefano Parisi e Giuseppe Sala che di Expo è stato il commissario unico. I tempi però non c'erano. La Boccassini aveva chiesto le manette tre-quattro mesi fa, ma una malattia del gip ha allungato i tempi di qualche settimana. L'inchiesta è partita su segnalazione dei carabinieri di Rho più di un anno fa e non ha portato, ripete Boccassini, almeno per ora, a individuare «responsabilità penali all'interno dell'ente Fiera e nella società Expo». E però è evidente il disagio del procuratore aggiunto che parla di «sciatteria, superficialità, negligenza». I dirigenti di Nolostand trattavano a occhi chiusi con Pace e Nastasi ed evidentemente ignoravano tutti i segnali che avrebbero consigliato molta, molta prudenza. «Fra l'altro - spiega Storari - in Fiera era arrivata una lettera anonima che diceva senza tanti giri di parole: Nastasi è un mafioso. Ma la lettera finì nel cestino». E così, dettaglio che oggi appare surreale, Nastasi aveva tranquillamente un ufficio in Fiera. E lui e Pace riuscirono nel luglio dell'anno scorso a incontrare il nuovo amministratore delegato di Fiera Milano Corrado Peraboni. Sarebbe stato sufficiente seguire il codice etico: «L'amministratore legale di Dominus è il padre di Nastasi, Calogero, che ha 71 anni e vive a Pietraperzia ma i dirigenti di Nolostand trattavano con il figlio che non è neanche un dipendente della società». È un quadro davvero deprimente quello che esce dalle indagini. Anche se gli intercettati sembrano temere il presidente dell'Anac Raffaele Cantone: «Li ha messi tutti in fila». Le infiltrazioni mafiose vanno avanti come e più di prima. I cronisti vorrebbero capire meglio, ma Greco li stoppa: «State facendo politica». E congeda tutti quanti.
Quella tempistica che favorisce la sinistra. Quello che tutti temevano è successo. Puntuale, a differenza della procura di Milano, scrive Giannino Della Frattina, Giovedì 7/07/2016, su "Il Giornale". Quello che tutti temevano è successo. Puntuali come i treni al tempo di Mussolini, le mani delle famiglie mafiose si sono allungate sul mega business dell'Expo. Molto meno puntuale, forse, è stata la procura di Milano che prima di disporre 11 arresti per associazione a delinquere finalizzata a favorire gli interessi di Cosa nostra, ha aspettato che l'allora commissario Expo Giuseppe Sala, poi candidato dal centrosinistra a sindaco di Milano (e i cui più stretti collaboratori sono da tempo finiti in carcere), vincesse la sua sfida elettorale. Di pochi voti, tanto che viene ora da chiedersi come sarebbe andata a finire la partita con Stefano Parisi se le manette per gli appalti sui padiglioni Expo fossero scattate 15 giorni prima del voto e non 15 giorni dopo. Nervo scoperto per i magistrati, visto che ieri dopo aver convocato una conferenza stampa per raccontare le meraviglie dell'indagine, se ne sono andati seccati quando è stato chiesto loro conto di una tempistica quantomeno sospetta e di un «modello Milano» che non ha saputo tenere di fronte alle infiltrazioni della mafia. Il solito brutto atteggiamento di magistrati che non vedono come la libertà di informazione non preveda domande buone o domande cattive, ma solo buone risposte a domande comunque legittime. A meno che ancora una volta la corporazione non abbia voluto chiudersi a riccio per difendere il collega Raffaele Cantone, quel commissario dell'Autorità nazionale anticorruzione che era stato chiamato al capezzale dell'Expo dopo la raffica di arresti e che era stato presentato come l'unico taumaturgo capace del miracolo di un grande evento mafia free. E, invece, non è stato così. Per Expo e Fiera non ci sono responsabilità penali, precisa la procura. Ma è un fatto che i controlli non abbiano funzionato e che le responsabilità ci debbano essere se la mafia è arrivata nel cuore dell'Expo, a costruire i suoi padiglioni più importanti come quello della Francia. E vien da chiedersi dentro quale baratro sia finito il Paese se le cosche di Pietraperzia e Castelvetrano, che dette i natali a Giovanni Gentile e oggi ricorda i Messina Denaro, possono permettersi di far scorrere «un fiume di soldi in nero» dentro l'evento più importante e più sorvegliato degli ultimi decenni. Facendo diventare, alla faccia del «Modello Milano» tanto vantato da Sala e da Renzi, Expo e Fiera Milano il bancomat di Cosa nostra. Ma gettando qualche ombra anche sulla magistratura sospettata, come fatto intravedere in un'intervista l'ex procuratore Bruti Liberati, di aver concesso all'Expo una «moratoria» che ha congelato chissà quante indagini. Alla faccia dell'obbligatorietà dell'azione penale e del «non poteva non sapere». Moratoria prolungata alla chiusura di Expo a ottobre dalla decisione di Renzi di candidare Sala sindaco. E adesso? Finisce qui o ci sono altri fascicoli nel congelatore dei magistrati da tirar fuori?
La lettera anonima sull’ “amministratore mafioso” cestinata in Fiera Milano. Com’è possibile che una società leader mondiale negli allestimenti fieristici non si accorga di fare affari con due tizi sedicenti amministratori di un consorzio che sono in realtà poco più di Totò e Peppino alla prese con la vendita della fontana di Trevi? Per la Procura di Milano è potuto accadere per sciatteria, ma non ci sono reati (almeno per il momento), scrive Manuela D’Alessandro il 6 luglio 2016 su “Giustiziami”. “Ora state facendo politica”, ha ammonito il fresco procuratore capo Francesco Greco i cronisti che insistevano durante la conferenza stampa sulle presunte responsabilità penali di Fiera Milano nel non accorgersi che la sua controllata Nolostand spa aveva affidato in violazione dei codici etici la costruzione dei padiglioni di Expo a Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, arrestati per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali aggravata dalla finalità mafiosa. I due si presentavano come amministratori del consorzio Dominus ma sarebbe bastata una visura camerale per constatare che maneggiavano milioni di euro senza alcun titolo. I codici etici della Fiera prevedono che i contatti coi collaboratori esterni avvengano “con la persona fisica o giuridica che rappresenta la parte”. Di Liborio Pace si poteva sapere che era stato imputato in un procedimento per mafia, concluso con la sua assoluzione. Ma ancor di più sconcerta quello che si sarebbe potuto sapere su Giuseppe Nastasi. Il 16 marzo arriva in Fiera una lettera che viene cestinata in cui viene definito un “mafioso”. Ebbene: se vi arrivasse la soffiata che una persona a cui state affidando dei lavori per voi molto preziosi cosa fareste? Enrico Mantica, il direttore tecnico di Nolostand (non indagato), telefona a Nastasi e lo informa che qualcuno va raccontando che lui è un mafioso. Scrivono i giudici della sezione misure di prevenzione che hanno commissariato Nolostand: “Nastasi e Mantica discutono della lettera anonima ricevuta dal dirigente di Fiera Milano (“è arrivata una lettera che poi quando passa gliela faccio vedere…”). Mantica appare a quel punto restio nel proseguire telefonicamente l’argomento (“No, eh, ci sono altre cose che poi meglio che ne parliamo di…Quando può…meglio evitare di parlarne al telefono dai!)”. I due poi effettivamente si incontrano e, stando a quanto racconta Nastasi a un’amica, Mantica non è apparso turbato dal contenuto della lettera anonima: “Mi ha detto stia sereno…e mi è apparso serenissimo, tranquillo”. E così, chiosano i giudici, “per nulla scalfiti dal contenuto della lettera i rapporti tra Giuseppe Nastasi e i vertici operativi di Fiera Milano – Nolostand spa divengono sempre più fitti con il passare dei giorni, al fine di ottenere la proroga del contratto di servizi con Nolsotand spa per il triennio 2016 – 2028 (…)”. Nolostand è stata commissariata: la legge prevede che per questa misura non è necessario che l’azienda abbia commesso reati, basta solo che il libero esercizio di un’attività economica, a causa di una condotta dei sui dirigenti censurabile sul piano colposo, abbia l’effetto di agevolare persone indagate per gravi reati”.
Trattativa Pd-pm milanesi: presto cadranno tutti i segreti. Dopo il plauso di Renzi ai giudici che hanno salvato Expo e Sala, il procuratore smentisce: "Nessuna moratoria". Bruti va in pensione, se ripartono le inchieste sarà la controprova, scrive Luca Fazzo, Giovedì 12/11/2015, su "Il Giornale. Procuratore, cosa c'è nei vostri cassetti? La domanda rimane senza risposta. Edmondo Bruti Liberati scivola via, inghiottito nel nugolo di agenti che scortano, pochi metri più in là, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per Bruti è il giorno dell'addio. Nell'aula magna del tribunale il Procuratore ha tenuto il suo ultimo discorso. Tra tre giorni andrà in pensione. È un addio amaro. Non solo perché Bruti se ne va anzitempo, sull'onda delle polemiche furibonde che hanno lacerato la Procura milanese, e che lo esponevano al rischio di essere esautorato dal Csm. Ma anche perché, manco a farlo apposta, alla vigilia del suo addio gli è piombato addosso un ringraziamento che somiglia a un killeraggio: quello del presidente del Consiglio. «Voglio ringraziare i magistrati di Milano per il rispetto rigoroso della legge ma anche del sistema istituzionale», aveva detto Matteo Renzi. Parole che a chiunque (compresi numerosi magistrati) sono suonate come la conferma ufficiale di quanto da mesi si dice nel Palazzo di giustizia milanese, e che solo un vecchio reporter iconoclasta come Frank Cimini aveva osato scrivere: l'esistenza di una moratoria tacita, un accordo tra potere politico e procura milanese per consentire a Expo di svolgersi al riparo da retate e avvisi di garanzia. «Nessuna moratoria - dice ieri Bruti - io sto ai fatti: le indagini su Expo sono state fatte». Se un riguardo c'è stato, dice il procuratore, è consistito nella «celerità dell'indagine» perché non si bloccassero i lavori dell'esposizione». Nient'altro. E il ministro Orlando prova anche lui a smosciare, spiegando che il «rispetto istituzionale» dimostrato dalla Procura milanese ha significato soltanto «fare ciò che impone la legge»: frase evidentemente priva di significato. E dunque? Di cosa parla davvero Renzi, quali accordi taciti o espliciti sono intercorsi in questi mesi perché non si disturbasse l'Expo di Giuseppe Sala? Per capire la portata di questi interrogativi bisogna andare indietro, alla nomina di Bruti alla guida della Procura cinque anni fa, conquistata grazie ad un accordo bipartisan in Csm fortemente voluto da Giorgio Napolitano: e a come il Quirinale abbia sempre vegliato su Bruti, considerandolo un magistrato non ottusamente chiuso nei codici ma aperto anche alle esigenze della società e della politica, e poi difendendolo apertamente anche nel momento più difficile, lo scontro con il suo vice Alfredo Robledo. Di questa interpretazione «politica» del suo ruolo, Bruti ha beneficiato a volte anche il centrodestra: come quando evitò il carcere a Alessandro Sallusti, o aprì la strada all'affidamento ai servizi sociali di Silvio Berlusconi. Ma è oggettivo che il caso più eclatante, l'inchiesta Sea dimenticata in cassaforte, ha tolto una rogna dal cammino della giunta rosso-arancione di Milano. Ed è altrettanto evidente che le inchieste su Expo che ieri Bruti rivendica si sono fermate tutte alla vigilia dell'esposizione. Dopo le retate del 2014, le indagini si sono fermate. Solo nelle prossime settimane, chiusa Expo e pensionato Bruti, si capirà se davvero, come si dice da tempo in tribunale, le notizie di reato relative all'esposizione siano continuate ad arrivare, e siano tenute sotto nomi di copertura in attesa della fine della moratoria.
La guerra in Procura termina con la “condanna” di Robledo. Milano, dopo la querelle con Bruti Liberati il Csm ha deciso: sarà aggiunto a Torino ma perde di sei mesi di anzianità, scrive Paolo Colonello l'1 giugno 2016 su "La Stampa". La triste guerra Bruti-Robledo finisce come finiscono tutte le guerre: nel modo peggiore. Soprattutto per Alfredo Robledo, l’ex capo dell’anticorruzione milanese, già trasferito cautelarmente a Torino e da ieri «condannato» dalla sezione disciplinare del Csm alla perdita di 6 mesi di anzianità e all’allontanamento definitivo dall’ufficio di Milano, con però la restituzione delle funzioni di procuratore aggiunto sempre a Torino (decisione presa sulla base di una sentenza delle sezioni riunite civili di Cassazione che avevano bocciato la retrocessione di un altro magistrato). Magra consolazione per un magistrato che ancora l’altro ieri, davanti ai membri della commissione disciplinare si era difeso con forza sottolineando di «aver vissuto 39 anni limpidi in magistratura. Per me questa accusa è atroce. L’accusa di scambio di favori è per me infamante». Ieri il magistrato, davvero amareggiato, non ha voluto commentare gli ultimi avvenimenti che lo hanno visto suo malgrado protagonista. La vicenda è quella delle carte che Robledo avrebbe chiesto all’avvocato della Lega Nord, Domenico Aiello, per conoscere in anticipo le mosse dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini in una causa per calunnia aggravata. Il pg della Cassazione nella sua requisitoria aveva chiesto una pena più severa con la perdita di un anno di anzianità. Ieri il collegio ha accolto parzialmente le richieste avanzate dai pg Alfredo Viola e Pietro Gaeta che contestavano a Robledo di essere venuto meno «ai doveri di imparzialità e riserbo», nonché di «aver usato la propria qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé». In sostanza, secondo l’accusa, l’ex pm avrebbe messo in atto uno «scambio di favori» con l’avvocato della Lega Nord che in quel momento difendeva gli interessi del partito proprio davanti a Robledo, il quale indagava sul Carroccio per i rimborsi facili. Di più: secondo i pg, Robledo avrebbe addirittura scambiato con il legale notizie riservate sulla sua inchiesta. I dialoghi tra Robledo e il legale vennero registrati in alcune un’intercettazioni della procura di Reggio Calabria che stava indagando su una storia di criminalità organizzata che vedeva coinvolto un cliente dell’avvocato Aiello. E proprio questo rappresentò il colpo definitivo per Robledo che proprio in quel periodo aveva accusato il suo ex capo Bruti Liberati di una gestione opaca dell’ufficio giudiziario e in particolare di aver dimenticato in un cassetto un’inchiesta sulla vendita di un pacchetto azionario della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi. Indagine successivamente archiviata dallo stesso tribunale, Robledo è stato però assolto da altre accuse: quella di aver recato «un indebito vantaggio» all’avvocato della Lega, suggerendogli di inviargli un’istanza poi non accolta; e soprattutto di aver tenuto un comportamento scorretto nei confronti di altri colleghi dell’ufficio giudiziario e dello stesso procuratore Bruti Liberati.
Robledo incompatibile a Torino. Lo scivolone del Csm nel verdetto. La sezione disciplinare lo nomina pm nella città dove era giudice. Ma la legge non lo consente, c’è incompatibilità tra le due funzioni, scrive Luigi Ferrarella il 6 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato che stia esercitando le funzioni di giudice in un tribunale può passare a esercitare le funzioni di pm nella Procura della medesima sede? Certo che no: per le norme sull’ordinamento giudiziario ormai da molti anni non è più possibile, c’è incompatibilità tra le due funzioni, nella stessa sede il giudice non può diventare pm, e viceversa. Eppure è l’errore commesso proprio dal Consiglio superiore della magistratura (Csm) una settimana fa quando, decidendo nel processo disciplinare di merito di condannare alla perdita di 6 mesi di anzianità l’ex procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo per i suoi contestati rapporti con l’avvocato della Lega Domenico Aiello, ne ha disposto il trasferimento alla Procura di Torino con le stesse funzioni di vicecapo dei pm: dimenticando che il futuro pm torinese Robledo già da un anno sta esercitando proprio nel tribunale di Torino le funzioni di giudice alle quali nel febbraio 2015 il Csm lo aveva obbligato allorché lo aveva rimosso d’urgenza da Milano nella fase cautelare dell’azione disciplinare. Trasferimento che di fatto aveva risolto lo scontro con il procuratore Bruti Liberati, di cui Robledo nel 2014 aveva denunciato al Csm l’asserita violazione dei criteri di lavoro della Procura. Poiché non si è mai creata una situazione analoga, è difficile prevederne le conseguenze o le toppe che il Csm potrà mettervi. Tanto più che le motivazioni di questo errato dispositivo di sentenza — ormai votato martedì scorso dalla camera di consiglio (dopo oltre 3 ore) e letto in udienza — devono ancora essere scritte dai giudici disciplinari Leone-San Giorgio-Palamara-Clivio-Pontecorvo: gli stessi che nel 2015 nel giudizio cautelare avevano già trasferito d’urgenza Robledo da Milano e che, richiesti perciò dal difensore Antonio Patrono di astenersi per opportunità nella causa di merito, hanno invece ritenuto di restare in forza della giurisprudenza sulla specificità della giustizia disciplinare. Al netto di tesi e antitesi sulle 4 imputazioni (due concluse con assoluzione, due sfociate in condanna su presupposti di fatto che la difesa lamenta travisati), il pasticcio finale nel verdetto è l’ultima peculiarità di un procedimento disciplinare già singolare per come ad esempio era maturata nella prima udienza in aprile l’audizione dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini. I procuratori generali di Cassazione, Gaeta e Viola, avevano infatti chiesto al collegio di acquisire una lettera inviata da Albertini dopo che questi (i pg ipotizzavano in qualità di «parte offesa» dalle condotte disciplinari contestate a Robledo) era stato ammesso dal presidente Csm Giovanni Legnini ad accedere agli atti. I giudici disciplinari, sorpresi, avevano ordinato l’espunzione della lettera dagli atti del disciplinare, escludendo che Albertini potesse esserne ritenuto «parte offesa»: a posteriori si è peraltro saputo che Legnini aveva autorizzato l’accesso di Albertini agli atti non come «parte offesa» nel giudizio disciplinare su Robledo, ma come parte «interessata» in cause bresciane penali e civili con Robledo (anche se ad esempio proprio il gip di Brescia aveva risposto no all’analoga richiesta di Albertini di accesso alle intercettazioni dell’archiviazione penale di Robledo). I pg avevano allora proposto al Csm l’audizione di Albertini; la difesa aveva obiettato che Albertini non era inserito nella lista testi dell’accusa, i cui tempi erano scaduti da tempo; ma i giudici disciplinari si erano richiamati ai propri poteri di convocare chiunque ritenessero utile per l’istruttoria. E così Albertini, uscito dalla porta come lettera, era rientrato dalla finestra come audizione al Csm: non esattamente neutra, posto che di Albertini la Procura di Brescia mesi fa aveva chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio (il processo finirà dopo l’estate) con l’accusa di aver in precedenza calunniato proprio Robledo.
Vendevano verdetti a 5mila euro. Presi altri due giudici tributari. Si allarga l'inchiesta milanese, nuovi arresti. La cricca aggiustava sentenze in cambio di mazzette. Il mercato svelato dai messaggi conservati al computer, scrive Cristina Bassi Luca Fazzo, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale". Spudoratamente e spensieratamente, si raccontavano per mail l'andazzo delle camere di consiglio «aggiustate» a suon di euro: «Ho dovuto lottare, tenere a bada l'aggressività picchiosa del rappresentante dell'ufficio, la testardaggine del giudice relatore». Così la cricca della giustizia tributaria celebrava i suoi successi, con messaggi rimasti nei computer: e che ieri a Milano spediscono agli arresti altri due magistrati, accusati di avere incassato tangenti - modeste e quasi miserabili nel loro importo - per decidere sui ricorsi contro l'Agenzia delle entrate. L'indagine partita il 17 dicembre con l'arresto del primo giudice, Luigi Vassallo, non accenna a placarsi. Dopo Vassallo era finita in galera la sua collega Marina Seregni, ora tocca a Luigi Pellini e Gianfranco Vignoli Rinaldi, in servizio rispettivamente presso la commissione tributaria regionale e provinciale. Ma nelle carte asciutte dell'ordinanza di custodia a finire sotto accusa è l'intero sistema della giustizia tributaria, doppio lavoro ben retribuito per giudici di professione, avvocati, commercialisti: che in queste vicende si fanno passare sotto il naso un mercato a cielo aperto delle sentenze. Per scoperchiare il tombino è servita dapprima la denuncia di uno studio legale, che a dicembre permise l'arresto di diretta di Vassallo con una tangente di 5mila euro: nella sua cassetta di sicurezza erano poi saltati fuori 267.250 euro in contanti, separati e catalogati mazzetta per mazzetta. Ma poi è arrivata la gola profonda: Mirella Orbani, da ventott'anni segretaria di Vassallo, che ha messo nero su bianco gli episodi cui le era toccato assistere. «Invernizzi (anche lui arrestato, ndr) venne in studio con una busta contenente 60mila euro in contanti (...) ricordo che erano tutte banconote da 500 euro». Del malloppo, Vassallo (che secondo il mandato di cattura aveva una pubblica e notoria fama di «aggiusta processi») ai suoi colleghi incaricati della sentenza distribuiva poi le briciole: 5mila euro a testa in buste intestate dentro i cesti natalizi. C'è da dire si prendeva anche «la briga» di preparare la sentenza favorevole che poi veniva materialmente stesa dai colleghi. I quali si preoccupavano di inoltrargli il provvedimento finale prima ancora che venisse depositato. Nello studio di Vassallo viene trovata la bozza di lavoro della sentenza a favore di Invernizzi, con la firma di un solo giudice e senza i timbri del protocollo. A fare da tramite c'era pure un ex finanziere, Agostino Terlizzi, indagato a piede libero. E a colpire è la spensieratezza, il senso di impunità con cui i giudici della cricca si muovevano (agli atti c'è persino un pranzo a tre tra Vassallo, Pellini e l'imprenditore in cerca di aiuto), testimoniata anche dal materiale trovato senza sforzo dalla Gdf nello studio del giudice regista dei verdetti comprati. Tra l'altro c'è l'elenco dei componenti di tutte le sezioni della commissione tributaria, con evidenziati quelli destinati a occuparsi delle cause care agli amici: un asterisco per il presidente Gabriella D'Orsi, che non si accorgerà della combine; un doppio asterisco per il relatore, il ragionier Rigoldi, che cercherà in ogni modo di opporsi; una croce per il giudice Vignoli Rinaldi, quello che in camera di consiglio eseguirà alla lettera i suggerimenti della cricca.
Tangenti Milano, arrestati altri due giudici tributari: "60mila euro nei cesti di Natale". Nell'inchiesta coinvolto anche un ex militare della guardia di finanza e Luigi Vassallo, già arrestato insieme nel principale dell'inchiesta. Nel settore, annotano gli investigatori, aveva la fama di "aggiusta processi", scrive Franco Vanni il 14 marzo 2016 su “La Repubblica”. Ancora arresti per tangenti, altri due giudici tributari che finiscono in manette con l'accusa di aver intascato mazzette per annullare accertamenti tributari del valore di milioni di euro. Dopo Luigi Vassallo - filmato dagli investigatori mentre intasca il denaro - e la collega Marina Seregni, gli uomini della guardia di finanza che seguono l'inchiesta dei pm Eugenio Fusco e Laura Pedio sono tornati in azione. E non è detto che all'inchiesta non si aggiungano nuovi capitoli tanto che il procuratore facente funzione, Pietro Forno, scrive in un comunicato che le indagini hanno consentito di delineare "un sistema corruttivo ramificato e ben conosciuto in certi ambienti che verosimilmente interesserà anche altre persone, giudici tributari, imprenditori e altri che a vario titolo fungono da mediatori e che approfittano della propensione di alcuni soggetti a ricorrere a scorciatoie e a sistemi illeciti per sistemare le proprie pendenze verso il fisco e non si fanno scrupolo di ricevere somme di denaro per corrompere coloro che sono disposti a farsi corrompere". I due giudici arrestati per corruzione in atti giudiziari sono il commercialista Luigi Pellini e l'avvocato Gianfranco Vignoli Rinaldi (tutti e due ai domiciliari), insieme all'imprenditore Matteo Invernizzi. Mentre un'altra ordinanza (è la terza nel giro di tre mesi) è stata notificata a Vassallo. Gli investigatori annotano che "il carattere sistematico e professionale delle condotte criminose poste in essere gli ha fatto meritare, tra i professionisti del settore, la fama di "aggiusta processi" presso le Commissioni Tributarie". Al centro dell'indagine c'è una tangente da 60mila euro che sarebbe stata consegnata divisa in banconote da 500 euro e nascosta all'interno di pacchi natalizi. La presunta corruzione riguarderebbe due sentenze, una della commissione tributaria provinciale, l'altra quella regionale. In questa tranche dell'inchiesta è indagato anche un ex militare della guardia di finanza, Agostino Terlizzi. Secondo le accuse sarebbe stato il tramite tra Vassallo e l'avvocato di Invernizzi. Per questo ruolo di intermediazione Terlizzi avrebbe percepito delle somme dallo stesso Vassallo. "Vassallo riceveva da Matteo Invernizzi, amministratore di fatto di Eurocantieri Srl, la somma di oltre 60mila euro, con l'impegno di garantire al contribuente provvedimenti favorevoli". È quanto si legge nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Milano Emanuela Cannavale. E ancora: "Vassallo consegnava 5mila euro a Luigi Pellini, perchè accogliesse il ricorso pendente davanti alla 50esima sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia". Il pagamento della tangente, secondo quanto accertato dalla Procura, risalirebbe al 20 dicembre 2013. Cinquemila euro, sempre parte della tangente da 60mila pagata da Invernizzi, sarebbero stati corrisposti anche al giudice tributario Gianfrano Vignoli Rinaldi. "Vassallo - si legge nell'ordinanza - consegnava la somma di 5mila euro a Vignoli Rinaldi perchè accogliesse il ricorso pendente di fronte alla II sezione della Commissione Tributaria Provinciale". L'ordinanza ricostruisce anche i risultati delle perquisizioni fatte a casa e negli uffici dello stesso Vassallo dopo che il 17 dicembre 2015 fu arrestato in flagranza di reato per avere intascato una tangente di 5mila euro da personale della multinazionale Dow Europe Gmbh, che collaboravano con gli inquirenti. Furono proprio i dirigenti della multinazionale a decidere di denunciare Vassallo. E a quell'incontro, durante il quale il giudice intascò la tangente, parteciparono uomini della guardia di finanza. "Presso il domicilio di Vassallo - si legge ancora nell'ordinanza - sono state rinvenute due buste contenenti denaro contante per complessivi 12.500 euro". Altro contante "per complessivi euro 17.500" è stato trovato presso la sede dello studio legale di Vassallo. Ma il sequestro più consistente è avvenuto nella sua banca: "Sono state rinvenute due cassette di sicurezza intestate a Vassallo contenenti numerose banconote raccolte in buste... per complessivi 267.250 euro". E le annotazioni che Vassallo accompagnava al contante portano proprio a Matteo Invernizzi. "Risultano riferimenti a 'Matteo' e 'Inv'" scrive il gip. Presso lo studio di Vassallo è inoltre stata sequestrata "ampia documentazione riferibile a contenziosi tributari di Invernizzi". E' la segretaria ventennale di Vassallo a spiegare in che modo il denaro, presunto frutto della corruzione, venisse veicolato a chi si prestava ad 'aggiustare' le sentenze. L'escamotage, stando al racconto di M.O., sarebbe stato quello dei cesti natalizi. "Mi mostrate una fotocopia dell'elenco dei cesti natalizi - afferma la donna, sentita come teste - da consegnare per l'anno 2013 dove tra i destinatari dei cesti individuati come 'Grande' c'è il nominativo di Pellini oltre a un appunto manoscritto di Vassallo che indica la dicitura 'Ok. Luigi 20.XII'. Effettivamente il documento che mi mostrate consiste nell'elenco dei cesti natalizi da consegnare che io stessa ho preparato sempre su indicazione dell'avvocato Vassallo (...)". Nello scambio di mail fra i giudici tributari indagati, emerge il modo chiaro il modo in cui venivano "aggiustate" le sentenze. Sul caso Invernizzi, nell'ottobre 2010, Vassallo scrive a Vignoli Rinaldi: "Caro Gianfranco, è con certo imbarazzo che ti scrivo ... Confido in te e negli stimatissimi colleghi ... certo che ci sarà il giusto riconoscimento delle buone ragioni della parte". Risponde Vignoli Rinaldi: "Dopo ampie discussioni, ho convinto Presidente e Relatore ad accogliere il ricorso". Gli indagati si lamentano anche dell'atteggiamento del resto del collegio, estraneo alla corruzione.
Tangenti ai giudici tributari nei cesti dei regali di Natale. Marina Seregni è coinvolta nello stesso giro di tangenti che ha portato in carcere a dicembre il giudice tributario Luigi Vassallo. La società Swe-Co Sistemi al centro delle nuove indagini: una parte dei 65 mila euro sarebbe stata girata da un giudice all’altro, scrive Giuseppe Guastella il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". È «certa l'esistenza di ulteriori episodi illeciti posti in essere dagli indagati, nonché il coinvolgimento di altri soggetti», scrive il gip Manuela Cannavale ordinando ieri l'arresto del giudice tributario Marina Seregni e notificando l'ordinanza in carcere all'avvocato Luigi Vassallo, giudice tributario di secondo grado già arrestato a dicembre. Le indagini della Procura rischiano di allargarsi a macchia d'olio nelle commissioni tributarie. Seregni, commercialista 69enne di Monza, era stata già indagata con l'arresto di Vassallo il quale, chiedendo una tangente da 30mila euro dalla multinazionale tedesca Dow Europe per aggiustare un processo in cui la professionista era relatrice, aveva detto che avrebbe dovuto girare a lei parte della tangente. A mettere le manette a Vassallo mentre intascava la mazzetta erano stati i militari della Gdf avvertiti dai legali della società. Le indagini hanno travolto anche Marina Seregni collegando sempre più la sua attività giudiziaria a quella di Vassallo, dentro e fuori le aule. La Gdf ha scoperto che il legale aveva ottenuto un'altra mazzetta, stavolta da 65mila euro, da Luciano Ballarin, titolare (indagato) della Swe-Co sistemi srl, un'azienda di elettronica di Milano. In ballo c'erano 1,9 milioni di euro che la società avrebbe dovuto pagare al termine di un processo tributario in cui la Seregni era giudice. La sentenza, depositata l'11 gennaio, quasi un mese dopo l'arresto di Vassallo, dava ragione alla società e cancellava le richieste dell'Agenzia delle entrate, ma il documento risultava scritto con il computer del legale e controfirmato dalla Seregni che, in questo modo, confermava «la volontà di continuare impunemente a porre in essere il reato, sebbene sapesse di essere attenzionata» dagli inquirenti, scrive il gip. Perquisendo l'abitazione, lo studio e le cassette di sicurezza di Vassalli, la Gdf ha trovato 265mila euro in contanti che, per i pm, non sono compatibili con la sua attività di legale. La conferma arriva dalla sua segretaria che, dopo aver dichiarato che Vassallo seguiva pochissimi processi, ha aggiunto che nello studio c'era chi portava denaro in contante: «Giustificava le somme di denaro che chiedeva ai clienti - ha dichiarato - con la necessità di corrispondere un parte di quelle somme ai giudici per ottenere sentenze favorevoli». Aveva anche un «tariffario» che era «ripartito per i vari gradi di giudizio» e una contabilità «nera» delle mazzette, che teneva in buste con sopra ancora il nome dei corruttori, che per gli investigatori non sarà difficile identificare. Il «carattere sistematico e professionale» delle «condotte criminose» di Vassallo gli «ha fatto meritare tra i professionisti del settore, la fama di "aggiusta processi"».
Tangenti per addomesticare sentenze: arrestato a Monza giudice tributario. Con l'accusa di corruzione in atti giudiziari è finita al carcere di San Vittore la commercialista Marina Seregni, 70 anni, di Monza. Secondo le indagini della Procura di Milano la donna era complice di Luigi Vassallo, già arrestato a dicembre 2015 in un sistema collaudato di mazzette per garantirsi decisioni favorevoli, scrive Ersilio Mattioni il 28 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Intascavano tangenti per addomesticare le sentenze sui contenziosi fiscali e poi si dividevano i soldi. Con questa accusa, stamattina all’alba, è stata arrestata dalla Guardia di finanza Marina Seregni, commercialista 70enne di Monza, giudice tributario di primo grado e collega di Luigi Vassallo, anche lui giudice tributario ma in Appello, finito in carcere il 17 dicembre 2015 (e tuttora detenuto a Opera, dove oggi gli è stato notificato un altro ordine di custodia cautelare per il nuovo episodio corruttivo) per essere stato colto in flagranza mentre incassava 5mila euro, prima tranche di una mazzetta da 30mila. Seregni, accusata di corruzione in atti giudiziari, è stata portata nel carcere milanese di San Vittore. L’inchiesta, denominata ‘Dredd’ (come il celebre film del 2012, diretto da Pete Travis, uscito in Italia col sottotitolo ‘La legge sono io’), è stata condotta dai pubblici ministeri Eugenio Fusco e Laura Pedio, coordinati dal procuratore aggiunto Giulia Perotti. La giudice Seregni era già stata interrogata nel dicembre 2015, per via di una telefonata di Vassallo registrata sulla sua segreteria. Il collega le diceva di avere urgenza di parlare con lei a proposito di due processi, per poi aggiungere: “Anche di una pratica che mi interessa”. La commercialista monzese aveva respinto ogni addebito e si era anzi dichiarata “vittima” di una millanteria. Così era tornata a casa senza capi di imputazione. Le indagini della Procura di Milano però avrebbero portato a conclusioni decisamente diverse. Dall’analisi dei documenti sequestrati nello studio di Vassallo sarebbe infatti emerso un collaudato sistema di corruttele: Vassallo, per conto di privati e aziende che avevano guai con il fisco, avrebbe agito in qualità di giudice per ‘aggiustare’ le sentenze o in qualità di intermediario rivolgendosi ad altri giudici compiacenti. Fra questi, secondo i pm Fusco e Pedio, ci sarebbe stata anche Seregni, con la quale Vassallo avrebbe poi diviso i proventi delle tangenti, versate in contanti oppure ‘mascherate’ da false fatturazioni di consulenza. Da ciò le accuse, per Vassalli e Seregni sia di “corruzione in atti giudiziari” sia di “induzione indebita a dare o promettere utilità”, in base agli articoli 319 ter e 319 quater del codice penale. Accuse formulate dalla Procura e avallate dal Gip Manuela Cannavale, che ha firmato l’arresto in carcere. In particolare, i magistrati contestano una tangente di 65mila euro da parte di Luciano Ballarin, amministratore unico della Swe-co Sistemi Srl, versata a Vassallo e da quest’ultimo divisa con Seregni, per ‘addolcire’ una sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, la quale aveva mosso contro la Swe-Co Sistemi Srl, per conto dell’Agenzia delle entrate, una contestazione fiscale di circa 14 milioni di euro. La vicenda – che ricorda ‘Mani Pulite’, con tanto di bustarelle e arresti in flagranza grazie a militari in borghese e banconote ‘segnate’ – ha origine nel novembre 2015 con la denuncia della Dow Europe Gmbh, multinazionale della chimica che fattura 58 miliardi di dollari l’anno, che vanta 53mila dipendenti in tutto il mondo e che aveva in corso un contenzioso fiscale. I rappresentanti della società, contattati da Vassallo, non si erano però piegati alla logica corruttiva e avevano denunciato il giudice tributario in Procura, pur fingendo di stare al suo gioco. Il giorno della consegna del denaro, nello studio della società Crowe Horwath Saspi di Milano, fra gli impiegati si erano infiltrati i militari della Fiamme Gialle, poi intervenuti per arrestare Vassallo per “induzione indebita a dare o promettere utilità”, mentre incassata la prima tranche della tangente. Il ruolo di Seregni, che non era emerso con sufficiente chiarezza allora, appare agli inquirenti oggi più che evidente: per la Procura i due giudici tributari erano d’accordo e agivano “in concorso tra loro”. Fa una certa impressione che Vassallo, avvocato cassazionista, professore a contratto all’Università di Pavia e da anni giudice nelle controversie fiscali, abbia lavorato in tempi recenti, nel 2013, con enti pubblici come Regione Lombardia (nell’Osservatorio della mediazione tributaria per conto dell’Agenzia delle Entrate) e sia stato presidente di organismi di vigilanza di grandi gruppi industriali (come per esempio la Bracco Real Estate) con un incarico preciso: prevenire i reati societari. Secondo i magistrati inquirenti l’inchiesta sul finora inesplorato mondo delle commissioni tributarie potrebbero aprire scenari inediti, degni di nuova Tangentopoli.
Così l'ex sindacalista Cgil tramava con "Lady dentiere". L'intreccio nelle intercettazioni: liste pilotate per favorire i privati. Oggi l'interrogatorio del leghista Rizzi: "Chiarirò tutto". Il Pd vuole sfiduciare il governatore Maroni. Lui attacca: "Difenderò la riforma", scrivono Cristina Bassi e Maria Sorbi, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". «Cucciola» e «amore»: così l'ex sindacalista e paladino della buona sanità pubblica si rivolge alla manager dell'odontoiatria, perno dello scandalo che ha portato in carcere tra gli altri il consigliere lombardo della Lega Fabio Rizzi. Massimiliano Sabatino e Maria Paola Canegrati sono finiti nell'inchiesta «Smile» della Procura di Monza. Anche loro sono in cella. Sabatino è noto nella sanità milanese, per anni sindacalista della Cgil e oggi dirigente degli Istituti clinici di perfezionamento. A lui sono dedicate decine di pagine nell'ordinanza di custodia del gip Emanuela Corbetta. Secondo gli inquirenti, Sabatino aiutava l'amica a ottenere appalti. E si poneva «sistematicamente a servizio» della Canegrati, garantendole «ogni informazione utile interna all'amministrazione, così asservendo la funzione pubblica agli interessi imprenditoriali e personali» della donna. In cambio di denaro e altri vantaggi. «Senti tesorino, ci vediamo nei prossimi?», chiede lei. Risposta: «Ho bisogno di fare il punto su Niguarda, perché... noi siamo un po' in ritardo cucciola». Sabatino poi non si scompone quando l'amica gli spiega come dirottare i pazienti sui servizi a pagamento. «Sposteremo la maggior parte dell'attività sulla solvenza», dice al telefono la «Mandrake» (così si autodefinisce) delle dentiere. Faremo liste d'attesa per il Servizio sanitario, aggiunge, «che vanno alle calende greche». Conclude il gip: la funzione pubblica dell'ex sindacalista «è totalmente svilita e assoggettata a favore» di «Paoletta». A casa di Rizzi i carabinieri hanno trovato quasi 17mila euro in contanti (1.900 in un congelatore) e una busta con 5mila franchi svizzeri. E sempre dalle intercettazioni emergono altri dettagli sui suoi affari. Come che dalla costruzione di un ospedale pediatrico in Brasile contava di ricavare «un paio di milioni a testa», dice al telefono alla compagna indagata, e di «estinguere i mutui». C'è poi un riferimento della Canegrati all'ex vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani, ai domiciliari per un'altra inchiesta, che vorrebbe «entrare a far parte di questa grande famiglia». Immediata la reazione del legale di Mantovani, Roberto Lassini: «Mai nessun rapporto è intercorso tra lui e le società coinvolte nell'indagine monzese». Intanto oggi alle 12 Rizzi e il suo braccio destro Mario Longo saranno interrogati nel carcere di Monza. «Voglio chiarire tutto quanto prima e difendermi dalle accuse» (di associazione per delinquere e corruzione), ha dichiarato l'ex senatore attraverso il difensore Monica Alberti. E mentre lui scalpita per raccontare la sua versione dei fatti, in Regione monta il «processo» politico. Non solo Rizzi è stato scaricato dalla Lega (il leader Matteo Salvini lo ha subito estromesso dal partito) ma lo scandalo dell'odontoiatria rischia di paralizzare i lavori sulla riforma della sanità, che lui stesso ha scritto. Pd e Patto civico questa mattina depositeranno una mozione di sfiducia contro la giunta Maroni. Fino a che il provvedimento non verrà discusso nell'aula del Consiglio regionale (si presume il primo marzo) non si presenteranno ai lavori della commissione sanità, dove si sta lavorando al testo bis della riforma. «Difenderò la riforma con l'aiuto degli onesti, ho passato mille tempeste» annuncia Roberto Maroni. «Emergerà presto che su Maroni non c'è nulla di storto» è sicuro Umberto Bossi. «Dobbiamo mettere anticorpi forti nel sistema sanitario che è quello più aggredibile perché c'è la cassa - sostiene il ministro alla Salute Beatrice Lorenzin - Lo scandalo non fa bene alla sanità lombarda che è una delle migliori del nostro paese».
Tangenti e pochi controlli. "Le protesi fatte coi piedi". Nelle intercettazioni il business dell'odontoiatria. Il gip: "Politica mezzo per accumulare ricchezze", scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Mercoledì 17/02/2016, su "Il Giornale". Una manager nel campo dell'odontoiatria, Paola Canegrati, che per ottenere appalti nelle aziende ospedaliere lombarde corrompe un politico e un suo stretto collaboratore: il consigliere regionale della Lega Fabio Rizzi e Mario Longo. E una serie di dirigenti sanitari «al servizio» dell'amica fornitrice, con cui si accordano sulle gare. È il sistema descritto dal gip di Monza Emanuela Corbetta. Rizzi e Logo «abusando dei propri ruoli e poteri, inducevano i funzionari pubblici preposti alla gestione dei servizi di odontoiatria» e «gli amministratori delle strutture private e private convenzionate» a favorire la Canegrati. Coinvolte anche le compagne di Rizzi e Longo, Lorena Pagani e Silvia Bonfiglio, prestanome in alcune società e usate per «ricevere il prezzo della corruzione». La Canegrati voleva espandersi anche in Toscana. Rizzi, le dice Longo in un'intercettazione, «in questo è veramente bravo», nel «progetto di estensione. Di estensione del modello Lombardo dentro casa di chi ci ha insegnato come si faceva il sociale fino a ieri e gli facciamo vedere come il modello lombardo invece funziona e funziona molto bene, anche tra i comunisti». C'è un côté brasiliano. L'affare della costruzione di un ospedale pediatrico nella regione del Goias. «Dobbiamo puntare sulla politica estera», dice Longo a Rizzi. E il consigliere alla compagna: «Dall'ospedale in Brasile potrebbero venir fuori un paio di milioni a testa». Lei risponde: «Ne basterebbe uno... No? Facciamo uno... Anche mezzo basta! Non ti risolve la vita ma ti alleggerisce tutto». La Canegrati dal 2004 ottiene affari per 400 milioni di euro. Longo e Rizzi - «a libro paga», per gli inquirenti - molti vantaggi. Il primo, tra l'altro, soldi «a fronte di fatture relative a prestazioni inesistenti emesse dalla Bonfiglio nei confronti della Servicedent», una delle società della Canegrati. Che spiega a Longo: «Facciamo una consulenza di 80mila euro all'anno (...) in modo che nessuno dice niente e siamo tutti belli e a posto». Inoltre «il pagamento della somma di euro 7.978,8 relativa all'esecuzione di opere di imbiancatura» di casa e studio. Il consigliere invece «parte delle spese della campagna elettorale» del 2013. Scrive il gip: «Le prime elargizioni economiche dell'indagata Canegrati risultano risalire al pressoché totale (stando alle dichiarazioni di Longo) finanziamento della campagna elettorale di Rizzi per le elezioni regionali lombarde». Dice Longo a un interlocutore: «Ti dico una cosa riservatissima, la campagna elettorale di Fabio l'ha sostanzialmente finanziata al 100% la dott.ssa Canegrati». Entrambi poi avrebbero incassato quote societarie e una mazzetta da 50mila euro. Spesso le prestazioni e il materiale della Canegrati sono «di pessima qualità». I responsabili dei controlli negli ospedali lo sanno, ma «omettono i doverosi rilievi» e attribuiscono alle aziende dell'amica «il massimo punteggio». Nelle intercettazioni si parla di «corone protesiche» che sono «normalmente fatte con i piedi». Ammette un indagato: «Mediamente Elledent (un'altra società della zarina dell'odontoiatria, ndr) lavora grossomodo con il cu...». L'allarme del gip: Rizzi e Longo «hanno fatto del potere politico lo strumento per accumulare ricchezze, non esitando a strumentalizzare le idee del partito che rappresentano, a intimidire facendo valere la loro posizione chi appare recalcitrante alle loro pretese». La Pagani infine pone una questione a Rizzi, ha sentito che le banconote da 500 euro sono difficili da usare: «Tu come fai i pezzettoni da cinquecento che hai su in mansarda?». Lui: «Perché?», risposta: «È un casino adesso versarli» e poi: «Quant'è che c'è su, quindicimila euro?».
Primarie Milano, polemiche su voto cinesi. Pd: “Accuse discriminatorie”. Salvini: “Che pena”. Il voto degli stranieri il primo giorno ha rappresentato il 4 per cento (su un totale di 7mila e 750 persone). Il Partito democratico, dal deputato Fiano al segretario milanese Bussolati, cerca di respingere le accuse in merito a gruppi di cinesi alle urne per Giuseppe Sala. Il leader del Carroccio: "Povera città", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2016. “Il voto dei cinesi per Sala alle primarie di Milano? Polemiche irricevibili e disgustose”. “Gli stranieri al voto? E’ un successo della democrazia”. Mentre la metropoli inizia il secondo giorno di votazioni per la scelta del candidato sindaco di centrosinistra, il Partito democratico cerca di rispondere alle accuse di “operazioni sospette” ai seggi con gruppi di cinesi che vanno alle urne per votare Giuseppe Sala. Dal deputato dem Emanuele Fiano al segretario Pd di Milano Pietro Bussolati, dall’establishment si difende l’iniziativa. Il fantasma per tutti è quello di Genova esattamente un anno fa e Napoli nel 2011 quando proprio il voto degli stranieri creò casi controversi alle primarie e polemiche senza fine. All’attacco il leader del Carroccio Matteo Salvini: “Che pena, povera Milano e povera sinistra”. A raccontare a ilfattoquotidiano.it quello che è successo nelle scorse ore è stato il presidente di seggio della sezione Lama Carlo Bonaconsa: “Non sembra un voto consapevole. Non sanno leggere l’italiano e aprono le schede per chiedere dove votare”. Nel primo giorno di votazioni, in cui erano aperti solo 9 dei 150 seggi previsti per oggi, si sono presenti 7mila e 750 elettori. Il voto straniero ha rappresentato il 4 per cento. Poco prima del silenzio elettorale la comunità cinese aveva espresso il proprio endorsement per il candidato Sala con un annuncio in lingua mandarina, come raccontato dal Fatto Quotidiano. Nel quartiere cinese di Milano (zona Paolo Sarpi) è stato allestito un gazebo dove i rappresentanti della comunità spiegano come andare a votare e si offrono per accompagnare gli elettori alle urne”. Il primo a replicare alle accuse è stato il deputato Pd Emanuele Fiano, ex candidato alla primarie che si è poi ritirato per sostenere Sala: “È inaccettabile”, ha detto, “che chi manifesta contro il razzismo si scagli oggi contro nostri concittadini e connazionali di origine straniera che hanno deciso di partecipare direttamente e coscientemente alla scelta di chi sarà il candidato sindaco”. Fiano, che è anche responsabile sicurezza del Partito democratico, ha aggiunto: “Trovo irricevibili e disgustose le polemiche di alcuni noti e notissimi ‘compagni’ della piazza milanese, alcune che insinuano brogli, altre con chiare venature diciamo discriminatorie, per non dir di peggio. Ancor più a fronte dei dati di affluenza rivelati oggi che parlano di clima di regolarità e correttezza e che indicano nel 4% la partecipazione di cittadini stranieri. Chi oggi alimenta queste polemiche, e magari ieri come noi insorgeva contro la destra dei caterpillar e dei respingimenti in mare, non si vergogna di non gioire oggi che il centrosinistra di Milano nelle sue primarie dimostra che il futuro è già qui, che noi siamo già una città aperta, che l’unico modo di avere integrazione vera è che tutti siano protagonisti della loro vita scegliendo direttamente chi li governa o rappresenta?”. Tutto regolare anche per il segretario metropolitano del Pd di Milano Pietro Bussolati: “L’affluenza ai seggi delle primarie anche di residenti di origine straniera va considerata un successo della democrazia, non un problema. Significa che questi concittadini (che a Milano rappresentano quasi il 15% della popolazione, ed oggi alle primarie hanno votato per il 4% del totale) si sentono parte integrante della vita milanese e vedono in queste consultazioni una grande occasione di partecipazione”.
Boom di cinesi ai seggi per votare Sala, è polemica. Troppi stranieri per Mr. Expo, protesta Sel. Alle urne oltre 7mila persone, il 4% sono immigrati, scrive Chiara Campo, Domenica 7/02/2016, su "Il Giornale". La Cina non è mai stata così vicina (alle primarie del Pd). Per tutto il week end gli elettori del centrosinistra scelgono il candidato sindaco per Milano, ma già ieri si sono già accese polemiche per i troppi cinesi in fila ai seggi. Sembra una fotocopia del caso Liguria: il candidato alle regionali Sergio Cofferati un anno fa denunciò brogli («un voto inquinato da marocchini e cinesi») e rifiutò l'esito a favore della renziana Raffaella Paita. La storia sembra ripetersi, per tutta la giornata c'è stato un clima di sospetti e accuse dirette ai sostenitori di Giuseppe Sala. I quattro in corsa a Milano - la vicesindaco Francesca Balzani supportata da Pisapia e Sel, il commissario Expo dai renziani, l'assessore Pierfrancesco Majorino e l'outsider Antonio Iannetta - hanno votato tutti ieri mattina. Sala, residente in centro, ha dovuto attendere 40 minuti in coda. Anche lì, elettori con gli occhi a mandorla. «Sono anche loro milanesi, se vincerò spero che entro la fine del mio mandato non verranno più chiamati immigrati ma italiani, sono parte della popolazione». Dovrebbe avere il dente avvelenato: giorni fa ha ammesso che dei crediti milionari che la società Expo deve ancora riscuotere all'estero, la quota maggiore (e ad alto rischio) riguarda proprio la Cina. Ma qui sembra avere molti fan. In qualche negozio della Chinatown milanese ieri venivano mostrati facsimile della scheda elettorale con la croce sul nome Sala («ci hanno detto che è buono per noi cinesi»). Nel quartiere è stato allestito anche un gazebo per dare informazioni sul voto, all'inizio con i manifesti dei candidati (con una sproporzione pro Sala), poi dopo le prime proteste al comitato dei garanti sono spariti. In zona Isola, stesso tifo per Mr. Expo: alcuni cinesi a domanda negano di essere elettori Pd «siamo qui per votare Sala, tutti i cinesi votano Sala». In viale Monza viene allontanato un orientale che distribuisce ai connazionali in fila il «santino» con il nome di Mr. Expo. Si creano momenti di tensione nel pomeriggio quando arrivano a gruppi e vogliono compilare collettivamente i moduli. Un rappresentante di lista riferisce che «c'erano persone che indirizzavano i votanti cinesi, gente portata qui in maniera evidentemente organizzata. Abbiamo visto una donna con una busta che conteneva passaporti e permessi di soggiorno. Movimenti che non si capivano». Viene convocato il segretario milanese del Pd, il renziano Pietro Bussolati, che difende la correttezza delle operazioni: «La comunità cinese ha espresso la volontà di partecipare alle primarie, proprio Sel aveva chiesto di aprire il voto agli immigrati e ora non comprendo le proteste». Matteo Salvini della Lega ha commentato: «Che pena, povera Milano e povera sinistra!». In serata Sel ha provato a gettare acqua sul fuoco ma le comunità straniere di Milano sono intervenute parlando di pregiudizi. L'affluenza ieri è stata di 7.750 elettori (il Pd ne attende almeno 67mila), il 4% stranieri. I seggi rimarranno aperti oggi dalle 8 alle 20.
Salvini: "Cinesi alle primarie del Pd. Povera Milano, povera sinistra". "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Così il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini sulle primarie democratiche, scrive Luca Romano, Sabato 6/02/2016, su "Il Giornale". Milanesi in coda per la prima giornata di primarie del centrosinistra, che decideranno chi sarà il candidato sindaco della coalizione tra Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino e Giuseppe Sala. Ad attendere l'esito è anche il centrodestra che poi scoprirà le sue carte e, soprattutto, il nome del suo candidato sindaco. Ma la prima giornata della consultazione popolare per scegliere il candidato sindaco è stata segnata dalle polemiche sul voto degli immigrati. Ad attaccare è il segretario della lega Matteo Salvini, che se la prende con l'afflusso di cinsesi nei gazebo: "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Il Pd respinge le critiche: il responsabile sicurezza Emanuele Fiano le bolla come "irricevibili e disgustose". I cittadini stranieri che hanno votato, sottolinea, sono stati il 4 per cento, e tutti regolarmente residenti a Milano. Intervengono anche le associazioni delle varie comunità straniere: somali, cinesi e sudamericani hanno diffuso una nota congiunta in cui smentiscono che ci sia stato "voto di scambio". Oggi i seggi allestiti erano 9, uno per ogni zona della città, aperti dalle 8 alle 18. I votanti sono stati 7.750. Le code ai seggi sono iniziate poco dopo l'apertura e, sempre in modo ordinato, sono proseguite per raggiungere il picco in tarda mattinata. Come hanno sottolineato gli organizzatori delle primarie le file di oggi sono dovute al fatto che i cittadini di ogni zona avevano a disposizione solo un seggio per il voto, mentre domani saranno 150 quelli aperti in tutta la città, dalle 8 alle 20. In coda per votare si sono messi questa mattina anche i quattro candidati. Il primo è stato Iannetta che ha votato ad un circolo Pd di Porta Genova verso le 10. Stesso orario, le 11, per i due candidati e colleghi nella giunta Pisapia, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino. La prima ha votato al circolo Pd Molise-Calvairate in Zona 4, accompagnata da marito e figli. "Speriamo che tanti milanesi vadano alle urne - ha commentato la vice sindaco - per arrivare così al cuore delle primarie, che è il protagonismo dei cittadini". Stessa impressione positiva per l'assessore alle Politiche sociali del Comune, Majorino, che ha votato in Zona 5: "Mi pare una grande festa democratica e popolare - ha detto - e a quanto ho visto tutto sta procedendo bene". Alle 12 si è presentato al seggio della zona 1, quella del centro città, anche il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, accompagnato dalla moglie. Per lui la coda è durata circa 40 minuti. "In coda forse mi toglierò un po' di ansia - ha spiegato ai cronisti - del resto per me è la prima volta come candidato. Se le code ci sono c'è da aspettarsi una bella affluenza". Mentre il centrosinistra sceglie il suo candidato il centrodestra attende ma ancora "per pochi giorni". "Se non è questione di ore è questione di giorni - ha spiegato il consigliere politico di Forza Italia, Giovanni Toti, parlando della scelta del candidato a margine di un incontro del partito a Milano -. Subito dopo le primarie arriverà la nostra scelta". Se il candidato sarà l'ex city manager del Comune di Milano, Stefano Parisi, "immagino dovrà essere lui ad accettare definitivamente l'investitura", ha concluso.
Affitti in Galleria, resistono cinque furbetti, scrive Massimiliano Mingoia il 4 febbraio 2016 su “Il Giorno”. In Galleria Vittorio Emanuele 5 «furbetti» resistono ancora con affitti scontatissimi, ma hanno il contratto scaduto e lo sfratto in mano. Se a Roma si parla ancora di Affittopoli, a Milano la situazione è un po’ diversa. Nel Salotto, il cuore del capoluogo lombardo, lo scandalo di Affittopoli c’è stato eccome. Negli anni Ottanta, quelli della Milano da bere, gli inquilini con affitti da privilegiati erano 83. Trent’anni dopo, sono rimasti in 5. Vip nei paraggi? Non risulta. Si tratta di inquilini che negli anni Ottanta sono entrati nel Salotto con affitti a equo canone o assegnazioni dirette con un unico minimo denominatore: canoni d’affitto irrisori. Tutto merito delle amicizie con i politici dell’epoca. Quanto incassa attualmente il Comune da questi cinque contratti d’affitto? Appena 35 mila euro all’anno, poco meno di 600 euro al mese per appartamento, circa 7 mila euro all’anno. Poco, pochissimo, considerando che sono case a pochi metri da Piazza Duomo. In Galleria c’era anche un’altra casta di privilegiati: le associazioni amiche dei politici del Comune. Per loro uffici prestigiosi vista Galleria e poche lire da sborsare ogni mese per il canone. Anzi, pochi euro. Perché fino a un paio d’anni fa una ventina di associazioni aveva ancora sede nel Salotto con affitti ultra-scontati. L’operazione trasloco, avviata dall’ex assessore al Demanio Lucia Castellano e completata dall’attuale assessore Daniela Benelli, ha portato al trasferimento delle associazioni in un immobile di via Duccio da Boninsegna. Missione compiuta. Tra gli inquilini della Galleria, però resistono ancora cinque «furbetti». La Benelli commenta: «Sì, è vero, ci sono ancora 5 inquilini che pagano canoni di affitto bassi, ma la procedura di sfratto nei loro confronti è già stata avviata». L’assessore ripete i numeri: «Negli anni Ottanta c’erano 83 contratti d’affitto a prezzi scontatissimi, adesso siamo scesi a 5. C’è una bella differenza. Negli ultimi anni la lotta contro i privilegi a Milano c’è stata». Ogni riferimento alla situazione di Roma, naturalmente, è puramente voluto. La Benelli sottolinea che l’operazione più importante portata avanti dal Comune in questi anni è stata il trasloco delle sedi delle associazioni dalla Galleria a via Duccio da Boninsegna: «Ci ha permesso di fare bandi anche per i piani alti del Salotto e di valorizzare in verticale l’immobile. I numeri parlano chiaro: la redditività della Galleria è passata dagli 11 milioni di euro del 2011 ai quasi 30 milioni di euro del 2015».
Pisapia "apre" la sua casa, è quella di Affittopoli, scrive Massimiliano Mingoia il 25 febbraio 2011 su “Il Giorno”. Su "Oggi" il candidato sindaco e la sua compagna fotografati nell’appartamento in corso di Porta Romana. «Giuliano Pisapia ci apre in esclusiva le porte di casa sua, con la compagna Cinzia Sasso». È l’11 gennaio scorso. Il settimanale Oggi presenta così una lunga intervista nella dimora del candidato sindaco del centrosinistra Giuliano Pisapia, avvocato ed ex parlamentare di Rifondazione comunista. A corredo del servizio vengono scattate 12 fotografie, che si possono tuttora vedere nella versione on line del settimanale. Pisapia in cucina che beve un caffè e naviga su Internet. Pisapia in salotto insieme alla compagna, la giornalista di Repubblica Cinzia Sasso, tra un divano bianco, tende arancioni e un tavolo con una tovaglia rossa. Fin qui nulla di strano. Peccato che la dimora che il candidato sindaco presenta come quella in cui vive, almeno a dar retta al servizio di Oggi, sia la casa di corso di Porta Romana 116/A di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Sì, parliamo proprio dell’appartamento di 118 metri quadrati affittato alla Sasso per un canone annuo di 6.864 euro. Pochini, 6.864 euro all’anno, per una casa in pieno centro e di quella metratura. Non a caso la dimora è tra quelle finite nello scandalo di Affittopoli. La Sasso, quando il suo appartamento è stato citato tra quelli del Pat, si è difesa così in una lettera inviata ai quotidiani: «Vivo da 22 anni in quell’appartamento. Il primo contratto di affitto era del 1989, quando ancora non conoscevo Giuliano (...) Dal 2008 il mio contratto è scaduto; nel frattempo ho trovato un’altra casa e ho mandato al Pat una lettera di disdetta del contratto di affitto. Giuliano, da oltre trent’anni, è residente e abita in un’altra casa di sua proprietà». Una domanda sorge spontanea: allora perché il servizio per Oggi è stato realizzato nell’appartamento di corso di Porta Romana 116/A? Perché il candidato sindaco ha deciso di aprire all’occhio della giornalista e agli scatti del fotografo proprio quella dimora? Lui, Pisapia, per commentare il caso Affittopoli, a caldo ha parlato di «fango». Qualche giorno fa invece ha aggiunto: «Se leggerezza c’è stata è stata di non aver chiarito velocemente alcune questioni». E ha concluso così: «Non tollero che colpiscano il mio affetto più grande per colpire me». E ora ecco spuntare il servizio e le foto di Pisapia che «ci apre in esclusiva le porte di casa sua, con la compagna Cinzia Sasso». Un’altra leggerezza?
Cos’è la storia di “Affittopoli”. L'ennesima vicenda di affitti a prezzi vantaggiosi e persone molto poco bisognose. Il Pio Albergo Trivulzio è l'ente che nel 1992 diede inizio a Tangentopoli, scrive “Il Post” il 20 febbraio 2011. Da giorni le pagine dei giornali, soprattutto quelle della cronaca di Milano, sono invase dall’ennesimo “scandalo” politico descritto con l’ennesimo neologismo che finisce in -poli, come Tangentopoli, Vallettopoli, Bancopoli, Calciopoli, Parentopoli, eccetera eccetera. Stavolta il neologismo è “Affittopoli”, già utilizzato altre volte in passato per storie simili a questa. Il tema è sempre lo stesso: affitti a prezzi molto favorevoli offerti a personaggi tutt’altro che bisognosi, spesso orbitanti intorno alla politica locale. Di cosa parliamo. A Milano il Comune, il Policlinico e il Pio Albergo Trivulzio – tra un po’ vi spieghiamo cos’è – possiedono un patrimonio di 3700 case, negozi, locali gestiti in modo poco trasparente. Da settimane i giornali pubblicavano racconti di affitti ridicoli pagati per immobili che, per dimensione e collocazione, sul mercato avrebbero comportato rette doppie o triple. Quattro stanze vista Duomo a 450 euro al mese, quando sul mercato con 450 euro si affitta, forse, un monolocale sgangherato fuori città. Settanta metri quadri in via Bagutta, a due passi da via Monte Napoleone, a 330 euro al mese. Non solo: poca chiarezza nei criteri per l’assegnazione di questi appartamenti, voci su bandi “riservati”, racconti di facoltosi professionisti subentrati ad affitti vantaggiosi sottoscritti da genitori e parenti vari. Il Pio Albergo Trivulzio nasce come ospizio per anziani, a Milano, fondato nel Settecento da un nobile – Tolomeo Trivulzio, appunto – che decise di donare il suo intero patrimonio alla fondazione di un ospizio per anziani poveri. Nel Novecento il Pio Albergo Trivulzio è diventato un ente che gestisce moltissimi immobili, il cui nome ufficiale è infatti Azienda di servizi alla persona Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio. Ora, il Pio Albergo Trivulzio ha conosciuto il suo momento di maggiore notorietà nel 1992: in particolare quando il suo presidente, Mario Chiesa, viene colto in flagrante mentre intasca una tangente da sette milioni di lire. Su di lui indaga un pm della procura di Milano, Antonio Di Pietro. È l’inizio di Tangentopoli. Il Comune quindi nei giorni scorsi ha chiesto al Trivulzio di rendere noti i nomi degli inquilini e criteri di assegnazione dei 1400 appartamenti proprietà dell’ente. A un certo punto Fabio Nitti, direttore generale del Trivulzio, viene chiamato a relazionare davanti alla commissione casa del Comune. La riunione si tiene a porte chiuse, come richiesto dallo stesso Trivulzio, ma alcuni consiglieri raccontano alcune delle parole di Nitti, che avrebbe detto che il Trivulzio dà le case «a chi ha più soldi». La consigliera comunale Ciabò, presidente della commissione, ha detto che «il criterio del massimo reddito è assurdo, e crederci non è facile. La verità potrebbe essere peggiore, ossia che le case vadano agli amici, senza tanti criteri. Vogliamo vederci chiaro». Poi arriva la smentita degli avvocati del Trivulzio, che dicono che il reddito non è ilcriterio ma uno dei criteri per l’assegnazione degli immobili. Anche sull’identità degli inquilini il Trivulzio è molto opaco. Come «per ragioni di privacy» avevano chiesto di tenere l’audizione a porte chiuse, «per ragioni di privacy» non intende diffondere l’elenco degli inquilini. «Mi batterò perché gli inquilini non siano dati in pasto alla morbosità del pubblico», dice Emilio Trabucchi, presidente dell’ente. Il Comune però preme, il sindaco Moratti chiede «la massima trasparenza» e nel frattempo fornisce i dati sulle sue proprietà. La stampa continua a chiedere i dati. I sindacati degli inquilini si oppongono, «preoccupati dalla possibile gogna mediatica». Poi arriva il garante della privacy a dirimere la questione, e dice che i dati devono essere consegnati al Comune, che ne ha fatto richiesta. Inoltre non c’è alcuna norma che impedisca la pubblicazione di quegli elenchi: sono dati pubblici, non esiste nessuna privacy da tutelare. E quindi i dati vengono consegnati al Comune. L’elenco completo degli inquilini viene reso pubblico e dopo poche ore è sui giornali, qui si può scaricare il pdf. In mezzo c’è di tutto: Daniele Cordero di Montezemolo, stilista e fratello del più celebre Luca, la giornalista di Mediaset Claudia Peroni, la presidente dell’ordine degli architetti Daniela Volpi, il politologo Giorgio Galli (910 euro al mese per 127 metri quadrati), la compagna di Aldo Brancher, il direttore generale del Milan Ariedo Braida, l’attrice Gaia Amaral, Carla Fracci. Poi molti politici del PdL o del centrodestra: il presidente del consiglio comunale di Peschiera Borromeo, consiglieri comunali di Milano, l’ex tesoriere di Forza Italia. Solo alcuni di questi pagano affitti in linea con le quote di mercato: molti pagano rette molto al di sotto. Il caso di cui si è parlato di più, in questi giorni, è quello che coinvolge indirettamente il candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. La sua compagna, Cinzia Sasso, giornalista di Repubblica, è infatti una degli inquilini delle case del Trivulzio: 118 metri quadri in corso di Porta Romana a circa 900 euro al mese, molto al di sotto dei prezzi di mercato. È stata la stessa Sasso a descrivere la sua condizione scrivendo al Corriere della Sera: «Sento il ronzio delle api attorno al miele, preferisco violare la mia privacy e raccontare i fatti miei». Sasso scrive che il primo contratto col Trivulzio risale al 1989, «quando ancora non conoscevo Giuliano», e che le spese di manutenzione e ristrutturazione sono a suo carico. Precisa che Pisapia risiede da un’altra parte, che il suo contratto è scaduto nel 2008 e che non è mai stato rinnovato. Sasso dice a Libero di non ricordare come era entrata in contatto col Trivulzio, Filippo Facci ha ricostruito la vicenda a partire dalle parole di Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. Negli ultimi giorni sia la procura di Milano che la Corte dei Conti hanno aperto delle inchieste per verificare la gestione del patrimonio immobiliare da parte del Pio Albergo Trivulzio. La Lega ha chiesto a Pisapia di ritirare la sua candidatura, questo ha detto di non averne alcuna intenzione. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, starebbe facendo pressioni sul presidente dell’ente assistenziale, Emilio Trabucchi, perché questo lasci l’incarico e permetta così al sindaco di nominare un commissario straordinario.
LA MILANO DEI MORATTI.
Gian Marco, figlio di Angelo, fratello di…La gloriosa (o cupa) saga dei Moratti, scrive il 27 Febbraio 2018 "Il Dubbio". Dei Moratti, che sono una piccola famiglia Kennedy prosperata sui navigli milanesi, Gian Marco, scomparso ieri a 81 anni, era il più schivo, il meno mondano, quasi uno sconosciuto per il grande pubblico. Come si dice in gergo uno con i piedi per terra. Ma anche l’erede naturale di papà Angelo da cui ha raccolto il bastone del comando. Mentre il fratellino Massimo si trastullava con l’Inter, sperperando centinaia di milioni di euro in bidoni più o meno esotici (ma anche vincendo un Triplete), lui gestiva gli affari di famiglia, la “roba”. E lo faceva lontano dalle ribalte, centrato come una quercia, tenendo i conti a posto e garantendo profitti a tutti. Un po’ preoccupato per le iniziative sbilenche di Massimo, ma senza fastidi o paternalismi: come tutti i grandi clan i Moratti sono sempre stati uniti, ai limiti del tribalismo, anche quando le idee non coincidono, anche quando i principii e le battaglie divergono, la famiglia prima di tutto, la famiglia davanti a tutto. Forse è così che si diventa una dinastia, proteggendosi gli uni con gli altri. Una ricchezza che galleggia sul petrolio quella dei Moratti, la prima pietra l’ha posata Angelo, classe 1909, anche se la stirpe deve tutto ai bisnonni paterni, due modesti agricoltori della bassa bergamasca che diedero alla luce 21 figli, i 14 maschi tutti laureati, le sette femmine in convento oppure maritate con qualche buon partito. Non come i Rockfeller che sotto il sedere si sono trovati fiumi di oro nero, l’Italia quella fortuna non l’ha mai avuta ma neanche lo spirito di conquista un po’ ribaldo e un po’ squaloide degli americani, così papà Angelo si dedica al commercio del greggio e alla costruzione di raffinerie; benzine, diesel e kerosene hanno ormai soppiantato i vecchi combustibili come torba e carbone, si apre una nuova era industriale, i Moratti ne saranno protagonisti assoluti. Il primo impianto alla fine degli anni ‘ 40 ad Augusta in provincia di Siracusa con materiali acquistati in Texas e poi trasportati in Sicilia, è la Rasiom che poi cederà alla Esso. Negli anni 50, sempre ad Augusta fonda la Prora, azienda che di trasporto marittimo. La realizzazione più grande però è in Sardegna a Sarroch quando nel 1962 costruisce la Saras, una raffineria monstre che nel corso del tempo è diventato il più importante polo petrolifero del Mediterraneo, un colosso che lavora 15 milioni di tonnellate di greggio ogni anno, che sarà la gallina dalle uova d’oro per tutta la famiglia non senza polemiche e accuse di violare la sicurezza dei lavoratori, come nel 2009 quando tre operai persero la vita per un’intossicazione da azoto. Nel 2006, quando la Saras approda in Borsa i Moratti intascano 750 milioni di euro, i più maligni dicono che la cifra corrisponda euro più euro meno ai passivi accumulati da Massimo nella fornace nerazzurra. Naturalmente c’è l’Inter, la grande Inter di Suarez, Corso, Mazzola e soprattutto del “mago” Helenio Herrera, di cui sarà presidente come il figlio minore Massimo, ma vincendo molto di più e spendendo molto, molto di meno. E poi le poltrone dei consigli di amministrazione, dal Corriere della sera alla Mobil, dalla Texaco alla Esso, la vicepresidenza di Confindustria. In questa saga del capitalismo meneghino il futuro di Gian Marco, primogenito assennato, è già scritto, il suo posto già tenuto al caldo: «La tua America è questa sedia» gli dice papà Angelo, chiedendogli di restare a Milano e di rinunciare agli Stati Uniti, tappa obbligata per i rampolli dell’epoca. Finito il liceo ci sono i 18 mesi di servizio militare e poi giù, a capofitto, con il lavoro. Sempre lontano dai riflettori, anche quando negli anni 60 è uno dei ragazzotti più ricchi d’Italia e anche uno dei più ambiti. In vacanza l’immancabile Versilia dove sfreccia con una lambretta bianca, educatissimo, abbronzatissimo ma sempre con quel piglio riservato, quasi aristocratico, che non lo ha mai abbandonato: se avesse recitato nel Sorpasso di Dino Risi sarebbe stato senz’altro il timido e Trintignant, di sicuro non il guitto Gassman. Di lui si innamora la sofisticata Lina Sotis che lo sposa a soli 18 anni nel 1962, nascono due figli: Angelo (ancora!) e Francesco. L’unione però non funziona e nel 1967 arriva il divorzio. Lina Sotis diventerà la sacerdotessa del bon-ton nella Milano da bere degli anni 80, Gianmarco invece incontra la donna della sua vita: Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, di origini aristocratiche, la sua famiglia ha fondato la prima società italiana di brokeraggio assicurativo. Riservatissimi sulla vita privata, si consacrano agli affari e alla politica delle donazioni in beneficienza. Massimo invece sposa Michela Enza Bossi detta “Milly”, militante ecologista con gusti frikkettoni, amante del subcomandante Marcos che solca Milano con la sua bicicletta scassata. Gli orientamenti, le posizioni politiche, le scelte di società di questa dinasty lombarda sono in fondo una metafora dell’Italia e delle sue divisioni, ma allo stesso tempo testimoniano una fibra comune, una generosità istintiva che scorre nelle vene dei Moratti: Massimo e Milly, progressisti, di sinistra, finanziatori di Emergency, Gian Marco e Letizia conservatori, di destra, finanziatori della comunità di San Patrignano di Vincenzo Muccioli. Letizia è stata presidente della Rai, sindaca della Madonnina e ministra berlusconiana dell’Istruzione, Milly ha invece sostenuto Giuliano Pisapia come sindaco di Milano proprio contro la cognata. Le due donne si sono anche scontrate durante le elezioni, con Milly che accusò il governatore Formigoni di manipolare Letizia. Ma quando le luci della politica si spengono e ci si ritrova tutti insieme, le differenze si appianano, le distanze scompaiono, i rancori evaporano e la famiglia prevale su tutto il resto. Proprio come i Kennedy.
Moratti, stirpe di potere. Dall'impero di raffinerie ai salotti dell'alta finanza. La Saras, a cui ha dedicato tutta la carriera, vale 1,7 miliardi. Gli intrecci con Eni e Agip, scrive Marcello Zacché, Martedì 27/02/2018, su "Il Giornale". Moratti in Borsa significa Saras, la società da 1,7 miliardi di valore il cui controllo (il 50,02%) è detenuto in parti uguali dalle due società in accomandita dei fratelli Gian Marco e Massimo. Ma è il primo, scomparso ieri a 81 anni (di 9 anni più vecchio dell'ex padrone dell'Inter), ad averci dedicato tutta la vita. Fin dalla sua fondazione, nel 1962, poi come amministratore delegato e, dal 1981, da presidente. L'idea di una raffineria di petrolio l'aveva avuta il padre, Angelo, classe 1909, durante un viaggio in Texas nel primissimo dopoguerra. A Milano, da giovane rappresentante di combustibili, Angelo aveva intuito il futuro dell'oro nero. E così, nel 1948, acquistata la raffineria texana, l'aveva smontata, trasportata sull'Atlantico e ricostruita in Sicilia, ad Augusta. È la Rasiom. Prove tecniche di Saras, la raffineria che i Moratti costruiscono in Sardegna nel 1962, a Sarroch, contribuendo allo sviluppo dell'intera comunità locale, che in 20 anni raddoppia i residenti. Raffineria, per l'appunto: un business che funziona ricevendo il petrolio grezzo e trasformandolo in prodotti da rivendere. Tipicamente combustibili quali benzine, oli, gasolio. Questo fa Gian Marco fin da ragazzo. E questo fa di Saras e della famiglia Moratti un anello strategico del boom economico italiano da un lato, e un tassello finanziario e relazionale dei cosiddetti poteri forti dall'altro. Fare i petrolieri nell'Italia del dopoguerra significa occupare una posizione chiave nel modello di sviluppo industriale, specie in un'economia di trasformazione come la nostra. Per questo Eni e Agip hanno bisogno dei Moratti per non lasciare la formazione dei prezzi finali ad altri, nel momento in cui in Italia agiscono anche le sette sorelle e soprattutto la Esso, che a sua volta utilizza raffinerie italiane (per esempio il gruppo Monti). Non a caso è la stessa Agip, nel 1969, a rilevare il 15% di Saras, quota che resterà in pancia all'Eni fino al 2001. Così, già dagli anni Sessanta, Gian Marco con il padre entrano da protagonisti nel complesso equilibrio tra governo, politica estera, aziende pubbliche e capitali privati che ha in Eni e Montedison i poli energetici, in gruppi come Fiat e Pirelli i campioni industriali e nella Mediobanca di Enrico Cuccia la grande regia bancaria e finanziaria. In questa chiave basti ricordare che quando nel 1973 passarono di mano rilevanti pacchetti di minoranza del Corriere della Sera, a rilevarli furono gli Agnelli e i Moratti. E molti videro dietro all'impegno della famiglia milanese lo zampino della stessa Eni. È in questo ambiente che Gian Marco sviluppa le doti di imprenditore accorto, dai nervi saldi, e di manager attento a tutti gli aspetti delle sue aziende che gli vengono riconosciute da chi oggi ne parla ricordandolo. Doti che tornano utili nei diversi momenti di difficoltà economiche e geopolitiche dei suoi 56 anni in Saras. Come la crisi petrolifera del '73 o, per citare casi più recenti e gestiti in prima persona, la crisi libica del 2011 e le sanzioni del 2016 alla Russia (che era entrata nel 2013 nell'azionariato Saras al 13% con il gruppo Rosneft). Le stesse doti che lo portano al vertice della Unione Petrolifera (la potente lobby dei petrolieri) per nove anni, dal 1988 al 1997; e che nel 1996 lo hanno visto vicino alla candidatura per il vertice di Confindustria, scelto dalla borghesia industriale milanese in contrapposizione allo strapotere della Fiat di Maurizio Romiti. Tra le operazioni più significative c'è senz'altro la quotazione in Borsa di Saras, che Gian Marco colloca nel 2006. E che si è rivelata un vero affare: i Moratti vendettero il 33% per 1,7 miliardi, a 6 euro per azione, per una valutazione della società pari a oltre 5,5 miliardi. Collocamento che si rivelò però disastroso, con i titoli in calo deciso per anni. Oggi valgono 1,8 euro. Ne seguì anche un'inchiesta della Procura (Gian Marco fu sentito come teste), con il sospetto che il prezzo del collocamento fosse stato gonfiato dalle banche incaricate. Ma l'intero dossier finì poi archiviato. Tra le pagine più tristi ci sono invece le tragedie di Sarroch del 2009 e 2011: quattro operai morti asfissiati da esalazioni. A cui sono seguite lievi condanne di manager o patteggiamenti. Storie che hanno molto colpito Gian Marco, che nel gruppo ha sempre investito per i migliori standard di sicurezza. E che ha risarcito le famiglie con l'importo massimo previsto. Pur consapevole che non può mai bastare.
MAFIA, PALAZZI E POTERE.
Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.
Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avere influenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votino e gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.
Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..
Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?
V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…
L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?
V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.
L: Eh certo! (ride)
V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…
L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…
Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.
LA STRAGE DI STATO ED IL SUICIDIO DI STATO: IL RAPIDO 904, PIAZZA FONTANA E GIUSEPPE PINELLI.
Rapido 904, 31 anni fa la strage. Storia, immagini, testimoni. Il 23 dicembre 1984 una bomba sul treno Napoli-Milano esplode in galleria nei pressi di S. Benedetto Val di Sambro. I morti sono 17, i feriti 267, scrive il 23 dicembre 2015 Edoardo Frittoli su “Panorama”. L'anno scorso, a trent'anni esatti dalla "Strage di Natale", che segnò il passaggio dal terrorismo eversivo alla guerra di mafia degli anni '80-'90, la storia e le testimonianze dei sopravvissuti e dei soccorritori sono state raccolte in un progetto di crowdfunding promosso dal fotografo e documentarista Martino Lombezzi e dall'Associazione tra i familiari delle vittime della Strage del rapido 904. L'obiettivo del progetto è il finanziamento di un documentario di circa 50 minuti sui tragici eventi del 23 dicembre 1984 con le testimonianze di chi quella sera era sul rapido e di chi fu chiamato a intervenire per i soccorsi alle vittime di una strage quasi dimenticata. Avvenuta nello stesso tratto di binari dove 10 anni prima si era consumata la strage del treno "Italicus".
Castiglione dei Pepoli (BO). Vigili del Fuoco. Ore 19,15 del 23 dicembre 1984. È una sera fredda e umida quella dell'antivigilia di Natale del 1984. Il telefono della caserma dei Vigili del Fuoco di Castiglione dei Pepoli, paese dell'Appennino Tosco-emiliano, squilla. Dall'altro capo del telefono è la centrale operativa del 115 di Bologna. Chiedono l'intervento del distaccamento per uno scoppio nella galleria ferroviaria dell'Appennino, la Direttissima. Pochi istanti dopo il comandante Gianpaolo Bacchetti raduna gli uomini della sua squadra, i primi sette. Dà poi disposizioni a una seconda squadra di altri sette pompieri di prepararsi per una seconda uscita sulle Fiat Campagnola. I vigili del fuoco avviano l'autopompa, la radio gracchia e in pochi istanti i lampeggianti blu invadono il cielo scuro dell'Appennino. La strada per raggiungere la galleria ferroviaria dalla stazione di San Benedetto Val di Sambro è lunga. Circa 13 chilometri. Ma il mezzo corre e arriva all'imbocco della galleria quando la piccola la stazione è ancora deserta. Nel filmato seguente, realizzato da Martino Lombezzi, il comandante Bacchetti e i membri della sua squadra raccontano la loro esperienza di soccorritori della "Strage di Natale".
Galleria "Direttissima" dell'Appennino. Località Vernio. Ore 19,06 del 23 dicembre 1984. Il treno rapido 904 era in servizio, il 23 dicembre 1984, sulla tratta Napoli-Milano. Si muove dal binario 11 poco dopo mezzogiorno dalla stazione di Napoli Centrale, gremito di passeggeri in viaggio per le festività natalizie. ll percorso fino a Firenze prosegue secondo la tabella di marcia. Durante la sosta alla stazione di S.Maria Novella, qualcuno posa due pesanti valigie sulla griglia portabagagli della carrozza 9. Poi il treno riparte. Intorno alle 19 il convoglio imbocca la galleria ferroviaria più lunga d'Europa. Sono 18 km nel ventre dell'Appennino e il treno 904 è inghiottito a tutta velocità dalla galleria inaugurata nel 1934, nota come la "Direttissima". Giunto in località Vernio, alle 19,06 il treno deflagra per l'esplosione degli ordigni ad alto potenziale contenuti nelle due valige della carrozza 9, innescate da un telecomando. E' l'inferno. Il treno devastato dalla carica esplosiva piomba nel buio della galleria, tutti i finestrini esplodono, la linea elettrica è interrotta. Dopo attimi di silenzio surreale iniziano i lamenti e le urla strazianti dei feriti più gravi e dei passeggeri che cercano i propri parenti e amici in stato di shock. Il treno è fermo a 8 km. Dall'imbocco Sud e a 10 dall'uscita in direzione di Bologna. Il primo a dare l'allarme e prestare la prima assistenza ai feriti è il controllore Gian Claudio Bianconcini, alla luce fioca dei neon di emergenza della galleria, che presto si esauriranno. I feriti meno gravi cominciano ad avviarsi a piedi verso l'uscita Nord. A metà del tunnel i superstiti trovano la stazione intermedia chiamata "Precedenze", dove il marciapiedi diviene più largo. Nel frattempo i pompieri di Bacchetti percorrono a piedi il tunnel lungo lo stretto marciapiedi reso scivoloso dall'umidità e attorno alle 20,20 incontrano i primi superstiti sconvolti. A quel punto da San Benedetto arriva un piccolo carrello di servizio delle FS che si inoltra verso il convoglio e dove poco dopo caricherà i feriti più gravi verso l'uscita nord. Pochi minuti dopo, quando l'aria è già irrespirabile per gli effetti dell'esplosione, un locomotore diesel aggancia due carrozze sulle quali vengono fatti salire i feriti più lievi, che sbucano dalla galleria attorno alle 21,15. A San Benedetto li attendono le ambulanze di Bologna Soccorso, la centrale operativa che diventerà il primo nucleo del 118 in Italia. Nella galleria, restano i morti. Sono 16, divenuti poi 17 per un decesso successivo. Ci sono anche due bambini. Quando il resto del convoglio è trainato fino a San Benedetto Val di Sambro, dal cielo cade la prima neve.
23 dicembre 2014: La voce dei sopravvissuti. Il progetto sulla Strage di Natale, raccoglie le testimonianze dei superstiti dell'attentato di 30 anni fa. Ecco alcuni estratti raccolti da Martino Lombezzi.
Antonio Calabrò, uno dei feriti più gravi del rapido 904, ricorda il suo stato di incoscienza dopo il ricovero. “Mi sentivo benissimo, come se dovessi andare ad una festa, come quando un fidanzato va al primo appuntamento con la fidanzata, bellissimo, leggero, in perfetta forma, e mi sembrava come di galleggiare, e mi rendevo conto come se non avessi limiti, potevo andare dappertutto (…) ho visto delle persone, delle donne, con la mascherina, il vestito verde, e stavano tagliando degli abiti, degli abiti a qualcuno, e quindi mi incuriosii: “ah, ma chi è questo poverino?” ah ma io devo andarmene. Non devo perdere tempo, sto così bene. Ma vediamo un attimo chi è questo, forse non sta bene, stanno tagliando gli abiti, così vado a vedere e ho detto cavolo, ma quello sono io!”
Filomena Albanese parla insieme al marito Mariano, era in viaggio con lui, giovani, appena sposati. “Appena sposati, da poco, organizzammo un viaggio per sfuggire, tra virgolette, dal bradisismo. Perché lui aveva preso un esaurimento nervoso. Era il periodo del bradisismo e a Pozzuoli si ballava, così decidiamo di andare a passare il natale con i fratelli a Milano. …questo rumore... non me la ricordo neanche l’esplosione. Mi ricordo solo questo fuoco che entrava dai finestrini rotti. E quindi non capivamo se avevamo avuto un incidente, se ci eravamo scontrati con un altro treno. Pensavo un incidente, forse. Poi dopo un bel po’ il treno riesce a fermarsi e ovviamente nel buio ci siamo catapultati, senza pensare, che dall’altro lato potesse arrivare l’altro treno. E ci siamo buttati dalle porte sventrate del treno. E lì poi c’era questo capotreno, che ci urlava di non scendere e di stare attenti perché sui binari c’erano pezzi di corpi." “Poi da lì cambia tutta la nostra vita. Da quel momento cambia tutto. Praticamente cambia lo stile di vita, cambia il modo di pensare, cambia la tua sicurezza perché tutto ti fa paura, ogni piccola cosa, ogni rumore ti dà fastidio. Per esempio mi ritrovo adesso che ho 54 anni quasi, che non posso neanche sentire una sirena, un bimbo che piange, perché non tanto io, ma mio marito dà in escandescenza, non riesce proprio a sopportare nessun tipo di rumore più. Quindi anche in casa, anche se c’è una festa, diventa…ecco.. non riesci più a sentire un volume alto. O di voce o di radio o una sirena o un’ambulanza, qualsiasi rumore lui non lo tollera”
Cinzia D’Esposito. Studentessa, viaggia da sola verso Milano. "Io all’epoca avevo 24 anni, studiavo ancora e stavo per laurearmi in architettura. Tutto mi cadeva addosso, il buio, all’improvviso si spense tutto, e l’unica cosa che tutti potevano fare era urlare, insomma un macello totale. Riuscimmo comunque, una volta resici conto che alcuni di noi potevano stare all’impiedi, seguendo le urla, seguendo un flusso generale di urla, riuscimmo a capire che potevamo scendere dal treno, scendere dalla carrozza, e questo tra le macerie, passando sopra ferro vetri, i vetri che ci avevano colpito, passando sopra tutte queste cose, come trasportati, senza essere coscienti di niente. Non penso di averla fatta coscientemente quest’operazione di scendere o vedere o dove mettere i piedi per andare, di questo assolutamente sono convinta, proprio come uno viene trascinato da un’onda. Subito ci rendemmo conto che c’era qualcuno che non rispondeva più, che stava male, che perdeva sangue, io stessa perdevo molto sangue dalla testa, da dietro l’orecchio sinistro avevo questa grossa ferita, e ferite in faccia, però nessuno vedeva e io non vedevo gli altri. Noi siamo stati in galleria alcune ore, su questo bordo della galleria, con le persone ferite, che cercavano di passare, questo fumo e questa distruzione attorno, le urla di questa signora che chiamava la figlia, in questa situazione siamo stati alcune ore, poi finalmente ci portarono, se non mi sbaglio con una carrozza di prima classe, fuori dalla galleria. Come entrai in quello che doveva essere forse la biglietteria delle stazione di San Benedetto Val di Sambro allestita ad infermeria, come entrai così uscii, perché vidi che in questa situazione di emergenza c’erano persone distese, persone gravissime proprio. Persone con flebo, fiumi e fiumi di sangue, allora io me ne andai. Quando la carcassa del rapido 904 giace alla stazione di S.Benedetto, arrivano le prime, contradditorie rivendicazioni ai giornali e alle agenzie di stampa. Alle 22,25 una telefonata a "Paese Sera" indica gli autori della strage nel nucleo terroristico di estrema destra "Ordine Nuovo". Poco dopo le 23 alla redazione de "Il Giorno" è la volta della "Rosa dei Venti". All'Ansa di Genova la voce anonima indica come responsabili i neofascisti di "Terza Posizione". Al "Messaggero" di Roma si indicano i NAR, i "Nuclei Armati Rivoluzionari".
In realtà queste false rivendicazioni avevano lo scopo di depistare e di ribadire una presunta recrudescenza dei protagonisti degli anni di piombo e della "strategia della tensione". Lo Stato era avvisato, la violenza eversiva non era vinta. Le indagini portarono in realtà a responsabilità diverse e composite. L'arresto del mafioso palermitano Giuseppe Calò avvenuto per altri motivi 4 mesi dopo la strage del rapido 904, misero in luce i veri responsabili, riconducibili principalmente a Cosa Nostra, alla Camorra, ad alcuni esponenti della banda della Magliana, alla loggia P2 e alle frange neofasciste. Nel covo di Pippo Calò e del complice Guido Cercola furono ritrovate apparecchiature elettriche ed esplosivo compatibili con la strage del 23 dicembre. A fornire il detonatore a distanza sarebbe stato il tedesco Friedrich Schaundin. Al maxiprocesso di Palermo dinnanzi al giudice Giovanni Falcone, le trame che portavano ai mandanti dell'attentato apparvero chiaramente dopo le deposizioni del 1985. Fu coinvolto anche un boss della camorra, Giuseppe Misso, noto come il "boss del Rione Sanità". Le condanne per Calò e Cercola sono di ergastolo. Quest'ultimo si suiciderà in carcere nel 2005. Durante le indagini emergerà la responsabilità di un politico, il parlamentare dell'MSI Massimo Abbatangelo. Questi avrebbe fatto da tramite per la consegna dell'esplosivo agli attentatori e condannato a 6 anni di reclusione. Nell'aprile 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss dei Casalesi Totò Riina come mandante della strage del treno 904. Il processo si è aperto a Firenze il 25 novembre 2014. E 'tuttora in corso.
L'ELENCO DELLE VITTIME
Giovanbattista Altobelli (51)
Anna Maria Brandi (26)
Angela Calvanese in De Simone (33)
Anna De Simone (9)
Giovanni De Simone (4)
Nicola De Simone (40)
Susanna Cavalli (22)
Lucia Cerrato (66)
Pier Francesco Leoni (23)
Luisella Matarazzo (25)
Carmine Moccia (30)
Valeria Moratello (22)
Maria Luigia Morini (45)
Federica Taglialatela (12)
Abramo Vastarella (29)
Gioacchino Taglialatela (50 successivamente)
Giovanni Calabrò (67 successivamente)
31 anni fa la strage del Rapido di Natale. Il colpo di coda degli anni di piombo, scrive “Il Corriere della Sera” del 23 dicembre 2015. 23 Dicembre 1984: il Rapido 904 parte dalla stazione centrale di Napoli diretto a Milano, carico di passeggeri che si spostano per le feste natalizie. Il treno percorre lo stesso tratto segnato da una tragedia simile 10 anni prima, il 4 agosto del 1974, quando il treno Italicus esplose poco prima dell’ingresso nella galleria appenninica di San Benedetto Val di Sambro. La storia si ripete, ma questa volta gli attentatori attendono che il convoglio raggiunga il centro della galleria per massimizzare gli effetti dell’ordigno esplosivo. Moriranno 16 persone, oltre ai quasi 300 feriti, tra passeggeri e personale del convoglio, e la tragedia del Rapido 904 verrà identificata dalla Commissione Stragi come il momento di passaggio tra il terrorismo eversivo e la guerra di mafia degli anni ’80 e ’90. Alle 19.08 il treno è colpito da un’esplosione violentissima mentre percorre a circa 150 km orari la galleria detta “direttissima” inaugurata nel 1934, 18 km nel ventre dell’Appennino, la più lunga d’Europa. Si scoprirà poi che durante la sosta nella stazione fiorentina di Santa Maria Novella, qualcuno ha posato due valigie all’interno della Carrozza 9: sono cariche di ordigni ad alto potenziale che vengono azionati a distanza da un telecomando. Il centro del convoglio viene devastato, la linea elettrica è interrotta, tra i passeggeri è il panico, e dopo qualche secondo di silenzio scoppiano le urla e i lamenti dei feriti. Nella foto l’ingresso sud della galleria. Viene subito attivato il freno di emergenza, fermando il treno a 8 km dall’ingresso sud e 10 da quello nord, e allo shock dei passeggeri si aggiunge il freddo dell’inverno appenninico. Il controllore Gian Claudio Bianconcini, al suo ultimo viaggio in servizio, chiama i soccorsi da un telefono di servizio presente in galleria e, sebbene ferito, sopravvive all’esplosione. Immediatamente viene predisposto un piano di emergenza dalla centrale di Bologna, ma i soccorsi hanno molte difficoltà a raggiungere il luogo dell’esplosione: la linea elettrica è saltata e la tratta è rimasta isolata, mentre il fumo della deflagrazione blocca l’accesso sud della galleria dove si concentra inizialmente l’intervento delle squadre di emergenza. Nella foto i primi soccorsi. I primi soccorritori giunti sul posto racconteranno di aver trovato uno scenario spettrale, avvolto in un fortissimo odore di polvere da sparo. Sarà proprio il controllore Bianconcini a organizzare i primi soccorsi con l’aiuto di alcuni colleghi e passeggeri, nonostante il freddo e il buio, dato che i neon di emergenza della galleria, isolata elettricamente, avevano poca autonomia. Al personale del treno verranno poi conferiti un Encomio Solenne e una medaglia d’oro. Per agganciare le carrozze di testa rimaste intatte e per caricare i feriti viene impiegata una locomotiva diesel, guidata a vista nel tunnel, ma nel gruppo di soccorsi è stato inviato un solo medico. I feriti vengono quindi portati alla stazione di San Benedetto e dopo aver ricevuto le prime cure, i più gravi sono trasportati a Bologna da una quindicina di ambulanze che viaggiano scortate da polizia e carabinieri. I soccorsi ai feriti leggeri dureranno fino alle cinque del mattino. Viene allestito rapidamente un ponte radio e la Società Autostrade mette a disposizione un casello riservato per il servizio di emergenza. Il piano dei soccorsi allestito quella notte è il frutto delle misure predisposte dopo la Strage dell’Italicus di dieci anni prima e questa operazione sarà la prima sperimentazione del sistema centralizzato a Bologna per la gestione delle emergenze. Nonostante le condizioni ambientali estremamente avverse, l’operato dei soccorritori fu ammirevole per l’efficienza dimostrata, tanto che poco dopo il servizio centralizzato di Bologna divenne il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118. Alla grande abilità e organizzazione delle forze dell’ordine e dei soccorritori si aggiunse anche una certa fortuna: cominciò a nevicare solo dopo la conclusione delle operazioni di trasporto, e il vento soffiò via i fumi dell’esplosione verso sud, rendendo più facile l’accesso alla galleria. Nella foto un ferito con un regalo di Natale. All’alba la tragedia appare in tutta la sua gravità: ecco cosa resta delle carrozze colpite dall’esplosione. Questi i nomi e le età delle vittime: Giovanbattista Altobelli (51 anni), Anna Maria Brandi (26), Angela Calvanese (33), Anna De Simone (9), Giovanni De Simone (4), Nicola De Simone (40), Susanna Cavalli (22), Lucia Cerrato (66), Pier Francesco Leoni (23), Luisella Matarazzo (25), Carmine Moccia (30), Valeria Moratello (22), Maria Luigia Morini (45), Federica Taglialatela (12), Abramo Vastarella (29) e due persone che moriranno in seguito a causa delle ferite riportate: Gioacchino Taglialatela e Giovanni Calabrò. La manifestazione in Piazza Maggiore a Bologna all’indomani della strage. Anche a Milano la gente scende in strada all’indomani della strage di Natale; nella foto alcune personalità durante il corteo: da destra Franco Cervetti, Barbara Pollastrini, Luigi Corbani e Antonio Pizzinato, 24 dicembre 1984. La Procura della Repubblica di Bologna predispone una perizia chimico-balistica per capire le dinamiche dell’esplosione e analizzare il materiale utilizzato. Poco dopo un testimone afferma di aver visto una persona sistemare due borsoni sulla carrozza 9 durante la sosta a Firenze, motivo per cui l’inchiesta passa alla Procura della Repubblica del capoluogo toscano. Nel marzo del 1985 vengono arrestati a Roma, per reati legati al traffico di droga, Guido Cercola e il pregiudicato Giuseppe Calò, noto mafioso palermitano. Nel covo dei due arrestati, in un edificio rustico presso Rieti, verranno rinvenuti, oltre ad alcuni chili di eroina, un apparato ricetrasmittente, delle batterie, antenne, cavi, armi ed esplosivi. Le perizie condotte dimostreranno che l’esplosivo trovato nel covo ha la stessa composizione di quello usato nell’attentato del Rapido 904. Il 9 gennaio del 1986, il Pubblico Ministero Pierluigi Vigna imputa formalmente la strage a Calò e a Cercola, motivando la decisione con queste parole: « ...con lo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata, che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura, per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato». Dalle indagini emergono dei rapporti tra Cercola e un tedesco, Friedrich Schaudinn, che sarebbe stato incaricato di produrre alcuni dispositivi elettronici da usarsi per attentati, trovati poi nell’abitazione di Pippo Calò. Vengono a galla diverse linee di collegamento tra Calò, mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino la Banda della Magliana. Rapporti su cui faranno luce le dichiarazioni di personaggi al centro di altre inchieste, tra cui Cristiano e Valerio Fioravanti, Massimo Carminati e Walter Sordi. Le deposizioni che spiegano i legami tra questi distinti ambienti della criminalità emergono più chiaramente al maxiprocesso contro la mafia dell’8 novembre 1985, di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone. La Corte di Assise di Firenze il 25 febbraio 1989 commina la pena dell’ergastolo con l’accusa di strage a Pippo Calò, Cercola e ad altri personaggi legati ai due: Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso (nella foto durante il processo). Inoltre, la Corte decreta 28 anni di detenzione per Franco Di Agostino e 25 per il tedesco Schaudinn, più una serie di altre pene ad altri personaggi emersi dall’inchiesta, per il reato di banda armata. Gli ergastoli saranno poi confermati in Assise nel marzo 1990, mentre Misso, Pirozzi e Galeota verranno assolti per il reato di strage, ma condannati per detenzione illecita di esplosivo e Schaudinn sarà assolto dal reato di banda armata, ma condannato a 22 anni per la strage. Tutto viene ribaltato l’anno successivo dalla Cassazione presieduta dal giudice Corrado Carnevale, provocando l’ira del sostituto Procuratore generale Antonino Scopelliti, il magistrato poi ucciso dalla mafia, che aveva chiesto la conferma degli ergastoli per Pippo Calò e Guido Cercola. Viene comunque disposto un nuovo giudizio dinnanzi ad altra sezione della Corte d’Assise d’Appello di Firenze. Quest’ultima sentenza arriva il 14 marzo del marzo 1992, confermando gli ergastoli per Calò e Cercola, 24 anni per Di Agostino e 22 per Schaudinn. La condanna di Misso viene commutata a tre soli anni per detenzione di esplosivo, mentre quelle di Galeota e Pirozzi sono ridotte a un anno e sei mesi: tutti e tre assolti dai reati di strage. Un corteo di protesta a Bologna. Quello stesso giorno, Galeota e Pirozzi (nella foto segnaletica), insieme alle rispettive mogli, fanno ritorno a Napoli e subiscono un agguato: la loro auto viene speronata e mandata fuori strada da alcuni killer della camorra che li seguono sull’autostrada A1. I killer lasciano sul terreno i corpi di Galeota e di sua moglie, mentre Giulio Pirozzi e la moglie riescono a sfuggire a una vera e propria esecuzione di camorra, che getta una luce ancora più sinistra sulla vicenda della strage di Natale. L’altro protagonista della vicenda, Guido Cercola, si suiciderà nel 2005 nel carcere di Sulmona, soffocandosi con i lacci delle scarpe. La sentenza riconoscerà infine la “matrice terroristico-mafiosa” dell’attentato, mentre alle famiglie delle vittime che hanno fatto ricorso in Cassazione toccherà un’ingiusta sconfitta e l’amara beffa di dover pagare le spese processuali. Nella foto la mostra fotografica “Per non dimenticare”, allestita nella stazione di Bologna in ricordo della strage di Natale. Il 27 aprile 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli emette un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss mafioso Toto Riina come mandante della strage. All’apertura del processo, il 25 novembre 2014, la Direzione Distrettuale Antimafia napoletana inserirà l’attentato in un disegno strategico per far apparire l’attentato come un fatto politico e come risposta al maxi processo a Cosa Nostra. Con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più coperti dal segreto di Stato e sono perciò liberamente consultabili da tutti. Dalla vicenda processuale del Rapido 904 andata avanti per 5 lunghi giudizi, emerge un quadro inquietante in cui, alla strategia eversiva di destra, si lega la manovalanza mafiosa e camorristica che organizza ed esegue con meticolosa “professionalità” la strage. Nella foto la testimonianza di Rosaria Manzo, presidente dell’Associazione familiari delle vittime del Rapido 904, nell’aula di Montecitorio durante la celebrazione del “Giorno della memoria”, dedicato alle vittime del terrorismo, il 9 maggio 2014. Il 14 aprile 2015 Riina viene assolto per mancanza di prove: la sentenza sconfessa la tesi dell’accusa secondo cui sarebbe stato il «determinatore» della strage.
31 anni dopo la strage di Natale, Rosaria: “Devo ricordare”, scrive Gigi Marcucci il 23 dicembre 2015 su “Consumatrici”. “L’assoluzione di Totò Riina? Leggeremo le motivazioni della sentenza, noi non abbiamo mai cercato un colpevole, ma il colpevole”. E la ricerca, quando si sale ai piani alti di una strategia eversiva non è mai semplice, nemmeno dopo 31 anni, nemmeno a tanta distanza da quel 23 dicembre 1984. Se si sapesse, al di là di ogni ragionevole dubbio, chi ha dato l’ordine di mettere una bomba su un treno, si saprebbe anche perché l’ha fatto, quali erano i suoi referenti politici e cosa sperassero di guadagnare, se i mandanti avessero semplicemente intenzione di distogliere l’attenzione degli inquirenti dalle operazioni sempre più complesse della mafia imprenditrice, se invece mirassero a destabilizzare il sistema politico, o avessero a cuore tutti e due gli obiettivi. La strategia del terrore indiscriminato. La bomba esplose il 23 dicembre 1984, uccise 16 persone, ne ferì 267, lasciò tracce indelebili in centinaia di vite. La chiamarono la strage di Natale, perché anche questa volta lo scoppio doveva falciare a caso e nulla è più casuale della folla che riempie una stazione o un vagone ferroviario. L’obiettivo è fare in modo che tutti pensino o dicano: “Lì potevo esserci io”. Uccidere senza ragioni apparenti è la scorciatoia di chi vuole seminare il terrore. Sul treno c’era suo padre, il secondo macchinista. Era successo quattro anni prima, alla stazione di Bologna (85 morti e oltre 200 feriti), dieci anni prima sul treno Italicus (12 morti, 48 feriti). Successe anche sul rapido 904, diretto da Napoli a Milano, carico di gente che tornava a casa per le vacanze o andava a trovare i parenti. Rosaria Manzo, poco più di 30 anni, madre di una bimba, quella storia l’ha solo sentita raccontare, ma oggi è la presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime del rapido 904, che si batte perché anche le ultime zone d’ombra vengano illuminate. Su quel treno c’era suo padre, come secondo macchinista. Rimase ferito e fino a pochi anni fa ha rifiutato di occuparsi di quella vicenda. Non voleva ricordare né essere ricordato: una reazione frequente in chi rimane vittima di una violenza apparentemente inspiegabile. Poi le spiegazioni, con le dichiarazioni di collaboratori di giustizia del calibro di Leonardo Messina, cominciarono ad arrivare. E della strage, nel novembre del 2012, cominciò a occuparsi anche la figlia Rosaria. “Per chi c’era, ci sono immagini che non potranno mai essere dimenticate e magari la tentazione di rifugiarsi nel silenzio. Il fatto di essere donna mi aiuta ad affrontare i problemi con una delicatezza diversa, soprattutto nel rapporto con i familiari di chi non c’è più. Una spiegazione di quanto è accaduto non ce la daranno mai, perché niente può spiegare razionalmente una cosa del genere”. E allora una spiegazione bisogna cercarla. Possibilmente senza scaricare su una persona sola la responsabilità di un’azione che ha richiesto elaborazioni complesse, contatti inconfessabili tra organizzazioni criminali e spezzoni dello Stato, menti più raffinate di quelle di un mafioso latitante. Anche se questo mafioso si chiama Totò Riina, già capo dei capi di Cosa nostra, recentemente assolto dall’accusa di essere stato il mandante della strage. “Non cerchiamo un capro espiatorio ma i responsabili, che secondo me possono essere trovati nel punto in cui si incrociano mafia e eversione di destra”. Una pista che spesso ha trovato conferme impensabili nelle varie fasi del terrorismo di matrice mafiosa. Uno dei casi più clamorosi è la presenza di un ordinovista, Pietro Rampulla, nel commando che minò un pezzo di autostrada per uccidere il giudice Giovanni Falcone. Per la strage del rapido 904 sono stati già condannati con sentenza definitiva camorristi e un mafioso di rango come Pippo Calò, capo mandamento della famiglia di Porta Nuova e, ciò che più conta, punto di raccordo tra gli interessi di Cosa Nostra e quelli della Banda della Magliana, l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn. Alcuni imputati, come l’ex deputato missino Massimo Abbatangelo, hanno visto l’accusa di strage derubricata in quella di detenzione di esplosivo. Recentemente lo stesso Abbatangelo ha respinto, in un’intervista, anche quest’ultima accusa. “Io non dico che c’entri lui personalmente”, spiega Rosaria Manzo, “ma bisogna ancora capire da dove veniva quell’esplosivo e a chi era diretto”. Solo le risposte a questi interrogativi possono sciogliere il grumo di paura che toglie fiducia nel futuro, blocca il flusso dei ricordi, strozza la voce nella gola dei superstiti. Intanto il tempo passa, i testimoni invecchiano o scompaiono. Anche per questo o forse soprattutto per questo, Rosaria Manzo ha deciso di non stare a guardare e di iniziare a combattere contro il tempo e l’oblio. Per riempire il vuoto tra chi ha visto più di quanto sia umanamente possibile sopportare e chi di quella strage non sa nulla. “Questo è un compito che ora tocca ai giovani”, spiega, “e io ho deciso di non tirarmi indietro”.
A 46 anni dalla strage di Piazza Fontana, scrive Nicola Tranfaglia su “Antimafia Duemila” il 13 dicembre 2015. Ventidue anni fa, nel settembre 1993, ebbi tra le mani perché l'editore romano Coletti me lo aveva spedito un libretto intitolato il Memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano a cura di Francesco M. Biscione, uno studioso che, alcuni anni dopo, avrebbe scritto un libro che io considero ormai il migliore sullo statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse pubblicato l'anno scorso dalle edizioni Kaos. (S. Flamigni, "Patto di omertà, Il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro. I silenzi e le menzogne della versione brigatista." Ebbene in quel memoriale, riportato parzialmente anche nella relazione presentata da Giovanni Pellegrino a conclusione dei lavori della Commissione Stragi due anni dopo, Aldo Moro dice a proposito della strage di Piazza Fontana presso la Banca nazionale dell'Agricoltura, avvenuta il 12 dicembre 1969 nella ex capitale lombarda, frasi significative che voglio citare prima di rievocare, sia pure brevemente, quei tragici avvenimenti." Moro scrive a pagina 53 in quel Memoriale: "Io però, personalmente e intuitivamente, non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e manifestare) almeno come solida ipotesi che questi ed altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avessero l'obbiettivo di scatenare un'offensiva di terrore indiscriminato (tale è proprio la caratteristica della reazione di destra) allo scopo di bloccare certi sviluppi evidenti che si erano fatti evidenti a partire dall'autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere." Quella strage possiamo dirlo oggi con certezza fu la "madre di tutte le stragi successive", fece esplodere un chilogrammo di tritolo e provocò 17 morti e 88 feriti. A Roma ci furono 16 feriti: una alla banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, due all'Altare della Patria in piazza Venezia. Da Milano il prefetto Libero Mazza, su segnalazione dell'Ufficio Affari Riservato del Viminale diretto allora da Luigi D'Amato, avvertì il presidente del Consiglio dei Ministri, Mariano Rumor: "L'ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi." La sera stessa intervistato da Tv7 Indro Montanelli espresse dei dubbi sul coinvolgimento degli anarchici per varie ragioni e vent'anni dopo ribadì quella tesi affermando: "Io ho escluso immediatamente la responsabilità degli anarchici per varie ragioni. Prima di tutto, forse per una specie di istinto, di intuizione ma poi perché conosco gli anarchici: gli anarchici non sono alieni dalla violenza ma la usano in altro modo: non sparano mai nel dubbio, non sparano mai nascondendo la mano. Quindi, quell'infame attentato non era di marca anarchica o anche se era di marca anarchica veniva da qualcuno che usurpava la qualifica di anarchico ma non apparteneva certamente alla vera categoria che io ho conosciuto ben diversa e che credo sia ancora ben diversa...". A quell'avvenimento tragico si legano la morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli che non è mai stato chiarito dalla magistratura e che ancora oggi è difficile se non impossibile ritenere sia stato un suicidio perché l'anarchico aveva un alibi fondato e perché sapeva di essere innocente. In seguito, o meglio il 17 maggio 1972, a lungo considerato da una parte dei media come il possibile autore della morte di Pinelli, il commissario Luigi Calabresi venne ucciso da militanti di estrema sinistra, gli stessi che avrebbero fondato il movimento terroristico di Prima Linea. E tuttavia, a 46 anni dai fatti, è il caso di ricordare che la pagina di storia che parte da piazza Fontana e prosegue con la nascita e le imprese di terrorismi di opposto colore (dai Nar alle Brigate Rosse e a Prima Linea) attende sul piano giudiziario, come su quello storico, una ricostruzione che è ancora difficile, se non impossibile, compiere.
Si riportano alcuni brani del capitolo contenuto nel libro “La Strage di Stato”. "Come' è morto Giuseppe Pinelli
E' circa la mezzanotte di lunedì 15 dicembre 1969. Un uomo discende lentamente lo scalone principale della questura di Milano. Giunto nell' atrio dell'ingresso principale di via Fatebenefratelli si ferma un momento, accende una sigaretta. E' indeciso se uscire, andarsene a casa, oppure rimanere ancora qualche minuto, fare un attimo il giro negli uffici della squadra mobile che stanno li' di fronte a lui, dall'altra parte del cortile. Sono giornate faticose queste per i cronisti milanesi e lui in particolare si sente stanco, avvilito: si sa già che nella mattina e' stato arrestato un anarchico di nome Valpreda; c'entrerà davvero con le bombe di Piazza Fontana? E poi nelle camere di sicurezza della questura, nelle stanze al quarto piano dell'ufficio politico ci sono ancora almeno un centinaio tra anarchici e giovani della sinistra extraparlamentare che da tre giorni, dal venerdì delle bombe, sono sottoposti a continui interrogatori. L'uomo, Aldo Palumbo, cronista dell'Unità di Milano, muove i primi passi per attraversare il cortile. E sente un tonfo, poi altri due, ed è un corpo che cade dall'alto, che batte sul primo cornicione del muro, rimbalza su quello sottostante e infine si schianta al suolo, per metà sul selciato del cortile, per metà sulla terra soffice dell'aiuola. Palumbo rimane paralizzato per qualche secondo al centro del cortile, poi si avvicina al corpo, ne distingue i contorni del viso. E subito corre a dare l'allarme, agli agenti della squadra mobile, agli altri cronisti che sono rimasti in sala stampa quando lui è uscito. La mattina dopo tutti i quotidiani escono a grossi titoli con la notizia del suicidio di Giuseppe Pinelli. Di questi giornali, quelli che al momento dell'incidente avevano il loro cronista in questura scrivono che il suicidio è avvenuto a mezzanotte e tre minuti. Nei giorni seguenti, stranamente questo particolare del tempo viene modificato: prima lo si corregge a "circa mezzanotte", poi lo si sposta ancora indietro, sino ad arrivare ad un tempo ufficiale: "Pinelli è morto alle ore undici e 57 minuti del lunedì notte 15 dicembre". Ai primi di Febbraio, dall'inchiesta condotta dalla magistratura trapela un particolare: la chiamata fatta quella notte dalla questura di Milano al centralino telefonico dei vigili urbani per richiedere l'intervento di una autoambulanza, è stata registrata da uno speciale apparecchio e quindi si può stabilire con certezza l'attimo esatto, che risulta essere mezzanotte e 58 secondi. Come a dire due minuti e due secondi prima della caduta di Pinelli, se si sta al tempo segnalato da tutti i giornalisti che erano in questura quella notte. Si è trattato di una svista collettiva, e abbastanza clamorosa per gente abituata ad avere delle reazioni automatiche, professionali, quali il guardare per prima cosa l'orologio quando avviene un incidente del genere? E' un fatto però che nel frattempo sono successe due cose strane. Qualche giorno dopo la morte di Giuseppe Pinelli, due agenti della squadra politica della questura si sono presentati al centralino telefonico dei vigili urbani per controllare il momento esatto di registrazione della chiamata. Cosa significa questo zelo del tutto gratuito dato che è la magistratura, e non la polizia, che si occupa dell'inchiesta sulla morte di Pinelli? Perchè preoccuparsi tanto dell'orario di chiamata dell'ambulanza se le cose si sono svolte così come sono state raccontate? La risposta potrebbe essere questa: la chiamata e stata fatta prima che Giuseppe Pinelli cadesse dalla finestra. Verso i primi di gennaio il giornalista Aldo Palumbo, la prima persona che si è avvicinata a Giuseppe Pinelli morente nel cortile della questura, trova la sua abitazione sottosopra. Qualcuno è entrato, ha rovistato dappertutto, ha aperto cassetti, rovesciato mobili, frugato armadi. Ladri? Sarebbero ladri ben strani considerato che non hanno rubato nè le tredicimila lire che erano in una borsa, che pure devono aver visto poichè la borsa è stata aperta, e neppure quei pochi gioielli nascosti in un'altra borsa, pure essa trovata aperta. Due quindi le ipotesi: o gli ignoti cercavano qualcosa, qualcosa collegato agli ultimi istanti in qui il giornalista fu vicino, e da solo, a Giuseppe Pinelli morente; oppure si è trattato di un avvertimento, un monito a tenere la bocca chiusa rivolto a chi, come Aldo Palumbo, poteva essere sospettato di sapere qualcosa, forse di aver sentito mormorare da Pinelli un nome, una frase. Basterebbero questi primi, pochi elementi per formulare pesanti sospetti sulla versione dell'anarchico morto suicida. In realtà ce ne sono molti altri, e sono questi. Pinelli cade letteralmente scivolando lungo il muro, tanto che rimbalza su ambedue gli stretti cornicioni sottostanti la finestra dell'ufficio politico; non si è dato quindi nessuno slancio. Cade senza un grido e i medici stabiliranno che le sue mani non presentano segni di escoriazione, non ha avuto cioè nessuna reazione a livello istintivo, incontrollabile, nemmeno quella di portare le mani a proteggersi durante la "scivolata". La polizia fornisce nell'arco di un mese tre versioni contrastanti sulla meccanica del suicidio. La prima: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma senza riuscirci. La seconda: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti, nel senso che ne abbiamo fermato lo slancio: come dire, ecco perchè è scivolato lungo il muro. Ma questa versione è stata resa a posteriori, dopo cioè che i giornali avevano fatto rilevare la stranezza della caduta. Infine l'ultima, la più credibile, fornita in "esclusiva" il 17 gennaio 1970 al Corriere della sera: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ed uno dei sottoufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo "cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase una scarpa del suicida" I giornalisti che sono accorsi nel cortile, subito dopo l'allarme lanciato da Aldo Palumbo, ricordavano benissimo che l'anarchico aveva ambedue le scarpe ai piedi. Poi la polizia fornisce due versioni contrastanti anche sul movente anche sul movente del suicidio. Primo: Pinelli era coinvolto negli attentati, il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre era crollato, e sentendosi ormai perduto ha scelto la soluzione estrema, gridando "E' la fine dell'anarchia". Seconda versione, fornita anche questa a posteriori, dopo che l'alibi era risultato assolutamente valido: Pinelli, innocente, bravo ragazzo, nessuno riesce a capacitarsi del suo gesto. Dando questa seconda versione, la polizia afferma anche che la tragedia è esplosa nel corso di un interrogatorio che si svolgeva in una atmosfera del tutto legittima, civile e tranquilla, con scambio di sigarette ed altre delicatezze del genere. L'anarchico Paquale Valitutti, uno dei tanti fermati che tra il venerdì delle bombe ed il lunedì successivo hanno riempito le camere di sicurezza della questura, ha fornito invece questa testimonianza: "Domenica pomeriggio ho parlato con Pino (Pinelli) e con Eliane, e Pino mi ha detto che gli facevano difficoltà per il suo alibi, del quale si mostrava sicurissimo. Mi anche detto di sentirsi perseguitato da Calabresi e di avere paura di perdere il posto alle ferrovie. Verso sera un funzionario si è arrabbiato perchè parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere nella segreteria che è adiacente all'ufficio di Pagnozzi (un'altro commissario, come Calabresi, dell'ufficio politico: n.d.r.); ho avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi lasciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare a Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione per tutta la notte. Di notte il Pinelli è stato portato in un'altra stanza e la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era falso, mi è parso molto amareggiato. Siamo rimasti tutto il giorno nella stessa stanza, quella dei caffè, ed abbiamo potuto scambiare solo alcune frasi, comunque molto significative. Io gli ho detto "Pino, perchè ce l'hanno con noi?" e lui molto amareggiato mi ha detto: "si, ce l'hanno con me". Sempre nella stessa serata del lunedì gli ho chiesto se avesse firmato dei verbali e lui mi ha risposto di no. Verso le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia dove fosse, mi ha risposto che era andato a casa. Io pensavo che stesse per toccare a me di subire l'interrogatorio, certamente più pesante di quelli avvenuti fino ad allora: avevo questa precisa impressione. Dopo un po', verso le 11, 30 ho sentito dei rumori sospetti, come di una rissa ed ho pensato che Pinelli fosse ancora lì e che lo stessero picchiando. Dopo un po' di tempo c'è stato il cambio della guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l'uscita, gridando "si è gettato". Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno ance detto che hanno cercato di trattenerlo ma che non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi ha detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli. Specifico inoltre che dalla posizione in cui mi trovavo potevo vedere con chiarezza il pezzo di corridoio che Calabresi avrebbe dovuto necessariamente percorrere per recarsi nello studio del dottor Allegra e che nei minuti precedenti il fatto (cioè la stessa caduta di Pinelli n.d.r) Calabresi non è' assolutamente passato per quel pezzo di corridoio". Dunque l'ultimo interrogatorio di Giuseppe Pinelli non è stato così tranquillo come si è cercato di far credere, ed è falso anche che al momento della caduta il commissario aggiunto Luigi Calabresi non fosse presente nella stanza. Ma perchè queste menzogne? La risposta può essere trovata in un articolo pubblicato dal settimanale Vie Nuove nelle settimane seguenti. "Quando l'anarchico fu trasportato nella sala di rianimazione dell'ospedale Fatebenefratelli non era in condizioni di coscienza, aveva un polso abbastanza buono ma il respiro molto insufficiente, il che poteva essere provocato da ragioni organiche (cioè il gran colpo dell'impatto con il terreno o qualcos'altro) oppure psicologiche (cioè lo stato di tensione precedente alla caduta, ma questa sembra un'eventualità meno valida.) Il particolare che stupì i medici fu che il corpo, almeno da un esame superficiale, non presentava nessuna lesione esterna ne perdeva sangue dalle orecchie e dal naso, come avrebbe dovuto essere se Pinelli avesse battuto violentemente la testa. Una constatazione, questa, che fa sorgere subito un'altra domanda in chi non ha mai voluto credere nella versione del suicidio: se è vero, come sembra, che la necroscopia ha accertato una lesione bulbare all'altezza del collo, quale si sarebbe potuta produrre battendo al suolo il capo, come mai orecchie e naso non sanguinavano ne volto e testa non presentavano lesioni evidenti? Per logica si arriva quindi ad una seconda domanda: non è possibile che quella lesione al collo fosse stata provocate prima della caduta? Come e da cosa non ci vuole molta fantasia per immaginarlo: sono ormai molti anni che nelle nostre scuole di polizia quella antica arte giapponese di colpire col taglio della mano, nota come Karatè. Fossero stati interrogati, quei due medici (che hanno prestato cure a Pinelli morente n.d.r.) avrebbero potuto raccontare un altro episodio. Quella notte del 16 Dicembre, nell'atrio del Fatebenefratelli regnava una grande confusione. Si era trasferito tutto lo stato maggiore della polizia milanese, il questore Marcello Guida compreso. Ma la polizia era presente anche all'interno della sala di rianimazione dove i due medici tentavano invano di tenere in vita Giuseppe Pinelli, tranquillo, silenziose, non molto turbato dalla vista dell'operazione di intubazione orotracheale e di ventilazione con il pallone di Ambù alla quale l'anarchico veniva sottoposto, un poliziotto in borghese, camicia e cravatta, baffetti neri e un distintivo all'occhiello della giacca, non si allontanò neanche per un attimo dal lettino dove Pinelli stava morendo, attento a raccogliere ogni suo rantolo(...) Chi gli ha dato l'ordine di entrare nella stanza compiendo un abuso di autorità che non è tollerato negli ospedali? E perchè è entrato, cosa pensava o temeva che Pinelli potesse dire prima di morire?" I risultati dell'autopsia, dalla quale sono stati esclusi i periti di parte, non vengono resi noti. I due medici - Gilberto Bontani e Nazareno Fiorenzano - che hanno tentato di salvare Pinelli, solo il secondo, e solo molte settimane più tardi, e dietro istanza della moglie dell'anarchico, viene interrogato dal procuratore Giuseppe Caizzi, il magistrato cui è affidata che nel mese di maggio 1970 si concluderà con un sibillino verdetto di "morte accidentale" (non suicidio quindi, se la lingua italiana ha un senso. Ma allora la polizia ha mentito...). Subito dopo che il dottor Nazareno Fiorenzano è stato interrogato, nel palazzo di giustizia circola una voce secondo cui la polizia lo ha pesantemente "avvertito" che il caso Pinelli è un caso da archiviare, e perciò è meglio che non si ponga troppi interrogativi. Ma cosa può aver notato o capito il medico di guardia davanti al corpo di Pinelli morente? La testimonianza che egli rilascia a un collega prima di essere interrogato dal magistrato e questa:
1) Gli infermieri che raccolsero Pinelli ebbero l'impressione che fosse già morto.
2) il massaggio cardiaco esterno fu praticato da un infermiere di nome Luciano.
3) solo eccezionalmente - e per lo più in vecchi dallo scheletro rigido - il massaggio cardiaco può produrre incrinature alle costole.
4) da quando fu raccolto, e fino alla morte Pinelli non emise nè un lamento nè una parola.
5) quando Pinelli arrivò al pronto soccorso del Fatebenefratelli, non aveva più polso, pressione e respirazione. Appariva decelebrato; ma il dottor Fiorenzano non ebbe l'impressione che la teca cranica fosse fratturata. Non perdeva sangue dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Presentava anche abrasioni alle gambe. Lesione bulbare? Mani intatte.
7) Pinelli fu intubato, sottoposto a ventilazione artificiale ed altre pratiche di rianimazione. Riebbe polso polso e pressione. Respiro che confermerebbe lesione bulbare. Mancanza di riflessi ecc. confermano che (parole testuali) "si trattava di un morto cui avevano dato un po' di vita vegetativa" Rianimazione sospesa dopo 90'.
8) Il dottor Guida arrivo tre minuti dopo Pinelli. Disse al dottor Fiorenzano che non poteva fare nulla contro l'irreparabile, ebbe l'aria di scusarsi e se ne andò.
9) Il dottor Fiorenzano ignorava l'identità del ferito, che non gli fu detta dai poliziotti. La sua insistenza per conoscerla irritò molto i poliziotti.
10) I poliziotti ripetevano, tutti con le stesse parole, che si era buttato dalla finestra. Sembra ripetessero una formula."
Piazza Fontana, 46 anni dopo. Alla ricerca della verità sulla morte di Pinelli, scrive “Dire” l’11 dicembre 2015. Nel pomeriggio del 12 dicembre di 46 anni fa una bomba da 7 chili di tritolo devastò la Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. I morti furono 17, i feriti 88. Per l’Italia iniziò una stagione di terrore. La vicenda processuale fu lunghissima e intricata. Al termine del processo, nel maggio del 2005, ai parenti delle vittime vennero addebitate le spese processuali. La Cassazione assolse i tre imputati (Delfo Zorzi come esecutore della strage, Carlo Maria Maggi come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista), tuttavia affermando che la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo (gruppo di estrema destra di stampo neofascista) capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987 (fonte Wikipedia). Nei giorni immediatamente successivi alla strage venne fermato, tra gli altri, un ferroviere anarchico, Giuseppe Pinelli. Il 15 dicembre venne interrogato nei locali della Questura di Milano. Erano presenti diverse persone: tre sottufficiali di Polizia, un ufficiale dei Carabinieri, un agente, Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi. Durante l’interrogatorio, con una dinamica mai chiarita, Pinelli volò dalla finestra del quarto piano e morì. Calabresi, vice capo dell’Ufficio politico, venne ritenuto da formazioni di estrema sinistra responsabile della morte di Pinelli. Venne ucciso in un attentato da terroristi di sinistra il 17 maggio 1972. Vennero riconosciuti responsabili alcuni esponenti di Lotta continua: Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. “La strage di Piazza Fontana è stata un po’ il nostro 11 settembre. E in un momento in cui purtroppo piangiamo le vittime di Parigi, non dobbiamo dimenticare le scene terribili di distruzione e di morte della Banca dell’Agricoltura, il 12 dicembre di 46 anni fa a Milano”. Guido Salvini, il giudice che ha condotto l’ultima istruttoria su Piazza Fontana, a ‘Voci del mattino’, radio 1 Rai, nel 46esimo anniversario della strage, che provocò 17 morti e 88 feriti. “Nel giugno scorso, la corte d’assise d’appello di Brescia ha condannato per la strage di Piazza della Loggia a Brescia, il capo di Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi e un suo uomo, Maurizio Tramonte – ha continuato-. Io credo che si possa dunque affermare che le piste che si sono seguite nella riapertura delle indagini sia a Brescia che a Milano, fossero quelle giuste. Identici i contesti organizzativi, identici addirittura gli imputati, come Maggi. E anche se per Piazza Fontana non si è giunti a una condanna dei singoli responsabili, nelle sentenze milanesi si diceva chiaramente che l’ideazione e la commissione di quella strage erano da attribuire senza dubbio a Ordine Nuovo”. Per il magistrato si tratta di “una continuità di responsabilità, dunque, da Milano a Brescia, che nessuno può mettere in discussione, è ormai storicamente accertata, ed è il senso del nostro lavoro di quegli anni. C’è da dire poi - ha aggiunto Salvini - che il nuovo prefetto di Milano, Marangoni, ha fatto una dichiarazione coraggiosa, affermando che vuole aprire un canale di dialogo con la famiglia Pinelli. Mi sembra molto importante questa iniziativa, perché quella sera, in cui l’anarchico cadde da una finestra della Questura di Milano, nel corso di un interrogatorio, vi erano, in quella stanza, cinque persone tra carabinieri e poliziotti. Nessuno li ha mai rintracciati. Io credo sarebbe utile comunque verificare se qualcuno di essi sia ancora vivo, e capire se all’epoca, per spirito di servizio, per vincoli di fedeltà all’interno del corpo di Polizia, non disse tutto quella che poteva dire, e che adesso sarebbe utile per comprendere cosa realmente avvenne”. “Forse- ha sottolineato- non è stato un suicidio, come ci è stato raccontato, forse non è stato nemmeno omicidio volontario, come sostengono altri, ma forse si è trattato di un incidente avvenuto in seguito a pressioni o a comportamenti non corretti, da parte degli esponenti della forze dell’ordine, che a quel punto hanno visto la situazione sfuggire loro di mano. Quindi plaudo a questa iniziativa del prefetto Marangoni e la stessa famiglia Pinelli si è detta d’accordo in questa ulteriore ricerca della verità”.
Scalfari e la lettera aperta sul caso Pinelli, scrive Pietro Mancini su “Affari Italiani” Sabato, 28 novembre 2015. Secondo "Il Foglio", lo storico fondatore, Eugenio Scalfari, 91 anni, non scriverà più gli editoriali della domenica sul suo giornale. "Dal 17 gennaio prossimo, non scriverò più su "Repubblica", ha esternato, dopo essere stato informato, prima da Ezio Mauro e poi da don Carlo De Benedetti, che Mario Calabresi sarebbe arrivato a dirigere il quotidiano, che il giornalista calabrese fondò, il 14 gennaio 1976, cioè, quasi esattamente, 40 anni fa. Scalfari firmò una lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli, menzionata anche come appello (o manifesto) contro il commissario di polizia e Capo dell'Ufficio politico della Questura di Milano, Luigi Calabresi, padre di Mario. Fu un duro documento in cui numerosi politici, giornalisti e scrittori chiesero la destituzione di alcuni funzionari, ritenuti artefici di gravi omissioni e negligenze, nell'accertamento delle responsabilità sulla morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra, mentre era in stato di fermo, presso la questura di Milano, nell'ambito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, condotte dal commissario Calabresi. Il 10 giugno 1971, la lettera fu, inizialmente, sottoscritta da 10 firmatari: Mario Berengo, Anna Maria Brizio, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio A. Maccararo, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella. La lettera aperta fu pubblicata sul settimanale L'Espresso, il 13 giugno, a margine di un articolone di Camilla Cederna, intitolato Colpi di scena e colpi di karate. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli. Il titolo si ispirava all'ipotesi, emersa da alcune prime indiscrezioni sulle ferite ritrovate sul corpo di Pinelli, sostenuta da Lotta Continua e da diversi ambienti extraparlamentari, che la defenestrazione di Pinelli fosse, cioè, stata causata da un colpo di karate. Le settimane successive, il 20 e il 27 giugno, la missiva venne ripubblicata, con l'adesione di centinaia di personalità del mondo politico e intellettuale italiano, fino a giungere a 757 firme. Il linguaggio, usato nella lettera, caratteristico di quegli anni di aspri e violenti scontri ideologici, fu, particolarmente, diretto ed accusatorio, al punto che, successivamente, in tempi e modi diversi, alcuni dei firmatari rivedettero le loro posizioni. Norberto Bobbio, ad esempio, in una lettera aperta indirizzata ad Adriano Sofri, pubblicata su la Repubblica il 28 marzo 1998, parlò, apertamente, di «orrore» nel rileggere quelle parole, distinguendo, tuttavia, il merito del comunicato, sul quale non intese ritrattare, e il linguaggio. Altri, invece, come Paolo Mieli e Carlo Ripa di Meana, ritrattarono la sottoscrizione dell'appello, ritenendo che esistesse un nesso di causalità con l'omicidio del commissario Calabresi, avvenuto circa un anno dopo. Giampaolo Pansa, invece, declinò l'invito a firmare l'appello, affermando che dette «un avallo al successivo assassinio di Calabresi». Delitto, spietato, che fu commesso il 17 maggio 1972, a Milano, dinanzi alla abitazione del commissario, per mano d'un commando di due uomini, con alcuni colpi di arma da fuoco. Dopo un iter processuale, particolarmente travagliato, solo nel 1997 si giunse a una sentenza, in Corte di Cassazione, che condusse ad arresti e a condanne definitive: queste individuarono in Ovidio Bompressi e in Leonardo Marino (divenuto il "pentito", sulle cui parole si basò l'accusa) come esecutori materiali del delitto e in Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri i mandanti, stangati per il reato di concorso morale in omicidio, ma senza l'aggravante del terrorismo. I quattro appartenevano, all'epoca dell'omicidio, alla formazione extraparlamentare Lotta Continua, della quale Sofri e Pietrostefani erano stati i fondatori e, all'epoca, erano avversari del commissario Calabresi, da loro accusato della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, dopo la strage di piazza Fontana. Il 9 gennaio 2009, in una intervista al Corriere della Sera, pur ribadendo la sua innocenza nel delitto effettivo di concorso morale in omicidio, Adriano Sofri (poco prima dell'estinzione della pena, scontata nel carcere di Pisa, avvenuta 3 anni dopo), si assunse la corresponsabilità morale dell'omicidio, per aver scritto, tra l'altro, che «Calabresi sarai suicidato» e per aver rifiutato, all'epoca, di deplorare il delitto.
Piazza Fontana, telefonata dopo 46 anni. Il prefetto alla vedova Pinelli: parliamoci, scrivono Nicola Palma e Luca Salvi il 12 dicembre 2015 su “Il Giorno” - Un primo contatto. Una telefonata di pochi minuti per instaurare un rapporto. Per sentirsi e conoscersi. In vista di un futuro incontro, che a questo punto pare avvicinarsi sempre di più. A quarantasei anni dalla morte di Giuseppe “Pino” Pinelli, ieri pomeriggio il neoprefetto di Milano Alessandro Marangoni ha chiamato Licia Rognini, ottantasettenne vedova del ferroviere anarchico precipitato il 15 dicembre 1969 in circostanze mai del tutto chiarite da una finestra della Questura, dov’era trattenuto per accertamenti relativi all’attentato alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana avvenuto tre giorni prima. E il passo del nuovo numero uno di corso Monforte, già al vertice di via Fatebenefratelli tra il 2010 e il 2012, è arrivato proprio nell’immediata vigilia dell’anniversario della strage di matrice neofascista che diede il via alla cosiddetta “strategia della tensione”. «Sì, hanno chiamato – fa sapere Claudia Pinelli, secondogenita di Pino e Licia – ma per ora non è stato fissato nessun incontro. È stato il primo contatto tra il prefetto e mia madre, in assoluto la prima volta che un questore o prefetto ci chiama in 46 anni. Un passo che non viene da noi, ma noi ci siamo. Se vorranno proporci un incontro e se durante questo incontro avranno delle cose da dirci, noi ascolteremo e poi valuteremo». Un passo importante? «Diciamo – aggiunge Claudia – che un passo importante è stato fatto quando il presidente Giorgio Napolitano ha riconosciuto mio padre come vittima innocente della strage di piazza Fontana. Dopo tutti questi anni, qualsiasi contributo alla verità e alla memoria è gradito». E la mente va alla mattina del 9 maggio 2009, quando, entrambe invitate dall’allora capo dello Stato nel Salone dei Corazzieri del Quirinale in occasione del Giorno della memoria per le vittime del terrorismo, Licia Rognini e Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, si strinsero la mano «guardandoci negli occhi dopo 40 anni». A sei anni e mezzo da quell’incontro, la mossa del massimo rappresentante del Governo in città, il prefetto Alessandro Marangoni. Che, come preannunciato una settimana fa nella conferenza stampa di insediamento a Palazzo Diotti, ha lanciato «il segnale»: «Sono convintissimo – aveva dichiarato sabato scorso – che si debba ripensare al rapporto con la famiglia Pinelli: viviamo un momento particolare, dove ci sono spazi di discussione e confronto, dove non dobbiamo temere di aprirci, di affrontare pagine di storia». Promessa mantenuta. Marangoni ha gettato il seme, «senza pretese che la pianta cresca dopo tre giorni». Magari ce ne vorrà qualcuno in più, ma ormai il percorso è stato avviato. E certamente il gesto di distensione dell’ex vicecapo della polizia è stato apprezzato dalla signora Licia, che si sarebbe presa un po’ di tempo per riflettere. Plaude all’iniziativa il giudice Guido Salvini, che si occupò dell’inchiesta sulle trame nere dalla quale è scaturito l’ultimo processo ai presunti responsabili della morte di 17 persone e del ferimento di altre 88: «Marangoni ha fatto una dichiarazione coraggiosa – ha dichiarato a una trasmissione di Radio 1 affermando che vuole aprire un canale di dialogo con la famiglia Pinelli". Ora non resta che aspettare. Con pazienza.
Piazza Fontana, prefetto chiama la vedova Pinelli dopo 46 anni. Le figlie: “Lo incontreremo”. Alla vigilia della commemorazione Marangoni ha telefonato alla vedova del ferroviere anarchico precipitato il 15 dicembre 1969 da una finestra della Questura, dov'era trattenuto per accertamenti relativi all’attentato di tre giorni prima. Oggi la risposta: "Lo vedremo, senza nessuna aspettativa", scrive Il Fatto Quotidiano il 12 dicembre 2015. Licia Pinelli e le figlie incontreranno il prefetto di Milano, Alessandro Marangoni, che l’11 dicembre ha telefonato alla vedova del ferroviere. Lo hanno detto le figlie di Pinelli, il ferroviere anarchico precipitato il 15 dicembre 1969 da una finestra della Questura, dov’era trattenuto per accertamenti relativi all’attentato di tre giorni prima. Il prefetto “ha chiesto un incontro che verrà fissato a breve e a cui parteciperemo tutte e tre, volentieri anche – hanno spiegato -. Noi siamo pronte ad ascoltare qualsiasi cosa arrivi”. Giunte in piazza Fontana con il corteo degli anarchici, dopo la conclusione della commemorazione ufficiale per il46esimo anniversario della strage, le figlie di Giuseppe Pinelli, Claudia e Silvia, hanno raccontato così la chiamata ricevuta dalla madre Licia da parte del prefetto di Milano, Marangoni. Una telefonata, spiegano, “assolutamente inaspettata”. A chi chiede loro che effetto ha fatto alla famiglia questa iniziativa, rispondono: “Molto positivo, qualsiasi cosa arrivi siamo pronte ad ascoltare”. Nessuna aspettativa particolare, invece, per quelli che saranno i contenuti dell’incontro. “Sentiremo che cosa vorrà dirci. Non ci aspettiamo niente perché sono passati 46 anni”, dicono, limitandosi a segnalare che “il contatto c’è stato realmente e quindi vedremo che cosa comporterà e se aprirà qualcosa”. La notizia corre di bocca in bocca nel doppio corteo del 12 dicembre, quello in piazza Fontana per commemorare la strage, presenti anche la leader della Cgil Camusso e il sindaco Pisapia, e quello cui hanno preso parte le figlie di Pinelli, Claudia e Silvia. A commentare l’improvviso e inatteso “disgelo” è stato proprio Giuliano Pisapia che nelle dichiarazioni ha voluto ricordare strage e morte di Pinelli insieme, nel giorno del ricordo. “Conosco la sensibilità del prefetto e la telefonata alla vedova Pinelli penso sia stata importante”, ha detto il sindaco. Nel frattempo il 7 dicembre il circolo anarchico Ponte delle Ghisolfa, che conserva l’eredità storica e simbolica di Pinelli, ha scritto una lettera al sindaco per chiedergli di rendere quel ricordo effettivamente visibile. La lettera parte dai tentativi di rimozione dei predecessori (Pillitteri, De Corato) per arrivare all’oggi, con la richiesta di individuare uno spazio idoneo a ospitare il quadro di Enrico Baj “I funerali dell’anarchico Pinelli” che nel 2012 fu esposto ma da tre anni è confinato “in cantina”. “Quell’opera – si legge – è parte fondamentale della memoria e della storia di questa città e come tale appartiene a tutti. La galleria che la detiene è disposta a donarla alla città affinchè possa essere esposta permanentemente in uno spazio adeguato. Benchè sollecitato più volte, anche con raccolte di firme, il comune non ha mai dato una risposta”.
Piazza Fontana, figlie di Pinelli: "Ascolteremo il prefetto ma non ci aspettiamo niente", scrive “Il Giorno” il 12 dicembre 2015. "L'incontro verrà fissato a breve e vi parteciperemo tutte e tre, volentieri". Lo annunciano le figlie di Giuseppe "Pino" Pinelli, Claudia e Silvia, dopo la telefonata del prefetto Antonio Marangoni alla mamma Licia Pinelli, vedova del ferroviere anarchico precipitato il 15 dicembre 1969 da una finestra della Questura, dov'era trattenuto per accertamenti relativi all'attentato di tre giorni prima. Le figlie di Pinelli, anche a nome della madre, a margine della manifestazione in ricordo della strage hanno detto: "Noi siamo pronte ad ascoltare qualsiasi cosa arrivi". È stata una telefonata assolutamente inaspettata di cui non avevamo nessun sentore - hanno raccontato durante la manifestazione promossa dagli anarchici -. Vediamo se si aprirà qualcosa e sentiremo cosa il prefetto vorrà dirci. Non ci aspettiamo niente, sono passati 46 anni, cosa dovremmo aspettarci?". L'incontro si terrà la settimana prossima. Marangoni, subito dopo il suo insediamento, aveva detto che era ora di ripensare al rapporto con la famiglia Pinelli e ieri, con la sua telefonata alla signora Licia, ha stabilito un primo contatto con i famigliari del ferroviere. Un gesto, quello del neoprefetto apprezzato dal sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: "Conosco la sensibilità del prefetto e la telefonata alla vedova Pinelli penso sia stata importante", ha detto il sindaco al termine della cerimonia di commemorazione delle vittime. "Ho avuto un'ulteriore conferma di quanto il nuovo prefetto conosca Milano - ha concluso il primo cittadino -, abbia forte sensibilità, conosca il nostro passato e presente e possa accompagnarci per il futuro di una città che adesso è al centro del mondo". Alla manifestazione partita da piazza della Scala erano presenti anche il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia e lo stesso prefetto Alessandro Marangoni. "Credo che sia utile per tutti ricordare e continuare a cercare la verità e mantenere viva la democrazia - ha detto Camusso - unico vero antidoto a tutte le forme di violenza e terrorismo". Subito dopo, in piazza, è arrivato il corteo degli anarchici. I manifestanti hanno esposto uno striscione nero con la scritta: "Strage di stato. Valpreda innocente e Pinelli assassinato".
C'è piazza Fontana. Si ferma Milano (ma non i violenti). Silenzio e fasce tricolore per ricordare la strage. Blitz di anarchici e centri sociali contro le banche, scrive Cristina Bassi Domenica 13/12/2015 su "Il Giornale". Milano ricorda Piazza Fontana. Con il silenzio e le fasce tricolore, con i gonfaloni e i richiami alla conciliazione contro tutti i terrorismi. Ma pochi metri più in là volano i fumogeni e manifestanti incappucciati imbrattano le facciate delle banche. La città del 12 dicembre è sdoppiata. Non è un caso se i due cortei non si incontrano. Quello ufficiale, con le autorità e il sindaco Giuliano Pisapia in testa, parte da piazza della Scala e arriva nel luogo della strage di 46 anni fa in tempo per commemorare l'esatto momento dell'esplosione: le 16.37. Quello «contro», più nutrito (circa 400 persone), viene tenuto a distanza fino a quando, intorno alle 17.30, i discorsi di Pisapia e dei rappresentanti dei parenti delle vittime, della Uil, dell'Anpi e del Comitato permanente antifascista sono finiti. Gli anarchici sfilano per «Ricordare le stragi di ieri, fermare le guerre di oggi». Partono da porta Venezia e arrivano davanti alle targhe per Giuseppe Pinelli. Non si incontrano, per ora, neppure il prefetto Alessandro Marangoni e Claudia e Silvia, le figlie dell'anarchico morto tragicamente in Questura tre giorni dopo la strage. Il primo in piazza accanto al sindaco, le seconde arrivate con il corteo anarchico. Anche se durante la cerimonia tutti ricorderanno Pinelli insieme alle altre 17 vittime. Insieme a sindaco e prefetto ci sono, tra gli altri, Susanna Camusso, il vicesindaco Francesca Balzani, il presidente del Consiglio comunale, Basilio Rizzo, l'assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino, l'assessore regionale all'Istruzione Valentina Aprea, il presidente di Italia unica Corrado Passera. «Milano non si stanca di alzare la sua voce unitaria e libera contro il terrorismo e ogni forma di violenza - ha detto Pisapia dopo aver partecipato alla deposizione delle corone davanti alla Banca nazionale dell'Agricoltura -. Non dimenticheremo mai la strage di Piazza Fontana - aveva scritto sul proprio profilo Facebook -. Non dimenticheremo mai le 17 vittime del terrore stragista di estrema destra. Non dimenticheremo mai Giuseppe Pinelli». Susanna Camusso ha invitato a «ricordare e continuare a cercare la verità e mantenere viva la democrazia». E ha risposto alle domande sulle divisioni nel centrosinistra milanese: «Bisogna lavorare per arrivare a un'ipotesi unitaria, nello spirito dell'esperienza positiva di questa ella giunta». Il controcorteo lascia sul terreno fumogeni e pozze di vernice. Agli anarchici si aggiungono alcuni manifestanti turchi, con bandiere curde, e contro il consolato di via Larga partono oggetti vari e ortaggi. Il palazzo è protetto da una barriera di transenne. Lanci di fumogeni e vernice anche contro alcune banche, come la Banca Etruria di via Mazzini. Sfilano collettivi e centri sociali. Lo striscione del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa recita «Piazza Fontana strage di Stato. Valpreda innocente, Pinelli assassinato». Oltre alle bandiere curde con l'immagine di Ocalan e a quelle nere degli anarchici ci sono vessilli palestinesi e con falce e martello. Sulla targa del Comune per Pinelli la parola «morto» è stata «corretta» in ucciso». Massiccia la presenza delle forze dell'ordine e nessun incidente.
GLI INGLESI DICANO LA VERITÀ SU PIAZZA FONTANA - NEL LIBRO “COLONIA ITALIA” TUTTE LE OPERAZIONI SPORCHE DELLA GRAN BRETAGNA IN ITALIA DAL DOPOGUERRA AGLI ANNI ’70 - LONDRA FACEVA GUERRA A ROMA PER IL CONTROLLO DEL MEDITERRANEO.
Tra i nomi dei giornalisti “amici” citati tratti dalle carte inglesi, si va da Gaetano Afeltra, direttore del Corriere della sera, a Ettore Bernabei, il superpresidente Rai. Ci sono gli "avvicinati" e gli "attenzionati" - Luciana Castellina piacque molto agli inglesi che si sperticano in elogi anche per Piero Ottone…, scrive Pierangelo Maurizio per “Libero Quotidiano” il 30 ottobre 2015. “Le armi da noi fornite hanno un effetto pari ad una pallina di ping pong scagliata contro Golia. Se vogliamo raggiungere qualche risultato, dobbiamo usare altri metodi, e sta a noi architettarli…”. Basterebbero queste 32 parole per giustificare il tomo di quasi 500 pagine scritto da Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella (Colonia Italia, Chiarelettere) da ieri in libreria. È dedicato alla propaganda occulta e alle operazioni sporche condotte nel nostro Paese in nome di Sua maestà britannica nel Dopoguerra e fino agli Anni '70. Passando per la strage di Piazza Fontana fino al sequestro Moro. Il documento citato, uno delle centinaia di file desecretati e custoditi al Public Record Office di Kew Gardens, è la nota inviata nel gennaio del '69 da Colin MacLaren, alto funzionario dell'Ird (Information Research Department). Più che un allarme è l'annuncio di una guerra non dichiarata all'Italia. Le righe successive sono state cancellate. Ieri nel recensire il libro nelle pagine della Cultura Simone Paliaga ha riassunto al meglio la mappa dell'influenza e del controllo di Londra sui media italiani, addirittura dall' Unità d'Italia. Ma in questo secondo lavoro, dopo Il golpe inglese, Cereghino e Fasanella illuminano anche le grey e le black operations, il lavoro sporco. Il movente? Una questione di vita e di morte. Il ruolo egemone nel Mediterraneo, il controllo del Medio Oriente - toh, tutti temi di attualità - e la via del petrolio. Dalla Persia (Iraq) alla Libia e Malta l'ex impero britannico in declino stava perdendo le posizioni chiave. Sotto la spinta di Enrico Mattei, il padre-padrone dell'Eni, prima e poi dell'azione ancora più spregiudicata dell'allora ministro degli Esteri, di nome Aldo Moro. E veniamo alla strage alla Banca dell'agricoltura a Milano, 12 dicembre 1969. Nel 2001 - chiedo scusa per l'autocitazione - in un mio libro (Piazza Fontana: tutto quello che non ci hanno detto) concludevo che a Londra, come minimo, sapevano in anticipo. Poco più di un'intuizione. Il 7 dicembre sul settimanale inglese The Observer il corrispondente da Atene Leslie Finer pubblica il progetto dei colonnelli greci di estendere il golpe fascista anche in Italia. Il 14 dicembre '69, boom. Appena due giorni dopo la strage - che tempismo - sempre The Observer, a firma Neal Ascherson, Michael Davie e Francis Cairncross da Roma, conia un neologismo che sarà un tormentone: «Nessuno è così pazzo da accusare il presidente Saragat per le bombe. Ma oggi l'intera sinistra afferma che la sua "strategia della tensione" incoraggia indirettamente l'estrema destra nel proseguire con il terrorismo». È la madre di tutte le bufale, la matrice cui da noi si abbeverano per decenni la vulgata e perfino le inchieste giudiziarie. Cereghino e Fasanella hanno fatto di più. Hanno trovato le carte. Leslie Finer era anche corrispondente della Bbc da Atene, nutrito dalle veline dell'Ird: lo scoop, più che probabilmente, glielo hanno passato i servizi britannici. Quanto agli inventori della "strategia della tensione", Neal Ascherson è un ex Royal marines, il Mi6 voleva arruolarlo. Francis Cairncross è la nipotina di John Cairncross. Zio John, per 30 anni corrispondente da Roma, è uno dei superagenti inglesi che fa parte del celeberrimo "Ring of five", "il gruppo di Cambridge" che lavora anche per Mosca. Che altro? Il 12 dicembre '69 è il giorno della chiusura della basi aeree inglesi in Cirenaica. E la Banca nazionale dell'agricoltura è l'istituto utilizzato per le transazioni commerciali tra l'Italia e la Libia di Gheddafi. Ma com'è stato possibile, perché tanta acquiescenza acritica verso la propaganda d' Oltremanica? I documenti di Kew Gardens forniscono una risposta. È semplicemente impressionante la capacità inglese, che i due autori ricostruiscono, di infiltrazione e di condizionamento su giornalisti, sindacalisti, politici, giuristi, "opinion maker" italiani. Le parti più preziose del libro sono gli elenchi in appendice. I nomi. C'è la lista delle personalità in contatto con l'ambasciata inglese fino al '40 e degli agenti e dei collaboratori del Soe (Special operations executive) durante la guerra: tutto lo stato maggiore del partito d' azione, buona parte di quello repubblicano e liberale, diversi democristiani, qualche comunista o ex comunista. Poi ci sono i "clienti" o "contatti" (coloro ritenuti fidati che ricevono regolarmente i materiali informativi dell'Ird e tenuti a non rivelare le fonti). Tra i nomi citati tratti dalle carte inglesi, per fare qualche esempio, si va da Gaetano Afeltra, direttore del Corriere della sera, a Ettore Bernabei, il superpresidente Rai. Ci sono gli "avvicinati" (con i quali è stato stabilito un contatto) e gli "attenzionati" (quelli su cui vengono redatte note e schede). Dopo un incontro con Luciana Castellina nel '71 un funzionario dell'ambasciata di Porta Pia è entusiasta: «La gente del Manifesto è civile. Dobbiamo senz' altro mantenere i contatti con loro. Il clima qui non è deprimente come quello che si respira a Botteghe Oscure». Gli elogi per Pierleone Mignanego, più noto come Piero Ottone, un altro direttore del Corriere e opinionista del gruppo Repubblica-L' Espresso si sprecano: «Uno dei più influenti corrispondenti italiani» (1948), l'ultima nota del '78 lo definisce «un solido amico del Regno Unito. Ha l'hobby della vela e dimostra meno dei suoi 52 anni». Sul Dossier Mitrokhyn, ovvero la (presunta) rete sovietica di spie e di intossicazione dell'informazione e della politica italiane, ci abbiamo fatto una commissione parlamentare. I nomi a volte sono gli stessi. Nel caso delle talpe inglesi nel Belpaese sarebbe auspicabile perlomeno un'ampia riflessione. Il Regno Unito è un Paese amico-rivale, il governo inglese potrebbe fare un bel gesto: togliere gli omissis alla nota di Mr. MacLaren. Cari amici inglesi, ora diteci la verità su Piazza Fontana (almeno). Solo tra 30-50 anni saranno consultabili i documenti su quello che è successo nel e contro il nostro Paese dal '92…
COLONIA ITALIA, IL LIBRO CHE SPIEGA COME GLI INGLESI CI CONTROLLANO DA OLTRE UN SECOLO. Intervista di Massimiliano Pennone del 29 ottobre 2015 su “Il Rottamatore”. È da oggi in libreria e in ebook “Colonia Italia”, il nuovo libro di Giovanni Fasanella e Mario Josè Cereghino che racconta la guerra senza quartiere condotta per tutto il Novecento dalla diplomazia di Sua Maestà per controllare l’opinione pubblica italiana in funzione degli interessi economici e politici inglesi. Abbiamo chiesto a Giovanni Fasanella, giornalista e scrittore, qualche anticipazione sul libro.
Giovanni, “Colonia Italia” è un seguito de “Il Golpe inglese”, quali tasselli aggiunge al volume precedente? Quali sono le parti della storia nascosta che questo libro aggiunge ai tuoi lavori precedenti?
“Colonia Italia” aggiunge molti tasselli, sulla base di nuovi documenti trovati negli archivi di Stato di Kew Gradens, a Londra. Rivela l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta della diplomazia e dei servizi segreti britannici, e ne ricostruisce i meccanismi di funzionamento. Porta alla luce un apparato che ha controllato per un secolo gran parte dell’informazione italiana, con l‘obiettivo di orientare l’opinione pubblica e, di conseguenza, le scelte politiche dei partiti e dei governi in funzione degli interessi inglesi.
Quali interessi?
Soprattutto quelli petroliferi in alcune aree strategiche del Nord Africa e del Medio Oriente. Per la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo, il controllo dell’Italia da parte inglese è sempre stato, quindi, un obiettivo di primaria importanza. Controllo politico-culturale e talvolta anche militare per impedire che il nostro Paese si trasformasse in un pericoloso concorrente, in una minaccia per la Gran Bretagna nei suoi possedimenti coloniali.
Nel libro dedicate più capitoli ai processi di mistificazione delle informazioni, alle macchine del fango e alla disinformazione sistematica. Gli Italiani si prestano più “facilmente” a questi brainwashing? Puoi dirci di più?
Gli italiani? Mica tutti. Comunque, il panorama dell’informazione e dell’industria culturale influenzato dalla macchina occulta britannica è davvero impressionante, stando a quello che emerge dagli archivi. Per gran parte dell’élite italiana, Londra è stato un punto di riferimento importante a partire dal Risorgimento. I legami intrecciati allora da correnti politico-culturali, famiglie aristocratiche, potentati economici e gruppi editoriali con il Regno Unito si sono irrobustiti nelle fasi successive della nostra storia. Per questi ambienti, la capitale britannica è sempre stata il faro e la bussola che ne hanno illuminato e orientato la navigazione nelle acque agitatissime della politica italiana. Erano (sono) ambienti «anglosassocentrici», per usare un neologismo coniato da Eugenio Scalfari nel suo splendido libro “La sera andavamo in via Veneto”.
E le macchine del fango?
Ci stavo arrivando. Oggi possiamo dire con un ragionevole margine di certezza che alcune campagne ossessive contro personaggi della nostra politica non in linea con le coordinate britanniche furono ispirate proprio da quella macchina della propaganda occulta e condotte dai suoi terminali italiani, spesso all’insaputa degli stessi giornali e giornalisti. Che non sempre conoscevano l’origine di certe notizie (a volte vere, a volte verosimili, a volte false) e i canali attraverso i quali giungevano sino a loro. Perché uno dei principi su cui si fondavano le strategie d’influenza dei servizi inglesi era, appunto, che la fonte delle “veline” doveva rimanere rigorosamente segreta.
Ci fai i nomi dei “bersagli” a cui ti riferisci?
Sul terreno sono rimaste vittime eccellenti. Per esempio, Alcide De Gasperi, che non impedì ad Enrico Mattei di fondare l’Eni e non ne contrastò le strategie “aggressive” (dal punto di vista britannico, naturalmente) nelle aree petrolifere più sensibili. De Gasperi fu costretto al ritiro dalla politica a causa di uno scandalo completamente inventato. Stessa sorte capitò al suo pupillo ed erede politico Attilio Piccioni, travolto dall’ondata di fango sollevata dal caso Montesi, in cui venne coinvolto ingiustamente il figlio Piero. E vogliamo parlare, poi, delle campagne che precedettero l’uscita di scena, diciamo così, dello stesso Enrico Mattei e di Aldo Moro? Macchine del fango, ma non solo. Fra i tanti documenti trovati a Londra ce n’è uno che fa rabbrividire. Ne cito testualmente un passaggio: «Le armi da noi fornite hanno ormai un effetto pari a quello prodotto da una pallina di ping pong scagliata contro Golia. Se vogliamo raggiungere qualche risultato, dobbiamo usare altri metodi, e sta a noi architettarli...» E’ un documento inviato a Londra nel 1969 dal responsabile della propaganda occulta dell’ambasciata a Roma, Colin MacLaren, il quale segnalava l’inefficacia dei metodi tradizionali, diciamo così, di fronte a una leadership politica italiana non rassegnata al ruolo di protettorato britannico.
Vuoi dire che passarono a metodi più “brutali”?
La pagina in cui si parla degli «altri metodi» purtroppo è ancora oggi oscurata. Vorrà pur dire qualcosa, o no? Tieni conto del contesto. L’Eni aveva già emarginato gli interessi britannici in Persia e in Egitto. Nel 1969 ci fu un ulteriore salto di qualità della politica italiana che avrebbe portato il nostro Paese, di lì a poco, a conquistare posizioni di forza anche in Libia e in Iraq, aree che Londra considerava –cito ancora testualmente- «per importanza, seconde solo alla Gran Bretagna stessa». Insomma, l’Italia cresceva ed espandeva la sua influenza, avviandosi a diventare addirittura la quarta potenza economica mondiale, sorpassando la Gran Bretagna, il cui impero coloniale era ormai solo un pallido ricordo del passato. Uno smacco terribile, per una nazione che aveva vinto la Seconda guerra mondiale e aspirava allo status di potenza globale. Se nel 1953 Churchill ordinò ai suoi apparati di impartire una lezione agli «infidi alleati italiani», solo perchè avevano violato l’embargo petrolifero imposto dalla Gran Bretagna contro l’Iran di Mossadeq, possiamo immaginare quale fu la reazione di Londra dopo l’espulsione delle sue compagnie petrolifere anche dalla Libia e dall’Iraq. E quale fosse lo stato d’animo britannico nei confronti di Aldo Moro, il principale protagonista della politica italiana tra il 1969 e la prima metà degli anni Settanta.
Qualcuno potrebbe darvi dei “complottisti”. Cosa cambia fra voi e gli allarmisti della Rete? Quali sono gli strumenti e i mezzi che danno autorità al vostro lavoro?
Le ricerche d’archivio e i documenti danno credibilità al nostro lavoro. Questo fa la differenza. Noi non inseguiamo piste e teoremi indimostrabili, e a volte anche ridicoli, che nascono e si diffondono in modo incontrollato attraverso la rete. Noi siamo costretti ad usare la rete per far conoscere all’opinione pubblica i risultati delle nostre ricerche. Risultati che spesso vengono “silenziati” dalla stampa. E alla luce di quello che abbiamo letto (e continuiamo a leggere) nei documenti di Kew Gardens, ne comprendo bene le ragioni. Ma posso dire qualcosa sui cosiddetti “anticomplottisti”?
Certo.
Alcuni di loro sono in buona fede e hanno ragione: in effetti, circola molta spazzatura. Molti altri, però, sono “anticomplottisti” per interesse, fanno di tutta l’erba un fascio mettendo in un unico calderone denigratorio propalatori di panzane e ricercatori che lavorano su documenti e testimonianze attendibili, materiali quasi mai vagliati dagli storici. Ti potrei fare una mappa con nomi e cognomi di questo genere di “anticomplottisti”, dividendoli per categorie. Gli “agenti di influenza”: negano anche l’evidenza per impedire che si stabiliscano connessioni e si ricostruiscano contesti di verità. I “ricattabili”: personaggi che hanno vissuto l’esperienza del terrorismo e della lotta armata o che ne sono stati ai margini, ma non ne hanno mai pagato pegno e nel frattempo si sono costruiti delle carriere dorate. Gli “opportunisti”: gente che blatera per compiacere i propri mecenati. E poi i “pappagalli”: muovono la lingua sulla base di riflessi condizionati modaioli. Sono “anticomplottisti” mossi soltanto da un insano bisogno di proteggere, occultandole, storie politiche o familiari o personali a volte piuttosto imbarazzanti.
Una possibile obiezione: ha fatto tutto la Gran Bretagna, e gli Usa?
Tra Usa e Gran Bretagna c’è sempre stata una profonda differenza sul “problema italiano”. Sin dall’immediato dopoguerra. Per gli americani, l’Italia era una nazione cobelligerante, che aveva contribuito a liberarsi dal nazifascismo combattendo a fianco degli Alleati. Per la Gran Bretagna, invece, era una nazione sconfitta, punto e basta. Con tutto ciò che ne sarebbe derivato in termini di condizionamenti politici ed economici. E questo ha fatto la differenza. Perché mentre Washington ha condotto una guerra in gran parte condivisibile al comunismo, Londra ha combattuto anche contro l’Italia.
La strage di piazza Fontana Un inglese indaga ancora Se trent' anni ci sembrano pochi. La strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 ha pesato in modo greve sulla politica e sulla società. Sono stati celebrati da allora cinque processi, la magistratura continua a indagare, ma la strage, con i suoi sedici morti innocenti, è ancora oggi senza giustizia. Senza un mandante, e senza neppure un esecutore materiale. La verità politica, il tentativo della destra di fermare con la violenza il cammino delle riforme, è data per scontata dagli uomini di buona volontà. Una verità giudiziaria, invece, non esiste, anche se non sono state poche le prove che nelle Corti d'Assise hanno legittimato quella verità politica. Dagli archivi della revisione, poi, che dovrebbe essere il sale della storia, se priva dell'ossessività e della strumentalizzazione politica in uso oggi, non è uscito nulla. Non un pentito e nemmeno un "pentito", non un documento, non una testimonianza risolutiva. Gli scheletri sono rimasti negli armadi, la ricerca della verità un gioco al massacro per depistare le indagini, per far sì che una nebbia fitta cancellasse le responsabilità degli uomini degli apparati dello Stato, i servizi segreti, coinvolti nella strage, individuati, condannati. La stessa nebbia che quella mattina del 15 dicembre 1969, il giorno dei funerali, copriva la città. Milano pareva un catafalco nero di dolore. Adesso ai funerali delle vittime la gente applaude in modo liberatorio o televisivo, quando le bare escono dalle chiese. Ma quel giorno un sovrumano silenzio pesava su piazza del Duomo e sulle strade tutt'intorno. Quasi mezzo milione di persone, appiccicate tra loro in un unico corpo solidale protetto dal servizio d'ordine degli operai delle fabbriche, era venuto nel cuore della città a esprimere angoscia e affetto, ma anche a dire che la democrazia è un bene sommo, di tutti. Da difendere con un altolà ben deciso di cui quel silenzio era il segno dolente e insieme minaccioso contro chi avesse intenti eversivi. La città in quegli anni era gonfia di furori che attraversavano tutte le classi sociali. Divisa in due fazioni, senza possibilità di mediazione, tra gli innocentisti che rifiutavano la colpevolezza dell'anarchico Valpreda, il capro espiatorio, e i colpevolisti. Fu per molti una rivelazione quella dello Stato o di una sua parte che tramava contro se stesso e fu per non pochi (come succede nei grandi casi della vita) l'occasione di scoprire se stessi battendosi in nome della verità e della giustizia. Milano rammentava la Parigi dei tempi del capitano Alfred Dreyfus, accusato nel 1894 d' aver venduto ai tedeschi cinque documenti segreti dell'esercito francese. Fu condannato al carcere a vita all'Isola del Diavolo e degradato. Ebreo, fu una vittima dell'antisemitismo. Subì oltraggi, falsificazioni. Fin quando Zola pubblicò la famosa lettera, J'accuse, che chiedeva la revisione del processo. Dreyfus fu riabilitato, ebbe la Legion d'onore. Valpreda, dopo anni di prigione, stenta la vita come può. La memoria e la pietà. Nel gennaio 1992, il settimanale Cuore pubblicò i temi in classe che una professoressa di italiano di Trezzo d'Adda diede ai suoi studenti di ragioneria sulla strage di piazza Fontana. Nessuno o quasi di quei ragazzi di 17 anni sapeva nulla. A mettere la bomba erano state le brigate rosse, il bandito Vallanzasca. La confusione dell'ignoranza toccava vertici tragicomici. Scrive di quell'episodio uno storico e sociologo inglese, John Foot, autore di un saggio, finora inedito, su piazza Fontana. Ricercatore all'University College London, 33 anni, nipote di Michael Foot, il leader laburista sconfitto dalla Thatcher nel 1983, allievo di Paul Ginsborg, ha scritto molto sulla storia di Milano, soprattutto sulla Milano operaia. Il suo approccio, nel nuovo saggio, è insolito, una microanalisi di quel che successe allora: i luoghi, la piazza, i funerali, gli anniversari, le lapidi, gli slogan, la divisione, analizzati con puntigliosa precisione anglosassone. Nella storia di piazza Fontana c'è stato nei decenni un accumularsi di fatti, processi, conflitti che hanno creato stanchezza, abbandono, rifiuto. Come possono ricordare quello che non hanno mai saputo?, scrive Foot riferendosi ai ragazzi del tema. Esiste un diritto a dimenticare anche per i parenti delle vittime? Il legame fra giustizia, verità e memoria, scrive anche, è stato spezzato e questo ha annullato ogni capacità di reazione. Scrive ancora che la memoria collettiva è una specie di mito. Senza la forza di un movimento di massa, anche le più appassionanti vicende collettive avvizziscono e muoiono. O vivono semplicemente sulla morta arena delle lapidi che nessuno guarda più. Stajano Corrado Pagina 2 (7 dicembre 1999) - Corriere della Sera
I documenti UK che fanno gelare il sangue: da Enrico Mattei ad Aldo Moro. Pubblicato 12 novembre 2015 d Claudio Messora Ho intervistato Giovanni Fasanella, giornalista che da anni scava in quella storia italiana che nessuno vi racconta, autore di oltre 21 libri. Insieme a Mario José Cereghino ha scritto “Colonia Italia. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra”. Sono cose che dobbiamo sapere.
Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro Paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America.
"Basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime".
Che cosa succede dalla seconda guerra mondiale in poi?
"L’Italia perde la guerra e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte. Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla seconda guerra mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica".
Questa influenza come si è esplicata?
"C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino agli Aldo Moro – sovranista, cioè che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico e per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi".
Facciamo dei nomi: Enrico Mattei…
"La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica, petrolifera dell’Italia. De Gasperi, Presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’AGIP. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’AGIP lui fondò l’ENI, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’ENI, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’ENI, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli. C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle sette sorelle. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo e il padre, Ministro degli Esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. E poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente. Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddegh, primo ministro iraniano, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo e l’Italia dell’ENI e di De Gasperi violarono quell’embargo.Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di dare una lezione agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran".
E quindi, la morte di Mattei?
"Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Mattei, attraverso la sua politica, emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento -, seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi emarginando addirittura nel corso degli anni la presenza britannica. In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – “un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo”. E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono: “[Mattei] è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo. Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence”. Sei mesi dopo Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio".
E Aldo Moro?
"La vicenda di Aldo Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Enrico Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Aldo Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era Ministro degli Esteri in diversi Governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di stato che rovesciò la monarchia filo britannica e portò al potere il colonnello Muammar Gaddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico. E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche e l’ENI era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia”, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969 il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: “Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana”. Quindi invita il suo Governo: “Dobbiamo adottare altri metodi”. Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: “Ma perché non chiedete al Governo britannico la desecretazione di quella parte del documento in cui sono spiegati gli altri metodi da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?”. Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono mostro più scettici, e dissero agli inglesi: “Ma voi siete pazzi! Un colpo di stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, ma poi c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue”. Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: “Visto che non è possibile attuare un colpo di stato militare classico, per l’opposizione di Germania, e Stati Uniti d’America, passiamo al piano B”. Qual era questo piano B? Purtroppo anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa azione sovversiva, naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: “Siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia, beh: quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la diversa azione sovversiva contro Moro?”. Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle brigate rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era una scampagnata soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia. Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: Piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di Piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro".
La manipolazione dell’opinione pubblica italiana da parte della Gran Bretagna è ancora in essere, oppure nel tempo si è attenuato?
Allo stato delle nostre ricerche, che ovviamente continuano – non posso fare riferimenti precisi, per il momento, a documenti sui quali stiamo ancora lavorando -, sulla base di quello che abbiamo letto e pubblicato finora, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro Paese sia ancora più forte di prima.
“DesecretateloAdesso”: ecco il file UK che svela tutto sugli anni di piombo, scrive Claudio Messora
“I Complottisti” il17/12/2015.
Nell’ultima intervista che ti ho fatto, hai citato alcuni documenti parzialmente desecretati che svelerebbero le connessioni dei servizi segreti britannici con i nostri cosiddetti anni di piombo. Oggi vuoi svelarne uno, tra i tanti contenuti nel tuo libro “Colonia Italia”.
"Sì, si tratta di uno dei documenti più inquietanti che Mario Josè Cereghino e io abbiamo trovato negli archivi di Stato britannici. È un documento del 1969, tre fogli, redatto da un alto funzionario dell’IRD. Che cos’era l’IRD? Era lo strumento della propaganda occulta dei servizi segreti e della diplomazia del Governo di Sua Maestà britannica. Questo documento è datato gennaio 1969. Il funzionario dell’IRD, che si chiamava Colin McLaren, era appena stato in Italia per un giro di ricognizione sulla situazione politica del nostro Paese e si era reso conto che gli strumenti della propaganda occulta fino ad allora usati non avevano ottenuto l’effetto sperato, cioè quello di costringere il Governo italiano a fare delle scelte di politica estera favorevoli agli interessi britannici".
Per un approfondimento su questo tema rimandiamo i lettori alla nostra intervista precedente. Tuttavia, brevemente, vogliamo contestualizzare il periodo nel quale ci muoviamo?
"Siamo nel 1969, cioè nella fase di profonda crisi del centro-sinistra e quindi di apertura del dialogo tra Aldo Moro e il Partito Comunista di Enrico Berlinguer. Berlinguer era appena stato nominato vice-segretario del partito, quindi si assisteva all’avvicinamento del Partito Comunista all’area di Governo. Ma, soprattutto, la politica mediterranea italiana si era fatta molto più aggressiva, ancora più aggressiva di quella dei tempi di Enrico Mattei. L’Italia era particolarmente attiva in Libia dove, di lì a pochi mesi, un colpo di Stato avrebbe rovesciato la monarchia filo-britannica e avrebbe portato al potere il colonnello filo-italiano Muammar Gheddafi".
In questo contesto arriva dunque questo documento. Che cosa dice?
"E’ un rapporto di un funzionario dell’IRD, Colin McLaren, che invita il suo governo a fare di più in Italia. Il lavoro che era stato fatto negli anni precedenti non aveva prodotto gli effetti sperati. Per McLaren, si trattava degli stessi effetti di una pallina di ping pong lanciata contro Golia. Così il rapporto invita il Governo del Regno Unito ad adottare altri metodi, ancora più pesanti".
Ovviamente questi metodi non li conosciamo, perché parte di questo documento è ancora oggi secretato. Infatti se si guarda il documento che tu hai scovato, si può vedere che esistono degli spazi bianchi dove chiaramente è stato occultato qualcosa…
"Si può vedere innanzitutto che c’è un timbro rosso che dice: “questa è una copia”. Cioè: il documento riversato nell’archivio di Stato di Londra è solo una copia! L’originale è ancora oggi conservato sotto chiave nell’archivio dell’IRD. E in questo documento ci sono alcune parti oscurate: è stato censurato. Il punto 4 per esempio è quello in cui è visibile la censura a occhio nudo, quello in cui si parla dei contatti occulti tra l’ambasciata britannica a Roma e, probabilmente, giornalisti o comunque contatti dell’intelligence inglese in Italia. Però punti più importanti oscurati sono il decimo e l’undicesimo. Voglio leggervi la traduzione in italiano integrale perché è davvero inquietante. In quei punti Colin McLaren dice: “Le armi da noi fornite”, cioè i materiali di propaganda occulta dell’IRD, “hanno ormai un effetto pari a quello prodotto da una pallina di ping pong scagliata contro Golia. Se vogliamo raggiungere qualche risultato, dobbiamo usare altri metodi e sta a noi architettarli. Al contempo, dobbiamo essere certi che l’ambasciatore britannico a Roma e i funzionari di lungo corso della legazione accolgano la tesi secondo la quale noi siamo giustificati a tentare di fare di più”. Fare di più: cioè passare ad altri metodi e convincere l’ambasciata britannica a non protestare, cioè “a non rompere le balle”. Ecco, quali erano questi metodi? Questa è la parte del documento che è stata depurata e che quindi è ancora oggi sotto coperta".
Dopo la pubblicazione di questo documento, in Italia cosa succede?
"Questo documento, dicevo, è del gennaio 1969. A partire da febbraio comincia a muoversi un personaggio che è una vecchia conoscenza dell’intelligence britannica sin dalla seconda guerra mondiale, e cioè il “Principe nero” Junio Valerio Borghese, capo della famigerata Decima MAS repubblichina. Junio Valerio Borghese progetta un tentativo di colpo di Statoe, sulla base di documenti desecretati anche dalle autorità americane che noi abbiamo consultato, emergono contatti continui tra Borghese e le autorità americane. In modo particolare con gli addetti dell’ambasciata di Roma: contatti e incontri durante i quali Borghese tenta di convincere gli americani ad appoggiare il suo progetto di colpo di Stato o, quantomeno, a mantenere un atteggiamento di neutralità. Inizia in quel periodo, dalla primavera del 1969, la stagione delle bombe, perché cominciano a esplodere bombe un po’ ovunque in giro per l’Italia, fino a toccare il punto più alto, il più drammatico: il 12 dicembre del 1969 con la strage di Piazza Fontana, in una filiale della Banca dell’Agricoltura a Milano. Qui va citato un investigatore molto bravo, il Senatore Giovanni Pellegrino, che ha diretto per quasi sette anni la cosiddetta “Commissione stragi” arrivando alla conclusione che la bomba di piazza Fontana era strettamente collegata al progetto di golpe di Junio Valerio Borghese. Piazza Fontana avrebbe dovuto provocare una reazione nel Paese. Avrebbe dovuto alimentare una domanda d’ordine alla quale avrebbe dovuto rispondere, appunto, Junio Valerio Borghese con il suo governo forte. Ma il golpe Borghese non andò in porto. Perché? Mariano Rumor, come ha accertato la Commissione Pellegrino, si rifiutò di dichiarare lo stato di emergenza che avrebbe innescato il golpe di Borghese. E così il “Principe nero”, il capo della Decima MAS, dovette rinviare il suo progetto di un anno. Che cosa accade tra il dicembre del 1969 e il dicembre del 1970, cioè in questo anno? Accade che Borghese riallaccia i suoi rapporti con l’ambasciata americana, continua il suo pressing sui rappresentanti americani a Roma, in modo particolare sulla CIA perché appoggino il suo tentativo. Dirò dopo qual è la risposta americana, ma intanto bisogna dire ai nostri lettori che la notte dell’Immacolata, cioè la notte dell’otto dicembre del 1970, Junio Valerio Borghese arrivò a un passo dalla conquista del potere".
Quarantacinque anni fa…
"Si! Esattamente quarantacinque anni fa i suoi uomini penetrarono nel Ministero dell’Interno e saccheggiarono l’armeria. Stavano per entrare nel palazzo del Quirinale, per sequestrare il Presidente della Repubblica dell’epoca, Giuseppe Saragat, e costringerlo ad affidare l’incarico di formare un nuovo governo militare golpista a un uomo di Borghese, e altri uomini di Borghese stavano già per penetrare anche nella sede della RAI, da dove Borghese avrebbe dovuto annunciare la lista del nuovo governo golpista quando, in dirittura d’arrivo, quel tentativo di Borghese si bloccò. Questo è rimasto un mistero per molti decenni: non s’è mai capito perché quel tentativo venne bloccato proprio sul filo di lana. Una risposta possibile, oggi, c’è: arriva, ancora una volta, dai documenti americani desecretati di recente. Uno in particolare, quello in cui l’addetto militare dell’ambasciata americana a Roma James Claviofa un lungo resoconto dei contatti tra Borghese e gli americani e, alla fine, invita l’amministrazione americana a mollare Borghese perché dietro Borghese, dice testualmente James Clavio, c’è l’intelligence britannica!"
Ahhhhh!
"Ora, nessuno può dire con certezza matematica che dietro la strage di piazza Fontana e dietro il tentativo di golpe di Borghese ci fossero gli inglesi, ma gli indizi sono veramente robusti e inquietanti. Tenuto conto anche del fatto che una settimana prima che esplodesse la bomba a piazza Fontana, la stampa inglese anticipò di una settimana non solo quello che sarebbe avvenuto di lì a poco, ma ne diedero addirittura la chiave di lettura, cioè un depistaggio preventivo che dura fino a oggi, perché in base a quello che scrissero i giornali inglesi, addirittura una settimana prima della strage di piazza Fontana, noi continuiamo a pensare che quella fu una strage di Stato, compiuta dalla Stato italiano e dai suoi apparati deviati. Invece il quadro probabile che emerge è molto, ma molto diverso ed è quello di una strage e di un tentativo di colpo di Stato commissionati dall’intelligence britannica alle sue quinte colonne interne italiane. Cioè non una strage di Stato, ma una strage contro lo Stato italiano per la sua politica mediterranea e per l’evoluzione della sua politica interna di apertura al Partito Comunista. Ecco, io vorrei allora rivolgere un appello. Innanzitutto, all’ambasciata britannica a Roma perché faccia pressione sul proprio governo affinché le parti ancora oggi secretate di questo documento vengano rese pubbliche. Ma siccome ho qualche dubbio che da parte britannica possa venire una decisione così illuminata, allora faccio appello anche agli italiani, alle tante associazioni delle vittime sorte dopo la strage di piazza Fontana, perché facciano a loro volta pressione sulle autorità britanniche, sulle autorità italiane, sulla stampa che continua scandalosamente a tacere su questo punto, anche sui giornali, sugli opinionisti, sugli intellettuali perché gli inglesi desecretino questa parte del documento e ci aiutino a capire se loro hanno avuto o no, come noi pensiamo, un ruolo nella strage di piazza Fontana e nel tentativo di golpe di Junio Valerio Borghese".
Dovrebbero fare pressione anche i blogger, l’informazione libera e indipendente in rete, chi gestisce i social media…
"Visto il silenzio vergognoso della stampa italiana, io mi rivolgo anche ai blogger, all’informazione della rete che può fare davvero molto, perché a sua volta faccia circolare questo documento e eserciti la sua pressione perché questa parte della storia italiana non può davvero continuare a rimanere oscura".
Il libro postumo del poliziotto sulla notte in cui morì Pinelli. Antonino Allegra si è spento a 91 anni. Il figlio: pubblicherò le sue memorie. Nel dicembre del ‘69 era capo dell’ufficio politico della Questura di Milano, scrive Andrea Galli il 2 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Antonino Allegra aspettava la morte. Per gli insistenti attacchi delle malattie (conseguenze d’una pesantissima bronchite nel 2003, che l’aveva costretto a rinunciare alle adorate sigarette), per la spossante stanchezza della vecchiaia (aveva 91 anni) e per svelare i propri segreti. In un libro di memorie. Rigorosamente postumo. Sabato pomeriggio, nella parrocchia Regina Pacis di via Quarenghi, nel quartiere di Bonola, periferia Nordovest, non lontano dall’abitazione in un anonimo palazzo di sette piani, i funerali dell’ex poliziotto, questore a Trieste e Torino, direttore al ministero dell’Interno dell’Ufficio ispettivo, ma nell’opinione pubblica rimasto «legato» al dicembre 1969, quand’era capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano. Gli ultimi anni di vita, dopo essersi ritirato in pensione in anticipo per star vicino alla moglie bisognosa di cure, Allegra li ha trascorsi a scrivere. Pagine e pagine per raccontare quello che i giornalisti hanno invano continuato a chiedergli. Ovvero che cosa davvero successe, in quelle vicende come nel delitto di Luigi Calabresi, nel 1972. Allegra, spentosi mercoledì, non aveva mai risposto. Al telefono, al citofono, braccato per strada nelle passeggiate verso il bar, aveva sempre taciuto. Ora c’è il libro che il figlio Salvatore, imprenditore, pubblicherà. «Aveva chiesto di farlo soltanto alla sua scomparsa. Anche con me ha evitato certi discorsi. Diceva che non ero pronto... Ha pianificato tutto. Come il “secondo” matrimonio, da vedovo, con una donna albanese che s’era occupata di mia mamma malata e che successivamente ha seguito papà. Era scappata da Tirana perché perseguitata. L’ha sposata per garantirle un futuro sereno». Chi è stato Allegra? Quanto ha inciso, nel resto dei suoi giorni, l’anno tragico 1969? Su Pinelli ha «coperto» responsabilità? Ha difeso qualcuno? E per quale motivo non ha mai voluto pubblicamente «difendersi»? Il figlio Salvatore dice che ripeteva una frase: «Sono un funzionario dello Stato e ho il dovere di mantenere il segreto». Ma è chiaro che non può bastare. O forse sì. Nel luglio 2000, nella seduta numero 73 della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Allegra ascoltò gli interrogativi di senatori e deputati. Domanda: «Perché subito dopo piazza Fontana le indagini vennero indirizzate sugli anarchici?». Risposta di Allegra, una persona corpulenta con voce ferma, originario di Santa Teresa di Riva, novemila abitanti sul mare, in provincia di Messina: «Non è vero... Non dicemmo che si trattasse di certi o di altri... Si decise di accompagnare in Questura il maggior numero possibile di esponenti di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra». Domanda: «Il dottor Calabresi per anni seguì i fatti relativi all’estrema sinistra... Chi è in una certa area viene a conoscenza di notizie che non verbalizza perché rimangono confidenze... Può essere che sia arrivato a scoprire qualcosa di molto importante per cui doveva essere fermato?». Risposta di Allegra: «Se avesse scoperto qualcosa di molto importante lo avrei saputo». E altri avvenimenti, con al centro il furore sanguinario delle Brigate rosse, incrociarono la storia di Allegra. Il quale, per ammissione del figlio che ha scelto un altro percorso («Ne faccio parte da ventisei anni»), nonostante la forte insistenza «declinò le offerte della Massoneria». Conosceva mezza Italia, Antonino Allegra. Compreso Silvio Berlusconi che, riferisce il figlio, «è stato il mio padrino alla cresima». Ma tornando alle memorie, a che punto sono? «Non posso anticipare... C’è un unico giornalista, che papà apprezzava: Pansa... E sappia che, ad esempio su Pinelli, tanto non è stato svelato». Com’è morto l’anarchico? «Nessuno vuol credere a un ruolo del Kgb... Papà... conosceva forse troppo... Adesso verrà alla luce. No, aspetti, nessuna strategia di marketing, nessuna volontà di approfittarmi della situazione... Ho amato mio padre, mi ha dato e insegnato la vita. Il libro è un atto doveroso, anzi obbligatorio».
LA BUFALA DELL’INQUINAMENTO.
La bufala del grande inquinamento. Negli ultimi 14 anni l'aria a Milano è stata molto meno pulita di oggi. Il blocco è servito solo a peggiorarla, scrive Chiara Campo Sabato 02/01/2016 su “Il Giornale”. Contrordine, l'aria di Milano non è più da bollino rosso. Dopo una settimana di allarmi e polemiche, nell'ultimo giorno del 2015 i livelli delle polveri sottili sono tornati tra i 32 e 36 microgrammi al metro cubo (la soglia di allarme è fissata a 50). Il Comune ha provveduto a diramare una nota per sostenere che «anche i tre giorni di blocco del traffico» hanno contribuito al risultato: «Per la prima volta dopo 35 giorni il Pm10 è sceso sotto i limiti di legge». Un tentativo maldestro di giustificare lo stop ai motori: dopo il primo giorno l'aria in città era persino peggiorata, un flop. E il bollettino sulla qualità dell'aria di Arpa Lombardia certifica che nella città governata dalla giunta ambientalista di Giuliano Pisapia il Pm10 nel 2015 è stato «fuorilegge» per 101 giorni, quasi uno su tre. E tre volte tanto quei 35 giorni che la normativa europea fissa come tetto massimo degli sforamenti in un anno intero. Il 2014 (particolarmente piovoso) le polveri sono state off limits per 68 giorni, l'anno prima 81. Ma andando indietro nel tempo, quello che oggi i Verdi definiscono «un annus horribilis» è stato persino tra i migliori dal 2002 ad oggi. I giorni da bollino rosso, a parte l'eccezione del 2010 (con 84) sono stati sempre stati più numerosi. Tredici anni fa si arrivò al picco di 163, nel 2004 scesero a 134 poi di nuovo su a 148 nel 2006 e due anni dopo già a 110. A conferma, come ha ribadito più volte nelle ultime settimane il presidente della Regione Lombardia, che «i provvedimenti estemporanei non servono nulla», siano blocchi auto, domeniche a piedi o targhe alterne. Il termometro dello smog dal 2002 ad oggi dimostra che le «performance» sono legate alla situazione meteo e alle condizioni geografiche e climatiche sfavorevoli in cui si trova la Pianura Padana. Servono piuttosto dei provvedimenti strutturali, come il rinnovo dei mezzi pubblici più inquinanti. «Tutto quello che potevo fare come sindaco l'ho fatto - ha sostenuto ieri Pisapia -, e ben prima che intervenisse il governo» con il piano antismog presentato dal ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti prima di capodanno a governatori e sindaci dell'Anci. In quattro anni è mezzo, è invece la lettura dell'ex vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, esponente di Fratelli d'Italia, «la giunta Pisapia non ha adottato alcun provvedimento veramente efficace. Area C (il ticket d'ingresso da 5 euro per entrare in centro con l'auto) serve solo a fare cassa». Paradossalmente, le polveri sottili registrate dalle centraline dell'Arpa collocate in Area C hanno sempre valori superiori rispetto alle altre zone della città. E «il calo delle polveri di queste ore è dovuto solo al cambio del meteo, non certo di un blocco del traffico che ha causato solo danni e disagi a cittadini e commercianti».
Blocco auto dannoso «Prima dello stop l'aria era più pulita». I dati dell'agenzia per l'ambiente Maroni attacca: «Misura inutile» Il Comune: «Aspettiamo domani», scrive Maria sorbi Mercoledì 30/12/2015 su “Il Giornale”. Mettiamola così: i pranzi no stop di Natale e Santo Stefano hanno avuto più effetti sullo smog del blocco del traffico. La pigrizia post panettone ha fermato più auto. Dal 25 al 27 dicembre si sono registrate meno polveri sottili rispetto a lunedì, primo giorno delle limitazioni anti polveri sottili. A confermare i dati sono i tecnici dell'Arpa: «Il blocco del traffico non è stato sufficiente - spiega Silvia Bellinzona, direttore del settore monitoraggi ambientali - I dati migliori sono stati registrati nei giorni precedenti. Tra l'altro nel primo giorno di blocco abbiamo registrato un andamento delle polveri differente nei vari Comuni. E non sempre i livelli migliori sono stati misurati nelle città che hanno effettuato il blocco auto». Milano compresa. Ma il sindaco Giuliano Pisapia non perde la speranza e cerca di mettere una pezza sull'evidente fallimento del provvedimento. «Valutazioni più puntuali andranno ovviamente fatte a conclusione delle tre giornate di limitazione del traffico stabilite dall'ordinanza - si legge in una nota del Comune, diffusa per prendere tempo - La misura è stata già utile a contenere i livelli di inquinanti nell'aria in una fase di alta pressione». «Milano senz'auto, ma le polveri aumentano» twitta il presidente lombardo Roberto Maroni dopo aver letto i dati delle centraline anti smog: «È la conferma che i blocchi estemporanei non servono». Lo stesso commento arriva da più parti politiche. Il coordinatore regionale di Forza Italia Mariastella Gelmini rileva: «Il blocco non è servito a nulla. Anche Renzi è costretto ad ammettere che non sono le automobili il nemico da combattere». «Le politiche di riduzione dell'inquinamento - commenta Nicolò Mardegan, lista civica Noixmilano - sono da costruire con cura, prevenendo situazioni di emergenza». Non risparmia parole forti contro il sindaco il leader leghista Matteo Salvini: «La trovata di quell'ignorante di Pisapia è servita solo a rovinare la giornata a migliaia di persone che lavorano. Perché il Pm10 a Milano, dopo una giornata senza circolazione delle auto, è persino aumentato al contrario di quanto accaduto a Monza che non ha adottato misure del genere e dove comunque il Pm10 è diminuito». A fargli eco sono gli esponenti leghisti in Regione Lombardia: «Per combattere l'emergenza occorrono interventi strutturali - spiega il capogruppo Massimiliano Romeo - non certamente quelli messi in campo dalla sinistra, che sulla questione sta facendo solo un'operazione di propaganda mediatica». Oggi la Regione Lombardia, durante l'incontro a Roma con il ministro all'Ambiente Gianluca Galletti, chiederà contributi di 2 miliardi di euro in cinque anni per attuare politiche ambientali più incisive: a cominciare da un'azione comune a tutte le Regioni della pianura padana.
Ecco la verità sullo smog, scrive Nicola Porro su "Il Giornale" del 29 dicembre 2015. La mini polemica tra il sindaco Pisapia e Beppe Grillo su smog e alberi tagliati a Milano, conforta la tesi dello storico Robert Conquest: «Tutti sono di destra nelle cose di cui si intendono». Pisapia sembra un pericoloso conservatore quando ricorda al leader dei Cinque stelle che sì, a Milano, sono stati tagliati circa cinquecento alberi, ma per far posto ad una verde metropolitana. Entrambi, vittime dell’integralismo ambientale, sbagliano però il bersaglio. Non è certo che questo inquinamento sia così mortale come lo dipingono (tra poco lo vedremo) ma è sicuro che nulla ha a che vedere con il mito della deforestazione. In Italia si realizza, i sorrisi si evitino please, un censimento pubblico degli alberi. Ebbene non è mai esistita una stagione (in migliaia di anni dicono gli esperti) con un maggior numero di foreste. Vi sembra grossa? Anche a chi scrive, ma è così: abbiamo 210 alberi pro capite. Negli ultimi dieci anni, mentre ci raccontavano del consumo del suolo e piripi piripa, in Italia abbiamo piantumato quasi fossimo dei maniaci di Hay Day. Ecco i numeri totali: nel 2005 avevamo 10,4 milioni ettari di bosco (circa un terzo della nostra superficie); dieci anni dopo l’estensione è salita ad 11 milioni. Il che vuol dire 600mila ettari di boschi in più. Nella sola Lombardia si sono sviluppati 26mila ettari di boschi e foreste aggiuntivi. Tra un po’ gli alberi diventeranno come i cinghiali in Maremma: un discreto fastidio per gli abitanti del luogo. La relazione tra deforestazione ed inquinamento non funziona più. Anzi, a voler essere polemici essa si sarebbe invertita: più alberi uguale più inquinamento. Tocca inventarne un’altra. E la tendenza riguarda l’intero continente. L’Europa (la fonte questa volta è Forest.org) dal 1990 al 2015 ha piantumato come una pazza. La superficie boschiva è cresciuta di 17,5 milioni di ettari, per intendersi è come dire che in Europa nell’ultimo quarto di secolo è nato un bosco grande come tutto il Friuli Venezia Giulia ogni anno. Piogge acide (ve le ricordate?) permettendo. Come la mettiamo allora con i 68mila morti in più dell’Italia che si registreranno nel 2015? E di cui i politici illuminati si fanno un gran cruccio. Per Grillo rischiano di essere legati proprio all’inquinamento. Anche l’Oms parla di record di «morti premature», causa smog. Partiamo da una piccola considerazione: quella dei morti è l’unica statistica che si riesce a fare con precisione prima della fine del periodo di osservazione. Ma prendiamoli pure per buoni. Nel 2015 ci potrebbero essere più morti (lo ricordava anche Silvio Garattini) grazie alla chimica. Ma non quella inquinante: quella buona. Grazie alla quale siamo tra le popolazioni più longeve del mondo. Si arriva ad un punto in cui però tocca morire: non più a 70 anni, ma in media per le donne in Italia a 84 anni. Questa media si è spostata in avanti e ciò corrisponde ad un effetto statistico semplice: bassa mortalità ieri, recupero oggi. Garattini addirittura ci ricorda come la folle campagna antivaccini (tra cui quelli influenzali soprattutto per i più anziani) stia determinando una piccola, ma pericolosa, epidemia nelle fasce di popolazione più a rischio. Riguardo all’Oms e ai suoi morti non bisogna aggiungere molto a quanto scritto da Umberto Veronesi: «Morti premature è un termine ambiguo su cui sono scettici molti scienziati. Tumori al polmone e malattie cardiovascolari riconducibili in qualche modo all’aria che respiriamo sono in diminuzione». Avanti con la prossima frottola ambientalista. Ps. Per favore considerate la vostra responsabilità ambientale prima di non stampare questo articolo. Se potete, stampatelo su un bel foglio di carta A4, alimenterete così l’industria cartaia, di cui l’Italia era un’eccellenza, contribuirete a generare posti di lavoro e al taglio degli alberi in eccesso.
LA TERRA DEI FUOCHI DEL NORD.
I sospetti sugli incendi nelle fabbriche del milanese. Una scia di incendi sospetti sta coinvolgendo le aziende dell'hinteland di Milano. Nel 2018, quasi quattro roghi al mese. L'allarme di Legambiente, scrive Nadia Francalacci il 12 aprile 2018 su "Panorama". Una scia impressionante di incendi ed esplosioni “sospette”. La Lombardia, negli ultimi mesi, sembra andare a fuoco. O meglio, le aziende dell’hinterland milanese che, a cadenza settimanale, vengono distrutte da roghi improvvisi. L’ultimo caso all’alba del 12 aprile, all'interno di una ditta a Pregnana Milanese, a pochi chilometri dal capoluogo. Il rogo, scoppiato attorno alle ore 5 nell'area parcheggio della azienda" Ventrice società cooperativa Trasporti Italia", ha completamente distrutto tre dei suoi tir. Due degli autoarticolati erano vuoti, il terzo conteneva materiale chimico presumibilmente di tipo farmaceutico. Si tratta di un incendio doloso? Una domanda lecita considerando che l'origine della maggior parte degli incendi avvenuti con una media di circa 4 casi al mese dall'inizio del 2018, è dolosa. Le cause del rogo presso la Ventrice società cooperativa Trasporti Italia, sono ancora in corso di accertamento da parte dei vigili del fuoco e dei carabinieri, così come è allo studio di tecnici specializzati stabilire se il materiale chimico sversatosi sul piazzale sia inquinante. Certo è, che tutti e tre i mezzi andati distrutti, sembrerebbero essere coperti dall’assicurazione.
Nel 2018 quasi 4 incendi al mese. L’incendio a Pregnana Milanese è il quattordicesimo dall’inizio dell’anno. L’ultimo è avvenuto solo 5 giorni fa, all’interno di una ditta di detersivi a San Donato Milanese. Il primo del 2018, invece, risale al 4 gennaio con l'incendio a Corteolona in un capannone sede di una discarica abusiva. Ventiquattr’ore dopo è toccato alla Sinergi di Besana Brianza e il 18 gennaio alla Suez ex-Ecoltecnica di Baranzate. Nel cuore della notte di sabato 3 febbraio, poi è divampato un altro incendio in una discarica di rifiuti di via Radizzone, a Mariano Comense. Quattro giorni dopo, il 7 febbraio, è toccato alla azienda Ecosfera di Bulgarograsso, Como: un'esplosione origina le fiamme che la distruggeranno completamente. Il 13 febbraio scorso, è andata a fuoco anche la sede di stoccaggio rifiuti di Amsa, il 16 febbraio, sempre a Baranzate in via Monte Bisbino, a prendere fuoco è stata una discarica abusiva e il 19 febbraio, invece, è toccato al capannone di una ditta che si occupa di smaltimento di rifiuti ferrosi nel comune di Pioltello. Ma la scia di incendi che hanno interessato le discariche o i capannoni di stoccaggio rifiuti, risale all’anno scorso.
I fatti del 2017. Era il luglio 2017, quando un incendio doloso divampa nel deposito di rifiuti di Bruzzano. A settembre nella ditta di Mortara, in provincia di Pavia, vanno a fuoco decine di tonnellate di rifiuti speciali. Tre mesi dopo le fiamme nello stabilimento di Bruzzano, tocca al deposito di rifiuti industriali di Cinisello Balsamo sempre di proprietà della Carluccio srl. Non è stata risparmiata dalle fiamme, il 22 febbraio scorso, neanche una azienda chimica a Cuggiono Milanese, dove è andata completamente distrutta l'ala della fabbrica dove venivano lavorati i solventi. Il 7 marzo un incendio all’interno di una piccola azienda di pulitura di metalli distrugge completamente lo stabile. Madre e figlio, nel tentativo salvare l’azienda, rimangono gravemente ustionati. Solo cinque giorni dopo, un vasto incendio scoppia attorno alle 7 all’interno della Alfa Maceri, una azienda che si occupa di stoccaggio di carta a Cologno Monzese. "Questi incendi sono allarmanti. Non può non definirsi “anomala” e preoccupante la frequenza con la quale si susseguono e in una zona così ristretta - dichiara a Panorama.it, l’onorevole Ermete Realacci, Presidente onorario di Legambiente – gli incendi all’interno di aziende, in particolare quelle che operano nel settore dei rifiuti, possono avvenire ma non certamente con questa cadenza”.
I rifiuti e le mafie. “Il settore dei rifiuti è pervaso da interessi illeciti spesso legati alle mafie e alla criminalità organizzata - prosegue Realacci - non a caso gli incendi dolosi sono considerati dagli investigatori dei campanelli d'allarme del potere mafioso sul territorio, insieme alle estorsioni. Quindi è fondamentale che si innalzi, in questa area geografica, non solo l’attenzione dello Stato ma anche la presenza di forze dell’ordine”. “Spesso questi incendi di origine dolosa vengono appiccati per occultare e ‘smaltire’ rapidamente materiali pericolosissimi che l’azienda non doveva detenere- continua il presidente onorario di Legambiente- con conseguenze disastrose sulla salute dei cittadini. La diossina che si sprigiona da questi incendi, infatti, è notevolmente superiore a quella prodotta da un inceneritore. Questi roghi, come quelli nella terra dei fuochi, diventano ancor più devastanti per la salute di un inceneritore di Acerra”.
LOMBARDIA, TERRA DEI FUOCHI NEL NORD, scrive Giorgia Venturini il 06/02/2018 su "Magzine". In Italia lo smaltimento dei rifiuti è un vero e proprio business. Il mercato illegale che si nasconde dietro al ciclo dei rifiuti vale miliardi di euro, in aumento ogni anno. A trainare questa crescita di proventi illeciti non è solo la Campania. Nel mirino, oggi, è la Lombardia, la “terra dei fuochi” del Nord. Negli ultimi mesi sono, infatti, molte le imprese di stoccaggio e deposito rifiuti che hanno preso fuoco. L’ultima, in ordine cronologico, è quella di via Radizzone a Mariano Comense (CO), in fiamme la notte dello scorso sabato 3 febbraio. Le indagini, in corso per accertare l’origine del rogo, non escludono il dolo. Nel 2017, sono state avvolte nel fumo, invece, le imprese di stoccaggio di rifiuti speciali nelle provincie di Brescia, Milano e Pavia. La prima a bruciare, l’anno scorso, è stata la Special rifiuti s.r.l. a Calcinato (BS). Il deposito di rifiuti prende fuoco il 16 marzo del 2017. Neanche ventiquattro ore dopo, è la volta della discarica di Faeco s.r.l., ora Green up, a Bedizzole (BS). La stessa discarica brucerà anche il 24 maggio e il 30 maggio dello stesso anno. Non è da meno la provincia di Pavia. Il 6 settembre del 2017 va a fuoco la ditta di smaltimento rifiuti Eredi Bertè a Mortara. Pochi giorni fa, il 3 gennaio, a bruciare, invece, è il deposito di stoccaggio a Corteolona. Da record, tuttavia, resta la provincia di Milano: secondo i dati elaborati dal comando provinciale dei vigili del fuoco sono, infatti, ben 185 gli incendi nel 2017 legati allo smaltimento di rifiuti. Due, in particolare, gli incendi che hanno fatto discutere: quello divampato nell’impresa di stoccaggio e recupero rifiuti non pericolosi a Bruzzano (MI) il 24 luglio 2017 e quello a Cinisello Balsamo (MI) il 2 ottobre 2017, entrambe gestite dalla Carlucci s.r.l.. Le autorità competenti hanno rilevato che gli impianti risultavano privi di un certificato di prevenzione incendi (CPI) costringendo, pertanto, la società a sospendere immediatamente qualsiasi attività connessa alla ricezione, stoccaggio, smaltimento e recupero rifiuti. Dubbie restano anche le modalità con le quali è stato appiccato l’incendio: i vigili del fuoco giunti sul luogo hanno, infatti, trovato il portone dell’impianto spalancato, formulando l’ipotesi che l’incendio sia stato voluto dagli stessi gestori. Ma cosa si nasconde dietro questi incendi? Secondo quanto emerge dalla relazione del gennaio scorso della Commissione parlamentare d’inchiesta sui reati ambientali, le ipotesi che spiegano il fenomeno sono tante. Dalla fragilità degli impianti (spesso non dotati di sistemi adeguati di sorveglianza e controllo) ai rari controlli sulla gestione che portano a situazioni di sovraccarico degli impianti e quindi ad un alto pericolo di incendi. Infine, c’è la pista dolosa: la possibilità di sovraccarico di rifiuti dà luogo, infatti, ad incendi dolosi “liberatori”. «Le imprese tendono ad abbassare i costi affidandosi a chi gestisce il ciclo dei rifiuti in modo illegale. E bruciare i rifiuti è il modo più economico e veloce per smaltirli», dice Sergio Cannavò. «Ogni azienda produce rifiuti speciali e il loro smaltimento è affidato alle imprese di stoccaggio. Tutto questo però ha un costo – spiega l’avvocato Sergio Cannavò, responsabile del centro di azione giuridica di Lega Ambiente Lombardia -. Le imprese, dunque, tendono ad abbassare i costi affidandosi a chi gestisce il ciclo dei rifiuti in modo illegale. E bruciare i rifiuti è il modo più economico e veloce per smaltirli». Non solo, il rischio di essere scoperti è quasi nullo: i rifiuti, infatti, non transitano dalle dogane e sono facilmente nascondibili lontani dai centri abitati. «Inoltre, qualora venisse scoperto questo mercato illegale, vengono avviati procedimenti penali a carico di ignoti che poi, nella maggior parte dei casi, cadono in prescrizione», aggiunge l’avvocato. L’aumento degli incendi al Nord conferma l’inversione del flusso dei rifiuti rispetto a storiche emergenze che hanno in passato colpito le regioni meridionali. Ciò è direttamente proporzionale ad un’elevata concentrazione degli impianti di recupero e smaltimento rifiuti in Lombardia, spiegata semplicemente dal fatto che qui, rispetto alle altre regioni d’Italia, è maggiore la presenza di impianti industriali. Tuttavia, se al Sud questo fenomeno è da attribuire quasi unicamente alla criminalità organizzata, al Nord, questo crimine, di matrice economica, non riguarda unicamente gruppi criminali. Roberto Pennisi: «In Lombardia sono coinvolte soprattutto le imprese legali più che i mafiosi. Forse è questo il vero problema: è molto più difficile indagare sulle imprese legali, che su quelle illegali». «Anzi, in Lombardia sono coinvolte soprattutto le imprese legali, più che i mafiosi. Forse è questo il vero problema: è molto più difficile indagare sulle imprese legali, che su quelle illegali», precisa Roberto Pennisi, procuratore della Direzione Nazionale Antimafia responsabile dei reati legati all’ecomafia. «Per le imprese il vero profitto deriva dal risparmio che ottengono nello smaltire direttamente i loro rifiuti in modo illegale, piuttosto che ricorrere ad imprese di stoccaggio legali. Eppure, per evitare qualsiasi tipo di rischio ambientale, basterebbe adempiere le normative in vigore». Una di queste è il testo unico ambientale (Dlgs 152/2006) che punisce a un massimo di sei anni di reclusione chi appicca il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata. Ad oggi, però, né questa normativa né i controlli sul territorio sono sufficienti per mettere un freno al reato di combustione illecita di rifiuti. Intanto, le discariche della Lombardia continuano a bruciare.
Rifiuti. È al Nord la nuova terra dei fuochi: in 3 anni oltre 100 roghi, scrivono Antonio Maria Mira e Simona Rapparelli venerdì 5 gennaio 2018 su Avvenire. Le anticipazioni della presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, Chiara Braga (Pd), dopo l'incendio nel Pavese. Il Pavese come la terra dei fuochi. Sono in tanti a farci un pensiero: c’è chi se lo tiene per sé, chi lo scrive sui social e chi invece lo ritiene un paragone insostenibile. Certo è che l’ultimo incendio scoppiato in provincia in ordine di tempo nel comune di Corteolona e Genzone, Bassa Pavese, nel tardo pomeriggio di mercoledì 3 gennaio, con un rogo di sospetta origine dolosa in un capannone in disuso che raccoglieva materiale plastico e gomma ha riproposto un film già visto: esattamente come era accaduto il 5 settembre del 2017 a Mortara, sempre in provincia di Pavia, con le fiamme allo stabilimento Eredi Bertè (stoccaggio di rifiuti speciali e metalli). Gli abitanti della zona sono tornati così in queste ultime ore a fare i conti con gli appelli dei sindaci e del prefetto che raccomandano di non uscire di casa, di tenere serrate porte e finestre e di non consumare frutta e verdura dagli orti. L’incendio alla Bertè era andato avanti per ben otto giorni, si era parlato di pericolo diossina, le colonne di fiamme e fumo erano visibili in tutta la provincia di Pavia ma anche in altre zone della Lombardia e la preoccupazione dei residenti in realtà non si è mai assopita del tutto. Senza contare le fiammate che spesso si sprigionano dallo stabilimento Eni di Sannazzaro de’ Burgondi (uno dei più grandi d’Italia): nell’ultimo anno sono stati ben tre gli episodi di incendio (dicembre 2016, febbraio e maggio 2017) che hanno messo in allarme l’intera zona anche a causa degli intensi boati che hanno preceduto le fiamme.
Che cosa succede?
«Quella zona era già stata oggetto di un nostro approfondimento specifico a dicembre, con un sopralluogo nell’impianto di Mortara che aveva avuto un incendio a settembre». Lo ricorda Chiara Braga, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti che il 10 gennaio presenterà una specifica relazione sugli incendi negli impianti. «A Camere sciolte – spiega la parlamentare del Pd – non possiamo più svolgere attività di indagine, sopralluoghi, audizioni che su questo nuovo caso sarebbero state molto interessanti. Possiamo solo concludere il lavoro istruttorio».
Ma già gli elementi raccolti sono molto importanti.
«È il primo monitoraggio su scala nazionale di questo fenomeno che ha riguardato negli ultimi tre anni circa 260 episodi, il 10% in discariche, tutto il resto in impianti di selezione, trattamento, stoccaggio. Il 40% di questi episodi, dati forniti dalle Arpa e dalle Procure, è al Nord. Abbiamo fatto una panoramica di tutto quello che siamo riusciti a ricostruire di questi ultimi tre anni. E con alcuni focus di approfondimento, con missioni e audizioni a Vidor, in provincia di Treviso, Bedizzole, in provincia di Brescia, Mortara, in provincia di Pavia, Cinisello Balsamo, in provincia di Milano e Caserta».
Sicuramente i casi sono molto diversi. Per un terzo sono ancora in corso le indagini della magistratura. «Per alcuni si è trattato di cattiva gestione degli impianti. Ma la dimensione, l’articolazione e anche le caratteristiche del fenomeno. Continua Braga - ci dicono che è sbagliato guardarli come singoli episodi mentre sono spesso casi spia di pezzi del ciclo dei rifiuti che non funzionano correttamente. Può esserci l’illecito, la mala gestione, certamente sono questioni su cui bisogna alzare il livello di guardia a tutti i livelli, sia quello della prevenzione che quello delle indagini». E spiega che nella relazione si tenterà di dare anche qualche indicazione su come provare ad analizzare, studiare, contrastare questo fenomeno alla luce dei dati certificati e raccolti. Invece di guardare i singoli casi, insomma, leggendoli nella sua complessità si possono aprire gli occhi su alcune caratteristiche utili per prevenirlo e contrastarlo meglio.
Gli incendi «sono episodi spia». Il Nord d'altronde sta diventando attrattivo per alcune filiere di rifiuti differenziati fatti in tutt’Italia dove magari non ci sono impianti o ci sono forti carenze, e la filiera lascia molto a desiderare. «Il mercato si allarga e all’interno è possibile che entrino operatori non corretti - continua Braga -. Ci può essere una pressione eccessiva di impianti in certi territori e forse anche, come spesso accade e accertato dalle indagini, la presenza di attività illecite». Che ci sia la criminalità organizzata o no è da verificare e dimostrare con le indagini, «però che ci sia una zona grigia di cattiva gestione del ciclo dei rifiuti, questo è certo». Tutti elementi che concorrono a un fenomeno che negli ultimi tre anni è cresciuto in maniera molto significativa. Gli incendi poi sono episodi spia di problemi più ampi che stanno dietro. «Quando c’è il fuoco è perché dietro forse ci sono questioni più complesse, illecite, che vengono in qualche modo "risolte" facendole sparire con le fiamme. Il caso di Mortara - conclude la parlamentare - è molto significativo: l’impianto era molto pieno, era previsto un sopralluogo dell’Arpa proprio in quei giorni e casualmente c’è stato l’incendio. Non si può dire che sia stato appiccato dolosamente, sono in corso le indagini…ma certo la coincidenza c’è».
La Cina e la mafia. Di diversa opinione il consigliere Roberto Pennisi, che coordina il gruppo della Procura nazionale antimafia sui crimini ambientali: «Da quando c’è stato il blocco dell’esportazione di rifiuti di plastica verso la Cina - spiega - i nostri trafficanti hanno cominciato ad avere problemi. E così hanno trasformato l’Italia in Cina. Soprattutto le regioni del Nord». E torna a denunciare: «Questa non è ecomafia, ma attività imprenditoriale criminale. È da tempo che lo diciamo. Fin quando c’è stata la disponibilità della camorra veniva comodo rivolgersi a loro - continua Pennisi -. Ora è proprio il sistema economico a muoversi illegalmente. Perché mancano gli impianti. La verità è che ci vogliono i termovalorizzatori, ovviamente gestiti bene. Invece i nostri rifiuti li mandiamo all’estero dove vengono bruciati producendo energia. Oppure ci rivolgiamo al mercato illecito nazionale». Che utilizza capannoni e stabilimenti per l’acquisizione a più non posso di rifiuti: «Li prende e poi quando non ne può più… i rifiuti bruciano».
Viaggio in Lombardia: è qui l’altra «Terra dei fuochi». Un pool di magistrati si sta occupando dei reati connessi allo smaltimento illegale: decine le inchieste aperte su sversamenti illegali nel Bresciano e vicino Milano, scrive Amalia De Simone il 3 gennaio 2015 su "Il Corriere della Sera". C’è un’altra terra dei fuochi in Italia, una pattumiera che ingoia rifiuti provenienti dall’est Europa, dall’Australia e dai principali distretti industriali del nord Italia. E’ una terra dei fuochi che ha ancora poca voce, che in pochi conoscono e di cui molti vorrebbero non si sapesse niente. Si trova in Lombardia, sviluppata a macchia di leopardo prevalentemente nelle zone del bresciano, alle porte di Milano, nel bergamasco, intorno ai piccoli fiumi che finiscono nel lago d’Iseo e in aree che arrivano fino all’Emilia Romagna. Il problema legato allo sversamento di rifiuti tossici non è recente ma da alcuni mesi l’attenzione è altissima per la scoperta di scorie provenienti dall’estero e sversate nella provincia di Brescia. Per questo, il procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso che fino all’anno scorso era il procuratore nazionale antimafia aggiunto, ha voluto che un pool di magistrati si occupasse dei reati connessi allo smaltimento illegale dei rifiuti e ha chiesto ed ottenuto una sezione della Dia a Brescia.
Le inchieste. Le inchieste aperte che riguardano prevalentemente la zona di Montichiari sono ormai decine e attualmente sono in corso approfondimenti investigativi su alcune aziende che gestiscono discariche nella zona. “Ci sono stati carichi perfino da Australia e Slovenia e non sono certamente casi isolati – ha spiegato Dall’Osso in una delle interviste raccolte per le video-inchieste sulla terra dei fuochi del nord realizzate per “Corriere.it” - Arrivano sia in container dai porti che su rotaie. Anzi, stiamo vigilando una serie di linee ferroviarie semi dismesse dei distretti industriali”. Secondo Dell’Osso tutto questo avviene perché i rifiuti sono un problema per tutti i paesi: “Il fatto che il territorio bresciano abbia una grossa esperienza ed una articolazione territoriale di discariche lecite e illecite, fa sì che diventi un territorio particolarmente appetibile. Infatti può essere competitivo dal punto di vista dei costi perché è una realtà di grandissima estensione ed evidentemente ha anche una organizzazione che rende più sicure le consorterie criminali mafiose che operano in questo settore”.
Trenta milioni di scorie. Le associazioni ambientaliste parlano di oltre 30 milioni di tonnellate di scorie accumulate sul territorio bresciano dal dopoguerra ad oggi e secondo lo storico ambientalista bresciano Marino Ruzzenenti ogni anno si producono anche fino ad un milione di tonnellate di scorie. In effetti basta farsi un giro a Montichiari per rendersi conto della situazione: discariche che si estendono per chilometri e chilometri. Cave, colline di scorie laghetti artificiali incorniciati da campi coltivati, esattamente come nella terra dei fuochi campana. Quella che era una florida pianura negli ultimi anni è diventata una zona collinare. Vicino a Bergamo il corpo forestale dello stato sta facendo accertamenti su una collinetta su cui c’è un parco giochi con un enorme scivolo perché c’è il sospetto che sia stata realizzata con scorie di fonderia come una serie di opere pubbliche tra cui gallerie o la BreBeMi, la bretella autostradale che collega Brescia Bergamo e Milano, finita nel mirino della procura proprio per gli sversamenti illeciti di rifiuti. Il comandante del corpo forestale di Bergamo Rinaldo Mangili racconta che negli anni Novanta i liquami industriali venivano spacciati addirittura per ammendanti agricoli e che le autobotti, approfittando della pioggia aprivano i bocchettoni lungo le strade e spargevano via i liquami che finivano nei campi coltivati.
Argini-sandwich. I torrenti della provincia di Bergamo spesso hanno argini che sembrano sandwich: guarnizioni, scarti di fonderia, scarti di industrie tessili che di tanto in tanto si staccano e seguono il corso d’acqua che si getta in altri fiumi e laghi (soprattutto quello d’Iseo) e irriga i campi coltivati circostanti portandosi dietro il veleno. Anche in questa zona l’incidenza dei tumori è molto alta anche se non è stata mai fatta una indagine epidemiologica specifica sul territorio. I medici per l’ambiente di Brescia e alcune associazioni di mamme denunciano una altissima incidenza di tumori infantili. Stesso allarme anche alle porte di Milano: a Buccinasco, per esempio, dove per anni la ‘ndrangheta ha fatto il bello e il cattivo tempo approfittando della speculazione edilizia. Come dimostrano numerose inchieste della dda di Milano imprenditori collegati alle cosche calabresi e da tempo residenti in zona, da un lato costruivano e dall’altro nascondevano rifiuti industriali. Oppure a Pioltello, periferia est di Milano dove c’è un sito d’interesse nazionale finito nel mirino degli investigatori per la bonifica dell’ex Sisas, un’area che accoglieva oltre 280 mila tonnellate di rifiuti industriali. Tra gli indagati ci furono anche i vertici della Daneco, società che nel frattempo si è aggiudicata i lavori per la costruzione del termovalorizzatore di Salerno.
MILANO CAPITALE DELLO STUDIO.
Otto atenei. Boom di stranieri. Occupazione, start-up. E un sistema che fa collaborare pubblico e privato. Per questo più di una matricola su 10 in Italia quest'anno ha scelto il Duomo per la laurea. Un mondo che produce ricchezza, promesse, e sviluppo. Ma anche business, e nuove disuguaglianze, scrive Francesca Sironi il 10 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Milano? per tutti è la moda, il Duomo, il design, i cumenda, l’happy hour. Raramente si pensa alla città per le sue università. Eppure è dentro gli atenei che oggi risorge quella centralità persa con il tramonto dei salotti buoni dell’industria e delle banche sempre più in crisi. Con 183mila studenti, 36.320 dipendenti fra professori e segretari, 400mila metri quadri occupati soltanto dal Politecnico, un mercato frenetico di appartamenti e posti letto per fuori sede, le facoltà milanesi sono diventate una metropoli nella metropoli. Un motore che ha cambiato la fisionomia di interi quartieri, che attrae capitali, che importa giovani dall’estero e mette i semi di nuove startup. Un motore pronto a conquistare, adesso, i resti del post-Expo. Più di una matricola su 10, in Italia, ha scelto Milano per instradarsi verso la laurea, quest’anno. Per la precisione, il 13 per cento del totale nazionale. Dieci anni fa era l’11: i neo-iscritti sono in calo ovunque, ma qui meno che altrove. Perché? Per intuirlo basta osservare l’ombra lasciata dagli aspiranti alle facoltà a “numero chiuso”: al test di Ingegneria del Politecnico hanno partecipato a settembre 11.380 ventenni. Nel 2011 erano 7mila e 700, per lo stesso numero di posti (circa 5.500). In Statale hanno dovuto trovare spazio per far svolgere la prova a migliaia per poche centinaia di posti in Beni Culturali, Scienze della comunicazione, Biotecnologie, Chimica e Informatica (+19 per cento). Lo stesso per le facoltà di Medicina, con l’assalto ai corsi in inglese. Cos’hanno di così sexy gli atenei milanesi? «Semplice: troviamo lavoro, diamo certezze», è la prima risposta di Graziano Dragoni, direttore generale del Politecnico: «Per alcuni nostri indirizzi l’occupazione dopo la laurea è del 100 per cento». Insomma: pensano subito al futuro, i ragazzi. Ma c’è anche altro: «Conta la qualità. A Milano competiamo con il resto del mondo, non solo con l’Italia», riassume Andrea Sironi, rettore della Bocconi, dove il 75 per cento dei frequentanti arriva da fuori Lombardia: «Per ingegneria, economia, design e medicina la Ricerca attrae qui fondi di eccellenza e premi europei. E con la nuova generazione di rettori stiamo facendo sistema». Il “sistema” è una terza via fra cooperazione e concorrenza intrapresa nel 2012 da atenei pubblici e privati, insieme: Cattolica, Politecnico, Bocconi, Statale, San Raffaele, Humanitas, Bicocca. La funzionaria del Comune Giuseppina Corvino ricorda bene quella prima riunione “galeotta” che fece scattare l’amore fra dei rettori appena eletti, convocata a Palazzo Marino per rendere la città più favorevole agli studi: «C’era un entusiasmo nuovo», racconta: «Oggi Milano è la seconda meta scelta in Europa dagli studenti in Erasmus, dopo Barcellona». Oltre ad assessori e dirigenti si sono imbarcate poi le accademie (dal Naba alla Marangoni, al Conservatorio), Camera di Commercio, fondazione Cariplo, in parte Assolombarda, i musei. Ne è nata un’intesa che sta dando i primi risultati. A partire dai servizi per aiutare iscritti e docenti stranieri negli ingorghi burocratici del permesso di soggiorno e negli obblighi fiscali: ostacoli che tengono l’Italia ai margini rispetto ai poli che attraggono talenti con visti agevolati e prestiti. Da noi non è possibile, ma con queste innovazioni, dicono, si prova almeno a dare una mano. Poi: una card di sconti per la cultura. E ancora accordi “trasversali”. Una coppia di super-ricercatori di Chicago, ad esempio, si è appena trasferita sui Navigli grazie a uno scambio che permetterà a lui di insegnare in Bocconi e a lei di continuare i suoi esperimenti in Statale. Alcuni atenei stanno pensando di avviare anche Phd interdisciplinari fra sedi, per aumentarne l’impatto. Il risultato è concreto: gli universitari stranieri a Milano sono oggi 12.301, il 6,7 per cento degli iscritti, triplicati rispetto al 2004. A Roma sono il 4,6. In Italia la media è del 4,2. Attrarre giovani dall’estero è diventata un’esigenza per gli atenei italiani, colpiti dalla crisi di vocazioni post-diploma e dalle imposizioni ministeriali in termini di classi, docenze e contributi alla Ricerca. Anche per questo i dipartimenti puntano ai master e ai corsi in inglese per internazionalizzarsi. Nonostante le proteste della Crusca (e di diversi prof) al Politecnico le magistrali “English speaking” sono passate da 7 (nel 2006) a 35, e gli stranieri iscritti sono oltre duemila, arrivati da Iran, Cina, India, Turchia, Colombia. Humanitas, con la medicina in inglese, ha fatto subito il pieno. In occasione di Expo la Camera di Commercio ha stimato un indotto per la città pari a duecento milioni di euro dagli iscritti extracomunitari. Soltanto di pagamenti diretti, per frequentare lauree e master, gli allievi milanesi versano più di 670 milioni di euro all’anno, extra rispetto ai fondi ministeriali. «Le università sono generatori di ricchezza», conferma Gianluca Vago, rettore della Statale: «Ricerche dimostrano che dove c’è un ateneo che attrae, le istituzioni investono per migliori infrastrutture, che servono a tutti. Poi ci sono le spese dei ragazzi per vitto e alloggio, certo, ma anche uno sviluppo a lungo termine: i laboratori portano brevetti, quindi tecnologia, quindi potenziale innovazione». Potenziale, perché le aziende lombarde non sembrano così ricettive nei confronti degli atenei: «È difficile convincere le piccole imprese a “sfruttarci”», racconta il direttore generale del Politecnico: «Insistiamo, fondiamo consorzi e reti. Ma ora i nostri sforzi sono soprattutto nelle startup». Altre gocce di ricchezza possibile che cadono qui e là: le società di ricercatori, dottorandi, professori, che spendono per portare sul mercato le loro idee. Sono il must del momento. Ogni ateneo ha il suo spazio. La Bocconi ad esempio ha appena aperto, insieme al Comune e alla Camera di Commercio, un nuovo “incubatore”, riservato ai giovani che vogliono fondare capitali. E ogni ateneo vanta le sue esperienze, riuscite o meno. Milano diventa così la città-esperimento dove si affacciano sempre più co-working, uffici condivisi da freelance (anche la Cgil ne ha inaugurato uno); si aprono bar dove una scrivania con wifi e caffè costa 200 euro al mese; Palazzo Marino investe in spazi per creativi dentro l’ex Ansaldo; o ancora i locali promuovono “lavoro e brunch” la domenica. Tutto questo attivismo non riesce ancora, però, a trasformarsi sempre in reale opportunità di un futuro, lasciando che la disoccupazione continui così a invitare alla fuga migliaia di giovani ben formati, ora anche in inglese, dalle sedi lombarde. E il boom degli affari intorno all’università ha prodotto anche nuove disuguaglianze: «Vedi quelle case? Hanno prezzi inaccessibili, per noi: 650 euro al mese la singola, 350 in doppia», raccontano due ragazze del “Collettivo studenti” di Bicocca passeggiando fra le costruzioni di fianco ai dipartimenti. Sugli alloggi a fitti calmierati Statale e Bicocca riescono a rispondere al60 per cento delle domande, la Cattolica al 70, Bocconi al 56, il Politecnico - che ha il maggior numero di richieste - al 35, e sta infatti cercando di costruire nuovi posti letto. Intanto le attiviste mostrano anche altro. Ad esempio il libretto per i voti, diventato una carta di credito: ogni matricola è costretta ad aprire un conto con la Banca di Sondrio. O gli spiazzi di cemento fra le aule, dove, dicono: «Se proponi anche solo una merenda pubblica arrivano i vigilantes privati perché “non si possono fare assembramenti”». Ma non dovrebbero essere spazi di confronto? «È vero. Le facoltà devono avere il coraggio di riportare in primo piano il loro fondamento: quello di essere un luogo libero, laico, indipendente di produzione del sapere», riflette Vago. C’è però qualcosa che non ha perso un passo, in questi anni: ed è il cambiamento della città a fianco dell’espansione delle università. La ciminiera si staglia a due passi da dove avanza una ragazza sui tacchi con la corona d’alloro, applaudita dai parenti. La vecchia Milano si sovrappone alla nuova. Le aule e i laboratori, le feste di laurea e gli afterhour di matricole, sfondano gli spazi lasciati vuoti da rulli e raffinerie. «La città ha bruciato 200mila posti di lavoro nel settore manifatturiero, negli ultimi trent’anni. E ha conquistato 200mila studenti», racconta l’assessore all’urbanistica Alessandro Balducci, ex prorettore del Politecnico: «L’università è stata il motore delle più grandi trasformazioni urbane dell’ultimo periodo, a Milano: le periferie delle ex fabbriche sono state occupate dall’insegnamento». È successo in Bicocca, fra il 1991 e il ’99, con i dipartimenti della Statale a prendere gli ingressi di quella che un tempo era la vastità Pirelli. È successo in Bovisa, dove dal 1992 al 2008 il Politecnico ha riempito di designer le strade scivolate nel degrado alla scomparsa di Montecatini, Ceretti & Tanfani, Officina del Gas. Studenti al posto di operai. Oggi gli universitari a Milano sono il 13,6 per cento del totale dei residenti. A Roma, la capitale dalla monumentale Sapienza, sono il 6,6. La metà. Ed è un record anche a livello europeo, batte persino Londra che è sotto il 5 per cento. La Statale si è detta pronta a portare questa svolta - la forza dei banchi contro l’abbandono in periferia - nell’area rimasta vuota dell’Expo. Propone di trasferire 20 dipartimenti e sedi per gli esperimenti scientifici. Ma ora attende di capire come si accorderà il suo piano con quello presentato invece dal premier Matteo Renzi: un maxi-centro di Ricerca che ha come capofila l’Istituto italiano di Tecnologia di Genova. Aspettando che governo, Comune e Regione definiscano la partita dei fondi e degli spazi, una cosa è certa: i padiglioni smantellati dovranno far largo a libri e microscopi.
Milano è bellissima ma non diteglielo. Una città che si reinventa sempre. Dove il continuo cambiare è una camaleontica natura. Pudica, senza smancerie né vanità. Per chi riesce a capirla, sempre più seducente e fiabesca nel suo saper dare speranza, scrive Aldo Nove su “L’Espresso”. Milano è bellissima. ma non vuole che si sappia. Probabilmente non è molto milanese esserlo. Certo non è milanese ostentarlo. Milano è bellissima ma che non lo si dica, per carità, non sarebbe serio. È troppo forte la sua natura di città funzionale, la sua storia di città “dove si va per lavorare”. Milano non ha tempo per guardarsi allo specchio, e quando lo fa coglie indistinto il fiume elettrico delle persone che l’attraversano (come la raffiguravano i futuristi cent’anni fa), indaffarate ciascuna a inseguire il suo destino, in un intreccio che sembra un lento snodo autostradale di vite che s’affollano al casello, pagando il pedaggio. Per andare dove, poi. La crisi, quella che ci attanaglia ovunque e non ha localizzazione, essendo giustappunto globale, ha dato a Milano un ulteriore scossone, ne ha vanificato ancora di più l’identità. Se il lavoro viene meno, in questa città è tale la pressione del fare che allora tutto inizia a girare a vuoto, ma continua a girare. Una giostra fuori asse. Un caleidoscopio esploso. Milano è veloce, non indugia su se stessa, non si guarda. Ma è piena di volti, di storie. Sono mutati i tratti somatici. Basta fare un giro in tram e guardare dentro e fuori da quel tram. Il mix è vivacissimo. Cinesi, pugliesi, africani, milanesi, filippini, inglesi, bergamaschi, russi. Una comunità frenetica che parla la lingua del lavoro che non c’è più e allo stesso tempo si reinventa a una velocità impressionante. Anni fa un filosofo francese, con una certa lungimiranza, inventò una nuova scienza sociale, e la battezzò così: “dromologia”. La scienza della velocità. Milano ne è il laboratorio. Non c’è mai tempo, e l’assenza (di tempo, appunto) è la sua dimensione interiore, la sua cifra più misteriosa e smaccata. Per chi riesce a coglierla, è seducente. È così indaffarata, Milano. Il futuro preme, lo fa in continuazione e non importa cosa rechi con sé. Non importa neanche se arrivi davvero o no: com’è arrivato l’Expo, alla fine. La Madonnina che domina il Duomo è la regina della trasformazione, il centro di una ruota che gira a pieno ritmo. Lo senti fisicamente. Chi arriva da qualunque parte d’Italia alla stazione Centrale se ne accorge. Appena sceso dal treno sente come una mano che lo afferra alle spalle, e lo spinge. Bisogna incominciare a correre, e diventare milanesi. Il paesaggio muta, ma è nella sua camaleontica natura. Muta sempre. E anche se s’inceppa lo fa con un suo ritmo, nella magnanimità dell’apparenza. Negli ultimi anni, quelli in cui la crisi si è fatta sentire, le strade di Milano sono diverse. Molte attività hanno chiuso. Ma è ben difficile che ciò assuma una forma definita. Viene in mente un film bellissimo uscito da poco di Alejandro Jodorowski, “La danza della vita”. Racconta di una città in crisi e le vetrine dei negozi sono tutte chiuse con la stessa identica scritta “Chiuso per fallimento”. Milano no. Se chiude riapre subito dopo. Ecco allora tutta la nuova teoria delle attività alternative. Quella triste dei compratori di oro e quella altrettanto triste delle sale per giocatori d’azzardo, con tanto di angolo fumatori perché il vizio si accompagna al vizio. E poi la pletora dei “centri benessere” cinesi, sui quali si vocifera che spesso il benessere a cui si allude riservi ben poco originali deviazioni rispetto a quello delle più lussuose spa. Ma sono tutte maldicenze. Sono solo nuove attività. Ritornano ciabattini e artigiani che si offrono per riparare un po’ di tutto, dalle scarpe agli ombrelli fino agli oggetti simbolo del nostro tempo, i cellulari. Milano oggi pullula di cliniche per tablet e di boutique per iPhone. A Milano puoi stare sicuro che trovi in poco tempo la più memorabile cover per telefonini del mondo. Milano anche da morta è viva. Poi ha i suoi malesseri. Da decenni ad esempio soffre della sparizione di uno degli elementi che più l’hanno caratterizzata, la nebbia. «A Milano c’è la nebbia» è un luogo comune talmente potente che in molti non sanno che non c’è più. Come un vestito, si abbinava bene al ritmo alienato di questa città, ne accompagnava la narrazione. Poi è sparita. Ma Milano resta nebbiosa dentro. Il suo grigiore ha una densità impalpabile e coriacea che è statuto e non ha bisogno di corrispettivo meteorologico. E oggi che si estende in verticale (con i nuovi grattacieli che hanno sostituito il bosco di Gioia offrendo allo storico quartiere di Isola uno skyline che sembra newyorkese ma non troppo) le carte si sono confuse ancora di più. Ed è bello pensare come permanga, in certi angoli poco conosciuti dei Navigli, la Milano ottocentesca ritratta per sempre da Ermanno Olmi nel suo “L’albero degli zoccoli”, all’ombra di modernissimi palazzi lucenti. Passato e futuro in fondo non contano. Conta solo il presente e il presente è tanto, è massiccio a Milano. I letterati ne hanno sempre parlato male. Se andiamo a rileggere i grandi poeti che nel Novecento hanno trattato le virtù meneghine, di virtù ne troviamo ben poca. Da Giovanni Raboni a Milo De Angelis, da Giovanni Testori a Franco Loi, Milano ne esce sempre male. Ma ne esce. Perché Milano non è un’amante, è una moglie. Diceva bene Giovanni Giudici, altro poeta milanese per adozione, che è più facile dirle “ti voglio bene” che non “ti amo”. Si amano Venezia e Roma. Ma Milano offre altre più pudiche e persistenti passioni. Ti ci affezioni e ne diventi parte. Di sicuro, a Milano c’è posto per tutti. Ce n’è sempre stato. Dalla Milano dei meridionali a quella dei cinesi, l’invasione è lo status quo e Milano metabolizza tutto, in una forma che possiamo tranquillamente definire accoglienza. Senza smancerie. Alla milanese. Multietnica per vocazione, il suo centro è ovunque, in una fuga prospettica sterminata di storie, e in questa fuga c’è la sua poesia. Del resto, la parola “poesia” deriva dal verbo greco che significa “fare”. Milano fa. Milano produce Milano e in fondo è tutto qua. Un tutto che ne contiene moltissimi altri, mondi che contengono mondi: cinesi che lavorano in attività italiane che poi i cinesi rilevano e dove gli italiani tornano a lavorare come dipendenti. Palazzi che soppiantano boschi per poi recuperarli sulle loro pareti come giardini verticali. Milano è un frullatore di vicende e di stili. E la vetrina dello store della grande marca si presta a diventare, la notte, il rifugio di uno dei tantissimi indigenti che la popolano. Quelli che lo sono per vocazione, quelli che la vita ha preso da sempre a calci e quelli che si sono ritrovati poveri di punto in bianco perché hanno perso il posto fisso che fisso non era. Una fiaba per adulti, Milano, dai multipli finali. Imprevedibile, è capace di lasciar posto a una parola delicata. Che nel 2015 è difficile da dire, e forse Milano riesce in qualche modo a preservarla. È una parola molto preziosa. È il vero motore di Milano. È la parola “speranza”.
MILANO: DA CAPITALE MORALE A CAPITALE DEL CAZO.
Milano si è riappropriata "del ruolo di capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere". Lo ha detto il presidente dell'Autorità Nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, ricevendo dalle mani del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il Sigillo della Città. Alla cerimonia di consegna del 28 ottobre 2015 hanno partecipato anche il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca, e il procuratore Edmondo Bruti Liberati. “Modello Expo difficile da esportare a Roma” - Per il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, inoltre, il modello realizzato per Expo a Milano, caratterizzato da "profonda sinergia istituzionale è difficilmente esportabile senza questa sinergia. Stiamo cercando di esportarlo a Roma ma a Roma è questo che manca". E ha continuato: "Ho incontrato difficoltà, in parte superate anche con l'impegno perché il Comune di Roma non è fatto solo dei soggetti di Mafia Capitale, ma è fatto di moltissime persone per bene. Il problema è trovare una squadra che funzioni. Nell'Amministrazione abbiamo trovato punti di riferimento importanti, anche nel Comune, ma la sinergia che si è verificata a Milano è difficile da esportare come modello. L'idea di lavorare tutti con lo stesso obiettivo, pur nel rispetto della divisione dei ruoli, non è sempre facile da esportare in altre realtà". "Le mie parole non sono critiche" - Cantone, dopo le polemiche seguite al suo intervento, ha poi voluto precisare che le sue parole non "sono critiche a Roma ma un pungolo" per stimolare l'idea che si formi anche nella Capitale un modello di sinergia istituzionale".
Ho dovuto risentirlo più volte...non potevo crederci..., "Milano è Capitale morale" lo ha detto Cantone e fra i presenti, (non posso smettere di ridere), c'era Bruti Liberati, il Procuratore denunciato per irregolarità nell'assegnazione di fascicoli sulla corruzione nella Pubblica amministrazione…..
Expo, dalla tregua giudiziaria all'avviso di garanzia a Beppe Sala. Nel 2015 Renzi ringraziò la procura di Milano "per la sensibilità istituzionale dimostrata". Oggi quella tregua sembra finita. E Sala risulta invischiato nell'inchiesta, scrive Franco Grilli, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Con l'iscrizione di Giuseppe Sala per falso materiale e ideologico "esplode" l'inchiesta sulla Piastra dei servizi di Expo, l'appalto più ricco dell'Esposizione universale che venne assegnato con un ribasso del 42 per cento alla società Mantovani. Proprio questa indagine segnò l'acme del cruento scontro nella procura di Milano tra l'allora capo Edmondo Bruti Liberati (ora in pensione) e l'aggiunto Alfredo Robledo, poi trasferito a Torino per i suoi rapporti con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello. In seguito ai contrasti sulla gestione di questo fascicolo, nel giugno del 2014, Bruti si autoassegnò tutte le indagini sull'evento costituendo la cosiddetta "Area omogenea Expo" che, di fatto, estrometteva l'allora capo del pool reati contro la pubblica amministrazione dalle inchieste sulla manifestazione. La "sanguinosa" battaglia tra le due toghe è la costante di tutto il complesso rapporto tra la magistratura e l'Expo per la cui buona riuscita l'ex premier Matteo Renzi, nell'agosto dell'anno scorso, aveva ringraziato anche la procura di Milano "per la sensibilità istituzionale dimostrata". Oggi quella tregua, che era stata mantenuta anche durante la campagna elettorale per il Comune di Milano, sembra essere finita. E Sala risulta così invischiato in un'inchiesta già in corso da mesi. "Finalmente - ha commentato Robledo - la magistratura si è ripresa la sua veste istituzionale, liberandosi dalle influenze della politica e delle correnti". Il 20 marzo 2014 arrivano i primi arresti legati all'evento nell'ambito di un'indagine su Infrastrutture lombarde (Ilspa), controllata della Regione Lombardia. Finiscono in carcere il dg Antonio Rognoni e Pierpaolo Perez, responsabile dell'ufficio gare. I pm indagano sui metodi di assegnazione delle consulenze e per la prima volta mettono nel mirino anche i lavori di Expo. Ai domiciliari vanno il direttore amministrativo di Ilspa, Maurizio Malandra, quattro avvocati e un ingegnere che si sarebbero spartiti incarichi per un milione e 200mila euro. L'inchiesta su Ilspa si allarga nei mesi successivi e il 9 maggio finisce a San Vittore Angelo Paris, responsabile acquisti di Expo, assieme all'ex Dc Gianstefano Frigerio, all'ex Pci Primo Greganti e all'ex forzista Luigi Grillo. Imprenditori e politici della prima Repubblica, nomi già noti alle cronache giudiziarie, che, per i pm, costituiscono la "cupola degli appalti di Expo" e avrebbero truccato, tra l'altro, l'assegnazione dei lavori per le "Vie d'acqua" e l'"Architettura dei servizi". Tutti patteggeranno pene fino ai tre anni di carcere. Qualche mese dopo, a ottobre, la procura "chiarisce" chi avrebbe beneficiato delle commesse per le "Vie d'acqua": il responsabile del Padiglione Italia Antonio Acerbo, il manager Andrea Castellotti e l'imprenditore Giandomenico Maltauro, che avrebbe promesso 150mila euro al figlio di Acerbo, Livio, come consulenze. In gran segreto, durante l'Esposizione, Sala viene indagato per abuso d'ufficio in relazione all'affidamento diretto a Eataly dei servizi di ristorazione in due padiglioni di Expo, con presunti vantaggi per la società di Oscar Farinetti. La vicenda aveva già sollevato l'interesse dell'Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone. A gennaio 2016 si viene a sapere che Sala era stato indagato, ma la sua posizione è già stata archiviata. "Dubbi esistenti e condivisibili (quelli di Cantone, ndr) sulla mancata osservanza della normativa originaria sugli appalti", si legge nel decreto di archiviazione. Ma l'ex ad di Expo non deve essere processato perché "non risulta univocamente dimostrato l'elemento psicologico richiesto dal reato di abuso d'ufficio". Con quell'appalto senza gara, Eataly ottenne "un indiscutibile vantaggio contrattuale", ma "non è dimostrabile che Sala abbia agito intenzionalmente per procurare un vantaggio ingiusto". Un'inchiesta della Dda guidata da Ilda Boccassini ipotizza che ci fosse la mafia dietro l'elegante padiglione in legno della Francia e gli stand del Qatar, della Guinea Equatoriale, del Camerun e perfino dietro alla passerella che ha portato milioni di visitatori a immergersi nelle attrazioni dell'Esposizione. Lo scorso luglio la Guardia di finanza arresta ventidue persone accusate di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari con l'aggravante di avere favorito gli interessi di Cosa Nostra, in particolare la famiglia di Pietraperzia (Enna). Al centro dell'indagine da cui sono scaturiti due processi ancora in corso, le presunte infiltrazioni della criminalità organizzata nella Fiera di Milano attraverso la controllata Nolostand che viene commissariata. Nello stesso periodo la procura di Reggio Calabria fa arrestare quattordici persone legate agli Aquino-Coluccio. Il clan si vantava del fatto che "il 70 per cento dei lavori di Expo" fosse stato fatto da loro. Sono accusati di avere ottenuto subappalti per opere di primo piano come la Piastra, gli stand di Ecuador e Cina, il Padiglione Italia, rampe e reti fognarie del sito. Adesso Sala è indagato dalla Procura generale di Milano per le modalità con le quali nel 2012 Expo sostituì un componente della commissione aggiudicatrice per l'appalto sulla Piastra. Già nella richiesta di avocazione dell'indagine sull'appalto più ricco di Expo, il pg Felice Isnardi contestava ai pm che ne avevano chiesto l'archiviazione "il mancato esercizio dell'azione penale" per la falsità di due verbali che era stata evidenziata anche in un'annotazione della Guardia di finanza datata 31 maggio 2013. Stando alla ricostruzione degli investigatori, i verbali sarebbero stati falsificati per velocizzare la tempistica della nomina che, altrimenti, seguendo le procedure di legge, avrebbe fatto slittare l'avvio dei lavori mettendo a rischio l'apertura stessa dell'Esposizione.
Il sindaco Sala indagato per un falso targato Cl. Ecco tutte le accuse della nuova inchiesta sull’Expo. Il primo cittadino di Milano sotto accusa per la presunta retrodatazione di una nomina. Per il maxi-appalto da 272 milioni, invece, l’inchiesta coinvolge due ex manager pubblici e tre imprenditori del Mose di Venezia, scrive Paolo Biondani il 16 dicembre 2016 su "L'Espresso". Spesso in Italia la situazione è grave, ma non seria. L'ennesima conferma della perenne attualità del pensiero di Ennio Flaiano si ricava dagli ultimi sviluppi dell'inchiesta-bis sull'Expo 2015. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura generale di Milano e si è autosospeso dalla carica in attesa di chiarire la sua posizione giudiziaria, di cui non conosce ancora nulla. L'Espresso ha ricostruito la complessa vicenda esaminando gli atti dell'inchiesta e interrogando personalmente i magistrati che hanno coordinato le indagini. Il risultato, in sintesi, è che Sala è sotto accusa per una data. E' indagato per aver firmato un atto amministrativo del 17 maggio 2012, che in realtà è stato scritto solo tredici giorni più tardi, il 30 maggio 2012. A preparare l'atto retrodatato, e quindi falso rispetto alla data indicata, è stata una squadra di funzionari regionali che però non obbedivano a Sala, ma ad Antonio Rognoni, l'ex manager dei grandi appalti della Regione Lombardia, fedelissimo dell'allora governatore ciellino Roberto Formigoni. Nel periodo della presunta falsificazione dell'atto, Rognoni e la sua squadra erano in guerra burocratica contro Sala e il suo staff. E nei mesi successivi sono stati tutti arrestati per molte altre corruzioni, a cominciare da Rognoni. Ecco il quadro completo delle accuse ipotizzate dalla Procura generale nella nuova inchiesta che ha coinvolto anche il sindaco di Milano. La cosiddetta “piastra” è la base dell'esposizione universale: la struttura di fondo a cui si appoggiano tutti i padiglioni e costruzioni varie. La gara d'appalto viene celebrata solo tra dicembre 2011 e maggio 2012, dopo anni di liti interne al centrodestra tra la Regione di Formigoni e il Comune dell'allora sindaco Letizia Moratti. A gestire gli atti della procedura è Infrastrutture Lombarde, la controllata della Regione diretta dall'ingegner Rognoni, che per legge fa da «consulente tecnico-amministrativo» alla società Expo 2015, guidata invece da Sala. I tempi della gara sono strettissimi: c'è il rischio di non finire i lavori in tempo. Gli inquirenti, negli atti dell'inchiesta, spiegano più volte che proprio questo era il peccato originale dell'Expo: i tempi troppo ridotti hanno imposto procedure d'urgenza. Alla gara per la piastra partecipano 20 gruppi di grandi imprese. La base d'asta è di 272 milioni. A sorpresa vince la cordata capeggiata dalla Mantovani spa, con un ribasso eccezionale: meno 41,80 per cento. Oltre ad offrire il prezzo più vantaggioso (solo 165 milioni), l'azienda veneta ha presentato il progetto tecnicamente migliore, come riconosce lo stesso staff (ostile) di Infrastrutture. In quei mesi la Guardia di Finanza sta intercettando tutti, per l'inchiesta che nel 2014 porterà in carcere Rognoni e gli altri tecnici regionali accusati di corruzione. Sala non gestisce la gara e quando il suo staff gli comunica che ha vinto la Mantovani, chiede ai suoi collaboratori se si tratti di un'impresa seria. I dirigenti di Expo gli spiegano che è una grande azienda, con mezzo miliardo di fatturato, che sta realizzando il Mose di Venezia. La Mantovani all'epoca non è ancora coinvolta negli scandali di corruzioni esplosi solo a partire dal 2013. Informato della vittoria della Mantovani, Rognoni ha una reazione durissima: è furibondo, perchè avrebbe voluto far vincere la cordata di Gavio-Impregilo. A chiedere quel risultato, secondo le intercettazioni, erano gli uomini di Formigoni. Di qui le manovre che, sempre secondo le nuove indagini, rappresentano la prima ipotesi di reato: Rognoni ordina al suo staff di costringere la Mantovani a raddoppiare le garanzie. I suoi stessi collaboratori vengono intercettati mentre definiscono «oscene» e «pericolose» le sue pressioni: «Un ricatto alla Mantovani». Ottenuto l'appalto, la Mantovani inizia i lavori, ma chiede continue varianti, lamentando di dover eseguire progetti altrui, sbagliati e lacunosi. Le intercettazioni dei tecnici regionali confermano le gravi carenze progettuali («Abbiamo dimenticato gli ascensori!»). Quindi la Mantovani chiede 170 milioni di euro in più. Alla fine si accontenta di un extra di 95 milioni. In questo modo raggiunge quota 260 milioni: poco meno della base d'asta che aveva promesso di ribassare. Un troncone della nuova indagine punta quindi a verificare chi abbia concesso quegli aumenti di prezzo e se fossero giustificati. Gli indagati in questo filone sono cinque: Angelo Paris e Antonio Acerbo, due ex dirigenti di Expo di area berlusconiana, già arrestati e condannati per altre corruzioni; Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani e grande pentito (dal 2013) dell'inchiesta sulle maxi-corruzioni per il Mose di Venezia; e gli imprenditori Erasmo e Ottaviano Cinque, titolari della Socostramo, un'azienda in cordata con la Mantovani. Uno dei capitoli più delicati dell'indagine riguarda proprio il ruolo della Socostramo: Baita, a Venezia, ha confessato che si trattava di un'azienda fantasma, che incassava milioni senza fare niente. I titolari apparenti erano solo prestanome, utilizzati per far arrivare soldi a un politico: Altero Matteoli, ex ministro del governo Berlusconi. Il sindaco Giuseppe Sala, per l'appalto della piastra, non risulta indagato. La seconda accusa, una tentata turbativa d'asta, riguarda solo un imprenditore: Paolo Pizzarotti, titolare di una grande azienda di Parma, che guidava la cordata classificatasi al secondo posto. L'accusa nasce dagli interrogatori di Baita. Il manager della Mantovani ha dichiarato ai magistrati che, dopo essersi aggiudicato l'appalto, sarebbe stato avvicinato da Pizzarotti, che gli avrebbe chiesto di ritirarsi, per poi dividersi a metà l'affare. La cordata di Pizzarotti aveva proposto un ribasso inferiore di circa il 20 per cento. Se la Mantovani avesse rinunciato, quindi, Expo avrebbe dovuto pagare molte decine di milioni in più. Che Pizzarotti, secondo Baita, era pronto a girare alla Mantovani. Che invece ha rifiutato. Di qui l'ipotesi di un tentativo, fallito, di truccare la gara ormai aggiudicata. Il sindaco di Milano è sotto indagine per aver firmato un atto datato 17 maggio 2012: la nomina dei 5 commissari della gara per la piastra e di due supplenti. Le intercettazioni di Rognoni e dei suoi collaboratori mostrano che il 15 maggio erano stati nominati solo i cinque titolari della procedura di gara, senza le due riserve Solo nei giorni successivi i tecnici di Infrastrutture Lombarde, tutti intercettati, scoprono che due commissari, tra cui Acerbo, sono incompatibili, perchè hanno già altri incarichi in Expo. Quindi dovrebbero dimettersi, con il rischio di invalidare tutto l'appalto e non finire in tempo i lavori per l'Expo. La soluzione viene escogitata nei 13 giorni successivi: lo staff di Rognoni viene intercettato mentre prepara il nuovo atto di nomina, che comprende anche i due supplenti. Il documento, scritto al computer, è pronto soltanto il 30 maggio. Ma sull'atto che viene portato alla firma di Sala, che ha il compito di nominare formalmente i commissari, compare la data del 17 maggio. Di qui l'interrogativo a cui dovrà rispondere la nuova indagine: Sala era consapevole di firmare un atto falsificato da altri? L'intera inchiesta, che era stata aperta dall'ex procuratore aggiunto Alfredo Robledo, sembrava essersi chiusa nei mesi scorsi con una richiesta di archiviazione. Firmata dagli stessi tre pm che lavoravano con Robledo durante il suo feroce scontro con l'ex procuratore Edmondo Bruti Liberati. Il giudice Andrea Ghinetti ha però bloccato l'archiviazione, fissando un'apposita udienza. Quindi gli avvocati dei cinque indagati originari hanno potuto leggere e fare copia di tutti gli atti. Intanto però la procura generale, con il sostituto pg Felice Isnardi, ha avocato e quindi riaperto l'inchiesta. E allargato gli indagati anche a Sala da una parte e Pizzarotti dall'altra. Che però, come nuovi indagati, sono gli unici a non aver ancora potuto vedere nessun atto giudiziario: l'inchiesta riaperta è tornata segreta. La Procura generale ha chiesto al gip Ghinetti altri sei mesi di indagini, ma ora conta di chiudere la nuova inchiesta-bis nel giro di un paio di mesi.
Appalti Expo, Sala si autosospende: "Mi serve tempo per capire". Pg: disponibili a interrogarlo. La riunione con i capigruppo, il faccia a faccia con gli assessori poi in prefettura per comunicare la decisione. I due reati contestati: falso materiale e falso ideologico. L'ipotesi: data falsata su due verbali. La lettera con cui lascia, scrive Alessia Gallione e Oriana Liso il 16 dicembre 2016 “La Repubblica”. "La mia (futura) assenza è motivata dalla personale necessità di conoscere vicende e fatti contestati". Non parla, ma scrive il sindaco Sala che si è autosospeso dopo aver avuto notizia di essere indagato nell'inchiesta sulla 'piastra' Expo (per falso ideologico e materiale su una data falsificata nei verbali), mentre dalla procura generale arriva la massima disponibilità ad ascoltarlo. Il sindaco di Milano, difeso dall'avvocato Salvatore Scuto, potrebbe decidere di presentarsi nei prossimi giorni davanti al pg Felice Isnardi per difendersi dalle contestazioni. Una 'mossa' che potrebbe servire a convincerlo della sua estraneità ai fatti persuadendolo a stralciare la sua posizione da quella degli altri indagati in vista di una richiesta di archiviazione e uscire così anche dal 'limbo' politico dell'autosospensione. I poteri alla sua vice. La giornata è iniziata con una giunta straordinaria durata un'ora e mezza nel corso della quale ha spiegato agli assessori ciò che aveva detto ai suoi uomini di fiducia già nel corso della notte: Sala non ha cambiato idea e ha affrontato una giornata emotivamente tesa, nel corso della quale ha preparato la transizione dei poteri ad Anna Scavuzzo, la sua vice. Alle 11.30 ha lasciato il Comune dall'ingresso secondario di via Case Rotte per non incontrare i giornalisti ed è andato a Palazzo Diotti, in corso Monforte, dove ha incontrato il prefetto. Il prefetto ha preso atto della decisione. Si è trattato più di una forma di cortesia istituzionale, dal momento che gli articoli cui si è appellato Sala per l'autosospensione non rientrano nel quadro normativo entro il quale il prefetto può intervenire. Marangoni, dunque, ha preso atto. E il sindaco ha ribadito la sua posizione anche in una lettera che ha spedito al presidente del Consiglio comunale Lamberto Bertolè, alla sua vice in Comune, Scavuzzo, e all'omologa del Consiglio metropolitano, Arianna Censi. "Mi serve tempo per capire". "La mia assenza - ha scritto, appunto, il sindaco - è motivata dalla personale necessità di conoscere innanzitutto le vicende e i fatti contestati, pertanto fino al momento in cui mi sarà chiarito il quadro accusatorio, ritengo di non poter esercitare i miei compiti istituzionali". Quanto tempo sia necessario non è facile dirlo, ma chi gli sta vicino ritiene non si tratti di troppo tempo. Anche perché il Consiglio Comunale convocato oggi per la prossima settimana potrebbe voler dire che a quel punto il sindaco sarebbe nelle condizioni di spiegare le sue intenzioni per il futuro. I due reati contestati. "Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici" e "falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici": sono questi i due reati contestati al sindaco nell'inchiesta. Il nome di Sala, con quello dell'imprenditore Paolo Pizzarrotti, compare nella richiesta di proroga indagini, avocate dalla Procura Generale alla Procura, in aggiunta ai nomi dei 5 indagati già noti. Le ipotesi mosse dall'accusa sarebbero di concorso in falso ideologico e falso materiale, reato che - stando alla richiesta di proroga delle indagini - sarebbe stato commesso il 30 maggio 2012.
Finanza: "Verbali commissione gara con data falsa". Due verbali relativi alla "sostituzione" di due componenti della commissione giudicatrice della gara per l'appalto della 'Piastra dei servizi' riporterebbero "circostanze non rispondenti alla realtà" e, in particolare, sarebbero stati retrodatati con "l'intento di evitare di dover annullare la procedura fin lì svolta" anche per il "ritardo" sui "cronoprogrammi" dell'Expo. Lo scrive la Guardia di finanza in un'informativa del maggio 2013 agli atti anche della vecchia inchiesta dei pm poi avocata dalla Procura Generale.
Dalla Procura generale. Sala, iscritto nel registro degli indagati nelle ultime settimane, non è mai stato convocato per un interrogatorio, né ha ricevuto un avviso di garanzia. Dell'iscrizione ha avuto formalmente notizia solo tramite la notifica via posta elettronica certificata a un avvocato d'ufficio (Luana Battista, 37 anni, milanese, che ha riferito di averlo scoperto solo questa mattina) da parte del gip Lucio Marcantonio della richiesta di proroga delle indagini datata 6 dicembre. Un atto imposto dal codice di procedura penale per permettere agli indagati di presentare memorie difensive. Il sostituto pg Felice Isnardi, titolare dell'indagine, sarebbe dunque disponibile a ricevere e interrogare il sindaco se volesse chiarire la sua posizione. Negli uffici del terzo piano, dove 'regna' il riserbo, si apprende inoltre che l'intenzione dei magistrati è quella di arrivare in tempi celeri ad una conclusione dell'inchiesta.
Salvini: "Se ha coscienza pulita tiri dritto". Molti i commenti alla notizia sono arrivati dai vari versanti politici. Tra i tanti quello di Matteo Salvini, leader della Lega: "Che su Expo non sia tutto chiaro l'avevano capito anche i bambini. L'importante è che Milano non sia lasciata senza una guida. Se vuole Sala fare il sindaco perché ha la coscienza pulita lo faccia. Se ritieni di aver fatto tutto giusto tiri dritto, se no ti autosospendi e ti metti da parte". E questo è più o meno il senso delle dichiarazioni di tutta l'opposizione, da Forza Italia a Lega con Stefano Parisi che ha parlato addirittura di una reazione isterica da parte di Sala e lo ha invitato "a tornare a fare il suo lavoro".
Sostegno a Sala su Facebook. Sala ha comunicato su Facebook la sua decisione di autosospendersi intorno a mezzanotte. In dieci ore il post ha ricevuto circa 600 commenti. La maggiorparte sono a suo sostegno e approvano la scelta, gesto considerato sintomo di serietà. In uno dei commenti si legge: "Renzi e Sala, quando la politica sa assumersi le proprie responsabilità. Una cosa mai vista prima in italia e a cui noi italiani non siamo abituati. Il tempo è galantuomo ed entrambi rialzeranno presto la china". Un altro: "Renzi si dimette dopo aver perso il referendum, il sindaco di Milano si auto sospende dopo aver appreso dai giornali di essere indagato. Mi chiedo: siamo in Italia? In bocca al lupo a entrambi!".
Milano, "da Renzi massimo appoggio al sindaco'': il Pd fa quadrato intorno a Sala. Sala, l’ira del sindaco: "Se è così lascio, stavolta non mi farò stritolare". Il retroscena. La tentazione del passo indietro come nel 2014, quando un’ondata di arresti rischiò di travolgere l’Expo. "Non dico che non mi fido dei pm, ma neanche il contrario", scrive Alessia Gallione e Oriana Liso il 16 dicembre 2016 “La Repubblica”. È stata una domanda ricorrente, durante tutta la campagna elettorale. Cosa avrebbe fatto se avesse saputo di essere indagato? Ieri sera Beppe Sala ci ha pensato pochissimo, forse soltanto il tempo di capire, tecnicamente, che cosa volesse dire e che cosa dovesse fare. Alle dieci di sera ha chiamato a casa sua i collaboratori più stretti, un'ora e mezza dopo ha annunciato con un comunicato la sua decisione: "Mi autosospendo". Si torna così a quella domanda ossessiva, durante la corsa che lo ha portato a Palazzo Marino. Ai suoi ieri sera il sindaco l'ha detto senza giri di parole: "Faccio quello che ho sempre dichiarato, mantengo la parola, la mia dignità viene prima". Durante le sue ore più lunghe da sindaco, racconta chi era con lui, la prima reazione era stata ancora più netta: "Mi dimetto, basta". Perché lui è così, agisce di pancia. Istintivo, come spesso ha ammesso di essere. Un uomo amareggiato, anche, colpito da un provvedimento che non si aspettava, nonostante le indagini avessero toccato uomini che in Expo erano stati suoi stretti collaboratori. No, non se lo aspettava, Sala. Perché, aveva sempre rivendicato, "io sono sicuro di essermi sempre comportato in modo corretto: sarei un pazzo a candidarmi, altrimenti". Meno di tre ore. Per arrivare lì, a dettare quelle poche parole. Tre frasi per scolpire una scelta in cui si mescola rabbia per qualcosa che non immaginava e l'amarezza per vedersi tornare addosso quei due anni, pesantissimi, che hanno segnato l'inizio dell'inchiesta su Expo. "Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto quello che ho passato, se devo tornare a quel punto, allora lascio, non mi faccio stritolare ancora una volta", lo sfogo con i suoi. Che, conoscendolo, non hanno forse neanche provato a fargli cambiare idea: troppo deciso, sin da quando, in serata, ha saputo dalle prime telefonate che il suo nome era tra i nuovi indagati. Il sindaco lo ha saputo dopo dopo le otto di essere indagato, appena uscito da corso Monforte, il palazzo della prefettura dove il prefetto Alessandro Marangoni aveva fatto il tradizionale brindisi natalizio, annunciando - tra l'altro - che a fine mese andrà in pensione. E proprio dal prefetto questa mattina tornerà per consegnare la sua "autosospensione", che trasferirebbe i poteri da sindaco, provvisoriamente, alla sua vice Anna Scavuzzo, anche se la procedura giuridica è da chiarire. A tarda sera c'era anche lei a casa del sindaco, nel centro di Milano, assieme a poche, fidate persone. Il giovane capo di Gabinetto Mario Vanni, diventato la sua ombra in campagna elettorale, e poi Roberto Arditti, Stefano Gallizzi e Marco Pogliani, i comunicatori. Teso, preoccupato per i riflessi che la notizia dell'indagine a suo carico potrà avere su Milano, proprio adesso che l'immagine della città brillava più che mai e che, con la burrasca post referendum, bisognava lavorare il doppio per portare a casa le promesse del governo sugli investimenti. È stato proprio questo un argomento che qualcuno ha provato a usare, per convincerlo a desistere: "Pensa alla città, sei il sindaco di una comunità". Ma Sala è stato irremovibile. Prima di decidere avrebbe cercato l'ex premier Matteo Renzi e ha sicuramente parlato con il ministro che gli è stato più vicino in tutto il suo percorso, dai tormentati di Expo alla candidatura, Maurizio Martina. A tutti ha comunicato la sua scelta. Ma nel carattere del sindaco-manager c'è anche la tendenza a decidere in autonomia. C'è stata un'altra volta in cui Sala ha pensato di fare un passo indietro. Era maggio del 2014, subito dopo gli arresti che hanno rischiato di travolgere l'evento. Allora, ha raccontato, a convincerlo a restare alla guida di Expo fu il presidente Napolitano con una telefonata. Ma ieri no. Sono arrivate quelle poche parole, pesate, nel comunicato ufficiale. Che però lasciano trasparire quello che il sindaco fa capire ai fedelissimi. Non ha nessuna voglia di buttarla in politica - ipotizzando complotti a suo danno - ma neanche di rifarsi alle frasi standard, quelle che di solito si ripetono. Tanto che il primo sfogo con gli amici, a caldo, è stato diretto: "No, non dirò che non ho fiducia nella magistratura, ma neanche il contrario". Piuttosto, quella decisione netta, come un dente da togliere. Ma anche una mossa di orgoglio. Autosospendersi, subito. Senza neppure lasciare lo spazio ad attacchi o a speculazioni. Cercando nel frattempo di capire come difendersi.
L’Expo, i magistrati e il gesto di Sala. L’inchiesta dovrà proseguire, come è giusto, ma in tempi rapidi: per tante buone ragioni. Il futuro della città e il futuro dell’Italia sono la stessa cosa, scrive Venanzio Postiglione il 16 dicembre 2016 su “Il Corriere della Sera. Poche ore. Di notte la svolta di Milano, alle 7 del mattino l’arresto di Roma. La tempesta perfetta delle città, con la giustizia che bussa alle porte della politica. Ancora. E colpisce due sindaci votati a giugno, questo giugno, cioè ai primi passi. Non c’è un complotto e non c’è un grande vecchio con l’orologio: niente in comune, tra le inchieste, i partiti, i personaggi, le stesse metropoli. Solo la sensazione (amara, ma non è una novità) di un Paese che fa un passo avanti e due indietro, risucchiando nell’età della fibrillazione anche la figura del sindaco con la fascia tricolore e le chiavi della città, dopo una lunga (e positiva) stagione cominciata con l’elezione diretta del ’93. «L’unico sistema che funziona ancora» sta diventando una frase fatta, chi poteva immaginarlo. Risveglio strano, per Milano. La nebbia che da giorni fa sparire i grattacieli è solo una coincidenza, nessuno crede ai presagi. Forse. Sospeso il sindaco Beppe Sala che ha guidato l’Expo e che ha unito il centrosinistra (cosa ancora più difficile). Sospeso il racconto di una città che si è ritrovata e reinventata, è uscita dalla lunga crisi italiana e si candida anche a prendere una fetta della City di Londra per riscaldare la sua anima europea. Sospeso in apparenza anche il feeling con il governo, dopo che Renzi se ne è tornato a Pontassieve e Gentiloni ha riesumato il ministero per il Sud. I fatti non sono ancora chiari, però sono noti. La corsa di Milano è cominciata non soltanto per l’Expo, ma anche grazie all’Expo. I cantieri hanno raggiunto il traguardo: e non era detto. I visitatori sono arrivati: e il contesto ha retto. Il futuro dell’area è in bilico tra i sogni e le rivalità: e questo sarà un problema. La Procura ha aperto un’inchiesta e ha trovato un documento retrodatato, considerandolo però «un falso innocuo». Nel senso che non ha aiutato né frenato i protagonisti dell’appalto e nel senso che ha favorito il vero obiettivo, «finire i lavori entro aprile 2015». Ma la Procura generale ha tolto il fascicolo ai pm: «clamorosamente», come hanno scritto Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella. Dalla richiesta di archiviazione a una nuova inchiesta. Dal nulla di fatto al sindaco indagato. In pochi giorni. Stessa sede: magistrati diversi, decisioni opposte, una buona parte di città spiazzata. Beppe Sala, a caldo, si è tolto dal mirino: «Mi autosospendo». Comprensibile. Per motivi personali ma anche politici: dopo mesi di impegni sull’onestà anche le ombre possono diventare macigni. Gesto simbolico, che però andava fatto. Passata la nottata, la forma ha corretto la sostanza: le regole prevedono solo un’assenza temporanea, come per una vacanza o un malanno. Sala capirà meglio le accuse, si confronterà con l’avvocato e la sua giunta, poi prenderà una decisione. Ancora avanti, come è probabile, o lasciare l’incarico. L’inchiesta dovrà proseguire, è giusto. Ma in tempi rapidi. Come suggeriscono tante (buone) ragioni. Il rispetto del voto dei cittadini, che hanno diritto a sapere presto. La doppia strada della magistratura, che per ora non aiuta a capire cosa sia successo. La tenuta stessa di una città che è diventata il motore del Paese e ha la necessità di marciare. Non è un gioco, non è una questione di narrazione e non ha senso cadere nello scontro tra politica e giudici. O tra maggioranza e opposizione. Sembra una formula di rito, ma poi è così: il futuro di questa metropoli e il futuro dell’Italia sono la stessa cosa. La «città che sale» immaginata da Umberto Boccioni nel 1910, all’alba del secolo, fa parte della retorica ma anche dell’anima di Milano. Salire o perdersi.
Quell’incrocio pericoloso nel disordine non garantista. Il duplice colpo mediatico-giudiziario che ha colpito le giunte di Roma e di Milano, ha acceso una febbre insana tra forze politiche che hanno una nozione molto approssimativa del garantismo e delle regole dello Stato di diritto, scrive Pierluigi Battista il 16 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. Un ingorgo di richieste, un incrocio pericoloso tra perentorie ingiunzioni alle dimissioni, stentorei proclami a favore del restare, trovate mediane o eccentriche, tra sospensioni e autosospensioni. Il duplice colpo mediatico-giudiziario che ha azzoppato le giunte di Roma e di Milano, pur mettendo insieme storie diversissime tra di loro, ha acceso una febbre insana tra forze politiche che hanno una nozione molto approssimativa del garantismo e delle regole dello Stato di diritto. Molto approssimativa e anche, se si può dire, molto strumentale. Per cui nelle stesse ore si sentono i Cinque Stelle che implorano la permanenza, per carità, di Virginia Raggi, ma chiedono le dimissioni del sindaco Sala, nel frattempo scopritore dell’inedita e spiazzante formula dell’autosospensione. E poi, simultaneamente, quelli del Pd vogliono che Beppe Sala non si debba dimettere, e tuttavia pensano che si debba dimettere Virginia Raggi, e non per l’inchiesta della magistratura, per carità, ma per il senso dell’opportunità. E quindi richiesta a specchio, dimissioni dell’altro contro permanenza del proprio, e viceversa. Poi però, arrivano i colpi a sorpresa, come se le vecchie geometrie della logica fossero saltate tutte per cui Matteo Salvini, contrariamente a ogni previsione, chiede le dimissioni della Raggi ma le non dimissioni di Sala. E quindi la dimissione incrociata si trasforma nella dimissione unidirezionale, ma nella direzione che non ti saresti mai aspettato. E visto che non ci possiamo mai far mancare alcunché, nel giorno delle dimissioni invocate, respinte, avanzate, sul fronte delle giunte di Roma e di Milano, qualcuno vuole le dimissioni della neoministra dell’Istruzione Fedeli per una controversa faccenda di lauree e di diplomi di maturità. Grande è il disordine (non garantista) sotto il cielo.
Quanto gli italiani hanno la memoria corta....
Intasca la tangente da 5 mila euro Arrestato giudice tributario. Luigi Vassallo è stato denunciato da una multinazionale. Fermato in flagranza da finanzieri travestiti da finti avvocati. Come ai tempi di Mani Pulite, scrivono Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella su “Il Corriere della sera” del 19 dicembre 2015”. Neanche il tempo di incassare la prima tranche dei 30.000 euro che aveva chiesto come tangente e quelli che sembravano solo avvocati, che si alzano per salutarlo, invece si rivelano militari della Guardia di Finanza che lo fermano in flagranza di reato. È come se il tempo si fosse fermato per un quarto di secolo alla stessa scena dell’inizio di Mani pulite, solo che stavolta a restare incastrato dalle banconote «segnate» è un giudice tributario di Milano, ora accusato di aver promesso di «aggiustare» non un proprio processo, ma un contenzioso fiscale in corso davanti ad altri giudici su una multinazionale chimica che, invece di piegarsi, è corsa a denunciarlo alla Procura di Milano. I componenti delle «Commissioni tributarie» sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del ministro dell’Economia, previa deliberazione dell’organo di autogoverno Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Mentre i presidenti delle Commissioni tributarie sono magistrati, i componenti sono anche avvocati, notai, commercialisti, ex ufficiali della Gdf. Luigi Vassallo è appunto un avvocato cassazionista e, come dice lui stesso nel suo sito internet, dal 2008 giudica in Appello (dopo averlo fatto per 20 anni in primo grado), è professore a contratto all’Università di Pavia, per quattro anni ha presieduto l’Associazione magistrati tributari della Lombardia, dal 2013 fa parte dell’Osservatorio della mediazione tributaria su incarico del direttore dell’Agenzia delle Entrate lombarda, è stato legale di enti pubblici come la Regione ed è presidente di organismi di vigilanza di grandi gruppi (come la Bracco Real Estate) ai fini della prevenzione dei reati societari. Vassallo è entrato nel mirino del pm Eugenio Fusco e del procuratore aggiunto Giulia Perrotti quando due avvocati di uno studio internazionale del centro di Milano hanno denunciato di aver subìto la richiesta di 30.000 euro che il giudice tributario sosteneva di dover utilizzare come intermediario con altri colleghi per condizionare favorevolmente il processo di primo grado su una esterovestizione contestata a «Dow Europe Gmbh», branca della multinazionale della chimica da 58 miliardi di dollari di fatturato e 53 mila dipendenti in tutto il mondo. La trattativa è stata monitorata in diretta dalle Fiamme gialle fino al momento della consegna giovedì sera nello studio dei legali dell’azienda, fra i cui impiegati si erano confusi i militari vestiti in borghese che, come avvenne il 14 febbraio 1992 al Pio Albergo Trivulzio, sono intervenuti ed hanno fermato Vassallo mentre intascava la busta con i primi 5.000 euro in banconote da 50. Ora il fermo del giudice, che dall’accusa di «induzione indebita a dare o promettere utilità» sarà difeso dall’avvocato Fabio Giarda, dovrà essere convalidato o meno dal gip di turno al quale Vassallo potrà fornire la sua versione dei fatti.
Dopo Roma tocca a Milano: è una nuova Tangentopoli, scrive Marco Scotti su “Il Ghirlandaio” il 14 ottobre 2015. Mentre l’eco delle dimissioni della giunta Marino, di Mafia Capitale e degli altri scandali che hanno scosso Roma durante l’estate non accenna ad attenuarsi, scoppia un nuovo caso di corruzione, questa volta a Milano. Così, la storica dicotomia tra capitale morale e capitale reale, tra sole e nebbia, tra romani e milanesi, trova un punto d’unione e di contatto di cui è bene non andare troppo fieri: la corruzione. Il caso è quello di Mario Mantovani, già assessore alla sanità della Regione Lombardia e oggi vicepresidente della giunta guidata da Roberto Maroni. L’accusa mossa nei confronti di Mantovani, che è stato arrestato nella giornata di ieri, è di corruzione e concussione per faccende relative alla sanità, compresa una gara sul trasporto dei dializzati. Ogni condizionale è d’obbligo, e ci mancherebbe, anche perché siamo ancora in una fase preliminare delle indagini. Ironia della sorte, oggi l’ex assessore alla sanità avrebbe dovuto presenziare a una giornata sulla legalità. Impegno, ovviamente, annullato, visto che per lui sono scattate le manette. Il vero problema per la giunta di Maroni, però, non è rappresentato dall’arresto di Mantovani, ma dalle conseguenze che questo ennesimo scandalo potrebbe avere. Se, infatti, non è difficile dimostrare lo scarso coinvolgimento di Regione Lombardia nella vicenda – d’altronde Maroni aveva rimosso Mantovani dal suo incarico – è più complicata la posizione di Massimo Garavaglia, assessore all’economia della giunta e uomo forte di Maroni. Per lui la procura di Milano ipotizza il reato di turbativa d’asta. Le carte dell'inchiesta lo accusano, insieme a Mantovani, di aver agito per turbare la gara "per l'affidamento del servizio di soggetti nefropatici sottoposti al trattamento dialitico". Una bella gatta da pelare. Anche perché Garavaglia, al contrario di Mantovani, continua a essere un pezzo da 90 all’interno della giunta lombarda, che Maroni guida da due anni e mezzo. Che fare ora? Perfino tra i fedelissimi dell’ex ministro dell’Interno c’è chi chiede a gran voce un corposo rimpasto della giunta che permetta di spazzare via ogni dubbio di legittimità. Perché, ricordano sempre i fedelissimi, per molto meno “saltò per aria” la giunta guidata da Roberto Formigoni, padre padrone del Pirellone per quattro mandati consecutivi. Sembra che Milano, dopo la serenità ritrovata grazie all’Expo (concluso a tempo di record dopo le infiltrazioni della criminalità organizzata che avevano obbligato l’Anac di Cantone a prendere il controllo della situazione) stia ripiombando in un nuovo incubo da cui non ci si riesce a svegliare: Tangentopoli. Che ha perso – se mai l’ha avuto – ogni connotato folcloristico (da Paolo Brosio davanti a Palazzo di Giustizia al linguaggio di Di Pietro) ma ha mantenuto quei tratti inquietanti che rendono la corruzione un cancro difficile da estirpare. Perché quando si pensa di aver ottenuto un risultato confortante, torna, sotto forme diverse e con differenti peculiarità. Gli anni ‘80 e ’90, caratterizzati da un Partito Socialista che poco aveva a che fare con il nome che portava, sono un ricordo lontano, così come lo sono la Milano da bere e le invettive di Craxi in Parlamento. Eppure rimane lo stesso retrogusto amaro quando ci si imbatte in fenomeni di questo tipo, quando l’appetito predatorio di una classe politica, che non ha ancora completato la transizione verso la Terza Repubblica, è lo specchio palese della sua inadeguatezza. L’Italia non è certo l’unico paese in cui la corruzione esista e sia diffusa. Ma i dati relativi ai costi sociali di questo fenomeno restituiscono una fotografia impietosa, in cui il nostro paese è agli ultimi posti, in Europa e tra i paesi del “primo mondo”, nelle speciali classifiche redatte periodicamente. La stima ufficiosa è che ogni anno la corruzione costi al nostro paese 60 miliardi di euro. Ma c’è chi, come il professor Alberto Vannucci dell’università di Pisa, considera questa stima sballata, ma al ribasso. Perché secondo la Corte dei Conti, la corruzione genera un costo superiore del 40% per appalti e forniture di servizi rispetto alla media europea. Calcolatrice alla mano, si tratta di circa 100 miliardi di euro. All’anno. Un fenomeno, quindi, che entra prepotentemente nel tessuto economico italiano, inquinando la possibilità del nostro paese di avere conti in ordine e maggiori posti di lavoro. Che si tratti di piccole commesse o di opere pubbliche di valore strategico, rimane un costo, interamente a carico della collettività, che non è più sostenibile. Anche perché genera un circolo vizioso da cui è difficile, se non impossibile, uscire. E la credibilità del nostro paese? Minata dalle fondamenta, con gli investitori stranieri che vengono letteralmente messi in fuga da almeno tre fattori: burocrazia, nessuna certezza del diritto e corruzione. Il primo fenomeno si manifesta in un apparato elefantiaco che rende difficile anche ciò che potrebbe essere semplicissimo; il secondo nelle norme che continuano a cambiare. La corruzione, soprattutto all’estero, è un fenomeno difficilmente comprensibile e intollerabile. Ma allora come si esce da questo “eterno ritorno” di Tangentopoli? Affidandosi a persone di valore, come Raffaele Cantone e la sua Anac, e cercando di migliorare progressivamente una classe politica che deve incarnare, una volta per tutte, quegli “aristoi” di antica memoria. L’Italia, e gli italiani, si meritano tutto questo.
Milano, capitale morale è solamente un ricordo, scrive "Blasting News". Milano, ex capitale morale d’Italia, ormai ha perso questo primato e la redenzione giunta dopo la Tangentopoli del 1992 è solo un lontano ricordo. Gli scandali si susseguono e si fa persino fatica a seguirli tutti. Un dato è certo, i beni pubblici lombardi sono gestiti spesso male, quando non oggetto di veri e propri abusi o frodi. Ultimo scandalo in ordine di tempo, è quello che ieri ha coinvolto il management di Ferrovie Nord. Ma ripercorriamo le tappe degli scandali più significativi che hanno colpito Milano in questi ultimi mesi.
TRENORD – i pendolari sono costretti a tour de force per essere puntuali tra continui ritardi e/o blocchi di treni e i manager di TRENORD si occupano di altro e sono sotto l’attenzione della Procura di Milano con l’accusa di peculato. Questa è l’ipotesi di reato rivolta ai vertici dell’azienda in un blitz eseguito il 10 marzo presso gli uffici della società. La Repubblica descrive l’irruzione dei Carabinieri di ieri. Sono stati sequestrati note spese di dirigenti e sono al vaglio degli inquirenti tutte le spese sostenute con carte di credito aziendali. Si va dal pagamento di ristoranti, agli hotel, ai cellulari, al pagamento di multe. In particolare, per le multe sono stati spesi da TRENORD 120 mila, e una buona parte sono riconducibili a multe prese da familiari di dirigenti, quindi poco o nulla hanno a che fare con l’azienda. Seguiremo l’evolversi della vicenda che ha una sola nota positiva: la denuncia dei fatti è partita dall’interno dell’azienda verso la Procura.
ALER – la società che gestisce le Case Popolari a Milano e in Lombardia è ormai da anni travolta dagli scandali, senza che nessuno riesca ad intervenire. Il Fatto Quotidiano in un articolo del 09 Marzo elenca le storture “mostruose” nella gestione dell’azienda che con la costruzione di vere e proprie scatole societarie ha distribuito finanziamenti pubblici perdendone il controllo. Il buco nel bilancio di ALER è di 500 Milioni di Euro. E con questi numeri, ALER si prende il lusso nel 2014, in barba a qualsiasi controllo o verifica, di assumere 40 custodi con contratti a tempo determinato di 88 anni.
EXPO – un blitz della Procura di Milano eseguito l’08 maggio 2014 dalla Guardia di Finanza e dalla DIA porta alla luce un vera e propria cupola degli appalti. Finiscono agli arresti il Direttore Generale di EXPO Angelo Paris e con lui altri 6 manager, tutti con importanti ruoli nel Progetto. L’organizzazione capitanata da Paris aveva contatti politici importanti e pilotava gli appalti Expo verso società che pagavano tangenti o che, addirittura, erano in odore di mafia. L’inchiesta su EXPO nasce da una costola dell’inchiesta Infinito sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia.
Inchieste giudiziarie, Roma e Milano a confronto. La giunta Pisapia è rimasta indenne, ma in Regione ci sono ancora guai. L’arrivo di Pignatone ha scoperchiato il marcio nella Capitale. A Milano sono serviti 23 anni per recuperare il titolo di «capitale morale d’Italia», perso nel 1992 con lo scandalo di Tangentopoli, scrivono Paolo Colonnello e Francesco Grignetti su “la Stampa” il 29 ottobre 2015. «Piena e totale fiducia nella magistratura» non è mai stata una frase di rito. Non per Giuliano Pisapia, avvocato penalista di fama prima ancora che sindaco di una città che stando alle dichiarazioni del presidente dell’anticorruzione Cantone si è riconquistata i galloni di «capitale morale d’Italia», primato perduto nel febbraio del 1992 quando esplose «Mani Pulite» che rivelò l’esistenza di una città dedita alle tangenti: per recuperare terreno c’è voluta una rincorsa durata 23 anni. Un’altra epoca, se si pensa che persino gli ultimi recentissimi scandali di Milano, l’arresto di quattro funzionari legati al settore dell’edilizia pubblica - uno dei quali trovato con dei lingotti d’oro nascosti in casa, un altro invece ripagato con un I-pad - riguardano funzionari e dirigenti nominati dalla precedente giunta, quella di Letizia Moratti. Così come quell’Antonio Acerbo, ex megadirigente comunale diventato poi subcommissario di Expo, condannato a tre anni (patteggiati) e a un risarcimento di 100 mila euro per aver pilotato gli appalti sulle Vie d’Acqua, progetto mai compiuto e dimenticato nella grande ubriacatura dovuta al successo dell’Esposizione Universale. Che pure ha relegato nell’oblio scandali e scandaletti nati dalla fretta necessaria per concludere le opere di Expo, riassunti nella formula della cosiddetta «cupola degli appalti», per ora ferma ai quattro pensionati della tangente (capitanati da Frigerio, Grillo e Greganti) e ad alcuni imprenditori, dalla Maltauro alla Mantovani, coinvolti in una più vasta ragnatela che passa dal Mose di Venezia alla costruzione di Palazzo Italia. In tutto ciò la giunta di Pisapia, in carica da quattro anni, è riuscita a passare indenne, tranne per l’ombra della vendita Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa, ceduta in buona parte dal Comune di Milano al fondo gestito dal manager Vito Gamberale per un totale di 385 milioni di euro. Vicenda che fu anche alla base della dura battaglia tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e l’allora suo aggiunto Alfredo Robledo. «Ombra» spazzata via da una sentenza di proscioglimento per Gamberale che escluse accordi irregolari per truccare la gara. Ben altra musica si è respirata invece nella Regione governata prima da Roberto Formigoni, travolto dallo scandalo sui rimborsi per la sanità, e poi dal leghista Roberto Maroni, coinvolto nella vicenda delle raccomandazioni di due collaboratrici. Per finire con l’arresto recentissimo dell’ex vicepresidente della Regione, Mario Mantovani, il «Faraone» di Arconate.
L’infezione e la cura. I poteri marci che frenano la risalita della Capitale, scrive Mario Ajello su “Il Messaggero”. Paragonando Roma a Milano, e ad altri centri minori, Camillo Benso di Cavour era convinto che «Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali». E insisteva nei suoi discorsi parlamentari della primavera del 1861: «In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono farne la naturale capitale di un grande Stato». Mettere in dubbio una realtà come questa, espressa oltretutto da una delle menti più raffinate e lungimiranti che l’Italia abbia avuto, è storicamente complicato. E sembra anche poco opportuno riproporre il tema tradizionalissimo del dualismo tra Roma e Milano, in una fase così delicata per entrambe. Nessuno può meritarsi la patente di «capitale morale», che ora Raffaele Cantone attribuisce a Milano mentre Roma «sta dimostrando di non avere gli anticorpi di cui ha bisogno». E sicuramente questo attestato di superiorità etica non lo si può attribuire alla metropoli lombarda, anche se proviene da un personaggio autorevole come il presidente dell’Autorità anti-corruzione. Perchè dai tempi della «Milano degli scandali» e di Tangentopoli, fino alla recente inchiesta con tanto di arresti sulle tangenti e le raccomandazioni nella sanità, passando dalle vicende di Formigoni, dalle infiltrazioni della ’ndrangheta padrona, dalle storie del San Raffaele e dalle mazzette delle Ferrovie Nord e da tante altre smentite plateali della virtuosità della politica meneghina, questa città ha mostrato un «lato oscuro».
Milano capitale morale? Ma di che? Le parole di Raffaele Cantone possono essere interpretate come uno sprone a non lasciare l'Italia preda dei signori della mazzetta. Ma non sono purtroppo giustificate dalla storia recente delle grandi opere dell'Expo 2015, scrive Ciro Pellegrino su Fan Page”. "Non esiste alcun sistema preventivo sicuro per la corruzione: a volte appalti perfetti celano fenomeni di corruzione. Non ho nessuna sicurezza che i nostri controlli impediscano la corruzione, la rendono sicuramente più difficile". Così parlava Raffaele Cantone ed era giusto un anno fa, in audizione davanti alla Commissione Antimafia. Oggi evidentemente il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, folgorato sulla via dei Navigli non la pensa ugualmente. Milano "si riappropria del ruolo di capitale morale d'Italia" dice il magistrato campano, contrapponendola a Roma che invece "non ha anticorpi". Da un uomo della statura morale di Raffaele Cantone accettiamo questa dichiarazione ritenendola come uno sprone a non arrendersi, a non lasciare il Paese nelle mani dei predoni degli appalti, degli sciacalli della Pubblica amministrazione, degli avvoltoi della spesa pubblica le opere, le speranze e i sogni del Paese. Tuttavia non possiamo non ricordare che nemmeno un anno fa lo stesso Cantone implorava il commissariamento delle gare d'appalto delle architetture di servizio di Expo 2015 (luglio 2015), che denunciava la mancanza di un sistema di controllo sui padiglioni stranieri dell'Esposizione Universale (ottobre 2015). Non vorremmo ricordare, poi, il caso delle Vie d'acqua e di Primo Greganti e la raffica di interdittive antimafia per aziende in odore di ‘ndrangheta. Dunque di quale capitale morale stiamo parlando? Della città che faticosamente, con l'ausilio di strumenti straordinari e tuttavia troppo tardi, è riuscita ad arginare le fameliche formiche degli appalti? Non certo dei campioni d'onestà da fiction di Raiuno. All'ombra del Duomo non c'è un clima da Suburra, siamo d'accordo. Ma solo perché i protagonisti di questo romanzo criminale girano invisibili tra capitolati d'appalto e ricorsi al Tar.
Sicuri che Milano sia la Capitale morale?
Per Cantone la città di Expo batte Roma. Ma tra scandali, mazzette e infiltrazioni..., scrive Francesca Buonfiglioli su “Lettera 43”. Cecati e mondo di mezzo, mazzette che filano una via l'altra come «ciliegie» o «antidolorifici», funerali sfacciati con elicotteri che gettano petali di rosa, sparatorie in periferia che sanno tanto di regolamenti di conti. Roma come Suburra. Peggio di Suburra. Seicento chilometri più a Nord, a Milano, invece non si parla che del successo di Expo: file infinite ai tornelli e attese di 9 ore ai padiglioni. Una città rinata, che ha ritrovato - almeno così si legge - il suo respiro da metropoli europea. Dopo la Milano da bere, ecco la Milano da esporre. Basta dire che se a Roma la candidatura a sindaco - sempre che Ignazio Marino confermi le dimissioni - suona come una roulette russa, a Milano c'è la fila per raccogliere l'eredità di Giuliano Pisapia con tanto di azzuffatine pre-primarie. Sarà anche per questo che Raffaele Cantone,presidente dell'Autorità nazionale anti-corruzione, ricevendo dalle mani del primo cittadino ambrosiano il Sigillo della città ha sentenziato: «Milano si è riappropriata del ruolo di capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere». Con buona pace delle inchieste sugli appalti dell'esposizione universale, sulle infiltrazioni della 'ndrangheta all'ombra della Madonnina e su quelle della Regione Lombardia, il cui ex presidente Roberto Formigoni è a giudizio per associazione per delinquere e corruzione e l'attuale, Roberto Maroni, è a processo per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e induzione indebita per presunte pressioni per far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a 2 ex collaboratrici. Ma si sa, «gli italiani hanno la memoria corta», dice a Lettera43.it Francesco Calderoni, docente di Sociologia della devianza e ricercatore di Transcrime, il Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale della Cattolica. E aggiunge semiserio: «Cantone avrà voluto omaggiare la città e il sindaco che lo stava premiando...». La criminalità e lo spread tra Roma a Milano. Al di là dei convenevoli, sul primato morale di Milano «bisognerebbe andare cauti», continua Calderoni: «Da Tangentopoli in poi non ci siamo fatti mancare proprio nulla in materia di vicende corruttive». Anche se le differenze con Roma ci sono. «Vanno analizzate le strategie di indagine delle Procure», sottolinea il docente. A Milano, è il ragionamento, i fenomeni sono stati tenuti distinti: si è parlato di tangenti Expo, o allargando l'obbiettivo a tutto il Nord, di scandali Mose o Aemilia. «Nessuno ha abusato del termine 'mafia'». Anche se sono state scoperte collusioni tra criminalità, economia e politica. A Roma, invece, c'è la tendenza ad affibbiare «etichette», come accadde con la P3. Per cui l'associazione a delinquere condita da elementi mafiosi come l'intimidazione, l'assoggettamento e l'omertà viene semplificata con la definizione «mafia Capitale». Dimenticando, precisa Calderoni, «che tutto quello che abbiamo letto sui giornali finora non è che l'ipotesi d'accusa. Non è ancora stata convalidata da un giudice, e per il Gip è sufficiente avere un sospetto». Poi è innegabile che da quando Giuseppe Pignatone è arrivato con i suoi uomini a Roma, la procura capitolina da "Porto delle nebbie" «si è trasformata in un bastione dell'antimafia». E a Milano? «Si è parlato di mafia e 'ndrangheta al Nord, di infiltrazioni. Con più cautela». Una questione di stile? Questione di stile. «A Roma si spara ancora per strada», spiega il professore. «Ci sono i figli e i nipoti della Magliana o le famiglie campane che risalgono la costa tirrenica fino alla Capitale». Il loro controllo sulla città è sfacciato, alla luce del sole. Sintomo di come questi gruppi abbiano preso possesso e controllo del territorio. A Milano la criminalità c'è, ma è nascosta. Fa affari, non spara. Non ci sono i Casamonica con la loro allure folk e cafona. Almeno non in città. Anche perché la «Capitale morale» in confronto a Roma non è che un paesone. «Per un confronto attendibile, bisogna considerare l'intera provincia di Milano: i Buccinasco, i Quarto Oggiaro, i Desio e i Corsico». E la prospettiva allora cambia. Ma lo spread tra Roma e Milano non è solo una questione di dimensioni. La 'ndrangheta e la camorra al Nord «sono più sottotono», conferma Calderoni. «Nel tempo hanno strangolato i piccoli centri dell'hinterland. Ma la reazione c'è stata. L'operazione Infinito partita nel 2003 ha portato all'arresto di quasi 200 persone scoperchiando l'infiltrazione delle cosche calabresi al Nord». Segno che il sistema giustizia è stato efficiente. Quanto a dimensione corruttiva, le cose non cambiano molto lungo quei 600 chilometri. Se nella Capitale ha casa il potere - ci sono il parlamento, i ministeri, le sedi delle società partecipate - a Milano ci sono gli appalti, come hanno dimostrato le recenti inchieste su Expo, Sanità e Regione. Caratteristiche che attirano gli appetiti criminali e sono un humus perfetto per la mazzetta. Ma le notizie passano e gli scandali si archiviano. «Fino a ieri l'Esposizione era la madre di tutti i mali», fa notare Calderoni. «Giuseppe Sala fu addirittura accusato di avere diffuso dati falsi sugli ingressi in Consiglio comunale. E ora?». E ora si parla di sistema Expo da esportare in tutta Italia e molti, Matteo Renzi compreso, vorrebbero il commissario a Palazzo Marino. A questo punto, come nei film da botteghino sugli stereotipi settentrionali e meridionali, si potrebbe fare un esperimento. «Spostare qualche ministero» nella integerrima Lombardia, conclude Calderoni, avverando così il sogno leghista che naufragò nelle sale deserte della Villa Reale di Monza. E chissà, magari a quel punto spunterebbe pure una Mafia del panettone.
LA CAPITALE MORALE? NON ESISTE. L'arresto di Mario Mantovani e di altri esponenti politici della Regione Lombardia confermerebbe ancora una volta, nel caso le ipotesi dei magistrati risultassero fondate, che non esistono differenze etiche tra Milano e Roma, scrive Francesco Anfossi su "Famiglia Cristiana”. Dopo lo shock di Mafia Capitale e le polemiche successive alle dimissioni del sindaco di Ignazio Marino c'è chi ha parlato di due capitali, una politica e l'altra morale, contrapponendo Roma a Milano. La metropoli dove scorrono fiumi di denaro, del "mondo di mezzo" dove si incontrano faccendieri, criminali e politici del sottobosco contrapposta alla capitale europea onesta e laboriosa, vagamente calvinista, persino giacobina e ossessionata dalla legalità. In realtà questa differenza non esiste. E se le ipotesi di reato venissero confermate, la vicenda legata a Mario Mantovani, il vicepresidente della Regione Lombardia arrestato nell'ambito di un'inchiesta che contempla le ipotesi di concussione, corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti, non farebbero che confermare l'equivoco. Si è detto giustamente che Mantovani si sarebbe dovuto fermare prima, dato che questo formidabile accumulatore di cariche pubbliche (senatore, sindaco di una cittadina del milanese, sottosegretario alle Infrastrutture,assessore, plenipotenziario lombardo di Forza Italia) è il fondatore di una cooperativa che si occupa di residenze per anziani, molte delle quali convenzionate con la Regione. Come è stato possibile che gli venisse assegnato l'assessorato alla Sanità? Il re delle case di riposo era in evidente conflitto di interessi, anche se dal punto di vista legale la cosa era possibile. Ma una politica che si vanta di governare la capitale morale del Paese e la Regione più progredita del Paese non può avallare incarichi del genere. Al di là degli esiti processuali (perché bisogna essere sempre garantisti e avere rispetto per chi viene privato della libertà e non convocare sprezzanti conferenze stampa con le arance da portare a San Vittore sul tavolo, come hanno fatto i Cinque Stelle) avrebbe dovuto essere la politica a fermare un passo prima Mantovani, e non la Procura. Qualcuno ribatte che la superiorità di Milano sta proprio nel saper scoperchiare le malefatte della politica, da Tangentopoli in poi. Ma tutto questo non è sufficiente a incoronare una metropoli capitale morale. Anche perché a ben vedere è stata Roma che ha fatto progressi in questo senso, attraverso una Procura che da "porto delle nebbie" si è trasformata in uno degli uffici giudiziari più efficienti e coraggiosi, senza più alcun timore reverenziale. Il problema, come si ripete fino alla nausea negli inutili talk show è "politico".
Da capitale morale a Capital del cazo e viceversa (si spera), scrive Daria Bignardi su “Vanity Fair”. Nel 1992 ero a Siviglia per scrivere dell’Expo, per Panorama. Ricordo ancora il mattino in cui lessi sul País: «Milano se muestra como la capital del cazo». Il termine cazo in spagnolo si usa anche per «corruzione»: era cominciata Mani pulite, e io, che vivevo a Milano da otto anni ed ero tra quelli cui la cosiddetta Milano da bere faceva venire l’afta epizootica, l’avevo trovata un’assonanza esilarante: «Sì, proprio la capital del cazo! Pareva anche a me». In quegli anni, se non eri yuppie dentro, a Milano non ti sentivi a tuo agio. Hanno un bel dire gli amici del folle che la settimana scorsa ha ucciso tre persone al Palazzo di giustizia che allora «si stava bene, girava il grano, passavamo da un locale all’altro», come ha riportato il Corriere: quel che ricordo io è soprattutto un clima sovraeccitato e superficiale, e quel che ribolliva sotto la superficie patinata lo abbiamo appreso con l’inchiesta Mani pulite. Come ha scritto spicciamente ma efficacemente Beppe Severgnini: «Gli anni Ottanta avevano trasformato la corruzione da episodio patologico a normalità fisiologica, che manteneva la politica, arricchiva i politici, appesantiva la spesa pubblica. Un gruppo di magistrati di Milano intervenne, mescolando senso civico e protagonismo: così nacque Mani pulite. Bossi e la Lega la cavalcarono e all’inizio la protessero. Silvio Berlusconi, perduto l’appoggio dei socialisti plurinquisiti, si spaventò, si mise in proprio e fondò Forza Italia. Il resto, più o meno, lo sappiamo». La serie 1992 di Sky in onda in queste settimane è un irresistibile fumettone che, superata la delusione per il fatto che non abbia nulla a che vedere con lo stile di Gomorra, si fa guardare con gusto per diversi motivi. Il primo è la vicenda storica: come è noto la cosiddetta Tangentopoli ha segnato la fine della Prima repubblica. Il Palazzo di giustizia di Milano, che purtroppo abbiamo appena rivisto nei Tg, è stato per mesi il teatro della prima grande inchiesta su corruzione, concussione e finanziamenti illeciti ai partiti. Sono passati più di vent’anni ma non abbiamo ancora capito fino in fondo cosa abbia significato l’inchiesta Mani pulite per la nostra storia: rivedere i fatti di quel periodo, per quanto romanzati in una serie televisiva, non può che indurre riflessioni interessanti in chi allora c’era e soprattutto in chi non c’era. Tutto è meglio dell’oblio, anche il rendersi conto che non è cambiato poi molto. Un altro buon motivo per seguire 1992 è che contiene quel mix di interpretazioni riuscite, come quelle di Antonio Di Pietro, Luca Pastore e molti altri personaggi veri o immaginari, e altre imbarazzanti, che lo fanno guardare anche per ridere alle spalle di alcuni interpreti, come accade in tutte le serie più popolari. Poi c’è Miriam Leone, tanto carina e audace che da sola credo sia per molti un buon motivo per non perdersi una puntata. E poi c’è Milano, che nel bene e nel male non è mai stata centrale come in questo periodo. Dall’Expo, per cui ormai contiamo i giorni, alla figura del prossimo sindaco, che incuriosisce e preoccupa in egual misura, al profilo della città che cambia ogni giorno: anche i più pessimisti non possono non essere curiosi e stimolati – magari preoccupati o mortificati per fatti come quello appena accaduto al Palazzo di giustizia, che però poteva accadere, ed è accaduto, in qualunque altro posto – dal futuro prossimo di Milano. Da capitale morale a capital del cazo e ritorno, o almeno si spera.
Dal 1881 ad oggi l'Expo ripropone il mito di Milano capitale "morale", scrive Roberto Cicala su “La Repubblica”. «Un nodo scorsoio» stringe l'anima di Milano, secondo Testori, tra lavoro, affari e ricerca di dignità e sentimenti. Così uno dei figli di questa «città sconciata epperò bellissima» descriveva ieri le contraddittorie potenzialità che oggi l'Expo ripropone e ingigantisce. Viene da chiedersi quanto l'occasione espositiva favorirà una riflessione sull'identità della "capitale morale", definizione resuscitata dopo il successo su Smirne e covata fin dalla stagione dei lumi intorno al Caffé ma diventata una bandiera nel Risorgimento. Non si fraintenda: la "moralità" non è etica ma deriva dall'orgoglio di «essere guida effettiva, non ufficiale del Paese». Lo annota Giovanna Rosa, presidente dei modernisti italiani, nel suo studio su Il mito della capitale morale con cui la Bur ripropone sue ricerche precedenti puntando su "Identità, speranze e contraddizioni della Milano moderna", come recita il sottotitolo, dove non si parla di quella letteratura che tuttavia fa la parte del leone nelle 300 pagine di un libro intelligente e ricco di citazioni fin dall'emigrato siculo Giovanni Verga: per lui «è la città più città d'Italia». Non è un caso che l'autore dei Malavoglia debba sbarcare a Milano per trovare il successo pubblicando il suo capolavoro da Treves nell'anno dell'Esposizione Nazionale del 1881, di cui descrive lo spettacolo della «fiumana del progresso». Si ripeterà nei prossimi mesi rinverdendo con la tecnologia ecosostenibile i fasti che nel 1881 hanno il culmine nel Ballo Excelsior alla Scala, contraltare alle «cose serie, cose sode» della città. Il volume di Rosa illumina il caso degli intellettuali che, radunati sulla carta stampata da Hoepli e Sonzogno, danno voce alla classe dirigente cercando un'identità nuova e «sollecitando la collettività a riconoscersi nell'etica del lavoro produttivo» a partire dai self made man come l'ingegner Pirelli e dal pilastro dell'editoria che fa di Milano una capitale. Nasce un dibattito in cui trova posto Valera con una Milano sconosciuta chiusa tra orti, navigli e viuzze malfamate dove «il progresso economico sembra non creare miglioramenti per il popolo». Al centro sta l'idea di «modernità» retta su due parole d'ordine indicate dal direttore di Casabella nel '32 e ancora valide: «culto testardo della metropoli» e «corsa verso l'Europa». La contraddizione «genetica, implicita» di essere capitale morale sta poi nel fare da «guida effettiva del Paese senza mai assumere la responsabilità della direzione politica» a dispetto di recenti presidenti del Consiglio lombardi. Il filo rosso che lega Expo 1881 e 2015 è nel superamento del "mito" e nella necessità di una consapevolezza del ruolo di metropoli reso visibile anche dall'architettura, che può sventare il rischio dei non-luoghi creati dalla somma di tutti i luoghi comuni della modernità patinata e commerciale. Serve non «edificare soltanto l'universo delle merci», secondo la visione di Benjamin, e non fermarsi dell'autorappresentazione come propone il numero 154 della rivista Nuova corrente: «la città non sia solo un touch screen». Nelle pagine ingiallite di Il ventre di Milano è curioso leggere di alimentazione, accoglienza e libertà nella «città che sale» del futuristi e «che cresce» dei socialisti come Turati che credono nella «capitale morale», cioè «patria di chiunque vi giunga». È così per Verga, ma anche per Stendhal, Berengo Gardin o Gae Aulenti: tutti dimostrano che Milano deve sforzarsi di non essere un «nodo scorsoio». Ha ragione il poeta Franco Loi: siamo nell'«unica città italiana internazionale. L'unico posto che mescola il mondo».
L'IDENTITÀ. Simbolo di modernità, oggi reso più evidente dai nuovi grattacieli.
LA STORIA. Un'immagine dell'Esposizione Nazionale del 1881, che celebrò il primato di Milano e il suo ruolo trainante nello sviluppo dell'Italia Fu in quella occasione che fu presentato alla Scala il famoso ballo "Excelsior".
IL VOLUME. La copertina del libro "Il mito della capitale morale" di Giovanna Rosa, Bur, pp 318,13 euro. Parte dall'Expo 1881 per riflettere sulle prospettive attuali.
Quando nacque il mito di "Milano, Capitale Morale"? La definizione – usata e abusata – di “Milano capitale morale” si presta a facili ironie in periodi di scandali come questo. Ma quando è nato (e perché) questo modo di dire? Lo inventò un napoletano nell’Ottocento, lo fortificò un vecchio expò, e a lungo ha poggiato sui valori della produzione am..., scrive Alessandro Marzo Magno “L’Inkiesta”. Capitale morale: un premio di consolazione. Siccome la capitale vera era stata messa a Roma, alla città più industriosa d’Italia non restava altro che la medaglia di latta, simile a quella della “vittoria morale” che nel 1934 avrebbe assegnato Nicolò Carosio all’Italia sconfitta con onore dai maestri inglesi del calcio. Milano, per un breve tratto della sua storia, diventa capitale davvero. In epoca napoleonica, nel ballottaggio tra Venezia e Milano, i francesi non hanno dubbi: tra la capitale di una repubblica durata oltre un migliaio d’anni e la sede di un ex governatorato spagnolo, ci mettono un amen a decidere chi debba abbassare la cresta. La contessa vicentina Ottavia Negri Velo nel 1806 scrive così: «La gara tra Milano e Venezia sembra dichiarata. Milano è una provinciaccia che ha sempre ubbidito, Venezia è una capitale in cui il dominio è originario». Proprio per questo il vicerè d’Italia, Eugène de Beauhrnais, ovvero il principe Eugenio, preferisce Milano come capitale del Regno d’Italia. Le istituzioni centrali vengono spostate in Lombardia: la nuova banca di Stato, il Monte Napoleone, assorbe il veneziano Banco Giro, che viene costretto a chiudere. Ma anche l’Accademia di Brera si avvale di una regalia di opere di celebri pittori veneti, spostate d’imperio dalla laguna ai navigli. Gli Asburgo replicano: hanno combattuto la Serenissima per mezzo millennio (salvo brevi parentesi, tipo Lepanto e le guerre contro i turchi di fine Seicento), hanno fatto di Trieste un porto franco per sottrarre all’ormai decaduta repubblica il dominio sull’Adriatico, e ora, riusciti finalmente a mettere le mani sullo spennato leone di San Marco, è ovvio che come capitale del Lombardo-Veneto, gli preferiscano Milano, che oltretutto era città dei loro cugini spagnoli. Assaporato il gusto del comando, Milano viene retrocessa dai Savoia. Ma ormai la città si è avviata sulla via dell’industrializzazione, è l’unico centro italiano legato da «un cordone ombelicale all’Europa», come disse lo storico Renzo De Felice che aggiunse: «Milano rappresenta un’instancabile incubatrice del nuovo che nasce nel Paese». Giovanni Verga la definisce «la città più città d’Italia». La consacrazione definitiva arriva con la Fiera industriale (oggi diremmo Expo) del 1881 quando Milano si mette in vetrina. La definizione di “capitale morale” sembra essere più o meno di quel periodo, assegnata oltretutto da un napoletano, Ruggero Bonghi, che in quegli anni dirigeva il quotidiano milanese La Perseveranza. Il successo (della definizione) è virale: va bene a tutti, ai milanesi per consolarsi, ai romani per consolarli. Come scriveva Guido Lopez «la mostra avvalorava l’operosità alacre di una città che si proclamava con orgoglio consapevole “capitale morale d’Italia”. Traduzione moderna del vecchio proverbio popolare Milan dis, e Milan fa. Renzo De Felice però non era d’accordo: «L’Italia ha solo due capitali: Napoli e Palermo», le uniche che ricordano Parigi, Madrid, Vienna, come sottolineò lo storico. Tuttavia Milano sembra effettivamente diventata una fucina non solo industriale. Roberto Sacchetti, nel suo La vita letteraria a Milano nel 1880 la butta sull’etica: «A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchelli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga… e si crede di dir molto». Ognuno è considerato per quel che fa, insomma, non per quel che è. Dice Gaetano Salvemini: «Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia». La città sembra voler pungolare un’Italia che ha voluto, che ha contribuito a costruire, ma che non è come avrebbe dovuto essere. Luigi Albertini schiera il quotidiano più influente del Paese, il Corriere della Sera, su posizioni interventiste, in contrapposizione al neutralismo del piemontese Giovanni Giolitti. E il fascismo sarà una faccenda tutta milanese: Benito Mussolini direttore de l’Avanti!, con sede in città, frequenta la casa milanese di Filippo Turati e Anna Kulishioff, dove conosce e diventa amante della veneziana Margherita Sarfatti che gli inculcherà il mito della romanità. Ed è nella milanese piazza San Sepolcro che il futuro Duce fonda i Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919. Il mito continua anche nel secondo dopoguerra, quando Milano diventa più che mai l’ombelico dell’Italia industriale, il centro dell’immigrazione (qualora si eccettui la Fiat). I primi ad arrivare sono i veneti, da allora qualificati con l’aggettivo di “terroni del Nord), seguono i siciliani, i pugliesi e tutti gli altri. Recita un proverbio: “Chi ghe volta el cü a Milan, ghe volta el cü al pan” (chi gira il culo a Milano, gira il culo al pane). Per parecchi anni la città vive una crisi di rappresentanza politica: la “capitale morale” conta relativamente poco nei palazzi del potere romano, dove non brilla un astro meneghino di prima grandezza fino all’avvento del socialista Bettino Craxi. Ma ormai siamo negli anni Ottanta e il mito comincia a offuscarsi. Alla “Milano da bere” immortalata, verso la metà del decennio, in un celeberrimo spot pubblicitario dell’amaro Ramazzotti, si contrappone la “Duomo connection”, un’inchiesta giudiziaria promossa tra il 1989 e il 1990 dal pubblico ministero Ilda Boccassini (ebbene sì, proprio lei) e attuata dal celeberrimo capitano Ultimo (al secolo Sergio De Caprio, capitano dei carabinieri). Un paio d’anni più tardi esplode Tangentopoli e l’effetto collaterale è l’entrata in scena di un altro milanese che avrebbe segnato parecchio la vita politica italiana: il cavalier Silvio Berlusconi. E tra “Berlusconi” e “morale” la contrapposizione è definitiva.
Milano, Capitale Morale? Un mito. Meglio Napoli e Palermo. Gli storici De Felice e Rumi riconoscono la vocazione europea della città, ma bocciano le tentazioni di separatismo. Milano "capitale morale": realtà o solo un mito? E Roma è davvero capitale? O l'Italia ha capitali "alternative"? Nel post Tangentopoli l'interrogativo potrebbe ricevere una risposta sbrigativamente liquidatoria, se non ironica. Ma se a porsi le domande è Renzo De Felice, la cronaca (magari nera) si riscatta. E la storia, se non proprio maestra di vita, qualcosa può aiutare a capire. Anche perchè De Felice fa riflessioni provocatorie, presentando un prezioso, illustratissimo volume edito dalla Cariplo, Milano nell'Italia liberale: 1898 1922. Due date fatidiche, che vedono il capoluogo al centro della vita nazionale: tra le cannonate di Bava Beccaris (100 cittadini morti) e la partenza di Mussolini in vagone letto per "marciare" su Roma. Ieri come oggi non si può mai dire: lo studioso rifiuta accostamenti. Ma sviluppa argomenti che valgono piu' di riferimenti all' attualità. In sostanza, la vocazione di Milano sembra snodarsi a metà fra il mito e la reale forza economica, la fattività. Due sono la caratteristiche di questa Milano ("che vanno tutt'altro che in un senso pro Bossi"): "la proiezione europea", soprattutto al Nord, verso il mondo germanico e anglosassone: una bella differenza, quindi, "fra una proiezione europea e una balcanica o mediterranea". E la "tradizione moderata" di Milano, che si esprime persino in certe forme "sovversive". Turati e la Kulishoff sono cosa diversa dai socialisti di altre parti; anche i "fasci di combattimento" milanesi differiscono dai toscani e dagli emiliano romagnoli. Se Milano piange, Roma non ride. Azzarda De Felice: "Se c'è un mito della capitale morale, c'è un mito anche di quella reale". Paradosso o provocazione? Roma ha una storia, la romanità e i papi, ma "l'Italia ha solo due capitali: Napoli e Palermo", le uniche che ricordano Parigi, Madrid, Vienna. A De Felice dà man forte Giorgio Rumi (lo storico che con Adele Carla Buratti e Alberto Cova ha curato il volume, introdotto da Roberto Mazzotta). E vero, "Milano rappresenta un'instancabile incubatrice del nuovo che nasce nel Paese", ma resta "ambigua". E l'unica terra italiana per vicende storiche legata da "un cordone ombelicale all' Europa", ma "ha usato la politica europea per sopravvivere, per difendersi". Metaforicamente, come emerge dalla ricerca della Buratti, è il succedersi di progetti d'architettura, senza però che poi il disegno riesca a trovare la dimensione attuativa, propositiva. Anche se lo storico per mestiere si astiene dal presente, almeno pone le premesse per la morale da trarre: 1898 1922; ritornano espressioni come "lo Stato di Milano" (Crispi) e "ducato di Milano" (Sturzo); è il busillis dell'"ingovernabile Settentrione". Milano che volle l'unità, col Risorgimento, e si alleò per realizzarla al Piemonte che aveva monarchia, esercito, diplomazia, viene presto presa - dice Rumi - "da tentazioni ricorrenti di separatezza". L'inquietudine e l'insofferenza verso l'Italia uscita dal Risorgimento nascono da Milano, tra cattolici e socialisti; da qui parte l'interventismo di Albertini, ma anche Mussolini. Insomma, Milano tormentata tra uno Stato che vuole e ha contribuito a costruire, ma che invece non è come avrebbe dovuto essere. Insomma, un'Italia che non si riesce a incarnare. Ieri come oggi. Con l'angoscia, per chi non fa lo storico, di dover lavorare in tale dilemma. E vivere. Pagina 46 (17 dicembre 1993) - Corriere della Sera...
IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.
Corruzione, efficienza, calcio: ecco perché Milano batte Roma (6-0). Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano, scrive Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera".
1. La storica rivalità. Il problema dei milanesi con Milano? La criticano, sempre, comunque. Appena possono, infatti, fuggono dalla città. Dicono di non volerci vivere. Nonostante l’happy hour, nonostante la vita notturna, nonostante le opportunità di lavoro, nonostante lo shopping. Per i romani, invece, niente è come Roma: l’ottima cucina, il clima mite, la storia millenaria, la bellezza sfrontata. D’altronde, anche Audrey Hepburn in Vacanze Romane aveva risposto in maniera inequivocabile alla domanda su quale fosse la sua città preferita: «Roma! Certamente, Roma!». Se il New York Times ha piazzato il capoluogo lombardo al primo posto tra 52 destinazioni nel mondo da vedere nel 2015, la capitale d’Italia è finita in questi mesi sulle prime pagine dei giornali per altre ragioni - davvero poco invidiabili. La rivalità tra le due città esiste da sempre: tra un «c’avete solo la nebbia» e un «Roma Ladrona», la (spesso) interminabile discussione si sposta quasi sempre sul calcio. Il portale economico finanziario Bloomberg ha provato a sfatare alcuni miti e luoghi comuni sulle due metropoli, con numeri e dati alla mano: ecco, in sei punti, le conclusioni a cui gli analisti sono arrivati.
2. Resilienza economica. Nel corso della recessione più lunga dalla Seconda Guerra Mondiale (2000-2015), il pil pro capite nella regione Lazio è sceso del 24,3 per cento (da circa 36 mila euro a circa 29 mila), secondo le proiezioni Bloomberg. In Lombardia il calo è stato dell’8,5% (da circa 37 mila euro a poco più di 36 mila).
3. Disoccupazione. Il tasso di disoccupazione nella provincia di Roma è salito all’11,3 per cento nel 2014 (dati Istat). Milano e la Lombardia hanno registrato rispettivamente l’8,4% e l’8,2% di persone in cerca di lavoro - una situazione meno critica rispetto al resto all’Italia (ormai al 12,7%). C’è poi il problema del numero esorbitante di dipendenti pubblici, che affligge la capitale. Per esempio l’Atac (l’azienda che gestisce i servizi di trasporto a Roma) ha circa 12 mila dipendenti, mentre l’Atm di Milano ne ha circa 9 mila. Il Comune di Roma da solo conta circa 24 mila dipendenti, e aggiungendo anche le municipalizzate di acqua, rifiuti e trasporti si superano i 50 mila addetti.
4. Efficienza. Nel 2015, la rete metropolitana milanese ha superato i 100 chilometri, mentre Roma è ferma a 62 km. Vale la pena ricordare che Roma è sette volte più grande di Milano, con quasi il doppio della popolazione. Bisogna dire che creare una rete sotterranea per la metro nella città eterna è parecchio complesso. I mezzi pubblici a Milano trasportano ogni anno quasi 750 milioni di passeggeri; a Roma, i passeggeri che utilizzano autobus e tram sono circa 927 milioni, solo 273 milioni per la metropolitana. Il bike sharing nella capitale è stato un fiasco. Il servizio BikeMi a Milano invece riscuote sempre più successo: ha contato nel 2014 oltre 2,4 milioni di noleggi, un incremento del 244,7% dall’esordio (nel 2009), con un ulteriore +26,7% rispetto al 2013.
5. Fascino. È vero che la città eterna attira più di 10 milioni di turisti stranieri l’anno, rispetto ai circa 7 milioni che arrivano a Milano. Tuttavia, grazie a Expo 2015, il numero di turisti nel capoluogo lombardo è aumentato del 9 per cento a maggio e del 12 per cento a giugno di quest’anno (a Roma è salito del 5 per cento nel mese di giugno 2015).
6. Corruzione. Sia Roma che Milano sono finite al centro di vari scandali. Gli appetiti della mafia sui grandi lavori di Expo sono un fatto ormai, tristemente assodato. Lo testimoniano le decine di inchieste giudiziarie e gli arresti (oltre 15 da marzo 2014) che hanno messo in luce i legami tra imprenditori e famiglie mafiose. Ma nel 2015 Roma è finita sulle prima pagine per la sporcizia, i rifiuti e «Mafia Capitale»: da dicembre sono circa 80 le persone finite in manette e oltre 100 gli indagati.
7. Calcio. «Milan e Inter? Sono squadre di calcio. Roma e Lazio: sono religioni». Alla fine, scrive Bloomberg, si torna quasi sempre a parlare di pallone, di giocatori, di campionato. E di quale città può vantare più scudetti: Milan e Inter hanno entrambi 18 scudetti, la Roma ne ha 3 e la Lazio 2. E così la «finalissima» (sempre secondo Bloomberg) vede Milano vincente su Roma per 6 a 0. Anche se nell’ultimo campionato...
PARADOSSI SUL WEB. Ecco le ragioni per cui Milano è «la peggiore città al mondo». BuzzFeed, il popolare sito americano esprime - con ironia - tutta la propria ammirazione per il capoluogo lombardo, scrive ancora Elmar Burchia sul milanesissimo "Corriere della Sera". Gli americani adorano Milano. Non lo dicono solo i numeri: dei 3,8 milioni di turisti giunti nei primi cinque mesi di Expo, al primo posto si collocano proprio gli statunitensi. E per puro divertimento BuzzFeed, il popolare sito con oltre 200 milioni di utenti unici al mese, ha pubblicato nei giorni scorsi una classifica delle 32 ragioni per cui «Milano è il peggio in assoluto». Il sito, con una carrellata di foto e didascalie assolutamente ironiche, esalta per antitesi il capoluogo lombardo, proprio come aveva fatto ad aprile, poco prima dell’apertura di Expo, con le «39 ragioni per cui l'Italia è il peggior Paese al mondo».
1. Dunque, hai sentito grandi cose su Milano? Inizia così, con una bella immagine del Duomo, il singolare racconto di BuzzFeed che elogia la città di Milano. Il titolo: «Dunque, hai sentito grandi cose su Milano?».
2. Pensi che valga la pena farci una breve vacanza? La seconda immagine è quella della galleria Vittorio Emanuele II, uno dei punti di forza di Milano: grazie soprattutto alla presenza delle tante boutique griffate, la splendida struttura in stile neorinascimentale viene percorsa ogni giorno da migliaia di turisti, che rimangono affascinati dal passaggio coperto. Anche chi fa la più breve delle vacanze non può non vederla.
3. Be’, risparmia tempo e soldi...La terza immagine è quella di Borgo Pirelli, in zona Bicocca, un gioiello di 30 case in stile liberty nato nel 1921 per ospitare gli operai dell’omonima fabbrica che sorgeva proprio lì di fianco. Sullo sfondo le Alpi innevate in una (ahimé rara) giornata limpida.
4. Perché Milano non li vale...I Navigli: centro nevralgico della movida milanese. La (riuscita) riqualificazione della Darsena è uno dei progetti che Expo lascia in eredità a Milano e alla Lombardia.
5. E nessuno dovrebbe mai andarci! Altro gioiello: il Teatro alla Scala, il Piermarini.
6. Seriamente, guarda quanto è brutta! Ancora una veduta dei Navigli.
7. È come una brutta grande verruca sulla faccia dell'Italia. Di nuovo la Galleria Vittorio Emanuele, in uno scatto dall’interno.
8. È semplicemente ripugnante. Lo skyline di Milano visto dal Duomo: il santo sulla guglia sembra fissare i nuovi grattacieli di Porta Nuova.
9. Così ripugnante da essere al limite dell'insulto. La basilica di Santa Maria delle Grazie, situata nel cuore della città. L’imponente opera architettonica è legata in modo indissolubile all’affresco di Leonardo, il Cenacolo, conservato al suo interno, nel refettorio. Dal 1980 è sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
10. Questa città non ha classe. Il Duomo: simbolo del capoluogo lombardo, per superficie è la terza chiesa cattolica nel mondo (dopo San Pietro e la cattedrale di Siviglia). Per Expo, il Duomo è stato consegnato in tutto il suo splendore ai milanesi e ai tanti visitatori. La ristrutturazione è costata decine di milioni di euro.
11. Nessun mordente. I variopinti graffiti sulle saracinesche sono piaciuti agli autori del sito americano. Sull’argomento i milanesi hanno pareri discordi.
12. Nessuna vita culturale. Il Teatro alla Scala, uno dei più celebri al mondo: da oltre duecento anni ospita artisti internazionalmente riconosciuti. Fu inaugurato il 3 agosto 1778 con «L’Europa riconosciuta», dramma per musica composto per l’occasione da Antonio Salieri.
13. Non c'è arte. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie. Databile al 1494-1498, è la più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale.
14. Zero storia. L’espressione «Fabbrica del Duomo» è divenuta proverbiale per parlare di qualcosa che dura moltissimo tempo, perché la costruzione e la manutenzione della cattedrale di Milano sono un processo infinito. La Veneranda Fabbrica del Duomo fu istituita nel 1387, con il compito di provvedere all’amministrazione, alla conservazione e alla disponibilità per il culto del Duomo.
15. Davvero una pessima moda. Milano vuol dire moda. Assieme a New York, Londra e Parigi, è tra le capitali più importanti dell’industria del fashion. E gli americani questo lo sanno benissimo: alla Settimana della moda le star non mancano mai.
16. E assolutamente nessun senso per lo stile. Che i milanesi abbiano un sesto senso per la moda lo si può capire anche dal look dei motociclisti in strada. Il sito americano approva, i milanesi si lamentano del traffico.
17. Proprio no. Un’auto d'epoca in centro.
18. Qui non succede mai nulla. Il coro e l'orchestra del Teatro alla Scala durante l'evento di apertura di Expo 2015 in piazza Duomo.
19. Non c'è nessun posto dove andare nel fine settimana. Lago di Como, a circa 50 km da Milano
20. L'architettura è noiosa. Il Bosco Verticale, a Porta Nuova, progettato da Stefano Boeri, che si è aggiudicato l’International Highrise Award 2014 vincendo su 800 grattacieli di tutti i continenti.
21. Non hanno proprio immaginazione... Le Residenze Zaha Hadid a CityLife. L’architetto anglo-iracheno ha anche progettato lo «Storto», il secondo grattacielo di CityLife - 44 piani per 170 metri di altezza - che sarà pronto entro il 5 ottobre 2016. Il «Dritto», la torre Isozaki, aspetta i tremila dipendenti di Allianz (arriveranno nel 2017).
22. È datata. La Torre Unicredit, 239 metri di altezza, è collocata a ridosso di corso Como e della Stazione Garibaldi. Cuore del complesso è la piazza Gae Aulenti. È stata progettata dall’architetto César Pelli ed è sede della direzione generale di UniCredit. Tutt’altro che datata, è stata inaugurata l’11 febbraio 2014.
23. Il tutto è semplicemente orribile. E qui vien quasi voglia di dar ragione al titolo: risente proprio dello stile del Ventennio la «porta urbana» che, secondo il proposito dei progettisti, avrebbe segnato il passaggio dall’antica alla nuova città. Ma evidentemente agli autori del sito americano è piaciuto anche l’Arengario, palazzo costruito negli anni Trenta su progetto degli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti e Griffini e sopravvissuto ai bombardamenti del 1942. Ora ospita il Museo del Novecento.
24. Urta i miei sentimenti. Lo skyline di Porta Nuova: a sinistra il Diamante.
25. Davvero, vorresti andarci? L’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II.
26. Vorresti passeggiare per queste strade? Il nome Brera deriva da braida: terreno incolto, ortaglia. Oggi questo quartiere pullula di negozi, bar, ristorantini. E di tanti, ma davvero tanti, turisti.
27. Sederti su questa fontana? La «torta degli sposi» in piazza Castello, ricostruita dopo i lavori per la linea 1 della metropolitana. Il Castello Sforzesco, fondato da Galeazzo II Visconti, venne ricostruito da Francesco Sforza nel 1450, che affidò al fiorentino Antonio Averlino il compito di realizzare la spettacolare torre dell’orologio. Una curiosità: alla fine dell’Ottocento si pensò seriamente di abbatterlo per sostituirlo con una fila di palazzi residenziali. Alla fine venne salvato dall’intervento (provvidenziale) di Luca Beltrami che ne curò poi anche la ristrutturazione.
28. Guidare attraverso questo arco? In effetti non si può passare in auto sotto l’Arco della Pace, ma si vede che agli americani l’idea piace. La costruzione dell’Arco della Pace, progettato nel 1807 da Luigi Cagnola, fu interrotta dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo; venne terminata per volontà di Francesco I d’Austria. È uno degli ingressi del Parco Sempione, e tutta l’area circostante è pedonale.
29. Dovresti essere pazzo per voler vivere in un posto del genere! Via della Spiga, una delle zone più lussuose e centro dello shopping dell’alta moda a livello mondiale. Sono in pochi quelli che possono dire di viverci.
30. Quindi credimi quando dico: non visitare mai Milano! Perché è la peggiore in assoluto! La carrellata si conclude con un’immagine tipica di turisti in piazza Duomo: un invito per i cittadini americani.
INVECE NO! TUTTI UGUALI. ROMA –MILANO, ITALIA. cOME NEL '92.
Questa volta nel mirino di Crozza finisce Mario Mantovani, il vicepresidente della regione Lombardia (ed ex assessore alla salute) finito in manette proprio poco prima di partecipare alla "giornata della legalità". come chiosa il comico genovese. “Oggi a Milano hanno arrestato il vicepresidente della Regione Lombardia, ex assessore alla sanità. Doveva partecipare alla giornata della trasparenza e della legalità, ma è stato arrestato "un secondo prima". Voi avete mafia capitale e a Milano abbiamo sanità criminale”, scherza il comico nella copertina Di Martedì del programma di La7 del 13 ottobre 2015, in onda su La7, condotto da Giovanni Floris. Quanto all'accusa di aver truccato gli appalti per il servizio di trasporto dei malati in dialisi, commenta "Di fronte a questo gli scontrini di Marino sono bazzecole", dice Crozza. «Voi avete Mafia Capitale a Roma e noi Sanità regionale. Tu mi dirai cosa c’entra? Da voi è Cosa Vostra, da noi Cosa Nostra, il bicamorrismo è perfetto». Crozza ha notato che l'accusa rivolta al vice presidente della Regione guidata da Bobo Maroni è quella di aver fatto "la grana sui dializzati". Se ne conclude che "mentre al Nord fottevano i malati, a Roma fottevano il medico", con riferimento alle dimissioni di Ignazio Marino: Marino come dottor House, solo che il bastone al momento non gliel'hanno messo proprio in mano. (...) Ieri al Campidoglio 2000 persone chiedevano a Marino di restare. Tutta gente che era stata a cena con lui, tra l'altro. Quindi un passaggio su "Sabrina Ferilli che fa il caxxiatone al Papa" e sulle idee del Premier per il post Marino nella Capitale: Renzi vuole sostituire Marino con 1 commissario e 8 sottocommissari. 9 al posto di 1, vedi che il Jobs Act funziona! Su Marino: «La data per le dimissioni ufficiali è il 2 novembre, il giorno dei morti. E’ sfigato, dai non gliene va bene una».
Se Roma Piange, Milano non ride. Maroni farebbe bene a dimettersi, scrive “On Line News”. Se Roma piange Milano non ride, espressione consunta ma tremendamente efficace. Mettiamo pure da parte il luogo comune ma la situazione si fa veramente difficile, la corruzione sembra una pianta inestirpabile che condizione sempre più la politica. Certo dove ci sono i grandi affari si sono i corrotti, i corruttibili e i corruttori. Milano e Roma in prima fila. Ma si poteva ragionevolmente pensare che la storia avesse insegnato qualcosa. Invece ci cascano tutti e gli sviluppi della corruzione scoperta, del malgoverno, del malaffare, trascinano a fondo la politica e i politici. Che reagiscono in modo diverso. Ma sostanzialmente lasciano malvolentieri incarichi e poltrone, come se la colpa fosse di altri, o almeno condivisa. Pochi che si facciano da parte spontaneamente. Marino è rimasto aggrappato al suo scranno come una cozza, si è fatto massacrare e difficilmente, al di là delle utopie, avrà un futuro politico. Maroni, presidente della regione Lombardia rischia di essere trascinato nello stesso vortice. Si fosse presentato alla stampa con le dimissioni in tasca con un discorsetto del tipo: non potevo non sapere e se non me ne sono accorto sono un pessimo presidente. Sarebbe stato un atto di dignità che gli avrebbe procurato applausi, consensi e lo avrebbe tenuto in partita. Così come si sta comportando, invece, rischia grosso. Credibilità a picco, palla nel campo avversario, demolizione mediatica. Provare per credere.
Mantovani e le tangenti in Lombardia. l’ira di Salvini, che si autodenuncia «Segnalavo associazioni benefiche». Il leader leghista: a Garavaglia accuse assurde, colpiti perché cresciamo, scrive Marco Cremonesi su “Il Corriere della Sera”. «Sono stanco. Stanco e inc...». Matteo Salvini è in tour per l’Emilia. Il tono è secco, molto più cupo del solito:
«Sa che faccio? Mi autodenuncio. Sono colpevole».
E di che cosa?
«Di segnalazione. Al posto di Garavaglia, lo avrei fatto anche io. Anzi, l’ho fatto: da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò».
Il segretario leghista sta arrivando a Parma per un comizio. Salvini mette fuori dal finestrino dell’auto il telefonino, si sentono rumoreggiare dei cori. Sono leghisti festanti? No, sono militanti dei centri sociali:
«Li sente? - grida Salvini nel telefono - sono i democratici urlanti e lancianti che cercano di impedirmi di parlare. Poi, però, chi viene indagata è una persona come Garavaglia perché avrebbe segnalato un’associazione di ambulanze. Senza prendere un euro, beninteso. Pazzesco, pazzesco...».
Secondo
la procura di Milano, Garavaglia avrebbe agito per mantenere o aumentare il suo
consenso elettorale. Almeno come ipotesi, è ammissibile. O no?
«Macché, mi faccia il piacere... Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una
persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su
uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca».
Lui ha detto che ci deve essere un errore. Lei non la pensa così?
«Di nuovo, mi faccia il piacere... Guardi, giusto ieri (lunedì) ero stato un facile profeta. Al consiglio federale della Lega avevo detto: ragazzi, visto che siamo in crescita, prepariamoci. I sondaggi ci danno al 15,2 per cento e per fermarci le proveranno tutte. E in effetti, eccoci qui. Un’inchiesta che segna un primato».
Quale primato?
«È la prima indagine al mondo in cui si accusa una persona di aver cercato di dare una mano ad un’associazione benefica. Peraltro, senza riuscirci. Per l’ufficio di Garavaglia passano qualcosa come venti miliardi di euro».
Beh, la proroga dell’incarico all’associazione Croce azzurra Ticinia la avrebbe comunque favorita.
«Ma quale favorita, se poi non ha vinto? Comunque, ripeto: io l’avrei fatto e lo rifarei. Se c’è una Croce di qualsiasi colore, un’associazione che conosco e stimo, per farli partecipare a un bando io telefono anche al presidente della Repubblica».
La vicenda di Mantovani è altrettanto irrilevante, dal suo punto di vista?
«Non mi permetto di commentare l’indagine che riguarda Mantovani. E peraltro non ne so nulla, anche se lui mi pare una brava persona. In ogni caso, quella sembra un cosa diversa, che non riguarda l’aiuto alle ambulanze. Per quanto mi riguarda, mi permetto soltanto di dire che sono vicino a un padre a cui è nato un figlio dieci giorni fa (il capo di gabinetto dell’assessorato alla Sanità, Giacomo Di Capua), per un qualcosa che riguarda fatti che risalgono come minimo a un anno fa».
Insomma: un complotto?
«Beh, nel passato già ci hanno provato. Si ricorda
quando per due anni hanno cercato dei soldi che ci avrebbero dato degli indiani
per degli elicotteri. Poi, l’inchiesta (quella su Finmeccanica ndr ) è stata
archiviata. Perché non c’erano soldi, non c’erano indiani, non c’erano
elicotteri».
Ma quale sarebbe lo scopo?
«A qualcuno dà fastidio la sanità lombarda. Un solo numero: l’anno scorso in Lombardia sono venute da altre regioni per farsi curare tante persone da fare 872 milioni di fatturato. Un record europeo. Chissà, forse un po’ d’invidia...».
Scusi, che c’entra l’invidia?
«Massì, e allora la dico più chiara: forse qualcuno vuole coprire e far dimenticare i problemi del Pd e di Ignazio Marino? E Montepaschi? Nessuno ha pagato, tranne gli italiani. La Lombardia è la Regione meno costosa per i cittadini. E a qualcuno dà fastidio che la Lega, il partito delle ruspe e delle felpe, sia al governo nelle Regioni che producono il 30 per cento del Pil».
Come cambia Salvini se lo scandalo è a Roma o a Milano. Il leader della Lega tuona contro i giudici: "Si tratta di un attacco politico per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino". Il tutto a pochi giorni dalle dichiarazioni del governatore Maroni, che vede nel numero uno del Caroccio un buon candidato per la poltrona di sindaco di Milano, scrive Selene Ciluffo il 14 Ottobre 2015 su Today. Dopo l'arresto del vicepresidente della regione Lombardia, uno dei primi a schierarsi a fianco di Mario Mantovani è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Lo fa "berlusconianamente" apparendo su tutti i media possibili (dalle televisioni ai giornali) e prendendosela con i giudici: "Un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia magari per nascondere i problemi del Pd e le cene di Marino e Renzi. C’è stata una giornata di sputtanamento mediatico sulla migliore sanità europea e anche sulla Lega". Per questo secondo il leader del Carroccio la giunta lombarda non sarebbe a rischio, nonostante la mozione di sfiducia pronta di Pd e M5s. D'accordo con lui anche il governatore Roberto Maroni: "Salvini ha ragione, si tratta di un attacco politico". Mantovani è accusato di corruzione per aver favorito un architetto, Gianluca Parotti, nell’ottenimento di incarichi in appalti pubblici, compresi lavori in diversi ospedali lombardi, in cambio di prestazioni gratuite nei propri affari immobiliari privati. La Lega fa quadrato intorno a un berlusconiano di ferro a pochi mesi dalle elezioni comunali milanesi, previste per la primavera del 2016. E quando si è parlato di un possibile candidato, Lega e berlusconiani si sono trovati d'accordo su un nome: Matteo Salvini. Ovviamente la procura milanese la pensa in maniera diversa dal leader della Lega: per il pm Giovanni Polizzia, l'unico modo per "interrompere il funzionamento della concatenazione delittuosa" è quello di "neutralizzare Mantovani". Parole pesanti, sottoscritte anche dal gip Stefania Pepe, nelle carte dell’inchiesta che ha portato all’arresto del vicepresidente della regione Lombardia. La sua sarebbe una "fittissima rete di relazioni" da cui risulta "evidente che l'unica misura effettivamente in gradi di prevenire sia la commissione di nuovi delitti che, soprattutto, le attività di condizionamento ed intervento sulla genuinità delle prove (già peraltro avviate) sia quella massima della custodia cautelare in carcere”. Il leader della Lega è anche entrato nel merito dell'inchiesta della procura, prendendo le difese anche di Massimo Garavaglia, assessore regionale all’Economia e braccio destro di Maroni. Garavaglia è indagato per turbativa d’asta, insieme a Mantovani e altri, nel filone di una gara d’appalto per il trasporto dei dializzati, cancellata a esito già stabilito, secondo l’accusa per far rientrare in gioco alcuni operatori delle Croci con sede nei bacini elettorali dei due politici. Salvini usa i social per schierarsi con gli indagati. “Da consigliere comunale nel corso degli anni ho segnalato decine e decine di associazioni benefiche. E non mi ravvedo: lo rifarò”. In realtà secondo la procura di Milano Garavaglia non ha semplicemente fatto delle segnalazioni, ma si sarebbe adoperato per annullare una gara d’appalto già assegnata per il servizio di trasporto dei malati di reni bisognosi del trattamento di dialisi. Ma questo al leader della Lega non interessa: “Massimo Garavaglia è il migliore tra noi, una persona che tutti conoscono come specchiata. Questa è un’indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti che io conosca”. Per Salvini si tratta di una vera e propria campagna, visto che il Carroccio, in particolare negli ultimi mesi, ha aumentato i propri consensi nei sondaggi e di conseguenza "la giunta non deve dimettersi". Diversa invece era stata la reazione di Salvini quando lo scandalo aveva coinvolto la giunta e la città di Roma. Dopo lo scandalo di Mafia Capitale, Salvini aveva marciato sul Campidoglio chiedendo a gran voce le dimissioni del sindaco Marino. Non solo: in merito all'amministrazione capitolina, il leader della Lega non ha mai negato la necessità di "onestà, trasparenza e pulizia". Parametri però che non vengono applicati alla giunta lombarda, fatta secondo il leader del Caroccio da "brave persone". Eppure qualche dubbio la procura milanese su questo lo ha avuto: tanto da far scattare dei provvedimenti cautelari, come gli arresti domiciliari.
Tangenti nella sanità, arrestato il numero due del Pirellone Mario Mantovani. Uomo forte di Berlusconi in Regione, ex senatore e fino ad agosto assessore alla sanità. È accusato dei reati di concussione e corruzione aggravata. Indagato anche il Richelieu di Maroni, il leghista Massimo Garavaglia, scrive Michele Sasso il 13 ottobre 2015 su “L’Espresso”. Un terremoto scuote il Pirellone: arrestato Mario Mantovani, numero due in Regione Lombardia a fianco di Roberto Maroni e fino ad agosto potente assessore alla sanità. Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ha comunicato che è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Mario Mantovani per i reati di concussione, corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti. Arrestati, per gli stessi reati, Giacomo Di Capua, collaboratore di Mantovani e dipendente regionale, e Angelo Bianchi, ingegnere del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Lombardia e la Liguria. Nell’ambito della stessa indagine è indagato per turbativa d’asta anche l’assessore all’Economia della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, ex parlamentare della Lega e potente Richelieu di Maroni: ogni decisione della giunta passa dalla sua approvazione. L'inchiesta riguarda il periodo tra il 6 giugno 2012 e il 30 giugno 2014 per tangenti negli appalti della sanità. In quel periodo Mantovani faceva la spola tra Roma come senatore e sottosegretario ai Trasporti nel governo Berlusconi e la sua città natale Arconate, dove ha fatto il sindaco ininterrottamente dal 2001. Solo nel 2013 ha lasciato la Capitale per diventare vicepresidente della regione Lombardia. Secondo il pubblico ministero Giovanni Polizzi, Mantovani avrebbe sfruttato l’influenza derivante dalle sue numerose cariche per pilotare alcune gare d’appalto nel settore sanitario, favorendo liberi professionisti in concorso con altri pubblici ufficiali e ottenendo in cambio «mazzette» non sotto forma di denaro, ma di prestazioni di professionisti. Arrivando al Senato, il presidente di Forza Italia commenta la notizia dell'arresto per corruzione di Mario Mantovani, vicepresidente della Regione Lombardia ed esponente di spicco dei forzisti a Milano di Marco Billeci e Angela Nittoli. Per esempio, avrebbe ottenuto che i lavori di ristrutturazione di alcuni immobili di sua proprietà venissero realizzati da un architetto «amico», che in cambio avrebbe ottenuto alcuni incarichi pubblici e vinto alcune gare d’appalto. L’accusa di turbativa d’asta deriva dal fatto che Mantovani avrebbe contribuito a pilotare gare pubbliche relative tra l’altro al trasporto di pazienti dializzati, all’edilizia scolastica e alle case di riposo. Nell’elenco sono finiti anche la casa di riposo Opera Pia Castiglioni a Cormano e la struttura di Casorezzo. Entrambe controllate dall’impresa di famiglia, la fondazione Mantovani (in memoria della sorella Ezia, Mario è presidente), e poi appartamenti e uffici ad Arconate, la cascina dove abita il politico e immobili di alcuni familiari. Secondo l’accusa avrebbe anche fatto pressioni a un dirigente del provveditorato alle Opere pubbliche per far ottenere incarichi a persone a lui vicine. Tra politica e business, Mantovani è l’uomo forte di Forza Italia: è stato il più votato dai lombardi (quasi 13mila preferenze nel 2013), tanto da autodefinirsi “sindaco di Lombardia”. Partito dal comune dell’hinterland milanese di Arconate, ha costruito da qui la sua carriera politica e imprenditoriale: 65 anni, docente, imprenditore, europarlamentare. Nel 2008 il grande salto a Roma come senatore e sottosegretario alle Infrastrutture e trasporti. E allo stesso tempo coordinatore del Popolo della Libertà per tutta la regione-simbolo del potere degli azzurri. Negli affari il core business di questo epigono di Berlusconi è proprio la sanità, come raccontato da “l’Espresso” alla vigilia della campagna elettorale che ha portato Roberto Maroni all’ultimo piano di Palazzo Lombardia. Di Mantovani si è parlato per un conflitto d'interessi, visto che i suoi affari di famiglia prosperano grazie anche ai contributi della Regione. Gli assi nella manica sono la fondazione Mantovani e la cooperativa Sodalitas, dove siede come presidente del consiglio di amministrazione la moglie Marinella Restelli. L’attività principale è la progettazione, costruzione e gestione della residenze socio assistenziali, le Rsa per anziani. Già nel 1996 dalla giunta guidata dal compagno di partito Roberto Formigoni arrivano oltre 14 milioni dai fondi sanitari come strutture accreditate per la cura degli anziani: la Regione rimborsa con soldi pubblici una quota della retta giornaliera. Nelle voci a bilancio anche 4 milioni e 300 mila euro a fondo perduto per costruire "infrastrutture sociali" proprio ad Arconate. A San Vittore Olona nel 1997 la fondazione acquista dalla parrocchia locale il diritto di superficie per 40 anni, grazie all'imprimatur del Pirellone che certifica con una delibera che il progetto «è finalizzato alla realizzazione di una Rsa per 60 anziani non autosufficienti». L'affare delle case di riposo si allarga e vengono inaugurate nuove strutture, tutte nel milanese. Nel 2003 la casa famiglia di Affori, periferia nord di Milano, e a pochi chilometri un altro centro a Cormano. E poi l'Hospice di Cologno Monzese con posti letto ad hoc per malati terminali e centro diurno. Gli affari non si arrestano neppure con le inchieste della magistratura che svelano la corruzione milionaria della sanità lombarda e travolgono l’ex governatore Roberto Formigoni: ad aprile 2012 altri 40 posti per il centro di Cormano. Oggi i posti letto sono oltre 400, un piccolo impero di residenze che ha permesso alla cooperativa Sodalitas di chiudere il bilancio 2011 con un giro d'affari di 18 milioni e utili per 687 mila euro. A conti fatti la Regione ogni anno stacca un assegno da 6 milioni di euro per le due creazioni di Mantovani. E nessun dubbio quando è stato il momento di decidere a chi assegnare l’assessorato alla sanità, una poltrona cruciale dove si decidono finanziamenti per quasi 8 miliardi di euro. L’uomo forte di Berlusconi doveva fare il custode di questo tesoretto.
Il tuttofare del potente politico forzista si dovrà occupare di: "analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici". Peccato abbia solo il diploma e nessuna competenza in materia, scrivono Marzio Brusini ed Ersilio Mattioni il 21 luglio 2014 “L’Espresso”. Mario Mantovani, vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla Sanità, ha garantito una consulenza da 16 mila euro per il suo autista-segretario, il 21enne Fabio Gamba, per occuparsi di “analisi dei costi delle spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera, oltre che presidio ai tavoli tecnici”. C'è da chiedersi con quali competenze. E infatti è lo stesso Gamba il 6 maggio scorso in un comune alle porte di Milano, Arconate, a svelare l'arcano: “Non ho nessuna esperienza - dice - e questo potrebbe essere apparentemente un problema, ma in realtà fortunatamente so di poter contare sulla competenza e sull’esperienza del nostro fuoriclasse, Mario Mantovani”. O più semplicemente basta essere il vicepresidente della Regione, per procurare al proprio autista-segretario un incarico. Non di certo il primo perché già nel 2013, il “fuoriclasse” Mantovani assicura al suo tuttofare una consulenza, da maggio a dicembre, per 10 mila euro per svolgere mansioni ancora oggi avvolte nel mistero. Il sito web di Regione Lombardia, alla voce consulenze, non brilla per trasparenza e l’interessato, interpellato all’epoca dei fatti, aveva risposto in modo evasivo: “Lavoro nello staff del vicepresidente”. "Non ho nessuna esperienza, ma so di poter contare sul nostro fuoriclasse, Mario Mantovani". Chi parla è Fabio Gamba: 21 anni, diplomato al liceo di Arconate e autista dello stesso Mantovani. L'occasione per questo discorso è la presentazione, lo scorso 6 maggio, di una lista per le elezioni comunali. Dopo Gamba a prendere la parola è lo stesso Mario Mantovani, assessore della Sanità e vicepresidente forzista della Lombardia, che ricorda come lui preferisca "segnalare la gente di Arconate". Detto, fatto: l'autista tuttofare, senza alcuna competenza, ha ottenuto una consulenza al Pirellone da 16 mila euro per "analisi dei costi della spesa farmaceutica territoriale ospedaliera, oltre che presidio tavoli tecnici"di Ersilio Mattioni. Anno nuovo, consulenza nuova. Ed ecco il nome di Gamba compare ancora nell’elenco degli incarichi fiduciari, ai sensi della legge regionale 20 del 2008. La normativa, 57 pagine, regola ogni tipo di rapporto di lavoro dentro il Pirellone. Leggendo il testo ci si imbatte decine di volte nelle parole “merito”, “controllo” e “trasparenza”. Fino all’articolo 23, quello relativo alle segreterie degli assessori. Il comma 7 recita testualmente: “Può essere assunto personale esterno all'amministrazione regionale”. E tanti saluti, fatta salva la competenza che deve possedere chi riceve un incarico. Nello specifico, l’autista-segretario di Mantovani dovrà dimostrare di intendersene del costo dei farmaci e pure del lavoro utilizzo negli ospedali. E vantando solo un diploma al liceo linguistico di Arconate non deve essere particolarmente facile. Il curriculum del ragazzo di bottega di Mantovani è comunque ricco di spunti interessanti. Nel 2009 è in stage “presso la segreteria politica del sottosegretario di Stato Sen. Mario Mantovani in via Giolitti 20 ad Arconate”; nel 2010 fa l’educatore al “centro vacanze giovani di Igea Marina, in provincia di Rimini”, gestito da una cooperativa della famiglia Mantovani; nel 2011 lavora nella sede romana del fu ‘Popolo della Libertà’ in via dell’Umiltà; nel 2012 presta una collaborazione occasionale in Rai, sempre a Roma, dove però nessuno si ricorda del suo passaggio. E’ iscritto all’università Bocconi di Milano, anche se gli esami, causa la sua intensa attività al fianco del vicepresidente della Lombardia, vanno un po’ a rilento. Il suo curriculum si chiude con una perla: “Ulteriori informazioni: La mia più grande passione è la Politica”. ‘P’ maiuscola, per carità. Ma per quale motivo questa grande passione deve essere spesata dai lombardi con consulenze fantasiose? Spesata dai lombardi pure la spedizione del mese scorso in terra giapponese in occasione della festa della Repubblica: tre notti a Tokyo da 2 giugno al 5 giugno. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’inchiesta sulle missioni internazionali del ‘World Expo Tour’, alle quali lavora anche Maria Grazia Paturzo, una delle due donne che il governatore Roberto Maroni avrebbe fatto assumere nella società Expo 2015 (stipendio mensile: 5 mila euro), mentre l’altra, Mara Carluccio, è finita in Eupolis, ente controllato dal Pirellone. Per i magistrati bustocchi quello di Tokyo sarebbe stato un “viaggio in stile prima Repubblica”. Di diverso avviso il capogruppo di Forza Italia al Pirellone, Claudio Pedrazzini, ex assistente di Mantovani a Strasburgo nel 1999: “Il viaggio sarebbe finito nel mirino dei magistrati. Ma sulle altre missioni analoghe nessuno ha nulla da dire?” Difesa rocciosa. Ma Pedrazzini riesce persino a peggiorare la situazione: “A quel viaggio hanno partecipato quattro persone (doveva andare il presidente Maroni, sostituito il giorno prima della partenza dallo stesso Mantovani) e il costo totale è stato inferiore ai 25mila euro”. In pratica, 6 mila euro a persona. Fra volo, alberghi e ristoranti i rappresentanti della Regione devono essersi trattati bene. Assieme all’assessore alla sanità c’era anche, non è ben chiaro a che titolo, il suo autista-segretario Gamba. Il quale, lo stesso 2 giugno, postava su Facebook una foto di Mantovani a Tokyo con tanto di messaggio del vicepresidente lombardo, che con la consueta modestia si attribuiva il merito di aver portato Expo a Milano: “Questa mattina ho preso parte alle celebrazioni per la festa della Repubblica presso l'ambasciata italiana a Tokyo, in rappresentanza della Lombardia e del nostro paese. Dopo essermi impegnato nel 2008, da parlamentare europeo, affinché Milano ottenesse l'assegnazione di Expo 2015, in questi giorni con il ‘World Expo Tour’ stiamo promuovendo con soddisfazione l'evento in tutto il mondo. Buona festa della Repubblica a tutti! Viva l'Italia!”. Gamba, interpellato il 6 giugno di ritorno dal Giappone dal cronista Paolo Puricelli del settimanale ‘Libera Stampa l’Altomilanese’ sulle spese del viaggio, aveva replicato: “Fortunatamente posso pagarmelo da solo (la famiglia Gamba-Trimboli è fra le più ricche di Arconate). Visto però il vostro interesse per i miei viaggi, la prossima volta vi manderò una cartolina”. Intanto basterebbe sapere a che titolo possa redigere un'analisi dei costi della spesa farmaceutica degli ospedali lombardi. Per le cartoline c'è sempre tempo.
Mario Mantovani e Massimo Garavaglia intercettati mentre discutevano del nostro articolo. Che aveva anticipato il nuovo business delle ambulanze., scrive Gianluca De Feo su “L’Espresso” il14 ottobre 2015. Mario Mantovani e Massimo GaravagliaI due uomini chiave del potere lombardo si scrivono via sms. Da una parte c'è il leghista Massimo Garavaglia, assessore all'Economia e braccio destro del governatore Roberto Maroni, ora indagato. Dall'altra Mario Mantovani, berlusconiano della prima ora, vicepresidente della Regione e assessore alla Sanità, da ieri in cella a San Vittore. A preoccuparli è un'inchiesta de “l'Espresso”, pubblicata a marzo 2014, che metteva in luce il cuore dello scandalo: “Assalto all'ambulanza. Fuori i volontari, il soccorso diventa un affare”. I due si stavano muovendo proprio per azzerare un appalto sul trasporto di pazienti in dialisi: undici milioni l'anno. Una torta che vede scendere sul sentiero di guerra una galassia di croci e associazioni di lettighieri, alcune professionali, altre di puro volontariato, diverse con agganci politici. Garavaglia manda quindi un messaggino a Mantovani, intercettato dalle Fiamme Gialle. «Su l'Espresso questa settimana ho trovato un articolo dal titolo Assalto all'ambulanza. Evidenzia quel che dicevamo ieri. Il servizio è ad alto rischio. Mi arriva qs per croce azzurra». La risposta è sintetica: «Sto lavorando martedì ne parliamo». E il leghista chiude la chat: «Grazie». Poche frasi, che vengono incluse nell'ordine di cattura per il numero due del Pirellone, perché secondo gli inquirenti evidenziano l'interesse di Garavaglia e le attività illecite di Mantovani per riaprire un appalto pubblico già chiuso. Una gara dove venivano richieste garanzie finanziarie e tecniche, che avrebbero tagliato fuori alcune realtà più piccole del soccorso. Come la Croce Azzurra Ticinia Onlus, sponsorizzata da Garavaglia che si sarebbe attivato con il ras della Sanità Mantovani. L'interesse dei due politici è convergente: Mantovani interviene sul vertice della Asl Milano 1 «affinché non venissero escluse Croci definite dallo stesso assessore “nostre”». A muovere la coppia di assessori ci sono interessi di campanile: le associazioni di volontariato operano nei “loro” comuni, in quell'area dell'hinterland milanese dove Garavaglia è stato sindaco e Mantovani all'epoca lo era ancora. Il sostegno alle Croci che gestiscono le ambulanze significa voti e consenso. Ma nel momento in cui le Onlus – che per definizione non dovrebbero avere finalità di lucro – entrano in affari da decine di milioni di euro, il quadro cambia radicalmente. Perché le autolettighe diventano di fatto un'azienda, che gestisce fondi e assunzioni. Proprio quello che per primo “l'Espresso” ha raccontato con l'inchiesta di Michele Sasso: “Assalto all'ambulanza. Il soccorso diventa un business. L'obiettivo non è più salvare ma incassare”. Parole che vengono sottolineate dall'assessore Garavaglia nel suo sms allarmato per l'articolo: «Fuori i volontari il soccorso diventa un affare». La nostra inchiesta descriveva la metamorfosi del settore, dove una deregulation strisciante trasforma le onlus in cavalli di Troia per le operazioni di politici e mafiosi, il tutto a danno del vero volontariato. Un'analisi confermata dalla procura di Milano: «Il problema di queste Croci è di tipo economico. Tali associazioni pur essendo state escluse dalla gara non solo vogliono recuperare l'affidamento del servizio ma lo vogliono a condizioni più favorevoli di quelle previste nella gara». Il procedimento per turbativa d'asta può apparire una storia piccola. Matteo Salvini parla di «un'indagine pazzesca su uno dei leghisti più seri e onesti. Lo accusano di avere cercato di dare una mano a un'associazione benefica». Certo. Ma questa vicenda mostra come pur di assecondare il desiderio di un assessore si arrivi a svuotare una gara di appalto pubblica già conclusa, innescando un circuito colossale di conflitti di interesse fino a raggiungere il risultato. Vengono mobilitati decine di dirigenti regionali e funzionari delle Asl per garantire incassi di poche migliaia di euro alla Croce Azzurra Ticinia tanto cara a Garavaglia. E proprio seguendo le mani che si sono mosse per gestire questa pratica i magistrati hanno ricostruito gli assetti di potere nella Regione. Monitorando così i rapporti di forza tra Lega, Forza Italia e Ncd; i settori di lottizzazione e la mappa dei centri di spesa nella sanità pubblica dell'era Maroni. Un'attività di indagine che potrebbe presto portare a vicende molto più rilevanti delle ambulanze.
Sanità, il soccorso diventa business. L'obbiettivo non è salvare, ma incassare. In Italia si spendono ogni anno un miliardo e mezzo di euro per gli interventi di soccorso. Una pioggia di soldi che fa gola a politica e mafia, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Esistono mestieri in cui la professionalità non basta, ma servono una motivazione profonda e una disponibilità totale. Per questo far parte dell’equipaggio di un’ambulanza è sempre stata un’attività per volontari, animati dallo spirito degli angeli custodi. Ogni chiamata al 118 è questione di vita o di morte, una corsa che in pochissimi minuti decide il destino di una persona. Il paziente è nelle mani dell’abilità del guidatore a destreggiarsi nel traffico, della capacità del personale nel massaggio cardiaco e nella rianimazione. Adesso invece anche il soccorso d’emergenza sta diventando un ricco business: in Italia si spende un miliardo e mezzo di euro per garantire gli interventi. Oggi si punta al profitto, tagliando sulla qualità, risparmiando sui mezzi e imbarcando soggetti senza qualifica. Una torta che attrae interessi spregiudicati e lottizzazioni politiche, un serbatoio di soldi facili e posti assicurati. Perché il settore di fatto è stato investito da una deregulation, che rischia di creare un Far West a sirene spiegate. Il ministero della Salute ha ceduto i controlli alle Regioni, che preferiscono affidarsi ai privati. Dalla Lombardia alla Calabria, dal Lazio alla Sicilia è scattato l’assalto all’ambulanza. Nunzia De Girolamo ha perso la poltrona di ministro proprio per uno scandalo sugli appalti del 118. Ovunque sono segnalati disservizi e a Sud nella mangiatoia si è infilata persino la criminalità. Questo ai danni di oltre 150 mila volontari, che vengono scacciati per fare spazio a organizzazioni spregiudicate. «Ci sono finti volontari che ricevono lo stipendio in nero mascherato da rimborso», spiega Mario, soccorritore di Torino. Il metodo è uguale da Milano a Napoli: le associazioni di pubblica assistenza, le cosiddette “Croci”, si iscrivono all’albo regionale e sgomitano per accaparrarsi le corse. L’obiettivo non è più salvare, ma incassare. «Abbiamo scoperto persino casi di autisti alcolizzati e soccorritori zoppi», racconta Mirella Triozzi, responsabile del settore per il sindacato medici italiani: «Con l’arrivo dei privati il soccorso è diventato un colossale affare, dimenticando che in ballo c’è la sopravvivenza di migliaia di persone». In Puglia le 141 basi delle ambulanze costano 68 milioni di euro l’anno. La pioggia di denaro pubblico ha scatenato la concorrenza tra decine di onlus, che sgomitano per conquistare le postazione delle ambulanze: averne tre (il massimo consentito) significa fare bingo e incassare 120mila euro ogni mese. «Ai presidenti delle associazioni rimangono in tasca 6 mila euro al mese», riconosce Marco De Giosa, responsabile del 118 della Asl di Bari. C’è più di un sospetto su come siano stati assegnati gli incarichi: la procura del capoluogo sta indagando su un sistema di tangenti che sarebbero state smistate ai funzionari arbitri degli appalti. Stando alle inchieste, i controlli fanno acqua da tutte le parti. Nessuno ha mai chiesto la fedina penale a Marcello Langianese, ex presidente dell’Oer, Operatori emergenza radio, un ente morale con 50 ambulanze e decine di dipendenti. Langianese era il manager del soccorso che gestiva diverse postazioni tra Bari e Modugno. Mentre veniva stipendiato per salvare i pazienti, è accusato di avere architettato una rapina clamorosa. Secondo i carabinieri ha avuto un ruolo chiave nell’attacco contro un furgone portavalori nel centro di Ortona: un colpo che ha fruttato quasi due milioni e mezzo di euro. Nella regione per il business delle ambulanze si combatte persino con le bombe incendiarie, che hanno distrutto i mezzi di alcune onlus a Bari, Trani, Barletta e Foggia. A Turi, sempre nel Barese, hanno bruciato un’autolettiga nuova di zecca. L’ipotesi investigativa è che si tratti di avvertimenti criminali. Per evitare che le associazione di volontari possano spezzare il monopolio di un cartello che invece agisce solo a scopo di lucro. L’intercettazione è esplicita: «Quando ti chiamano e abbiamo bisogno a quell’orario di un’autoambulanza, mi fotto 1500 euro». È agli atti dell’inchiesta sui Lo Bianco, la cosca di Vibo Valentia che dominava la Asl locale, e spiega come ogni uscita a sirene spiegate si trasforma in denaro contante. Guadagni sicuri, costi ridottissimi: per entrare nel settore non sono richieste competenze particolari. L’imprenditore mette il capitale, acquista o noleggia i mezzi e cerca gli autisti. Va bene chiunque. Uno degli indagati è stato registrato mentre ingaggia il personale: «La guideresti l’ambulanza? La patente è quella della macchina, sono 800 euro puliti». Non è l’unico caso. Nello scorso luglio è emersa la vicenda della Croce Blu San Benedetto di Cetraro nel Cosentino. I magistrati sostengono che a gestirla fosse Antonio Pignataro detto “Totò Cecchitella”, seppur privo di incarichi ufficiali. Pignataro non è una pedina qualunque: è stato arrestato per i legami con il boss Franco Muto, “Il re del pesce”. Quanti interessi si muovano dietro i 118 “liberalizzati” lo ha fatto capire la vicenda che ha travolto Nunzia De Girolamo. Le registrazioni dei colloqui tra l’esponente del centrodestra e i vertici della sanità sannita mostrano l’opacità del settore. Sono riuniti nel giardino di famiglia e Nunzia chiede: «In tutto questo si deve fare la gara?». La discussione verte su come “bypassare la gara pubblica” e favorire un’impresa amica. In quel luglio 2012 l’atmosfera attorno alle ambulanze di Benevento è incandescente, con i lavoratori che protestano per il mancato stipendio. Il servizio è nelle mani di due imprese: la Modisan e la Sanit che lo gestiscono in proroga intascando oltre quattro milioni di euro l’anno. La prima è molto vicina alla regina del Sannio, tanto da aver contribuito finanziariamente al congresso del suo partito. L’altra ditta, invece, non è allineata: «Quelli non li voglio», dice Michele Rossi, l’uomo messo dall’ex ministro alla guida dell’Asl. La lottizzazione riguarda pure la rete dell’assistenza, sfavorendo la copertura nei comuni guidati da giunte non allineate. Come racconta Zaccaria Spina, sindaco di Ginestra degli Schiavoni a 40 chilometri dal capoluogo:«Per venire da noi l’ambulanza ci mette un’ora. I cittadini ormai si sono rassegnati e se c’è un’emergenza si mettono in auto e scappano. Scoprire cosa c’era dietro quelle scelte dà molta amarezza». Nel Lazio uno strano appalto agita i sonni dell’agenzia regionale che gestisce migliaia di ambulanze. La cronica mancanza di risorse ha portato l’ex governatrice Renata Polverini a concedere ai privati quaranta basi, le postazioni dalle quali partono gli equipaggi che coprono la provincia di Roma. Un affare da dieci milioni l’anno, senza gara: vengono assegnate per affidamento diretto alla Croce rossa italiana. Un’istituzione storica seppur piena di debiti, che decide di “girare” l’attività operativa a una srl di Milano, la Cfs costruzioni e servizi: una società specializzata in pulizia e manutenzione di immobili, che applica la logica del ribasso. Così al personale assunto per la missione capitolina viene offerto un contratto singolare: quello da animatore turistico. Soccorritori trattati come se lavorassero in un villaggio vacanze. Perché? Semplice: con questo contratto si risparmia un terzo della paga. Solo dopo un esposto del sindacato è scoppiato il caso. «In questo settore c’è il divieto di dare subappalti, eppure è quanto ha fatto la Croce rossa con l’aggravante di aver avallato condizioni di lavoro ridicole», accusa Gianni Nigro della Cgil Lazio. In Sicilia anche le ambulanze sono diventate uno stipendificio: un pronto soccorso per favorire assunzioni di massa. Nel 2002 grazie a un corso per formare i guidatori-soccorritori con prove di guida banali e surreali test di comunicazione, ben 1600 persone vennero imbarcate in una società creata da Regione e Croce Rossa per garantire il salvataggio nell’isola. Un colosso con un totale di 3300 dipendenti. Che secondo la Corte dei Conti ha prodotto uno spreco di denaro pubblico. L’allora presidente Totò Cuffaro è stato condannato a pagare un danno erariale da 12 milioni per quell’infornata di autisti e soccorritori. Troppi. E troppo costosi. In Sicilia si spende per un’autolettiga 440 mila euro l’anno, contro 100 mila della Toscana. La ragione? Molte macchine sono praticamente ferme o escono solo per tre interventi al mese. L’ultima truffa da venti milioni di euro l’ha scovata l’assessore alla Salute Lucia Borsellino: negli ultimi due anni 160 dipendenti sarebbero stati regolarmente stipendiati mentre in realtà rimanevano a casa. Oltre 600 mila ore non lavorate ma retribuite. Nonostante lo sperpero di denaro, l’assistenza non soddisfa. E la giunta Crocetta ora vuole schierare la cavalleria dell’aria: sei elicotteri, con un costo per il noleggio di 178 milioni in sette anni. Non è una questione solo meridionale. Dietro le sirene si scoprono ovunque storie di sfruttamento e drammatici disservizi. In Lombardia ogni anno il Pirellone stanzia 315 milioni per dare assistenza rapida: ogni intervento è una fattura e inserirsi nelle metropoli permette di moltiplicare i guadagni. Ma a Milano un incidente stradale ha scoperchiato un sistema marcio: l’ambulanza ha bruciato un semaforo e si è andata a schiantare. Si è scoperto che l’autista non dormiva da tre giorni. Da lì sono partite le indagini che hanno svelato quanto sia pericolosa la trasformazione del soccorso in business: precari a bordo pagati a cottimo e obbligati a turni massacranti, mezzi fuori norma, corsi d’addestramento fantasma. Tre inchieste parallele della Finanza in corso dal 2010 stanno svelando lo stesso meccanismo di truffe e peculato. Con risultati raccapriccianti: i responsabili di tre onlus - Croce la Samaritana, Ambrosiana e San Carlo - usavano il denaro pubblico destinato alle emergenze e alla formazione per le loro vacanze, per l’asilo dei figli, scommesse ai videopoker, le auto personali e perfino l’acquisto di una casa. Spese senza freno e i rischi scaricati su migliaia di feriti. Loro stessi ne erano consapevoli e dicevano cinicamente: «Se stai male non chiamare le nostre ambulanze sennò muori». Hanno collaborato Antonio Loconte, Piero Messina, Claudio Pappaianni e Giovanni Tizian.
Mantovani, la notte insonne in cella. «Io, all’inferno da innocente». In carcere non ha potuto leggere i giornali. «Sono stato molto massacrato?», chiede il vice presidente della giunta regionale ed ex assessore alla Sanità, scrive Simona Ravizza su “Il Corriere della Sera”. Le lacrime in una notte insonne, la prima a San Vittore, passata a pensare ai figli, Lucrezia e Vittorio, tutti e due chiamati a raccolta l’altra mattina, «per un abbraccio e un saluto», prima di essere portato in carcere. Quando la Guardia di Finanza martedì si è presentata all’alba a Cascina Vittoria, l’abitazione di Arconate, Mario Mantovani, il «Faraone della Lombardia» arrestato per corruzione, pensava a una perquisizione, com’era già avvenuto del resto per il suo architetto di fiducia, Gianluca Parotti: «Mai mi sarei aspettato di finire qui», dice l’ex assessore della Sanità e numero due della Regione a chi è andato a trovarlo. All’avvocato Roberto Lassini, amico di vecchie campagne contro i pm ai tempi dei processi contro Silvio Berlusconi e oggi suo legale, consegna la linea di difesa: «Sono finito in un inferno da innocente». Con gli amici politici, invece, si lascia andare all’amarezza: «La mia immagine politica è distrutta». Cella 117, Terzo raggio, quello destinato ai colletti bianchi finiti nelle grane con la giustizia, dieci metri quadrati con un letto a castello e un altro di fianco. Una mini-cucina e il bagno. La televisione sempre accesa. Ora il suo mondo è questo. Mantovani vuole seguire in diretta le notizie che lo riguardano. Non può leggere i quotidiani e chiede informazioni, il desiderio è sapere quel che si dice - e scrive - fuori: «Sono stato molto massacrato?». In tuta da ginnastica scura, le scarpe da tennis, il volto segnato di chi ha trascorso la notte in prigione. Dopo tutti i dossier scottanti che ha maneggiato come assessore alla Sanità (prima che il governatore Roberto Maroni lo silurasse), adesso sfoglia nervosamente le 216 pagine con le accuse che l’hanno portato in carcere. Per «una spiccata attività criminale», scrive la Procura. Sull’ordinanza Mantovani mette punti interrogativi, punti esclamativi e parentesi. Prima di costruire un impero di case di riposo, foraggiate con soldi pubblici, era un insegnante: e adesso - racconta chi l’ha visto - sembra un docente impegnato a correggere i compiti a casa. Uno dei suoi compagni di cella, a San Vittore da 14 anni, prepara un piatto di spaghetti anche per lui. Ma lo sguardo torna subito sulla porta d’acciaio blindata e con il finestrino. La sensazione è quella di sentirsi rovinato. Anche se Mantovani è determinato a difendersi. Tra chi l’ha incontrato in carcere c’è anche Matteo Salvini, il leader della Lega, entrato a San Vittore non tanto da politico, ma come uomo preoccupato per le condizioni di un altro detenuto, il braccio destro di Mantovani Giacomo Di Capua, anche lui agli arresti per corruzione. È diventato papà da pochi giorni. Gli amici più stretti hanno sempre definito Mantovani «un uomo a cui spari, ma non riesci a fargli uscire sangue», proprio per la sua capacità di restare impassibile in qualsiasi situazione. Ma la giornata in carcere è lunga e l’avvocato Lassini è preoccupato: «Temo per la sua tenuta psicofisica - dice -. L’ho visto provato anche se è un uomo forte. Nei suoi occhi ho trovato lo smarrimento che fu il mio 20 anni fa (Lassini fu arrestato da sindaco di Turbigo, ma poi assolto, ndr ). Quello di un innocente».
COME NEL 92. Filippo Facci su "Libero Quotidiano": "E' tornata Tangentopoli".
Ma che bell'autunno tiepido: sembra di essere tornati al 1992, quando gli arresti erano un festival e ogni regola veniva stravolta con gioia e soavità. Naturalmente non ci sogniamo nemmeno di entrare nel merito delle accuse rivolte al vicegovernatore della Lombardia Mario Mantovani (più altri sei, compresi un suo collaboratore e un ex assessore regionale leghista) anche perché dalle carte non si capisce niente, o quasi, ma contiamo che per gli inquirenti sia diverso. Se dovessimo affidarci a quanto scritto da agenzie di stampa come LaPresse - che di norma bada al succo - dovremmo infatti accontentarci di roba così: «Per il gip Stefania Pepe, Mantovani andava arrestato perché gli "interessi illeciti" suoi e "dei suoi familiari" e la "fittissima rete di relazioni che il politico vanta nel territorio di Arconate di cui è stato sindaco per oltre dieci anni (e non solo) che potrebbe essere efficacemente strumentalizzata dall' indagato sia al fine di perpetrare ulteriori illeciti che di porre in essere attività svolte ad inquinare le prove, altresì del perpetuarsi ad oggi - secondo le più recenti acquisizioni investigative - delle già accertate dinamiche delittuose"». Chiaro, no? Ma stiamo barando: avevano detto che non entravamo nel merito. Dunque, a proposito di manette e clima da revival, limitiamoci a notare che:
1) Mantovani è stato arrestato all' alba a casa sua, ma fuori c'erano già cronisti e fotografi ad attenderlo: l'hanno anche salutato. Significa che lo sapevano da almeno la sera prima. Bello, bravi, la gente deve sapere.
2) Secondo quanto riferisce il suo legale, l'arresto è di ieri mattina all' alba, appunto: ma la richiesta del pm risale al settembre 2014. Più di un anno per la convalida. E dopo più di un anno, beh, non c'era altra strada che scegliere proprio il giorno in cui Mantovani doveva aprire i lavori della «Giornata della Trasparenza» organizzata dalla Giunta e dal Consiglio regionale. Niente di strano che il presidente Roberto Maroni, che doveva intervenire, abbia cambiato programma.
3) E niente di strano che le manette abbiano eccitato i Cinque Stelle tipo il capogruppo Dario Violi, che col suo bell'accentone di Costa Volpino (Bergamo) si è presentato al convegno con una mezza cassa di arance da associarsi tipicamente alla galera di Mantovani: senza sapere tra l'altro - come pochi sanno - che in carcere le arance sono proibite, al pari di angurie e banane. Senza sapere, in realtà, nulla di quanto andava succedendo. Ma c'erano le telecamere. È bastato.
4) Quanto alla necessità dell'arresto («extrema ratio») passa la voglia di occuparsene, ormai. Mantovani non era più un assessore «pesante» da tempo, si era dimesso dall'assessorato alla Salute (fulcro dei presunti illeciti, da quanto inteso) ed era soltanto assessore ai Rapporti con l'Unione Europea, alla Programmazione comunitaria e alle Relazioni internazionali: poltrone più che altro di rappresentanza. Fa niente, l'arresto era necessario lo stesso. Anzi, le dimissioni a quanto pare lo hanno favorito. Pericoli di fuga? È un anno che si vocifera dell' arresto: e Mantovani - i cui interessi economici non si spostano dalla Lombardia - non si è mai mosso. Tuttavia le cariche pubbliche e imprenditoriali, nonché la lunga carriera politica di Mantovani, nell'ordine d'arresto vengono snocciolate come indizio sostanziale di pericolosità sociale: le carte del gip sembrano un approfondito curriculum. Non ci sono di mezzo mazzette, comunque: ci sono utilità personali accumulate in una vita da politico. Secondo l'accusa sono illecite, secondo la difesa no. Difficile cogliere la necessità di un arresto proprio ora.
5) L'arresto di Mantovani fa calare la tela sulla presunta «tregua per Expo» concessa dalla procura di Milano e considerata, più o meno da tutti, come qualcosa di assodato e soprattutto lecito: peccato che la Costituzione, nonché l'obbligatorietà dell' azione penale, non contemplino niente del genere. Fu vera tregua? L'invito alla moderazione causa Expo (palesemente benedetta da Governo, Quirinale, Confindustria, Csm e procura di Milano) ha inaugurato un'ambiguità da cui ora pare difficile districarsi. Siamo a ottobre: significa che la tregua è finita, visto che sta per chiudere anche Expo? Dunque la tregua c' era? Dunque l' azione penale può andare ufficialmente a velocità differenziata, come in realtà sappiamo benissimo che - da sempre, in Italia - possa andare non ufficialmente? Se l'arresto di Mantovani era stato richiesto più di un anno fa, significa che, senza la tregua Expo, l' avrebbero ingabbiato prima? Sono tutte domande cervellotiche e da giornalisti all' italiana: ma che il fantasma della tregua Expo purtroppo ora autorizza. Se davvero Expo ha congelato inchieste e manette, aver caldeggiato Expo potrebbe divenire un indizio di colpevolezza. Avvisati.
Caso Mantovani: sta’ a vedere che ora i pm s’inventano anche la “mafia meneghina”, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista. Chissà se nel corso dell’interrogatorio di garanzia cui sarà sottoposto oggi nel carcere milanese di San Vittore,al vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani, arrestato due giorni fa, sarà contestato anche il reato di associazione mafiosa. Non ci sarebbe di che stupirsi, ci troveremmo di fronte a una riedizione lombarda di “Mafia capitale”, una sorta di “Mafia meneghina”, insomma. Del resto, che cosa aspettarsi da un’inchiesta che i magistrati hanno voluto battezzare con il nome di “entourage”, quasi a voler processare un intero ambiente invece che singole persone? Si ha la sensazione, leggendo la corposa ordinanza di custodia cautelare, che i soliti noti hanno diffuso a piene mani ai giornalisti, che ormai, a Roma come a Milano, l’unico modello processuale possibile sia quello nel quale si perseguono i reati di mafia. Cioè il modello del maxiprocesso, nel quale si giudicano più gli ambienti e le situazioni che non – come invece vorrebbe il codice del 1989, che prevede un sistema di tipo accusatorio – il singolo imputato e il singolo reato. Ecco quindi che, nel caso di Mario Mantovani, si spendono molte pagine per elencare gli incarichi politici che nel corso del tempo il vicepresidente della Regione Lombardia ha ricoperto, quasi come se fosse strano che una persona di 60 anni si sia candidata diverse volte e diverse volte sia stata eletta (tra l’altro alle elezioni europee con il sistema delle preferenze e altrettanto alle regionali, in cui è arrivato primo tra i candidati di tutti i partiti con 13.000 preferenze). Tutto ciò evidentemente rappresenta un’aggravante, agli occhi di pubblici funzionari con carriera garantita, quali sono i magistrati. Fatto sta che, mentre a Roma stanno ancora contando gli scontrini di Ignazio Marino, per il quale nessuno tiene conto del fatto che è diventato sindaco con regolari elezioni e non con un colpo di Stato, ecco che si sgancia la bomba su Milano. Le elezioni di primavera sono servite. Se ne accorge anche la Lega (che non è proprio campionessa di garantismo) questa volta, dato che tra gli indagati spicca anche una figura di primo piano di quel partito e della Regione Lombardia, l’assessore al Bilancio Massimo Garavaglia. Il quale è indagato insieme a Mantovani per un episodio in realtà secondario, ma che ha acceso la fantasia della stampa perché riguardava il trasporto di pazienti dializzati e la richiesta che questo servizio fosse prorogato (per novanta giorni) in capo a un’associazione di volontariato prima di effettuare la gara. Una sorta di “raccomandazione”, insomma. Non certo una gara truccata. Sufficiente a giustificare un arresto? Mah. Ma c’è altro, ovviamente. E riguarda l’interessamento dell’assessore Mantovani nei confronti della carriera di un funzionario del provveditorato delle Opere pubbliche e parcelle non pagate a un architetto, che sarebbe stato compensato con qualche consulenza. È sufficiente tutto ciò per montare la panna e di conseguenza specchiarsi nelle prime pagine dei giornali al grido di “è tornata tangentopoli”? È tanto evidente il fatto che si è costruito un monumento su episodi più o meno commendevoli per creare il caso politico, che il Gip ha impiegato un anno a decidere sulle richieste di custodia cautelare, chieste dal Pm esattamente 12 mesi fa. Tanto che non c’è attività investigativa del 2015, ma fatti che vanno dal 2012 al 2014. Quanto tempo ci vorrà a far sgonfiare il soufflé? O davvero vogliamo davvero inventarci, dopo “Mafia capitale”, anche “Mafia meneghina”?
Mantovani reo di «consenso». Ecco i buchi neri dell'inchiesta. Incongruenze nelle accuse al vicepresidente della Regione Lombardia: dalle tangenti inesistenti alle «pressioni» negate dalla stessa vittima, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale. C'è una vittima presunta che nega di essere una vittima. Ci sono favori promessi e in realtà mai ottenuti. Lavori fatti per la collettività e contestati invece come vantaggi personali. Nell'inchiesta che ha sbattuto in una cella di San Vittore il vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani, vi sono indubbiamente spaccati eloquenti di un andazzo dove all'interesse pubblico si soppianta spesso quello del politico, della sua cordata, del suo bacino elettorale; e vi è altrettanto evidente il conflitto di interessi potenziale di uno stesso individuo che è businessman dell'assistenza e assessore alla Sanità. Ma vi sono anche buchi neri e incongruenze che lasciano alla difesa di Mantovani spazi ampi per una battaglia con la Procura che si annuncia aspra: a partire dalla richiesta di scarcerazione che quasi certamente l'avvocato Roberto Lassini, difensore di fiducia dell'ex senatore, presenterà dopo l'interrogatorio di oggi. Mantovani è accusato di concussione ai danni di Pietro Baratono, provveditore alle Opere pubbliche della Lombardia, per averlo costretto ad riaffidare incarichi operativi a Angelo Bianchi, un funzionario che era stato messo da parte in quanto inquisito per corruzione. A verbale, Baratono parla di «pressioni molto decise» da parte di Mantovani, ma dopo l'arresto dell'ex senatore, parlando col Giornale , ha modificato il tiro: «Non pressioni, direi consigli». Sta di fatto che Baratono si guardò bene dal denunciare le pressioni o i consigli di Mantovani, rimise Bianchi al suo posto, e ai pm spiegò: «Su Bianchi ho successivamente maturato un giudizio personale nel corso di quell'anno». «Tangenti sui dializzati», titolano ieri i giornali sull'arresto di Mantovani, affrontando il tema eticamente più delicato dell'affare, l'appalto per il servizio di trasporto pubblico dei nefropatici. In realtà, la Procura non ipotizza che siano passate tangenti, tant'è vero che a Mantovani e all'assessore Massimo Garavaglia viene contestato solo il reato di turbativa d'asta. I due sarebbero intervenuti per consentire ad alcune associazioni di volontariato della loro zona di continuare a svolgere il servizio («Te lo segnalo prima che poi ci rompono le balle che abbiamo escluso la croce azzurra», dice Garavaglia a Mantovani). E ieri al Giornale il presidente della onlus che Mantovani avrebbe «miracolato», la Ticinia, spiega: «Non abbiamo chiesto nessuna raccomandazione, abbiamo solo scritto a tutte le istituzioni che alle gare d'appalto non avrebbe potuto partecipare l'intero mondo del volontariato, che statutariamente non può svolgere servizi commerciali. E infatti noi quel servizio non lo svolgiamo più». L'accusa di corruzione mossa a Mantovani riguarda gli appalti e gli incarichi pubblici che avrebbe fatto avere all'architetto Gianluca Parotti in cambio di una serie di lavori svolti per lui dal professionista gratuitamente o a prezzo ridotto. Alcune di queste prestazioni riguardano Mantovani e i suoi familiari, ma altre sono state effettuate da Parotti a favore della collettività di Arconate. Ma Mantovani ci guadagnava ugualmente, dice il giudice, perché era il sindaco del paese e in questo modo «si avvantaggia in termini di consenso».
La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.
"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.
La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.
L'allarme dell'Antimafia: "Dalla sanità al cemento, il Nord nelle mani dei clan". Dossier della Statale di Milano sulle inchieste degli ultimi cinque anni: "Le cosche hanno successo perché danno assistenza come la mutua", scrive Enrico Bellavia su “La Repubblica”. Più veloci di chi dovrebbe contrastarle, le mafie sono già avanti. Al Nord, la "zona grigia" si è fatta "sistema", un gruppo criminale a sé, capace di entrare in relazione, anche attraverso proprie imprese, con le cosche, come con la politica, offrire servizi, ricavarne vantaggi. Un network della corruzione, una mutua della malavita con i piedi ben piantati nel mondo delle professioni e le mani ovunque. Con il vantaggio competitivo di un braccio armato pronto all'uso. Con i "facilitatori" che corrono veloci tra un summit e una seduta consiliare per blandire, minacciare, scambiare voti, consenso, incarichi e fedeltà. Lavoro: appalti e non solo. Soprattutto nel settore della Sanità, il vero eldorado. In una Regione che in assistenza impegna l'80 per cento della propria spesa contro, per esempio, il 54 della Sicilia. Analizzando dati e inchieste degli ultimi 5 anni, da Palermo a Milano, questo racconta il secondo rapporto trimestrale sulla presenza mafiosa nelle aree settentrionali, elaborato per la presidenza della commissione Antimafia dall'Osservatorio sulla criminalità organizzata dell'Università di Milano diretto da Nando Dalla Chiesa. Il rapporto viene presentato a Como, dal presidente dell'Antimafia nazionale, Rosy Bindi, e della Regione Lombardia, Antonio Girelli e da Piero Colaprico di Repubblica. "Investighiamo qui l'area della complicità e della convenienza. Quel mondo trasversale che non solo non contrasta o ne nega l'esistenza, ma spesso ricerca la mafia", spiega Rosy Bindi. "La scommessa è quella di elaborare strumenti di prevenzione che chiamano alla responsabilità le associazioni degli imprenditori e gli ordini professionali". Un focus non sull'universo rarefatto dell'alta finanza, ma un faro puntato sulla quotidianità dei colletti bianchi in permanente relazione con la schiera di apparenti dimessi manovali, ambulanti, baristi e piccoli imprenditori con quattro quarti di nobiltà mafiosa da esibire all'occorrenza. Mentre politica e magistratura dibattono a fasi alterne sull'essenza del concorso esterno, la cronaca offre l'esempio di un medico boss come Carlo Antonio Chiriaco, al vertice dell'Azienda sanitaria di Pavia, capace di controllare 780 milioni di spesa pubblica per dirottarne una parte nelle casse di Pino Neri e Cosimo Barranca. Ma anche di ospitare latitanti, procurare perizie e offrire un comodo letto a chi ai rigori della cella preferisce la libertà di movimento di un ricovero in clinica: i calabresi Pasquale Barbaro e Francesco Pelle e il casalese Giuseppe Setola. "Il modello sanitario lombardo, lo dicevamo già qualche anno fa, presentava fragilità che hanno aperto le porte a un sistema di corruzione e di mafiosità", aggiunge la Bindi. Al Nord che finge di non vedere quanto il cancro sia esteso, il rapporto ricorda che perfino i servizi infermieristici del carcere di Opera, dove era detenuto Totò Riina, sono finiti sotto lo stretto controllo dei clan calabresi e siciliani. Dalla Lombardia, Pavia e Monza soprattutto, al Piemonte e giù fino in Liguria, e poi in Emilia, nel Modenese per spingersi in Veneto, il crimine piazza bandiere ovunque. Controlla i mercati, fa shopping di aziende in crisi, si incunea nella galassia dei subappalti, costruisce a tavolino i propri "giocattoli", ditte formalmente pulite ma controllate dai mammasantissima. Il ciclo del cemento resta il business di riferimento di un'economia che non è affatto liquida, ma molto terrena, ricordano i ricercatori. Calcestruzzo, trasporti, guardianie e movimento terra. Dentro i cassoni finisce di tutto. Rifiuti speciali e pericolosi, declassificati con un tratto di penna sui documenti che dovrebbero attestarne il rischio. A chi si volta dall'altra parte, il rapporto consiglia di dare un'occhiata alla teoria di danneggiamenti, apparentemente inspiegabili. Pezzi interi di economia legale galleggiano su un mare di denaro illegale. Con la Lombardia oramai pressoché monopolio della 'ndrangheta, in gran fermento per l'Expo, il Piemonte della Tav disseminato di siti per lo smaltimento illegale dei rifiuti, la Liguria in cima alla lista per reati ambientali e l'Emilia che ha concesso ospitale asilo a mafia, camorra e 'ndrangheta. Il rapporto analizza il metodo e utilizza come paradigma la scalata a una consociata lombarda del colosso delle consegne Tnt attraverso la rete dei padroncini controllati dai boss. Quando i vertici aziendali si convincono a far fuori il clan Flachi è un ex colonnello dei carabinieri, Carlo Alberto Nardone, a elaborare la teoria del chiodo schiaccia chiodo: se vuoi liberarti di una cosca devi appoggiarti a un'altra che regoli i conti. E se l'operazione non riesce devi tenertele entrambe. C'è poi il caso del centralone telefonico della Blue Call. Alla testa dell'azienda erano rimasti vittima della sindrome Calvi, dal banchiere che era convinto di utilizzare Cosa nostra come finanziatore. Anche alla Blue Call si erano detti convinti di potere tenere testa al clan Bellocco. Fino a quando non si resero conto che i boss si erano impadroniti prima del 30 per cento e poi dell'intera azienda.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
"Il popolo italiano odia lo Stato ma non può farne a meno, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Più passa il tempo e più la corruzione aumenta, invadendo non soltanto le istituzioni locali e nazionali ma l'anima delle persone, quale che sia la loro collocazione sociale. Si chiama malavita o malgoverno o malaffare, ma meglio sarebbe dire malanimo: le persone pensano soltanto a se stesse e tutt'al più alla loro stretta famiglia. Il loro prossimo non va al di là di quella. Non pensiate che il fenomeno corruttivo sia un fatto esclusivamente italiano ed esclusivamente moderno: c'è dovunque e c'è sempre stato. Naturalmente ne varia l'intensità da persona a persona, da secolo a secolo e tra i diversi ceti sociali. Ma l'intensità deriva soprattutto dal censo: la corruzione dei ricchi opera su cifre notevolmente più cospicue, quella dei meno abbienti si esercita sugli spiccioli, ma comunque c'è ed è proporzionata al reddito: per un ricco corrompersi per ventimila euro non vale la pena, per un cittadino con reddito da diecimila euro all'anno farsi corrompere per cinquecento euro è già un discreto affare. Il tutto avviene in vario modo: appalti, racket, commercio di stupefacenti, di prostituzione, di voti elettorali, di agevolazioni di pubblici servizi, di emigranti. Può sembrare un controsenso ma sta di fatto che il corruttore ha bisogno di una società in cui operare e più vasta è meglio è. La corruzione non consente né l'isolamento né l'anarchia e la ragione è evidente: essa ha bisogno come scopo comune in tutte le sue forme di una società con le sue regole e i poteri che legalmente la amministrano. La corruzione ha la mira di aiutare alla conquista del potere e all'evasione delle regole o alla loro utilizzazione a vantaggio di alcuni e a danno di altri. Le famiglie (si chiamano così) mafiose, le clientele, gli interessi corporativi, dispongono di un potere capace di infiltrarsi. Ed è un potere che trova nei regimi di democrazia ampi varchi se si tratta di democrazie fragili e di istituzioni quasi sempre infiltrate dai corruttori. Questa fragilità democratica va combattuta perché è il malanno principale del quale la democrazia soffre. Essa dovrebbe esser portatrice degli ideali di Patria, di onestà, di libertà, di eguaglianza; ma è inevitabilmente terreno di lotta tra il malaffare e il buongoverno. Non c'è un finale a quella lotta: continua e durerà fino a quando durerà la nostra specie. Il bene e il male, il potere e l'amore, la pace e la guerra sono sentimenti in eterno conflitto e ciascuno di loro contiene un tasso elevato di corruzione. La storia ne fornisce eloquenti testimonianze, quella italiana in particolare e la ragione è facile da comprendere: una notevole massa di italiani non ama lo Stato ma desidera che ci sia. Aggiungo: non ama neppure che l'Europa divenga uno Stato federato, ma vuole che l'Europa ci sia. È assai singolare questo modo di ragionare, ma basta leggere o rileggere i testi di Dante e Petrarca, di Machiavelli e Guicciardini, di Mazzini e di Cavour. Hanno dedicato a diagnosticare questi valori e disvalori e le terapie che ciascuno di loro ha indicato e praticato per comprendere a fondo che cos'è il nostro Paese e soprattutto che cosa pensa e come si comporta la gran parte del nostro popolo.
Dante e Petrarca (più il primo che il secondo) conobbero la lotta politica dei Comuni. L'autore della Divina Commedia fu in un certo senso il primo padre della Patria, una Patria però letteraria, cui insegnare un linguaggio che non fosse più un dialetto del latino ma una lingua nazionale e la poesia dello "stilnovo" già anticipata dal Guinizzelli e dai siciliani ma creata da lui e dal suo fraterno amico Guido Cavalcanti. La loro Italia non aveva alcuna forma politica, salvo alcuni Comuni con una visione soltanto locale. Dante fu guelfo e ghibellino; alla fine fu esiliato da Firenze, ramingo nell'Italia del Nord, e ancora giovane morì a Ravenna. Che cosa fossero gli italiani non lo seppe e non gli importava. In realtà a quell'epoca non c'era un popolo ma soltanto plebi contadine o nascenti borghesie comunali la cui politica era quella delle città difese da mura per impedire ai nobili del contado e alle compagnie di ventura di invaderle. Ma due secoli dopo la situazione era notevolmente cambiata e la più approfondita diagnosi la fecero Machiavelli e Guicciardini, fiorentini ambedue. Repubblicano il primo, esiliato per molti anni a San Casciano; mediceo il secondo, uomo di corte, ambasciatore, ministro ai tempi del Magnifico, di papa Leone X e di papa Clemente VII, anch'essi rampolli di casa Medici. La diagnosi di quei due studiosi fu analoga: il popolo non aveva mai pensato all'Italia, era governato e dominato da una borghesia mercantile, specialmente nelle regioni del Centro- Nord, capace di inventare strumenti monetari e bancari che dettero grande impulso dal commercio di tutta Europa, ma privi di amor di Patria. Le passioni politiche sì, quelle c'erano e la corruzione sì, c'era anche quella, ma l'Italia non esisteva mentre nel resto d'Europa gli Stati unitari erano già sorti: in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Polonia, Austria, Brandeburgo, Sassonia, Westfalia, Ungheria e le città marinare, quelle tedesche nel Baltico e in Italia Venezia, Genova, Pisa. Il popolo mercantile in Italia c'era, era accorto e colto e condivideva il potere congiurando o appoggiando i Signori laddove esistevano le Signorie; ma gran parte d'Italia era già dominio degli aragonesi o dei francesi o degli austriaci. Il Papa a sua volta aveva un regno che si estendeva in quasi tutta l'Italia centrale salvo la Toscana ed era dominato da alcune grandi famiglie come i Colonna, gli Orsini, i Borgia, i Farnese. Ma il resto degli abitanti dello Stivale erano plebe, servi della gleba, analfabeti, con una cultura contadina che aveva ferree regole di maschilismo, di violenza, di pugnale. La diagnosi di Machiavelli e di Guicciardini non differiva da questa realtà. Anzi la mise in luce con grande chiarezza. Machiavelli però sperava in un Principe che conquistasse il centro d'Italia e sapesse e volesse fondare uno Stato con la forza delle armi, le congiure, le armate dei capitani di ventura e i matrimoni di convenienza tra le famiglie regnanti. Guicciardini faceva più o meno la stessa diagnosi ma la terapia differiva, le speranze di Machiavelli d'avere prima o poi un'Italia come Stato, naturalmente governato da un padrone assoluto come erano i tempi di allora; quel Principe, chiunque fosse, avrebbe dovuto dare all'Italia un rango in Europa e trasformare le plebi in popolo consapevole e collaboratore. Guicciardini viceversa coincideva nella diagnosi ma differiva profondamente nella terapia. Riteneva auspicabile la fondazione d'uno Stato sovrano che abbracciasse gran parte dell'Italia, salvo quella dominata da potenze straniere che sarebbe stato assai difficile espellere. Ma sperare che gli italiani diventassero da plebe un popolo con il sentimento della Patria nell'animo lo escludeva nel modo più totale. Bisognava secondo lui governare il Paese utilizzando la plebe e questa era la sua conclusione. Passarono due secoli da allora ed ebbe inizio ai primi dell'Ottocento il movimento risorgimentale con tre protagonisti molto diversi tra loro: Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ci furono alti e bassi in quel movimento e tre guerre denominate dell'indipendenza e guidate da Cavour con una diplomazia e una comprensione della realtà che difficilmente si trova nella storia moderna. Mazzini era un personaggio molto diverso: voleva la repubblica e voleva che nascesse dal basso. La sua era una forma di socialismo che aveva come strumento le insurrezioni popolari. Non insurrezioni di massa, non erano concepibili all'epoca; ma insurrezioni di qualche centinaio di persone se non addirittura qualche decina, che cercavano di sollevare la plebe contadina sperando che i suoi disagi la muovessero a combattere per una situazione migliore. Così non avvenne e le insurrezioni mazziniane non sortirono alcun effetto se non quello di allevare una classe di giovani intellettuali, studenti, docenti, che concepivano la Patria come il maestro aveva indicato. Quasi tutti erano settentrionali di nascita e fu molto singolare che questo drappello di italiani dedicati soprattutto a scuotere le classi meridionali venisse quasi tutto da Milano, da Bergamo, da Brescia, da Genova. Così furono a suo tempo i mille che mossero da Quarto verso Calatafimi. Garibaldi era una via di mezzo molto realistica e molto demiurgica tra Mazzini e Cavour. Era repubblicano come Mazzini ma disponile a trattare con la monarchia quando bisognava compiere un'impresa che richiedesse molte risorse umane e finanziarie. Questa fu l'impresa dei Mille da cui nacque poi lo Stato italiano. La corruzione certamente non c'era in quei giovani intellettuali e combattenti ma era già ampiamente diffusa in una società che aveva pochi capitali e doveva utilizzare nel proprio interesse quelli che il nuovo stato metteva a disposizione e che forti imprese bancarie e manifatturiere straniere investirono sulla nascita dell'Italia e della sua economia. Portarono con sé, questi capitali, una corruzione moderna che è quella che conosciamo ma che allora ebbe il suo inizio nelle ferrovie che furono costruite per unificare il territorio, nell'industria dell'elettricità e in quella dell'acciaio e della meccanica. Emigrazione da un lato, corruzione dall'altro, queste furono le due maggiori realtà italiane tra gli ultimi vent'anni dell'Ottocento e la guerra del 1915 che aprì una fase del tutto nuova nel Paese. Non voglio qui ripetere ciò che ho già scritto in altre occasioni ma mi limito a ricordare che Benito Mussolini fu uno degli esempi tipici del fenomeno italiano. Personalmente era onesto, aveva tutto e quindi non aveva bisogno di niente; ma i suoi gerarchi erano in gran parte corrotti e lui lo sapeva ma non interveniva perché quella corruzione a lui nota gli dava ancor più potere, li teneva in pugno e li manovrava come il burattinaio fa muovere i burattini. Disse più volte che senza la dittatura l'Italia non sarebbe stata governabile e che governare il nostro Paese era impossibile e comunque inutile.
Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.
TRENORD: IL RACKET DEI BIGLIETTI.
Treno deraglia, i precedenti, scrive il 25/01/2018 "AdnKronos". Con bilancio provvisorio di tre morti e decine di ferite, di cui alcuni in condizioni molto gravi, l'incidente avvenuto nel milanese tra Segrate e Pioltello, che ha coinvolto un treno della Trenord, è l'ultimo di una serie di disastri, alcuni molto gravi, avvenuti in passato sulle linee ferroviarie italiane. Di seguito i precedenti:
12 LUGLIO 2016. E' di 23 morti e oltre 50 i feriti il bilancio dell'incidente ferroviario che avviene nelle campagne tra le stazioni di Corato e di Andria, al 51esimo chilometro della linea Bari-Barletta. Due treni si scontrano in un tratto caratterizzato dalla presenza di un singolo binario. A provocare l'incidente la mancata comunicazione tra i due capistazione, che si sarebbero dovuti sentire telefonicamente per autorizzare la partenza dei treni.
6 MARZO 2014: Quattro persone restano ferite gravemente dopo un incidente ferroviario avvenuto tra Gimigliano e San Pietro Apostolo, in provincia di Catanzaro. Da una prima ricostruzione, un treno dei pendolari che viaggiava verso Soveria Mannelli si è scontrato con un locomotore diretto a Catanzaro.
12 APRILE 2010: E' di 9 morti il bilancio delle vittime nell'incidente ferroviario avvenuto nel Meranese, in Alto Adige, nel tratto fra Castelbello e Laces. I feriti Ricoverati presso gli ospedali locali sono 27.
29 GIUGNO 2009: Sono 32 i morti del disastro ferroviario avvenuto intorno a mezzanotte alla stazione ferroviaria di Viareggio (Lucca). Un carro cisterna con Gpl di un treno merci è deragliato esplodendo nei pressi della stazione e investendo le case vicine.
22 GIUGNO 2009. Due carri di un treno merci deragliano fra Vaiano e Prato. Fortunatamente, nessuna persona rimane ferita ma forti sono i ritardi e i disagi per la circolazione ferroviaria.
19 MAGGIO 2009. I due vagoni terminali di un treno merci deragliano nella stazione di Sesto Calende, in provincia di Varese. Uscendo dai binari, i vagoni scagliano il pietrisco della massicciata sulla banchina, dove sono presenti alcuni viaggiatori. Tre persone rimangono ferite in modo lieve.
3 GIUGNO 2008. Trenta persone rimangono ferite nello scontro, avvenuto nella stazione di Ancona, fra un treno regionale Pesaro-Termoli, che viaggia sul terzo binario, e una motrice che sta facendo manovra sullo stesso binario. I passeggeri riportano soprattutto lievi contusioni e rimane ferito anche il macchinista.
17 LUGLIO 2007: Tamponamento fra treni alla stazione di Lecco. Un treno in arrivo da Milano, diretto in deposito sul binario sei, passa accidentalmente sul binario cinque andando a tamponare un altro convoglio. Feriti tre ferrovieri e due viaggiatori.
15 GIUGNO 2007. Scontro tra un treno merci e una littorina nel nuorese, vicino Macomer, nella tratta tra Birori e Bortigali. Il bilancio dell'incidente è di tre morti e otto feriti.
20 DICEMBRE 2005. Un treno regionale proveniente da Campobasso imbocca un binario già occupato da un altro convoglio e travolge letteralmente l'ultima carrozza di un treno diretto a Caserta. L'impatto, a Roccasecca nei pressi di Frosinone, è fortissimo. Alla fine si conteranno due vittime e decine di feriti.
7 GENNAIO 2005. E' di dieci morti e di oltre 50 feriti il bilancio dell'incidente ferroviario avvenuto, poco prima delle 13, in località Bolognina di Crevalcore, nella pianura bolognese. Un cargo merci si scontra con l'interregionale 2255, partito da Verona alle 11.39.
13 SETTEMBRE 2004. E' di due morti e trenta feriti il bilancio dell'incidente avvenuto al treno regionale 4441 della linea ferroviaria Cuneo-Torino che transita nei pressi di Madonna dell'Olmo.
20 MARZO 2004. E' di una vittima, una donna francese morta durante il trasporto in ospedale a bordo di un elicottero, e di 23 feriti accertati, di cui 18 lievemente contusi, il bilancio dell'incidente ferroviario, che coinvolge due Euronight, avvenuto poco lontano dalla stazione di Stresa-Belgirate.
14 MAGGIO 2003. Scontro a Roma sulla circonvallazione Nomentana, nei pressi di Ponte Lanciani, poco prima dell'arrivo alla stazione Termini, di due treni Intercity: il Monaco di Baviera-Napoli e il Messina-Roma. L'impatto è molto violento. Il bilancio è di dodici feriti.
11 APRILE 2003. Sulla linea Novara-Milano un intercity si scontra con un autocarro che sta attraversando i binari all'altezza di un passaggio a livello.
1 OTTOBRE 2003. Il treno regionale 11432 che collega Porretta Terme a Bologna deraglia alle 8.15, poco dopo la stazione di Casalecchio Garibaldi (Bologna). Il bilancio è di 127 feriti ed un morto, avvenuto qualche giorno dopo. Ad uscire dalle rotaie sono state le prime tre carrozze del convoglio che avrebbe imboccato un binario morto andando ad urtare contro il terminale in cemento armato posto alla fine.
20 LUGLIO 2002. Sciagura ferroviaria con otto morti e trenta feriti in Sicilia dove l'intercity 1935 Palermo-Venezia, la 'Freccia della laguna', deraglia tra le stazioni di Venetico e Rometta Marea, in provincia di Messina. Diversi vagoni del convoglio, che trasportava circa 190 persone, cadono in una scarpata di alcuni metri.
14 SETTEMBRE 2001. A Colle Isarco (Bolzano) un treno merci urta un altro merci fermo nella stazione. Muoiono i due macchinisti.
10 GIUGNO 2001. Solo danni materiali e qualche malore tra gli anziani diretti a Lourdes per il deragliamento del locomotore dell'intercity 544 Roma-Ventimiglia sulla linea Genova-Roma, nei pressi di Livorno. A causare l'incidente, un escavatore che si trovava sui binari.
11 MAGGIO 2001. E' di dieci feriti lievi l'incidente ferroviario in seguito al deragliamento dell'espresso 895 Roma-Reggio Calabria in seguito a una frana che invade i binari a Favazzina di Scilla.
22 APRILE 2001: Quindici persone ferite, ma nessuno in modo grave, nell'incidente che vede coinvolti, a pochi chilometri da Brescia, un treno passeggeri e un merci sulla linea Venezia-Milano. All'improvviso, tra Rezzato e Brescia, si apre un portellone del treno merci che colpisce la fiancata dell'interregionale 2110 Venezia-Milano.
4 GIUGNO 2000. A Solignano (Parma) all'entrata in stazione, sulla linea Parma-La Spezia, si scontrano frontalmente due treni merci. Muoiono cinque macchinisti e un altro è ferito.
23 MARZO 1998. A Castello (Firenze) il pendolino Roma-Bergamo deraglia ed entra in collisione con un treno regionale. Nell'incidente muore un passeggero e 30 sono feriti.
2 AGOSTO 1997: Deraglia all'ingresso della stazione Casilina di Roma l'espresso Reggio Calabria-Torino e il giorno dopo si ribalta una gru al lavoro per rimuovere il treno. Questo nuovo incidente provoca la chiusura delle linee tra Roma e Napoli via Formia e Cassino. Migliaia di persone rimangono senza collegamenti nelle stazioni romane di Termini, Tiburtina, Ostiense, e pesanti disagi si registrano anche a Napoli, Salerno, Bologna e Firenze.
12 GENNAIO 1997. A Piacenza il pendolino Etr 460 deraglia a 300 metri dalla stazione, mentre è in viaggio da Milano a Roma con 150 passeggeri. Otto i morti e 29 i feriti. Illeso l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Incidenti ferroviari in Italia: i più gravi degli ultimi anni. Si allunga la lista degli incidenti ferroviari in Italia accaduti negli ultimi anni con la tragedia avvenuta alle porte di Milano: un treno carico di pendolari è deragliato nei pressi di Pioltello. La Procura di Milano ha aperto un'inchiesta per 'disastro ferroviario colposo'. In corso gli accertamenti del caso per verificare le cause e le responsabilità dell'incidente che potrebbe essere dovuto a un guasto tecnico. Un testimone avrebbe parlato di forti tremori del treno per alcuni minuti, prima del deragliamento, scrive da Kati Irrente, il 25 Gennaio 2018 su "Nano Press". Aggiungiamo un altro caso alla lista di incidenti ferroviari avvenuti in Italia negli ultimi anni, che hanno causato morti e feriti. L’ultimo incidente ferroviario mortale è avvenuto il 25 gennaio 2018 alle porte di Milano. Un treno delle ferrovie Trenord è deragliato tra Pioltello e Segrate. Il convoglio, carico di pendolari, era partito da Cremona e diretto a Milano Piazza Garibaldi. E al coro di commenti che ha seguito il disastro si aggiunge anche quello del presidente Codacons, Marco Donzelli, che rivela: “Da anni denunciamo disservizi e carenze del trasporto ferroviario locale a danno dei pendolari della Lombardia, e più volte abbiamo lanciato allarmi sul fronte della sicurezza di treni e infrastrutture Trenord. Ad oggi le nostre denunce sono rimaste del tutto inascoltate da parte delle istituzioni. Per tale motivo se dalle indagini sulla tragedia odierna dovessero emergere falle sul fronte della sicurezza, non esiteremo a chiamare a rispondere gli enti locali e gli organi competenti per omissione e concorso nei reati che saranno accertati dalla magistratura”. Quello accaduto in Lombardia non è l’unico disastro ferroviario in Italia negli ultimi anni, infatti da quasi 10 anni, ovvero dall’inizio del 2009 ad oggi, sulla rete ferroviaria italiana ci sono stati almeno 120 incidenti mortali. Diversi incidenti ferroviari avvengono inoltre su scali privati, sui quali l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie non ha potere di controllo. Alla base degli incidenti ferroviari spesso c’è una cattiva manutenzione degli impianti, il non rispetto delle regole di sicurezza e talvolta l’errore umano. Vediamo di seguito quali sono gli incidenti ferroviari italiani più gravi degli ultimi anni.
12 luglio 2016 – Scontro frontale tra due treni sulla linea Bari Nord, sul tratto a binario unico tra Andria e Corato. Sotto, alcune immagini dal luogo della tragedia. Nel violentissimo impatto i vagoni vengono ‘sbriciolati’. Risultano 27 morti e una cinquantina di feriti. Pochi mesi prima, sempre su una tratta a binario unico, ma stavolta in Germania, due treni si scontrarono in Baviera, causando un morto.
17 gennaio 2014 – Dopo giorni di furioso maltempo una frana causò il deragliamento del treno IC 660 Milano Centrale – Ventimiglia, in cui restarono coinvolti il locomotore E.444.022 e la prima carrozza. Il treno restò trattenuto da un muretto a strapiombo sul mare: i feriti furono cinque.
24 settembre 2012 – Un camion che non aveva rispettato il passaggio a livello mentre le sbarre si stavano abbassando fu travolto dal Frecciargento Roma-Lecce mentre si trovava nella provincia di Brindisi. Morì il macchinista delle Fs mentre i feriti furono 18.
12 aprile 2010 – Una frana provocò il deragliamento di un treno regionale ATR 100 della SAD che stava percorrendo la ferrovia della Val Venosta nei pressi di Laces in direzione Merano. I morti furono nove e ventotto riportarono ferite: di queste ultime, sette erano in gravi condizioni.
29 giugno 2009 – Un treno merci che trasportava gas proveniente da La Spezia, e diretto a Pisa, deragliò esplodendo nei pressi della stazione di Viareggio in Toscana. A fuoco andarono anche le case vicine, e in molti restarono ustionati. I morti furono 32.
7 gennaio 2005 – Un treno interregionale e un treno merci che trasportava putrelle di acciaio in transito sulla linea Bologna-Verona a binario unico si scontrarono frontalmente nei pressi della stazione di Crevalcore, vicino a Bologna. I morti furono 17 e 15 i feriti.
20 luglio 2002 – Il treno Palermo-Venezia deragliò presso Rometta Marea, in provincia di Messina. I morti furono otto.
12 gennaio 1997 – Il treno Etr 460, conosciuto come Pendolino, era in viaggio da Milano a Roma e deragliò a 300 metri dalla stazione di Piacenza. La causa fu la forte velocità. I morti furono 8 e i feriti 29.
27 gennaio 1992 – A Ciampino si scontrarono due treni carichi di pendolari nei pressi di Santa Maria della Mole. I morti furono sei e i feriti 150.
16 novembre 1989 – Il treno locale 12706, che da Catanzaro Lido stava viaggiando verso Taranto si scontrò con il diretto 8437, proveniente da Cariati per Catanzaro Lido, nei pressi del passaggio a livello, al km 237+322 della s.s. 106 Jonica. I morti furono 12 e i feriti 32.
3 aprile 1989 – A San Severo il treno 12472 proveniente da Bari, deragliava ed entrava nella stazione distruggendo la parte sud del fabbricato. I morti furono 8.
Tornando molto indietro nella storia d’Italia, uno degli incidenti ferroviari più terribili accadde il 2 marzo 1944, quando a Balvano (Potenza) il treno Salerno-Potenza si bloccò in galleria e 526 persone morirono asfissiate. Poi nel 1978 a Murazze di Vado, il treno espresso 508 Lecce-Milano si scontrò con il rapido Freccia della Laguna. Il rapido deragliò finendo in una scarpata. I morti furono 42, 120 i feriti.
I disastri delle Ferrovie italiane, da Balvano ad Andria, scrive Giovedì 25 Gennaio 2018 "La Presse". L'incidente alle porte di Milano è solo l'ultimo di una lunga serie. Nella storia delle ferrovie italiane, prima del deragliamento del convoglio Trenord a Pioltello, alle porte di Milano, tanti sono stati gli incidenti ferroviari. Il più grave, quello di Balvano, avvenuto il 3 marzo 1944 nel Potentino, che causò 517 morti e oltre 90 feriti. Si tratta dell'ottavo incidente ferroviario più grave al mondo. L'ultimo, in ordine di tempo, quello avvenuto il 12 luglio 2016 fra Andria e Corato, in Puglia, dove ci furono 23 vittime e 57 feriti. Ecco l'elenco dei maggiori incidenti ferroviari in Italia da Balvano a oggi.
- DISASTRO DI BALVANO, 3 marzo 1944: nella galleria delle Armi, nei pressi della stazione di Balvano-Ricigliano, in provincia di Potenza, un treno merci speciale rimane bloccato e non riesce ad uscire. L'eccessiva presenza di monossido di carbonio nell'aria fa perdere i sensi al personale e ai passeggeri saliti abusivamente e non permette la fuga. Poi li asfissia. Sono 517 i morti accertati e oltre 90 i feriti rimasti intossicati;
- INCIDENTE DI BASCHI, 13 giugno 1945: sulla linea Firenze-Roma, fra le stazioni di Baschi e Castiglione in Teverina, in provincia di Terni, un treno passeggeri si scontra con un treno merci. Sono 70 le vittime e decine i feriti;
- INCIDENTE DI BENEVENTO, 15 febbraio 1953: il direttissimo Lecce-Roma deraglia entrando nella stazione di Benevento, su percorso deviato, a velocità elevata. Supera il segnale rosso. Quasi tutti i vagoni si rovesciano su un fianco. Sono 22 i morti e 70 i feriti;
- INCIDENTE DELLA FIUMARELLA, 23 dicembre 1961: sulla ferrovia Cosenza-Catanzaro il rimorchio di un treno deraglia dai binari, a causa della rottura del gancio di trazione, sulla curva della Fiumarella, passando su un viadotto. Il rimorchio precipita nel torrente sottostante volando per 40 metri. Sul rimorchio ci sono 99 passeggeri: 71 rimangono uccisi, gli altri 28 feriti;
- INCIDENTE di VOGHERA, 31 maggio 1962: sul terzo binario della stazione di Voghera, alle 2.35 della notte, un treno merci proveniente da Milano entra nonostante in divieto e investe in coda un treno passeggeri in partenza. Sono 63 le vittime e 70 i feriti;
- INCIDENTE DI MURAZZE DI VADO: il treno espresso Lecce-Milano, deviato dalla linea adriatica a causa del crollo di un ponte a Giulianova, deraglia a causa di una frana. In seguito viene urtato dal rapido Freccia della Laguna che proviene in senso opposto. Il rapido deraglia a sua volta e precipita nella scarpata. Sono 42 i morti e 120 i feriti;
- INCIDENTE TRA CURINGA ED ECCELLENTE, 21 novembre 1980: l'espresso 587 deraglia tra la stazione di Curinga e la stazione Eccellente, in Calabria, per l'urto contro un gruppo di 28 carri inspiegabilmente sganciatisi da un treno merci partito poco prima da Lamezia Terme Centrale, diretto a Villa San Giovanni. Successivamente l'espresso 588 diretto a nord investe le vetture deragliate. Sono 28 le vittime e 100 i feriti;
- INCIDENTE DI CORONELLA, 22 dicembre 1985: un'elettromotrice partita da Bologna si schianta a 100 chilometri orari contro un treno merci fermo a un segnale. Dieci i morti, undici i feriti;
- INCIDENTE DI PIACENZA, 12 gennaio 1997: l'elettrotreno ETR 460 n. 29 in servizio da Milano a Roma deraglia sulla curva all'ingresso della stazione di Piacenza. L'indagine ha riscontrato che la velocità era superiore al limite consentito in quel punto. Otto le vittime, 30 i feriti;
- INCIDENTE DI CREVALCORE, 7 gennaio 2005: in località Bolognina, in un giorno di nebbia con visibilità tra i 50 e i 150 metri, un treno interregionale proveniente da Verona e diretto a Bologna con a bordo 200 passeggeri e un merci in arrivo da Roma si scontrano su un binario unico. A seguito dell'impatto, la motrice del treno merci, la vettura-pilota e la seconda carrozza passeggeri vengono completamente sventrate e distrutte, causando 17 morti e 80 feriti;
- INCIDENTE DI VIAREGGIO, 29 giugno 2009: la rottura di un fusello della sala montata di un carro cisterna provoca il deragliamento di un treno merci. Il GPL fuoriuscito dalla cisterna danneggiata successivamente esplode mentre il treno si trova nella stazione di Viareggio. Le persone decedute a causa del disastro sono state 32: undici nell'esplosione e nel seguente incendio, altre venti per le ustioni nei mesi successivi. All'elenco dei decessi a causa dell'incidente si è aggiunto quello di una anziana colpita da infarto presumibilmente a causa dello shock per lo scoppio o della vista della scena del disastro;
- INCIDENTE TRA ANDRIA E CORATO, 12 luglio 2016: due treni della società Ferrotramviaria si scontrano lungo la ferrovia Bari-Barletta tra le stazioni di Andria e Corato. Sono 23 le vittime e 57 i feriti.
Morire ancora una volta da pendolari. Per Legambiente una delle tratte peggiori della Lombardia. Il dramma dopo l'incidente in Puglia e il precedente sulla stessa linea di luglio, scrive il 25/01/2018 20:57 Claudio Paudice, Giornalista, su L'HuffPost. Di sicuro c'è il "cedimento strutturale" di un pezzo di binario di 23 centimetri sulla rete di competenza di Rfi. Le cause del deragliamento sulla linea Milano-Cremona all'altezza di Pioltello del treno 10452 carico di 350 pendolari, in cui sono morte tre donne con cinque feriti in condizioni gravi, sono tutte da chiarire. La Procura di Milano si è subito mossa aprendo un'inchiesta, sottoponendo a sequestro l'area e i documenti relativi alla manutenzione della tratta ferroviaria e infine nominando due consulenti esperti in disastri ferroviari. I magistrati dovranno capire se il cedimento del binario sia stato la causa, com'è probabile a detta di diversi esperti, o l'effetto del deragliamento del treno. Le responsabilità, a seconda del caso, farebbero capo a due società diverse: nel primo a Rfi, società partecipata al 100% dalle Ferrovie dello Stato italiane di proprietà del Ministero dell'Economia, nel secondo a Trenord, l'operatore che gestisce il servizio ferroviario in Lombardia e alcune tratte lombarde ma non la Milano-Cremona, società partecipata al 50% da Trenitalia e da Fnm, che fa capo alla Regione. Secondo l'Ansa, la rotaia che ha ceduto stava per essere sostituita e accanto ad essa c'era il tratto di binario nuovo che avrebbe dovuto sostituire quello vecchio e per il quale erano in corso i lavori di manutenzione, ma questa informazione non trova altre conferme al momento. Rfi e il Ministero dei Trasporti hanno difeso l'impegno nella manutenzione della rete. "Ogni anno vengono destinati 270 milioni di euro, di cui 130 solo per i binari" e "il convoglio diagnostico è passato sulla tratta interessata dal deragliamento lo scorso 11 gennaio, una volta al mese vengono effettuati i controlli a piedi", ha fatto sapere Rfi. Mentre il ministro Graziano Delrio dopo il vertice in Prefettura ha dichiarato che si tratta "di una delle linee più monitorate della intera rete ferroviaria. Hanno confermato investimenti in corso e che il loro monitoraggio è molto alto" perché "tra le più frequentate".
D'altronde dalla Lombardia arriva la maggiore domanda di trasporto pendolare: in numeri, 1.733 chilometri di rete regionale e 735mila viaggiatori al giorno per circa 2.400 corse nel 2016. Ma, secondo il rapporto Pendolaria stilato da Legambiente, la linea che va da Milano a Cremona è una delle peggiori della Regione, nonostante un leggero miglioramento nella qualità del materiale rotabile utilizzato in questi ultimi anni come su altre linee. 151 km, di cui 60 a doppio binario e 91 a semplice binario, su cui viaggiano oltre 10 mila pendolari giornalieri. Treni spesso in ritardo e sovraffollati, ai quali i viaggiatori sono ormai abituati, se non rassegnati, nonostante l'aumento del +48,9% delle tariffe praticate da TreNord dal 2010 ad oggi. A livello nazionale l'offerta per l'Alta Velocità è aumentata in meno di 11 anni del 435%, ha rilevato Legambiente, mentre il trasporto regionale rimane difficile, anche per via della riduzione dei treni Intercity e dei collegamenti a lunga percorrenza (-15,5% dal 2010 al 2016) con un calo del 40% dei passeggeri e la diminuzione dei collegamenti regionali (-6,5% dal 2010 al 2016), dopo i tagli realizzati nel 2009.
Per il ministero però, sulla rete gli investimenti sono stati fatti, almeno negli ultimi tre anni. Ma secondo Legambiente c'è un ritardo da colmare enorme. Dal 2002 ad oggi i finanziamenti statali hanno premiato per il 60% gli investimenti in strade e autostrade a discapito delle rotaie. "Quanto è stato finanziato per le reti metropolitane è ben poca cosa, visto che questa voce non raggiunge il 17% degli stanziamenti per opere infrastrutturali. Situazione identica, se non peggiore, quella delle ferrovie, prese in scarsa considerazione, con il 24% degli investimenti totali. In termini assoluti le infrastrutture stradali sfiorano la quota faraonica di 64 miliardi di euro, contro i 25,7 ed i 18,1 di ferrovie e metropolitane". Per fronteggiare la domanda pendolare crescente la Regione Lombardia ha incrementato gli investimenti negli ultimi anni, riferisce sempre Legambiente. "Chi ha investito di più in valore assoluto per i servizi aggiuntivi ed il materiale rotabile dei treni pendolari nel periodo 2006-2016, è la Lombardia con oltre 985 milioni di euro per i servizi e circa 406 per il materiale rotabile, per un totale di circa 1.391 milioni di euro". Ma pagava un ritardo notevole nel parco treni, malconcio da tempo come ammesso dallo stesso presidente della giunta Roberto Maroni a luglio scorso quando ha annunciato un investimento per 1,6 miliardi e 160 nuovi convogli, durante la campagna elettorale per il referendum per l'autonomia regionale. Un'estate calda nel nodo ferroviario di Milano, con continui ritardi e disservizi continui. La giunta illustrò quindi il piano: i primi convogli da consegnare nell'arco di due anni dalla sottoscrizione dei contratti di fornitura, in seguito l'entrata in servizio di circa 2-4 treni al mese. Qualche giorno dopo l'annuncio del Governatore, il 23 luglio, però un altro treno di Trenord diretto da Milano a Bergamo era parzialmente uscito dai binari proprio all'altezza di Pioltello. La scorsa estate nessuno degli oltre 200 passeggeri era rimasto ferito. A sviare dalle rotaie, come spiegato al momento dell'incidente da Rfi, era stata la prima vettura a causa di un problema a uno scambio. Incidente che non avrebbe "correlazione" con quello di oggi, ha fatto sapere Vincenzo Macello, responsabile Rfi Lombardia, e "avvenuto su un binario diverso. Si tratta di una triste coincidenza".
Una coincidenza di cui ne fanno le spese, ancora una volta, i pendolari. Il 12 luglio 2016, furono ventitré le vittime nello scontro tra due treni della società Ferrotramviaria lungo la ferrovia Bari-Barletta tra le stazioni di Andria e Corato. Le cause di quel disastro sono state attribuite a errori nella gestione del traffico dei treni e degli incroci. Mentre il 12 aprile 2010 un altro treno carico di pendolari, il regionale R108, deragliò nel tratto della linea tra Castelbello e Laces, in Val Venosta, Alto Adige, per una frana di 400 metri cubi, causata dalla rottura di un impianto d'irrigazione di un campo sovrastante la tratta. Allora il bilancio fu di nove morti e una trentina di feriti. Sull'incidente di Pioltello proveranno a far luce i magistrati di Milano: il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che è rimasta ore sul posto assieme ai colleghi Leonardo Lesti e Maura Ripamonti (c'era anche il procuratore Francesco Greco), indaga per l'ipotesi di reato di disastro ferroviario colposo (pene dai 5 ai 15 anni). Scontate, e saranno formalizzate a breve, le prime iscrizioni nel registro degli indagati per i vertici, tra manager e responsabili della sicurezza, di Rete Ferroviaria Italiana. Non è escluso nemmeno che altre iscrizioni, sempre per ragioni tecniche legate agli accertamenti, debbano essere effettuate e che le indagini si allarghino anche ad alcuni responsabili di Trenord.
Trenord che è già al centro di un'altra vicenda giudiziaria milanese, particolarmente delicata, che vede indagati il Presidente Andrea Gibelli e il vice presidente di Fnm Gianantonio Arnoldi per aggiotaggio, e per i quali i pm hanno richiesto la proroga delle indagini fino a marzo. Al centro dell'inchiesta il piano poi saltato di una fusione tra Trenord (50% Fnm e 50% Trenitalia) e Atm (100% Comune di Milano) e la comunicazione fatta l'anno scorso da Fnm di un accordo in dirittura d'arrivo a giugno. Dopo il comunicato da parte di Ferrovie del Nord sull'intesa e i malumori dell'ad di Ferrovie Mazzoncini e del sindaco Beppe Sala che etichettarono le parole del presidente Gibelli come intempestive, il progetto di lì a poco saltò. Come saltò la possibilità di dar vita a un'azienda con un fatturato da due miliardi di euro. Nel frattempo i pendolari ancora aspettano di poter viaggiare in condizioni accettabili. E di non morire sui binari.
Treno deragliato a Pioltello, cosa sappiamo finora, scrive Matteo Politanò il 25 gennaio 2018 su "Panorama". Disastro ferroviario a Nordest di Milano dove il treno regionale 10452 di Trenord è deragliato all'altezza di Seggiano di Pioltello, tra Pioltello e Segrate. Tre donne sono morte; 46 i feriti di cui 5 in codice rosso, 8 in codice giallo, 33 in codice verde. Le vittime sono Pierangela Tadini, Giuseppina Pirri e Ida Maddalena Milanesi. Il convoglio, partito da Cremona e pieno di pendolari (circa 350 persone a bordo), era diretto a Milano Porta Garibaldi. L'impatto è avvenuto intorno alle 7. Sono sopraggiunte decine di ambulanze e mezzi di polizia e vigili del fuoco, al lavoro per estrarre alcuni passeggeri imprigionati nelle lamiere. L'ospedale San Raffaele, vicino al luogo dell'incidente, ha attivato un "piano di maxi-emergenza" e attivato un numero d'emergenza: i familiari possono chiamare il numero 02 26439000 per ricevere informazioni sulle persone ricoverate.
Le cause del deragliamento. La causa della tragedia sarebbe stato il cedimento strutturale di 20 centimetri di rotaia, circa due chilometri più indietro rispetto al luogo del deragliamento del treno. In quel punto tre carrozze sono uscite dai binari, ma il convoglio ha continuato a camminare finché uno dei vagoni fuori asse ha impattato contro un palo della trazione elettrica e si è accartocciato. La ricostruzione è coerente con la scena che si è presentata ai primi soccorritori, con le carrozze centrali del convoglio deragliate e intraversate a un angolo di circa 90 gradi l'una dall'altra. È stato escluso invece qualsiasi malfunzionamento degli scambi della stazione di Pioltello. Al contrario, è risultato che i sistemi di sicurezza della rete hanno funzionato: i sensori posizionati sugli scambi hanno rilevato il passaggio anomalo di alcune vetture del treno ed hanno disposto a "via impedita" tutti i sistemi di segnalamento, bloccando di fatto la circolazione nell'area.
La comunicazione social di Trenord. Trenord ha comunicato l'incidente sui social network parlando di "inconveniente tecnico", definizione che ha scatenato l'indignazione della rete.
Le prime testimonianze. Uno dei passeggeri del treno, salito alla stazione di Crema, racconta: "Andava tutto bene, all'improvviso il treno ha iniziato a tremare, poi si è sentito un boato e le carrozze sono uscite dai binari. Quasi subito abbiamo capito che cosa era successo". Drammatica testimonianza di due genitori che a Seggiano di Pioltello attendono di avere notizie della figlia, che viaggiava sul treno deragliato. "Ho sentito mia figlia al telefono poco prima. 'Mamma aiuto, il treno sta uscendo dai binari!'. Poi il silenzio. Non mi ha detto più niente, e ora non risponde più al telefono".
Tutti i perché dell'incidente di Pioltello. Aperta l'inchiesta per disastro ferroviario colposo per accertare dinamica e responsabilità. Le dichiarazioni di Rfi, scrive il 26 gennaio 2018 Panorama. Le immagini di una telecamera di sorveglianza della stazione di Pioltello che inquadrano il treno che passa lasciando una scia di scintille e un uomo, in attesa sulla banchina, che si allontana spaventato. Un pezzo di rotaia, lungo 23 cm, trovato ad una ventina di metri di distanza dal "punto zero", così ribattezzato dagli inquirenti, dal quale si è staccato. I segni del deragliamento lungo la rotaia che partono proprio da quel "cedimento strutturale" e il primo concitato racconto del macchinista: ''Quando ho sentito che il treno vibrava tanto, ho azionato subito il freno ma era già troppo tardi, era già fuori dai binari". E' questo il primo racconto reso agli investigatori dal macchinista che guidava il treno deragliato ieri nel Milanese. "Ho frenato, ma era già tardi'', ha più volte ripetuto.
L'ipotesi di reato. Sono questi alcuni degli elementi dell'inchiesta della Procura di Milano sul gravissimo incidente ferroviario che stamani ha provocato tre morti e decine di feriti. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che è rimasta ore sul posto assieme ai colleghi Leonardo Lesti e Maura Ripamonti (c'era anche il procuratore Francesco Greco), indaga per l'ipotesi di reato di disastro ferroviario colposo (pene dai 5 ai 15 anni). Scontate, e saranno formalizzate a breve, le prime iscrizioni nel registro degli indagati per i vertici, tra manager e responsabili della sicurezza, di Rete Ferroviaria Italiana, società del Gruppo Ferrovie dello Stato responsabile della gestione della rete ferroviaria nazionale. Non è escluso nemmeno che altre iscrizioni, sempre per ragioni tecniche legate agli accertamenti, debbano essere effettuate e che le indagini si allarghino anche ad alcuni responsabili di Trenord.
Gli elementi agli atti. Nel frattempo, è stata sequestrata la "scatola nera" del convoglio, sono stati sigillati i vagoni e l'intera area in cui è avvenuta la tragedia e sono stati acquisiti tutti i documenti che riguardano la manutenzione e i lavori su quel tratto di binari. Allo stato attuale, anche se l'inchiesta in questa fase non esclude a priori alcuna ipotesi, nemmeno la più remota di un atto di sabotaggio, la "rottura" della rotaia pare essere stata la causa dell'uscita del treno dai binari e non l'effetto. Ad ogni modo, potrebbe essere decisiva una super consulenza affidata dai pm a due esperti ingegneri che si sono già occupati di disastri ferroviari, come quello di Viareggio. Il mezzo andava a 140 km/h, velocità che al momento non risulta essere stata indicata dagli esperti come eccessiva per quella tratta.
Un precedente "sospetto". Per ora a detta dei pm non sono emerse segnalazioni recenti su problemi su quelle rotaie, ma gli inquirenti dovranno comunque approfondire un episodio di "sviamento" di un treno che si verificò a luglio proprio all'altezza di Pioltello. E analizzare quale era lo stato di manutenzione dei binari. Stando a quanto ricostruito finora, dopo il deragliamento del terzo e poi del quarto vagone nel "punto zero" (dove si e' staccato il pezzo di rotaia) la motrice, che era in coda al treno, è rimasta in asse e ha continuato a spingere in velocità gli altri vagoni. Il macchinista, al lavoro nel vagone in testa (rimasto inizialmente sui binari come il secondo) si è accorto di quanto stava succedendo. In quel momento il treno era a un chilometro circa dalla stazione di Pioltello, un elemento che la polizia giudiziaria ha indicato al pm di turno Stefano Civardi. Il convoglio ha attraversato la stazione e si è fermato più di un chilometro oltre. Il terzo vagone, quello dove sono morte tra le lamiere le tre donne, ha abbattuto tre pali prima di bloccarsi contro un quarto. "Quando ho sentito che il treno vibrava tanto - ha detto il macchinista ai vigili del fuoco, che hanno già consegnato una relazione in Procura - ho azionato subito il freno. Era troppo tardi, eravamo già fuori dai binari".
Le dichiarazioni di Rfi. "E' uno degli impianti più controllati e delicati d'Italia, di quelli che ricevono una manutenzione molto attenta: ci passano dai 400 ai 500 treni al giorno. L'ultima verifica è stata compiuta due settimane fa e tutto era a posto. In ogni caso non sappiamo ancora se il giunto si sia rotto per effetto o a causa dello svio dei vagoni: sono delle parti sottoposte a fortissimi stress". Così l'amministratore delegato di Rete ferroviaria (Rfi), Maurizio Gentile, in un'intervista a Repubblica. "L'11 gennaio è transitato un treno per la diagnostica. Non ha rilevato nulla di anomalo. Nel caso specifico avrebbe dovuto registrare una qualunque irregolarità della marcia del treno. Una rotaia difettosa, verrebbe immediatamente rilevata", spiega Gentile. "In uno snodo come quello, particolarmente complesso, con un mix di alta velocità e linee tradizionali, abbiamo controlli continui. Le verifiche possono essere visive, manuali, effettuate con diagnostica mobile oppure fissa". Il manager smentisce che gli investimenti per manutenzioni privilegino l'alta velocità rispetto al resto della rete: "I dati sono questi: siamo passati dal miliardo di euro di investimenti del 2012 a 1,7 miliardi oggi. E aggiungo che nel 2017 abbiamo assunto 700 nuovi manutentori mentre nel 2018 contiamo di assumerne altri 750. Tutto si può dire tranne che non ci sia attenzione. E in ogni caso dov'è avvenuta la sciagura ci sono quattro binari: due 'lenti' e due 'veloci' ma sono utilizzati in maniera promiscua da tutti i treni, quindi anche dai Frecciarossa".
Treno deragliato, il macchinista: "Ho frenato, ma era tardi". Il macchinista del treno deragliato: "Ho sentito che il treno vibrare tanto e ho frenato, ma era troppo tardi", scrive Angelo Scarano, Giovedì 25/01/2018, su "Il Giornale". "Ho frenato quando era ormai troppo tardi". A parlare è il macchinista che questa mattina - poco prima delle 7 - era alla guida del treno che è deragliato tra Pioltello e Segrate, alle porte di Milano, mentre viaggiava, carico di pendolari, tra Cremona e la stazione Porta Garibaldi, nel centro del capoluogo lombardo. "Quando ho sentito che il treno vibrava tanto, ho azionato subito il freno ma era già troppo tardi, era già fuori dai binari", ha detto a vigili del fuoco e investigatori il dipendente di Trenord. Sarà il suo racconto a fornire ai pm che indagano per disastro ferroviario colposo dettagli in più sulle cause dell'incidente. Al momento i sospetti si concentrano sulla rotaia e in particolare su un pezzo di binario lungo 23 centimetri che ha ceduto, ma non è ancora certo che questo abbia causato l'incidente o se la rottura sia stata conseguente.
Treno deragliato, madre vittima: "Le ho detto scappa, poi il silenzio", scrive il 25 gennaio 2018 Skytg24. La donna, che ha perso la vita nell'incidente ferroviario avvenuto a Seggiano di Pioltello, aveva chiamato la mamma dicendo: "Aiuto, il treno sta deragliando". Poi non aveva più risposto al telefono. A Seggiano di Pioltello due genitori attendevano di avere notizie della figlia, che viaggiava sul treno deragliato intorno alle 7 di questa mattina (LE FOTO). Poi, la tragica conferma: la donna ha perso la vita nell’incidente ferroviario. “Mia figlia era al telefono con mia moglie e le ha detto che il treno era deragliato, mia moglie le ha detto di scappare ma poi c'è stato solo il silenzio”: così il padre della vittima racconta in lacrime l’ultima telefonata avuta con la figlia. “Sono andato sul luogo”, ha aggiunto, “ed era ancora incastrata dentro al treno e poi mi hanno detto che non ce l'ha fatta” ha spiegato, ricordando che la figlia “si lamentava sempre perché i treni erano spesso rotti e sempre pieni”. La madre della donna aveva raccontato di aver parlato al telefono con la figlia alle 6.55: "Mamma aiuto, il treno sta deragliando”, aveva detto la vittima. Poi il silenzio e il telefono che continuava a suonare senza risposta.
Treno deragliato, pendolare a Sky TG24 il 25 gennaio 2018: "Ero nella carrozza devastata". Il racconto di un passeggero che utilizza tutti i giorni la linea dove è avvenuto l'incidente nei pressi di Pioltello: "Il convoglio è uscito dai binari ed è andato avanti così per 2-3 minuti. Ero al centro della carrozza che si è accartocciata. Grazie a Dio sono salvo". “Mi trovavo al centro della carrozza devastata dall’impatto. Grazie a Dio, sono vivo”. È ancora scosso il passeggero del treno della linea Cremona-Milano deragliato questa mattina all’altezza di Pioltello. Il bilancio è di 3 morti e 5 feriti gravi. A Sky TG24 l’uomo, uscito indenne dall’incidente, ha raccontato che il viaggio è stato regolare fino a Treviglio: “Passato Treviglio, eravamo quasi a Pioltello, non so cos’è successo, è uscito dal binario ed è andato avanti così per 2-3 minuti. Tremava tutto il treno e si sentivano colpi”. Poi “è saltata la corrente, si è spento tutto, qualcuno ha cercato di tirare il freno a mano del treno e ci siamo trovati tutti assieme, tutti attaccati. Un signore vicino a me si è rotto la gamba, una signora si è rotta la caviglia”, racconta il pendolare.
"Andava a velocità normale". L’uomo esclude che il treno andasse troppo veloce: “Il treno è arrivato a Treviglio puntuale alle 6.43 ed è ripartito alle 6.45, preciso. Andava a velocità normale, né troppo lento né troppo forte. Non so cos’è successo, se ha sbagliato il binario… non lo so”. Il treno è utilizzato abitualmente da tantissimi pendolari, come conferma il passeggero: “Il treno era pieno perché a Treviglio salgono tantissime persone, tutte persone che vanno a lavoro, vanno a scuola. Io stesso prendo questa linea tutti i giorni. È sempre pieno. Ma è sempre andato tutto bene, è la prima volta che succede una cosa del genere”.
Trenord, treno deragliato è "inconveniente": proteste sui social. Il deragliamento del convoglio per la comunicazione di Trenord è "inconveniente tecnico" e sui social gli utenti fanno scattare la protesta, scrive Gabriele Bertocchi, Giovedì 25/01/2018, su "Il Giornale". Sui social esplode la protesta contro la comunicazione di Trenord in seguito al deragliamento del treno alla porte di Milano in cui sono morte due persone e sono rimaste oltre 100 persone contusi.
Polemiche online. Sui social sono in diversi a denunciare che nelle stazioni lombarde sono annunciati ritardi dagli altoparlanti e sugli schermi a causa di un "inconveniente a un treno". Stessa scelta presa dalla società, partecipata dalla Regione Lombardia e da Trenitalia, sui social. "Circolazione interrotta tra Treviglio e Milano a causa di un inconveniente tecnico a un treno", scrive Trenord su tutti i canali twitter alle 8:30, quindi una quarantina di minuti dopo il comunicato diffuso sul deragliamento. "Trenord vergogna, per l'incidente le scritte sui monitor inconveniente? Siete disumani", scrive Alessandro Milani. "L'inconveniente sono due morti e feriti anche gravi? Ma vi rendete conto di quello che scrivete? Vergogna", si aggiunge Soyana Lanza. Un altro aggiunge: "L'app di Trenord mi avvisa che sulla linea Bergamo-Pioltello-Milano ci saranno ritardi per un "inconveniente di esercizio" (cit.) nella stazione di Pioltello. Mia sorella mi manda che un treno ha deragliato e ci sono almeno due morti. Inconveniente". La società - il cui convoglio 10452 è stato coinvolto nell'incidente a Pioltello - è specializzata nel trasporto locale su ferro. Gestisce il servizio ferroviario suburbano e regionale, quello di collegamento per Malpensa e alcune linee transfrontaliere. Una società che conta oltre 4.000 dipendenti, unica in Italia perché esclusivamente dedicata al trasporto pubblico ferroviario di un'intera regione, la più "mobile" del Paese, dove ogni giorno "quasi 740mila persone si muovono in treno". Così Trenord S.r.l - il cui treno 10452 partito da Cremona alle 5.32 è deragliato questa mattina a Pioltello - si presenta sul suo sito internet.
Primo operatore nel trasporto locale su ferro. Trenord si definisce il "primo operatore specializzato nel trasporto locale su ferro che gestisce il servizio ferroviario suburbano e regionale, il servizio di collegamento aeroportuale Malpensa Express (da Milano Cadorna, Milano Centrale, Milano P.ta Garibaldi) e quello transfrontaliero Como-Chiasso e Malpensa-Bellinzona, attraverso la società ferroviaria svizzera TILO (partecipata da Trenord al 50%), per un totale di 2.300 corse al giorno, che in larga misura confluiscono verso il nodo di Milano".
Storia. La società è nata il 3 maggio 2011 "dall'unione di esperienza, competenza e strutture di Trenitalia (Divisione Regionale Lombardia) e Gruppo FNM (LeNORD) - partecipanti al 50% ciascuna - al fine di razionalizzare e ottimizzare il servizio ferroviario in Lombardia". Per quanto riguarda il servizio Regionale "diviso su 40 direttrici, collega le principali città della Lombardia 7 giorni su 7 in maniera capillare con circa 2.300 corse al giorno". Il Consiglio di amministrazione è composto dal presidente Barbara Morgante, dall'ad Cinzia Farisè e dai consiglieri Domenico Galli, Enrico Grigliatti, Umberto Benezzoli ed Enrico Bellavita.
Treno deragliato a Pioltello: chi sono le 3 vittime. Sono tre donne le persone morte nell'incidente ferroviario. La più giovane, 39 anni, ha telefonato alla madre prima dell'impatto letale, scrive il 25 gennaio 2018 Panorama. La mattina del 25 gennaio il treno regionale 10452 di Trenord partito da Cremona e diretto a Milano Porta Garibaldi è deragliato all'altezza di Seggiano di Pioltello, tra Pioltello e Segrate, causando la morte di 3 donne e 46 feriti (di cui 5 gravi).
Ecco i nomi delle tre donne morte nell'incidente ferroviario a Pioltello: Pierangela Tadini, Giuseppina Pirri e Ida Maddalena Milanesi.
Giuseppina Pirri, 39 anni, ha chiamato la madre, prima dell'impatto: "Mamma aiuto, il treno sta deragliando", ha detto nella telefonata avvenuta alle 6.55 come ha ricordato il padre. La madre l'ha esortata a scappare ma poi c'è stato solo silenzio.
Giuseppina, diplomata in ragioneria, prendeva quel treno tutte le mattine per andare al lavoro in una società di recupero crediti a Sesto San Giovanni. Non era sposata e viveva con i genitori ai quali èstata comunicata la sua morte alle 9.30 circa.
Ida Maddalena Milanesi era un dirigente medico dello staff di radioterapia dell'istituto Neurologico Besta di Milano. Nata nel 1956, si era laureata in medicina all'università degli studi di Milano e specializzata in radiologia, neurologia e neurologia oncologica.
Pierangela Tadini, 51 anni, era originaria di Caravaggio, grosso centro della pianura bergamasca, ma si era trasferita recentemente nel vicino paese di Misano di Gera d'Adda, dopo aver vissuto alcuni anni a Milano. Era in viaggio in compagnia della figlia di 18 anni, che si è salvata ma è rimasta ferita.
Piera, Giuseppina e Ida: la strage delle donne e i sacrifici per il lavoro. Vittime del disastro due impiegate e un medico. L'ultima telefonata poco prima dello schianto, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 26/01/2018 su "Il Giornale". Era notte fonda quando la dottoressa Ida Milanesi era scesa dal treno alla stazione di Caravaggio. Quello che l'avrebbe riportata a casa, in tempo per la cena, l'aveva mancato perché i malati che lottano per sopravvivere non hanno orari. Poche ore in famiglia, col marito medico e con la figlia che studia medicina. Ieri mattina era ancora buio quando la Milanesi si è ripresentata sui binari. L'orario ufficiale marca le 6.34. Cinque minuti prima, alle 6.29, sullo stesso convoglio aveva preso posto Giuseppina Pirri che abitava a Capralba, a pochi chilometri di distanza ma in provincia di Cremona. Correvano verso la metropoli e il lavoro, seguivano la stessa rotta anche se non si conoscevano, come Pierangela Tadini, una signora di 51 anni dalla faccia rotonda e bonaria, i grandi occhiali su un viso rassicurante, la residenza a Misano di Gera d'Adda, a due passi da Caravaggio e dal celebre santuario, calamita del turismo religioso. La radioterapista sessantunenne andava al Besta, tempio della medicina, per dare una chance a uomini e donne colpiti dal cancro. Giuseppina, che aveva solo 39 anni e abitava con i genitori e la sorella, doveva raggiungere l'ufficio a Sesto San Giovanni, ai bordi della città. Recupero crediti la sua faticosissima missione, dopo aver conseguito il diploma in ragioneria. Pierangela Tadini, impiegata, non poteva fare tardi, cosi come la figlia Lucrezia, 18 anni, che doveva arrivare alla sua classe di liceo a Milano. E che era seduta al suo fianco.
Due ore dopo Lucrezia è un filo di voce che chiama la nonna Luisa: «La mamma è morta». Lei è in ospedale, ma in discrete condizioni. Ha preso una botta forte, ma se la caverà. Due ore dopo, al Besta hanno già l'atroce dubbio che il peggio si sia compiuto. «Ida - racconta Maria Grazia Bruzzone, direttore di neuroradiologia - arrivava sempre prima delle 8 per stare vicina ai suoi pazienti. Anche se la sera prima era uscita tardissimo. Ma lei era fatta cosi: non si preoccupava delle troppe ore passate in ospedale, non conosceva nemmeno il sabato e la domenica, pure quando era in vacanza si teneva in contatto con le persone in cura. Cosi quando abbiamo visto che non arrivava ci siamo allarmati. Abbiamo saputo dell'incidente, abbiano telefonato agli ospedali, ma non era fra i feriti lievi, non c'era, non si trovava. Poi abbiamo capito». Il Besta perde un dirigente di punta della radioterapia e una donna dall'umanità straordinaria. Due ore dopo l'ultimo, esile stelo di speranza è stato reciso anche a Capralba. «Mia moglie - racconta Pietro Pirri - era al telefono con nostra figlia. A un certo punto lei ha gridato: Mamma, aiuto, il treno sta deragliando». Scappa, scappa, le ha risposto mia moglie, ma non si sentiva più nulla». Solo il silenzio che annuncia la sventura. Pietro Pirri esce di casa di corsa, si precipita verso Pioltello e il luogo della catastrofe. «Giuseppina era ancora incastrata fra le lamiere del vagone. Mi hanno detto che non ce l'aveva fatta», ma lui aveva già capito e, soffocato da quel dolore imparabile, cercava dentro di se un modo decente per dirlo alla moglie angosciata. Tre donne lanciate dentro una routine che non ammetteva pause o ritardi. Ora c'è solo il mulinare dei ricordi. C'è un padre che vaga davanti alle telecamere piazzate davanti all'obitorio, frastornato e incredulo, come sempre quando il destino apparecchia un trabocchetto del genere: «Giuseppina si lamentava sempre perché i treni erano sempre rotti e sempre pieni». A Vanzago, la signora Luisa Sala fronteggia il cronista misurando le parole: «Pierangela si era separata da mio figlio qualche anno fa e si era trasferita a Misano con Lucrezia, ma era una brava donna». Anche se i rapporti si erano diradati e le distanze erano cresciute. Da un puntino all'altro, quello sbagliato, del grande hinterland. Laggiù verso la grande cupola della chiesa, visibile a chilometri di distanza nella campagna lombarda. «Il papà di Ida - spiega la dottoressa Bruzzone - gestiva il ristorante del santuario. Dalla fine degli anni Ottanta, quando ci siamo conosciute giovani borsiste, quante volte abbiamo festeggiato a Caravaggio le tappe della nostra vita». Un'esistenza che ora è sigillata in un album.
Tre minuti di terrore e poi lo schianto: "Urla e preghiere. Così abbiamo visto arrivare la morte". Deraglia all'alba un treno regionale con oltre 300 passeggeri: 3 vittime e cento feriti. Il convoglio ha viaggiato per due chilometri fuori dai binari prima di accartocciarsi contro i pali dell'elettricità, scrive Luca Fazzo, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". La strage coglie i pendolari nel loro dormiveglia consueto, pigiati come ogni mattina nei vagoni che li portano al lavoro nella metropoli dalle loro case nei paesi della provincia. Lo conoscono e lo maledicono da sempre, quel treno fatto di facce note, aliti di caffè, e le luci delle stazioni che sfrecciano una dopo l'altra negli ultimi minuti della notte. Si aspettano i ritardi, i servizi sempre rotti, i sedili lerci. Non si aspettano l'inferno che li inghiotte alle 6 e 56. Non c'è il boato, non c'è lo shock improvviso. Peggio: ci sono due, tre minuti di terrore puro, il treno che barcolla e impazzisce, sbanda come una bestia ferita mentre i sassi della massicciata esplodono contro i finestrini. Sul regionale 10452 nessuno capisce cosa stia accadendo, salvo che la morte si sta affacciando sulla vita di ognuno dei pendolari. «Intorno a me - racconta Sergio Minuti - c'era chi urlava, chi si rannicchiava, e chi si faceva il segno della croce». Il treno delle Ferrovie Nord inizia a impazzire poco oltre la stazione di Vignate. Un quarto d'ora prima ha lasciato Treviglio, ultima fermata prima di Milano, imbarcando l'ultima infornata di passeggeri, accumulati addosso a quelli saliti a Cremona, a Soresina, a Caravaggio. «Abbiamo iniziato a sentire dei rumori allucinanti sotto il treno, poi abbiamo cominciato a sbattere da tutte le parti. E poi non si è più capito niente», racconta Emanuela Zampieri. Colpa, diranno poi i comunicati ufficiali, di un pezzo di binario rotto, incredibilmente rotto nel cuore di una delle tratte ferroviarie più affollate d'Italia. «Cedimento strutturale», dicono i comunicati, come se si trattasse di un evento improvviso e imprevedibile. Ma c'è chi racconta che il pezzo di ricambio era già stato ordinato e consegnato, ma nessuno si era preoccupato di montarlo. Così il treno lanciato a cento all'ora perde ogni controllo, attraversa sferragliando e sprizzando scintille la stazione di Pioltello. Ancora un chilometro, e la massa impazzita del treno ha il sopravvento, i tre vagoni centrali escono dai binari, vanno a schiantarsi contro i pali dell'alta tensione, si piegano, si lacerano come scatole di latta. A bordo è un massacro. Sui binari scende il silenzio. A bordo del treno si spengono tutte le luci. Poi iniziano le urla. Le porte sono bloccate. Chi ce la fa esce dai finestrini, si raduna sulla massicciata con la paura di essere investito da altri treni. Ombre insanguinate vagano sulle traversine, mentre il sole non si decide a sorgere. Intrappolati a bordo della carrozza più devastata, cento passeggeri iniziano l'attesa dei soccorsi. Per tre di loro, tre donne che viaggiavano sulla stessa carrozza, non c'è scampo. E poi quattro feriti gravi, e decine di altri ricoverati negli ospedali di mezza Lombardia. È la nuova tragedia del trasporto ferroviario italiano, una piaga che colpisce indistintamente tutto il paese, dal disastro di Bolzano alla strage di Andria. Era da oltre mezzo secolo, dalla carneficina di Voghera del '63, che la Lombardia non veniva colpita. Ma inevitabilmente lo schianto di ieri mattina dà il via a interrogativi e polemiche, perché la linea colpita è la Milano-Venezia dei poveri, dei pendolari, trascurata dagli investimenti miliardari che più a nord hanno realizzato l'alta velocità verso l'Adriatico. Disastro ferroviario colposo, è l'accusa che la Procura di Milano muove ai primi indagati: che sono, inevitabilmente, i vertici di Rfi, la società delle Fs che possiede e gestisce i binari dello schianto; ma anche per Trenord, l'azienda regionale proprietaria del treno, sarebbero in arrivo gli avvisi di garanzia, primo passo di una inchiesta che si annuncia lunga e complicata, iniziata col sequestro della «scatola nera» e le prime perizie già assegnate a due docenti universitari. Ma il popolo del regionale 10452, quello dei passeggeri contusi e scioccati che escono dai centri di soccorso allestiti tutti intorno al luogo dello schianto, il suo colpevole lo ha già individuato: ed è l'incuria, «scrivetelo che questi treni sono una schifezza, che ci trattano come bestie». Sono loro, i pendolari che questa tratta la conoscono come una seconda casa, i primi a ricordare che poche settimane fa un altro pezzo di binario era saltato, e già allora poteva essere un disastro. Ma tutto è andato avanti come se niente fosse, l'andirivieni incessante dei treni stracolmi: perché è là, nel cuore di Milano, che c'è la vita, la scuola, il lavoro; e allora bisogna alzarsi all'alba, imbarcarsi, sfidando il buio, il freddo, gli occhi che si chiudono. E rischiando la pelle.
Treno deragliato, la lettera di un sopravvissuto: "Mi vergogno". La testimonianza di un uomo che prova vergogna: "A cosa serve essere straordinari nel rimediare agli errori se poi non li si riesce a evitare?" Scrive Marianna Di Piazza, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". "Rivivo tutto, istante dopo istante, e con la mente sono di nuovo sull’ultimo vagone del treno, nel momento in cui si sentono le mitragliate dei sassi contro il pavimento, e il fumo e le scintille e lo sbandamento a oltre 100km orari", sono le parole di Enrico Gelfi, sopravvissuto all'incidente ferroviario a Pioltello. L'uomo, dopo il disastro che ha provocato tre vittime e centinaia di feriti, scrive a Massimo Gramellini e ripercorre le ore del tragico incidente. Gelfi racconta il senso di vergogna per non aver fatto abbastanza, ma anche per essere italiano. "Una volta scappato dal finestrino, sento il silenzio. Anzi, le urla nel silenzio. A quel punto provo un moto di vergogna, perché mi sono preoccupato di mettermi in salvo, piuttosto che di accertarmi che le persone nel mio vagone stessero bene. Ma poi mi riprendo e aiuto a far scendere alcune donne da un finestrino rotto. Faccio la spola intorno a ciò che resta del treno perché voglio capire come essere d’aiuto, ma mi rendo conto subito della mia impotenza. Rispondo ai telefoni di quelli bloccati nelle lamiere, mento sull’arrivo dei soccorsi, faccio da stampella a chi ha non riesce a camminare". "Ho scoperto che per Trenord si è trattato di uno svio. Leggo questo strano vocabolo quando sto per riabbracciare la mia famiglia alla stazione di Treviglio. Dapprima avverto un pugno nello stomaco che mi fa piangere tutte le lacrime che sono riuscito ad ingoiare durante le 4 ore precedenti". "Per fortuna arrivano i primi soccorsi e allora, spaventato, triste e frustrato, getto la spugna e mi lascio trasportare dagli eventi. Il resto è un capolavoro di organizzazione. Riapro gli occhi e sono di nuovo fuori dalla stazione di Treviglio, curato, consolato e scaldato, e realizzo che non serve a nulla essere straordinari nel rimediare agli errori se poi si continua a 'sviare' la volontà di prevenirli. E anche qui mi viene il più grande, moto di vergogna. Da Italiano".
Era questione di ore: "Il binario stava per essere sostituito". A Pioltello cede una rotaia: forse la causa del disastro. Sei mesi fa incidente sulla stessa linea, scrive Alberto Giannoni, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". Cedimento strutturale, manovra sbagliata, carente manutenzione. Le fattispecie ufficiali cambiano, il risultato purtroppo no. Sono stati 67, negli ultimi 10 anni, i morti in gravi incidenti ferroviari; 90 dal Duemila. E in fondo alle cause, c'è sempre uno sbaglio. Il Regionale partito da Cremona alle 5 e 42 ieri viaggiava a 140 chilometri orari. Una velocità consueta e regolare in quella tratta. Sarebbe dovuto arrivare alle 7 e 24 a Milano, invece si è tragicamente fermato a Seggiano di Pioltello. Secondo le prime ricostruzioni, l'incubo era iniziato due chilometri prima, tanto che il treno sarebbe passato dalla stazione fra scintille e sferragliamenti. Il pensiero di molti è andato veloce a un altro incidente avvenuto in quel punto il 23 luglio scorso, quando un treno Milano-Bergamo deragliò, senza conseguenze per i passeggeri, ma da Rfi (società responsabile delle reti ferroviarie) hanno spiegato che si tratta solo di «una triste coincidenza». Nessuna «correlazione». «L'incidente avvenuto di luglio non era su questo binario - ha precisato Vincenzo Macello, responsabile Rfi direzione e produzione Lombardia - il treno viaggiava nella direzione opposta. Lì c'era stato un problema a uno scambio. In questo caso è tutta un'altra cosa». Ma cosa è successo al Regionale 10452? L'ipotesi sabotaggio viene esclusa: tutto fa pensare che l'incidente sia dovuto a un cedimento strutturale della rete, per cause tutte da chiarire. L'ipotesi più accreditata è la rottura di un binario nel punto di giuntura, un chilometro prima della stazione. E di «cedimento strutturale sulla rotaia circa 2 km prima del luogo dello svio» parla Rfi. Ma Macello ha spiegato che «è prematuro stabilire se questo cedimento sia stato la causa o l'effetto del deragliamento». Il pezzo di rotaia «incriminato» e fotografato ieri mattina è lungo 23 centimetri ed è stato ritrovato a 20 metri di distanza. La cosa angosciante però è che, come scrive l'agenzia Agi citando una fonte qualificata, è che «la sostituzione del binario era preventivata e il nuovo pezzo di strada ferrata era pronto per essere sostituito». Pare addirittura che a fianco al binario seduto e rimasto senza copertura, ce ne fosse uno nuovo che doveva essere rimpiazzato di lì a poche ore. Le ragioni del cedimento però sono ancora un mistero. Un binario rotto «è una anomalia», spiegano da Rfi, escludendo carenze nella manutenzione. «Abbiamo come primo pensiero la sicurezza - spiega il dirigente - 1.700 mille persone che tutte le notti verificano la geometria del binario. La normativa è molto rigida. Una volta al mese è previsto che ci sia una visita a piedi o sul locomotore, a scambi e linea. E una volta ogni 15 giorni abbiamo il passaggio di un treno diagnostico». Poi c'è la manutenzione straordinaria: Rfi parla di 130 milioni all'anno. I dubbi si moltiplicano. «Siamo, purtroppo, in debito su tutte le infrastrutture rispetto agli altri Paesi Ue» constata il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi a Rtl 102.5. Contro i soliti tagli da Roma si scaglia il leader leghista Matteo Salvini: «Magari questo evento è fortuito - dice - ma forse prima di tagliare sulla sicurezza e sulla manutenzione bisognerebbe valutare dove tagliare». Accusa accolta con sdegno a sinistra. In Prefettura per un vertice, il ministro Graziano Delrio garantisce che gli investimenti in sicurezza di Rfi e del governo «sono aumentati del 340% in 3 anni», mentre la spesa per la manutenzione «è aumentata del 70%». Il ministro ricorda che la linea su cui è avvenuto l'incidente «è una delle più frequentate e quindi monitorate della rete». E aggiunge: «Il sistema ferroviario italiano è uno fra i più sicuri al mondo». E l'Agenzia nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie calcola che dal 2005 le vittime sulle rete Rfi sono scese del 35% e gli incidenti dovuti a cause tecniche del 70%.
Milano, treno di Trenord deragliato. Il tecnico: “Così si è rotto il binario. Una serie di difetti, forse anche nei lavori”. Un esperto di installazione binari spiega a ilfattoquotidiano.it che la foto del punto in cui il treno ha iniziato ad uscire dalle rotaie "racconta tantissimo". Il binario avrebbe ceduto per una serie di concause: dal consolidamento al taglio delle rotaie poi giuntate che porta alla rottura accentuando lo "sbattere" delle ruote del convoglio, scrive Andrea Tundo il 25 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". L’ipotesi più probabile è una “cattiva realizzazione della giuntura” dei due pezzi di rotaia accoppiata al “martellamento” per un “difetto di rincalzatura del binario”. Per questo si sarebbe staccata quella lastra di 23 centimetri nella parte superiore della rotaia causando l’incidente ferroviario all’altezza di Pioltello che ha provocato 3 morti e 46 feriti: una serie di “difetti” che provocano il deragliamento, proprio mentre il binario stava per essere sostituito. Il direttore territoriale di Rfi, Vincenzo Macello, ha riassunto con “cedimento strutturale della rotaia”. Già, ma come è potuto accadere? Quali sono le cause? “Quella foto racconta tantissimo”, spiega a Ilfattoquotidiano.it un tecnico esperto in installazione di binari e sistemi di sicurezza osservando la foto del punto in cui il convoglio di Trenord proveniente da Cremona ha iniziato quello che tecnicamente viene definito “svio”. Ma lo scatto va probabilmente osservato al contrario, anche se nella parte superiore della rotaia colpisce l’assenza di oltre venti centimetri di rotaia. “La traversa rotta sotto il giunto con fungo asportato è chiara”, spiega il tecnico chiedendo l’anonimato. Tradotto: sotto il fungo, ovvero la parte superiore del binario, c’è un pezzo di calcestruzzo (traversa) rotto. L’inizio dello svio è avvenuto su un giunto (il tratto in cui vengono uniti due pezzi di rotaia) e sotto, questo viene ritenuto “fondamentale” dall’esperto, c’è “mancanza di stabilità della massicciata”. Manca il sostegno, il pietrisco che viene posizionato sotto i binari. E in effetti dalla foto si nota una sorta di piccolo buco, un avvallamento del terreno. “Bisognava rincalzarlo, si dice in gergo”. Era insomma necessario riempirlo, consolidarlo, in modo tale da fornire al binario una base sulla quale scaricare il peso del passaggio dei treni. Ma c’è di più. “Quel danno alla rotaia, il fungo divelto, può essere figlio di un lavoro di realizzazione del giunto stesso, utilizzando un cannello da taglio e non la sega a disco”, aggiunge il tecnico. È possibile a suo parere – e su questo sono in corso gli accertamenti dei poliziotti del Noif – che la giuntura non sia stata effettuata a regola d’arte nel momento in cui sono state messe in posa le rotaie. L’uso di un “cannello”, ossia una fiamma ossidrica, ipotizza l’esperto, “altera l’assetto molecolare della parte iniziale della rotaia da giuntare, predisponendola eventualmente alla successiva rottura” man mano che passano i treni. Riassumendo, spiega il tecnico, “potrebbe trattarsi di una serie di difetti”: dal consolidamento all’esecuzione del taglio delle rotaie poi giuntate che porta alla rottura. Questo accentua il “martellamento” del treno (cioè lo “sbattere” delle ruote del convoglio sulle rotaie) che “probabilmente lì avviene da lungo tempo, come dimostra la rottura di una delle quattro chiavarde cesoiate”, i grossi bulloni in primo piano. Il martellamento porta alla deformazione della rotaia (lo si nota in quella in secondo piano, nda) o al distaccamento di un pezzo di rotaia che possono portare allo svio del treno. Se come sostiene l’Ansa, quel tratto era interessato da lavori di manutenzione e quella rotaia stava per essere sostituita, le condizioni del binario erano note. “In questi casi si può chiedere un degradamento della velocità – conclude l’esperto contattato dal Fatto.it – perché questo limita i rischi di sobbalzi del treno sulla rotaia malconcia e di conseguenza riduce il pericolo di deragliamento”.
Trenord, il racket dei biglietti. Ritardi, sprechi, sporcizia sui treni e un contratto di lavoro che favorisce abusi e privilegi, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Quante volte vi è capitato di salire su un treno regionale e non avere il biglietto? Di certo molte, perché spesso nelle stazioni dei paesi più piccoli la biglietteria è chiusa oppure non funzionano le macchinette automatiche. Ebbene, i cosiddetti «portoghesi» rappresentano solo in parte un problema per Trenord, la società paritetica (50%-50%) costituita da Trenitalia e da Ferrovie Nord Milano (quindi Regione Lombardia) per operare nel settore del trasporto ferroviario passeggeri della regione Lombardia. Anzi, spesso sono una vera e propria manna per i dipendenti, in particolare per i capitreno incaricati di fare il biglietto in carrozza. Per ogni regolarizzazione (emissione di biglietto) effettuata a bordo treno (o a terra ndr), infatti, l’agente Trenord (che non svolge altro che il suo lavoro, ndr) incassa più di 2 euro per un valore medio per ogni biglietto regolarizzato di 1,5 euro (vedi sotto la voce del contratto): in pratica se Trenord fa la lotta ai portoghesi ci va a perdere e c’è chi se ne approfitta. Del resto incassare 2 euro per ogni tagliando che si effettua sul treno rappresenta un bel gruzzolo per arrotondare lo stipendio. L’argomento è scottante, ma alcune fonti interne raccontano di stranezze ormai note che nessuno vuol denunciare: come ad esempio il mettersi d’accordo con la biglietteria per restare chiusi e spartirsi le somme incassate. Violazione diffuse, dal basso, compiute da bigliettai e capotreni. E questa è solo una delle tante anomalie che si possono trovare in pancia a Trenord. Stranezze che purtroppo pesano sulle tasche dei contribuenti, come quelle per i benefit di vario genere di cui godono i dirigenti. I manager Trenord hanno ad esempio il diritto a viaggiare gratis sui treni Trenitalia e sui FrecciaRossa, ma allo stesso tempo hanno un auto pagata: tutti fattori che in tempi di crisi non sembrano avere molto senso. Tanto più raccontarlo nel giorno in cui i sindacati hanno indetto uno sciopero nazionale in Trenord. Del resto particolarità come queste non sono altro che il risultato del contratto di lavoro firmato da Trenord il 4 luglio del 2012 con i sindacati, su cui la regione Lombardia di Roberto Maroni non sembra voler intervenire dopo l’addio dell’amministratore delegato di Fs Mauro Moretti, passato da poco in Finmeccanica. Come ricordano alcuni manager interni, quel contratto fu un tassello importante per la definizione dei rapporti di forza con Trenitalia, che per un sistema di accordi parasociali ha in mano il direttore operativo e finanziario, mentre l’amministratore delegato “il gentiluomo dei binari Luigi Legnani", è di nomina lombarda. C’è da dire che tra i sindacati l’unico a non firmare all’epoca fu l’Orsa che è quello con più iscritti tra il personale mobile. Ebbene, quale è il risultato del nuovo contratto di lavoro? I costi per il personale sono in un anno cresciuti di circa 30 milioni di euro (da 230 milioni a 260). Non solo. Non c’è stata una crescita di nuove risorse, il cui ingresso è stato compensato dal turn over. Il costo per addetto, come già ricordato da Libero lo scorso 28 gennaio, è pari a circa 60 mila euro annui per 38 ore di lavoro a settimana. Il confronto con i competitor è disarmante. Per fare un esempio, in Atm, azienda che gestisce il trasporto pubblico locale a Milano, l’addetto ha una retribuzione media lorda di 52 mila euro e i suoi operatori lavorano un’ora in più, 39 alla settimana. Non solo la stessa azionista Trenitalia paga i suoi addetti 56 mila euro all’anno e lavorano le stesse ore dei dipendenti Trenord (38 ore a settimana). Se poi si verifica se il contratto di lavoro con i relativi aumenti abbia inciso sulle prestazioni, c’è quasi da mettersi le mani nei capelli. Oltre alle lamentele da parte dei viaggiatori per i ritardi e la sporcizia, basta leggere i dati interni per capire che l’aumento salariale è servito a ben poco: dall’87% di puntualità del 2012 si è scesi - nel 2013 - al 78% di media. I primi mesi del 2014 non stanno segnando miglioramenti. E a pagare ritardi e stipendi non sono altro che i cittadini. Le paghe più alte sono quelle dei macchinisti, circa 4 mila euro, e dei capitreno: in virtù dell’articolo 54 vengono pagati due volte per guidare il treno. A questo si aggiunga che, nel gennaio dell’anno in corso, Trenord ha licenziato cinque quadri apicali per avere commesso delle irregolarità nell’assegnazione dello straordinario ai macchinisti e ai capitreno. Ore gonfiate – riferiscono voci di piazzale Cadorna - proprio in virtù di un contratto che rende troppo facile far lievitare i guadagni per il personale mobile e per il fatto che l’azienda non aveva e non ha alcun sistema di controllo interno: di quella inchiesta non si è saputo più nulla. Altro dettaglio rilevante. Sempre nel dicembre del 2012 Trenord decise di dotarsi di un software per la gestione integrata di uomini e mezzi. Si affidò a Goal Rail, una applicazione di cui è proprietaria una società spagnola, la Goal System, che funziona nei più complessi hub aeroportuali del mondo. Ma qualcosa si inceppò nelle fasi di progettazione come forse ricorderanno diversi pendolari. Soprattutto perché negli stessi giorni stava prendendo vita il nuovo contratto e i due sistemi non si integrarono. Il risultato fu devastante: treni fermi per due settimane e pendolari inferociti. Erano i giorni dell’arresto di Giuseppe Biesuz, l’allora amministratore delegato, che arrestato per altre vicende fece in pratica da capro espiatorio per tutti, perché il resto dei vertici è rimasto al suo posto. Tanto più che Goal System si è tutelato per il danno d’immagine ricevuto: insomma un autogoal in piena regola. Tra le inchieste su Expo 2015 e elezioni, la regione al momento non sembra voler toccare il capitolo Trenord, dimenticando che la gestione dei treni regionali sarà fondamentale proprio tra un anno, durante l’espozione universale. E c’è soprattutto chi, all’interno, si domanda se sarà rivisto il contratto di lavoro, giudicato da diverse fonti «imbarazzante per azienda e per gli stessi sindacati».
La replica della Federazione Autonoma dei Sindacati dei Trasporti al nostro articolo. «Spettabile redazione di “linkiesta.it”, con la presente, in qualità di Segretario Regionale Lombardia del sindacato Fast FerroVie sono a chiedervi la rettifica dell’articolo in oggetto in quanto riportante informazioni errate, imprecise e a tratti diffamatorie nei confronti dei lavoratori dell’azienda Trenord. Andiamo per ordine. Nel vostro articolo argomentate in modo assai superficiale la politica societaria adottata con l’attribuzione di “2 € di indennità fissa per ogni regolarizzazione effettuata a bordo treno, a terra e/o nelle stazioni”. Nello specifico siete a sentenziare che “in pratica se Trenord fa la lotta ai portoghesi va a perdere e c’è chi se ne approfitta”. Tale deduzione è totalmente falsa in quanto è vero che il capotreno incassa 2 euro e anche il 25% dell’importo delle somme riscosse a titolo di sovrattassa ma è anche vero che l’azienda incassa il biglietto, più una sanzione variabile a seconda della casistica di mancato possesso del titolo di viaggio, come previsto nelle condizioni di trasporto Trenord “Art.114– Irregolarità e sanzioni” che vi invito a leggere. Assurda anche la diffamante accusa, perché di questo si tratta, che il personale si possa “mettere d’accordo con la biglietteria per restare chiusi e spartirsi le somme incassate”. Chiunque conosca il mondo ferroviario e nello specifico quello di Trenord sa che l’apertura e chiusura delle biglietterie non è decisa dal personale stesso a proprio piacimento ma dall’azienda, che in qualsiasi momento può sanzionare - e sanziona - il personale di una biglietteria ingiustificatamente assente dal posto di lavoro comandato. Nessun caso simile si è mai presentato e nessun lavoratore addetto alle biglietterie - né tantomeno alcun capotreno - ha mai operato come da voi descritto. Asserite un'autentica bestialità. In aggiunta, e a conclusione della replica alla prima parte del vostro articolo, prima di sentenziare sul pagamento dei 2 euro per emissione dovreste informarvi sul fatto che, in fase di stesura contrattuale, tale somma è scaturita dopo la soppressione di altre indennità precedentemente previste dai contratti/accordi aziendali precedentemente in vigore e quindi senza un sovraccosto da parte aziendale né, quindi, dei contribuenti. Nel successivo capitolo del vostro articolo asserite chiaramente che, a causa del contratto di Trenord, il costo per lavoratore è superiore a quello di altre aziende. Tale affermazione è assai imprecisa in quanto, anche ammessa la veridicità dei vostri dati, l’eventuale maggior costo non è frutto del contratto di Trenord ma dalle modalità di confluenza dei lavoratori provenienti da un contratto differente (Autoferrotranvieri) nel Contratto Unico Della Mobilità Area Attività Ferroviarie, cioè il contratto nazionale di primo livello. Arrivando da altro contratto e dovendo garantire la salvaguardia stipendiale di un primo livello (Autoferrotranvieri) con alcuni parametri più alti del contratto dove andavano ricollocati (Mobilità Area Attività Ferroviarie), alcune figure professionali si sono trovate con salari “ad personam” al quale poi si sono sommate indennità derivanti dal contratto aziendale Trenord che prima non percepivano. Bisogna però anche fare presente che altre figure professionali ex Trenitalia, come i macchinisti, si trovano ad avere un contratto che paga “l’indennità di condotta” meno rispetto a quella di “Trenitalia” dove lavoravano se non raggiungono almeno 3 ore di condotta in un giorno e quindi in alcuni casi ciò diventa un abbassamento di livello stipendiale. Parimenti alcune figure professionali come la Manutenzione “ex Le Nord” si sono viste ridotte alcune indennità e scomparse altre con ricadute economiche negative sul personale. Quando dichiarate che “le paghe più alte sono quelle dei macchinisti - circa 4 mila euro - e dei capitreno: in virtù dell’articolo 54 vengono pagati due volte per guidare il treno” parlate a sproposito. Le indennità previste nell’articolo 54 per quanto riguarda i macchinisti, come sopra citato, se confrontate con i “cugini" di Trenitalia (art 31 Tabella A, Contratto Aziendale di gruppo FS del 20 Luglio 2012) non sono certamente maggiormente retribuite se non al raggiungimento di una produttività (4, 5 ore di condotta) ancora ben lontana da quella presente in Trenord, quindi spesso i macchinisti sono meno retribuiti rispetto ai colleghi di Trenitalia. Se il “pagati due volte per guidare il treno” è riferito a tale indennità occorre informarvi che la parte salariale di un macchinista è composta da uno stipendio fisso e una variabile; ciò non significa doppio pagamento e, per di più, questa formulazione salariale non è propria della sola Trenord ma di una miriade di aziende di trasporto ferroviario sia passeggeri che merci. Gli stipendi con le cifre da voi enunciate sono un insulto ai macchinisti che mensilmente, per svolgere il loro normale turno lavorativo, arrivano a prendere cifre prossime alla metà di quanto da voi dichiarato. Per tutto quanto sopra vi invitiamo a smentire, rettificare e - ma di questo chiedete conto alla vostra coscienza e alla vostra deontologia - scusarvi, eventualmente pubblicando questa nota, con i lettori nonché con i dipendenti di Trenord che lavorano ogni giorno per garantire un servizio pubblico migliore possibile. I lavoratori che si sentiranno diffamati da quanto da voi affermato saranno da noi supportati in ogni eventuale azione legale che decidessero di intraprendere. Comprendiamo che quello del giornalista è un mestiere difficile, che porta spesso a narrare di ciò che non si conosce. La differenza tra il buono e il cattivo giornalismo è data dall'accurata ricerca delle notizie e dei punti di vista. Vi invito inoltre a leggere anche i contratti di Trenitalia e di altre imprese ferroviarie nonché il contratto Nazionale Della Mobilità Area Attività Ferroviarie». Capirete com’è regolato il trasporto ferroviario in Italia.
Ferrovie Nord, indagato il presidente Achille: 600 mila euro di spese pazze. L'accusa è di peculato e truffa aggravata: sarà sospeso per sei mesi dall'incarico. Nelle carte degli inquirenti, auto e schede sim regalate a moglie e figlio, scrive “Il Corriere della Sera”. Peculato e truffa aggravata, oltre 600mila euro distratti dalla società Ferrovie Nord Milano per fini personali come l’acquisto di un abbonamento della pay tv, scommesse sportive, abiti, cene, schede telefoniche e noleggio di auto. Sono le pesanti accuse mosse dalla Procura di Milano al presidente del cda di Fnm Achille Norberto, 71 anni, da 17 a capo dell’azienda di cui la Regione Lombardia detiene il 57,57 per cento del pacchetto azionario. Lunedì i carabinieri del comando provinciale di Milano hanno notificato ad Achille un’ordinanza applicativa della misura interdittiva «del divieto temporaneo per sei mesi dell’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ex art. 290». I reati contestati si riferiscono al periodo 2008-2014. I soldi della società, secondo le accuse elencate nella nota diffusa dai militari, sarebbero stati spesi per «pasti non di lavoro, abbonamento per la pay tv, abiti, scommesse sportive, materiale elettronico» per circa 110mila euro. Achille avrebbe «ceduto alla moglie e a un figlio due schede telefoniche intestate alla società, che ne sosteneva i costi per 125mila euro»; avrebbe «ceduto in uso esclusivo ad un figlio due autovetture aziendali noleggiate ad un costo di 220mila euro circa, a cui erano elevate contravvenzioni al codice della strada per 125mila euro circa; e infine avrebbe «chiesto il rimborso in contanti di spese effettuate utilizzando la carta di credito aziendale per 22mila euro circa». Nel curriculum pubblicato su Internet si legge che Achille è Cavaliere, Commendatore e Grand’Ufficiale della Repubblica Italiana, e che ha iniziato la sua carriera nel 1970-71 all’Università di Milano come assistente del corso di «Meccanica Aerospaziale». Negli anni ha ricoperto ruoli apicali nella Agusta Elicotteri, Fiat Trattori, Alfa Romeo, Italtractor Spa, Ansaldo, Itef, Kmb-Bank di Mosca. In giornata è stata notificata un’informazione di garanzia anche a Carlo Alberto Belloni, presidente del Collegio sindacale di Fnm SpA, «indagato per tentato favoreggiamento per aver omesso di assolvere agli obblighi di controllo conseguenti al ruolo rivestito e, invece, adottato condotte attive finalizzate a nascondere le distrazioni di beni riconducibili al predetto Achille».
Ferrovie Nord Milano: presidente Achille chiedeva rimborsi per porno e multe. Il "sistema" dell'azienda di trasporto lombarda. I magistrati contestano all'ex funzionario di aver intestato una delle due auto aziendali al figlio Marco, e anche il reato di peculato per la seconda vettura, scrive Marco Lillo su "Il Fatto Quotidiano". Lo spreco alle Ferrovie Nord Milano si faceva doppio. Il presidente delle Ferrovie Nord Milano Norberto Achille si faceva rimborsare non una, ma due volte gli stessi pranzi luculliani con conti astronomici. Prima pagava con la carta di credito aziendale. Poi, non contento, presentava di nuovo la ricevuta del ristorante alla cassa della presidenza e si faceva rimborsare. Anche la spesa telefonica per la cifra astronomica di 124 mila euro e 296 euro in cinque anni (roba da preoccuparsi seriamente per la salute) era raggiunta grazie a una duplicazione. Achille non aveva solo attribuito in uso alla moglie Patrizia e al figlio Marco due schede aziendali, ma era intervenuto anche su una terza sim“facendo addebitare le telefonate effettuate all’altro figlio Filippo sull’utenza aziendale in uso a Achille Norberto – scrivono i magistrati milanesi – mediante attivazione dell’opzione cosiddetta ‘twin card’”. Invece i magistrati contestano al padre di avere destinato all’altro figlio Marco la BMW serie 5 con relativo carburante e telepass. I magistrati contestano il reato di peculato al presidente di Ferrovie Nord Milano anche per la seconda auto aziendale a lui assegnata, la Audi A6: “La circostanza che nel fine settimana Norberto Achille sia solito consumare quasi un pieno di carburante non lascia margine in merito al fatto che l’Audi venisse utilizzata per tutto il weekend”. Achille non aveva solo attribuito in uso alla moglie Patrizia e al figlio Marco due schede aziendali, ma era intervenuto anche su una terza sim. Tra le spese elencate dai magistrati nel provvedimento si segnalano: 900 euro spesi il 23 agosto 2009 al celebre stabilimento balneare di Daniela Santanchè e Flavio Briatore “Twiga” a Forte dei Marmi. E poi 3 mila e 749 euro per scommesse e 7 mila e 634 euro per Sky, in parte anche per film pornografici. Achille ieri mattina, dopo la notifica avvenuta lunedì dell’ordinanza del Gip Sofia Fioretta di interdizione temporanea dai pubblici uffici, si è dimesso dalla carica che ricopriva da 17 anni. A questo personaggio, che si vantava di essere amico di Silvio Berlusconi, Forza Italia ha consegnato la guida della principale società pubblica della Regione più ricca d’Italia. La fotografia migliore della situazione nelle Ferrovie Nord Milano, FNM Spa, società quotata in Borsa e controllata da azionisti pubblici come la Regione Lombardia (57,57 per cento) e Ferrovie dello Stato (14,74 per cento) è quella scattata dall’altro indagato che – dopo avere ricevuto l’informazione di garanzia – ieri si è dimesso: il presidente del collegio sindacale Carlo Alberto Belloni. Il capo dell’organo che nelle società per azioni ha l’obbligo di controllare che tutto sia in regola svela la filosofia imperante in questo feudo di Forza Italia-Pdl e Lega Nord (tre consiglieri a testa) mentre è registrato a sua insaputa da un funzionario coraggioso e onesto dell’audit: Andrea Franzoso. Lo scenario è quello di una lotta sotterranea tra i funzionari che fanno il loro dovere come Franzoso e il capo dell’audit, Luigi Nocerino da un lato, e il gruppo che dirigeva da quasi due decenni la società sperperando i soldi della società regionale dall’altro. Il 30 marzo 2015 il presidente del collegio sindacale Belloni parla con Nocerino e Franzoso per fargli una lavata di capo. Tra le spese elencate anche 3 mila e 749 euro per scommesse e 7 mila e 634 euro per Sky, in parte anche per film pornografici. I carabinieri sono venuti da poco in società spediti dal pm Giovanni Polizzi e si sono presi tutti i report del servizio audit interno sulle spese anomale. “Lui (Nocerino) così facendo si fotte con le sue mani. Questo qui – dice Belloni – ce lo troviamo a Novate a pulire i cessi dei treni”. Belloni spiega al collaboratore di Nocerino “è come se difendesse un partito preso. Qui non esiste i ladri e gli onesti. Non esiste! Non esiste!. Guarda, bene che vada, esiste una serie di conniventi. Non so se mi sono spiegato. Ma ladri e onesti, non esiste”. Tra pochi giorni comunque (a prescindere dall’intervento del pm Giovanni Polizzi che ha ottenuto l’interdizione di Achille) all’assemblea sociale del 24 maggio, saranno nominati i nuovi vertici. Il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni ha indicato in sostituzione di Achille come presidente di Fnm Andrea Gibelli, già parlamentare e consigliere regionale della Lega, segretario generale di Maroni ora in Regione. Come Il Fatto ha scritto, Belloni si vanta di essere amico di Gibelli. Nelle registrazioni trascritte dal giudice nell’ordinanza contro Achille si comprende che il presidente del collegio sindacale di Forza Italia si sentiva forte anche con l’arrivo del presidente leghista. Il Movimento 5 Stelle prepara battaglia. “Lunedì prossimo parteciperemo all’assemblea degli azionisti di Fnm per tutelare gli interessi dei lombardi”, dichiara il consigliere regionale Stefano Buffagni. Non si esclude la presenza in assemblea di Beppe Grillo in persona, in stile ENI, MPS o Telecom Italia. Il padre poi sbotta anche sulle multe prese con l’auto di Ferrovie Nord: “Devo pagare solo di multe 150 mila euro per te”. Certo gli spunti non mancherebbero per una performance del leader M5S. Tra le conversazioni intercettate dai carabinieri ci sono anche quelle che provano l’uso dei telefonini aziendali da parte del figlio di Achille: “Ascolta, a proposito, ecco, il telefono, adesso non scherzo più (…) te lo faccio staccare domani” diceva il 2 marzo l’ex presidente di Fnm al figlio. Il padre poi sbotta anche sulle multe prese con l’auto di FNM: “Devo pagare solo di multe 150 mila euro per te”. Il gip contesta ad Achille un danno di 124 mila euro per le multe prese dal figlio con la sua BMW. Il 9 aprile, otto giorni dopo l’articolo del Fatto Quotidiano che raccontava la storia dei tre quadri per 17 mila euro di spesa donati da FNM a qualche ignoto amico dei vertici della società, Achille discute con il funzionario dell’audit Franzoso dei destinatari delle tele. Achille, scrive il Gip fa presente che “tutti erano a conoscenza della cosa e che un’eventuale comunicazione di ciò metterebbe tutti a disagio”, come a dire che è meglio per tutti se si sorvola. Franzoso, come scrive il Gip, “riprende il discorso dei quadri, uno dei quali è stato donato a Formigoni. Achille riferisce di essere a conoscenza del fatto che detti quadri sono andati alla Regione ma di non avere gestito nel dettaglio la vicenda”. Formigoni al Fatto ieri ha confermato la sua versione: “Non ho ricevuto nessun quadro e per chi dice il contrario valuterò azioni legali”. Da Il Fatto Quotidiano del 20 maggio 2015.
Una lite per motivi di soldi. E il figlio che si scaglia contro il padre, lo picchia e si ferisce lui stesso tagliandosi con un bicchiere. Figlio che non si calma neppure quando in casa arrivano i carabinieri a cui non resta che portarlo via, fermato, con le accuse di “per tentata estorsione nei confronti del padre, maltrattamenti in famiglia e resistenza a pubblico ufficiale”. E’ l’altra faccia della storia di Norberto Achille, ex amministratore delegato di Trenord, che dopo le accuse di peculato e truffa aggravata, ha anche iniziato la parziale restituzione di quei soldi non suoi utilizzati per spese private, scrive Giuseppe Guastella “Il Corriere della Sera”. I soldi. Non è la prima volta che litigano per i soldi, ma questa finisce con il figlio Filippo, che di denaro ne vorrebbe sempre di più, il quale va in galera in una triste vicenda familiare che forse potrebbe contribuire a spiegare anche alcuni risvolti dell’inchiesta che ha portato all’interdizione del padre Norberto Achille dalla carica di presidente delle Ferrovie Nord Milano. I problemi con la droga pesante di F.po Achille negli anni hanno reso sempre più problematico e difficile il rapporto con il genitore e con la famiglia. «È una cosa che ci tormenta da tutta la vita», ammette al telefono la madre Patrizia Restelli. Lo fanno intendere chiaramente anche alcune delle intercettazioni dell’inchiesta del sostituto procuratore Giovanni Polizzi che sono confluite nell’ordinanza del gip Sofia Fioretta con la quale il 18 maggio scorso Norberto è stato interdetto per sei mesi dall’incarico di presidente con l’accusa di peculato e truffa perché accusato di aver utilizzato a fini personali e familiari carte di credito della società per azioni quotata in Borsa, telefoni e auto. Le indagini dei Carabinieri hanno scoperto che due carte di credito della società sarebbero state usate per pagare ristoranti, alberghi, locali notturni, abbonamenti alla pay tv, capi di abbigliamento, arredi, connessioni ad internet, scommesse sportive e altre spese per un totale di oltre 74mila euro. Inoltre, due telefoni cellulari sarebbero stati utilizzati dalla moglie e dal figlio Marco mentre l’altro figlio, Filippo, avrebbe potuto far addebitare le chiamate del suo telefonino sull’utenza aziendale in uso al padre. Il tutto per un costo pagato dalle Ferrovie Nord di oltre 124mila euro. Infine le autovetture aziendali: due Bmw serie 5 sarebbero state usate dal figlio Marco che avrebbe pure collezionato una serie di contravvenzioni al codice della strada finite a carico di Fnm per oltre 124mila euro; Norberto Achille avrebbe poi impiegato l’Audi A6 messa a sua disposizione con l’autista per spostamenti personali non legati all’incarico. Quando lo scandalo è scoppiato dopo un’indagine interna all’azienda e sono emerse le spese irregolari, e prima che il gip intervenisse con la misura interdittiva, Achille assicurò all’azienda che non si sarebbe più ricandidato avviando anche le pratiche per risarcire le Ferrovie Nord con un versamento di 74mila euro per rimborsare le spese fatte con le carte di credito aziendali. «L’unica cosa che mi fa parlare, perché voglio i soldi per uscire» diceva Filippo al telefono al padre che, intercettato il 3 aprile scorso, gli contestava di aver perfino «venduto il televisore». Ma qualche giorno prima, il 29 marzo, quando Norberto gli aveva chiesto «Ecco e allora cosa vuoi dalla vita ancora?», Filippo aveva risposto «Niente, volevo star con te perché ti voglio bene», anche se subito dopo accusava il padre di dire che lui è un drogato, cosa alla quale Norberto Achille rispondeva: «Ma lo sanno tutti, lo sanno tutti». «Ma chi lo sa, non lo sa nessuno», replicava Filippo. E Norberto: «Purtroppo, purtroppo lo sanno». Giovedì mattina la situazione è precipitata nella casa della famiglia nel signorile quartiere residenziale Milano 3 di Basiglio. Filippo voleva altri soldi ed il padre gli deve aver detto un altro no durante una discussione che è degenerata fino alla violenza. Il giovane, che ha 31 anni, ha aggredito il padre, che di anni ne ha 71, ferendosi anche ad una mano con un bicchiere che si è rotto. È stato il fratello, Marco che vive in un appartamento di fronte ai genitori a chiamare i Carabinieri. Quando i militari sono arrivati hanno sedato la lite ma non sono riusciti a calmare Filippo, che è stato arrestato per tentata estorsione nei confronti del padre, maltrattamenti in famiglia e resistenza a pubblico ufficiale. Filippo è stato rinchiuso nel carcere di San Vittore. Ad occuparsi di questa nuova vicenda è lo stesso sostituto procuratore Polizzi che, per un caso, era in Procura il pubblico ministero di turno al momento dell’arresto. La madre non rinuncia a difendere il figlio ad ogni costo: «È un povero ragazzo, tutto sommato, e questo per noi è un ulteriore dramma nel dramma».
DA FERROVIE NORD ALL'ATAC: CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
Chi controlla i controllori? Da Ferrovie Nord all'Atac: la vigilanza ostacolata nelle aziende. Le "audit interne" che finiscono insabbiate. Se non arrivano in procura. Le società pubbliche dicono di combattere il malaffare grazie agli organismi di vigilanza propri. Ma nella s.p.a del trasporto lombardo chi ha denunciato è stato isolato. Così racconta Andrea Franzoso in un esposto al giudice del lavoro. E gli esempi, anche altrove, non mancano, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso” il 22 dicembre 2015. Alle Ferrovie Nord Milano i controllori non piacciono proprio. Vanno bene quando stangano i pendolari senza biglietto, ma diventano scomodi quando scoprono gli intrallazzi dei top manager. E non sono le sole. Tante società pubbliche preferiscono non averne, di pubblico, per gestire gli affari nell'ombra e amministrare i fondi dei contribuenti come tesoretti privati. La trasparenza si perde nella nebbia di regolamenti cavillosi che coprono lottizzazioni & ruberie. Che si tratti di aziende o s.p.a finanziate da Stato, regioni e comuni, tutte sbandierano l'introduzione di “efficaci controlli interni”, ma poi insabbiano i risultati: vantano certificati di pulizia, nascondendo la sporcizia sotto il tappeto buono. Quello di Ferrovie Nord Milano è l'ultimo caso, forse più clamoroso perché avviene nella Milano lodata pure da Raffaele Cantone per «gli anticorpi morali». Lì il lavoro certosino di un“audit interno” ha scoperchiato le spese pazze dell'ex presidente Norberto Achille: centinaia di migliaia di euro prelevati dalle casse pubbliche per pagare i lussi propri, della moglie e dei figli. Achille e il presidente del collegio sindacale Carlo Alberto Belloni sono indagati da questa primavera, e si sono dimessi. Ma perché questo accadesse è stato necessario che Andrea Franzoso, uno dei responsabili delle verifiche interne, consegnasse il rapporto dell'audit ai carabinieri. Invece i suoi superiori – stando agli atti dell'inchiesta – volevano metterci una pietra sopra. E dopo l'esplosione dello scandalo, hanno messo in un angolo l'uomo che lo ha svelato. Un'operazione voluta dai nuovi vertici della società lombarda, sotto la presidenza del leghista Andrea Gibelli, esponente di punta del cerchio magico maroniano. Lo scrive il ricorso che Franzoso ha appena depositato al giudice del lavoro per discriminazione: il giovane dipendente racconta infatti di essere stato ostracizzato, allontanato dall'organo di vigilanza, trasferito a una funzione vuota, lasciato senza compiti, in sintesi: incentivato ad andarsene. Nel documento descrive pressioni e solleciti, ma soprattutto il disgusto manifestato dalla dirigenza per il suo operato così morale e trasparente che aveva sì permesso di recuperare soldi rubati, ma esponendo l'azienda allo sguardo indiscreto della magistratura. Franzoso riporta nell'esposto la registrazione di un colloquio avvenuto il 27 aprile con Carlo Alberto Belloni, che dopo le dimissioni dalle Nord e l'iscrizione nel registro degli indagati resta presidente del collegio sindacale del Policlinico di Milano, altro ente nelle mani della maggioranza lombarda. Nell'audio Belloni spiega la sua idea di audit interna: «Quando io dicevo che non bisognava scrivere determinate cose... non dicevo che non bisognava trovarle; bisognava trovarle, come faceva Orlandini (l'ex responsabile Internal Audit di Ferrovie Nord, ndr), a cui davate le cose … Orlandini veniva dal presidente e le mediava … a suo vantaggio». Insomma: l'audit servirebbe per scoprire, certo, il malcostume interno. Ma anziché per avviare poi pulizia, per usare i risultati trattando vantaggi. Garantendo che la polvere non verrà smossa. «Forse bastava venire su e dire le cose man mano che venivano avanti», dettaglia Belloni nel colloquio riportato: «e seguire quello che vi dicevo io, e stare più prudenti... e non farvi prendere dalla foga di capire, di avere...». Per i controllori rigorosi non ci sono orizzonti di gloria, ma prospettive nere. «Gibelli secondo te cosa fa? Si tiene questo organo di vigilanza? No, lo cambia. Il minimo che deve fare. E se a te ti mandano a Como? Ci hai pensato a questo? Bastava dirmele le cose...», continua Belloni. Che a questo punto si lancia in un parallelo agghiacciante con il nazismo e “la soluzione finale”: dai controlli sui treni arriva ai forni crematori, paventando una macabra rappresaglia. Ecco le sue parole testuali: «Il comandante di Auschwitz, che di certo non era uno stinco di santo – (sic) - l'unica cosa che non ha mai fatto è indagare sui revisori dei conti che gli mandava Berlino. Mai fatto. Aveva il Comitato di controllo interno, aveva l'organo di vigilanza del campo, fatto da SS; quando una SS si svegliava e diceva: bisogna indagare sul comandante, sul presidente dei revisori dei conti che arriva da Berlino, gli diceva: “Guarda, tu non sei ariano perfetto, comincia ad accomodarti dentro al forno crematorio”. Voi siete riusciti a fare anche questo. Voi non vi occuperete più di audit in vita vostra...». Una profezia chiara. Che esplicita una sorta di legge non scritta, apparentemente in vigore in tante aziende pubbliche: le verifiche interne devono restare al chiuso, chi le fa uscire paga. È accaduto – stando a quanto rivelò “Repubblica” nel 2013 - a proposito dei risultati insabbiati di un audit interna all'Atac, la società del trasporto pubblico romana travolta allora dalle indagini della procura: una commissione di verifica voluta dalla stessa azienda, guardando i conti, aveva anticipato lo scandalo dei biglietti falsi, consigliando già due anni prima al direttore generale di informare la procura. Ma quel rapporto finì in un cassetto perché erano “troppo pesanti i potenziali risvolti politici”: solo un anno dopo un'indagine esterna ha fatto emergere la magagna, provocando l'intervento della magistratura. Ma le indagini aziendali che nulla cambiano sono un leitmotif delle cronache di queste settimane. È un sospetto che aleggia in casa Rai, con gli appalti sospetti individuati dalla vigilanza interna ma smascherati solo dall'azione della procura. E che ha fatto capolino pure in antiche indagini su Trenitalia. Aziende che vivono grazie ai soldi pubblici ma gestiscono tutto in modo privatistico. Senza che ci sia mai (o molto raramente) il coraggio di denunciare. Ora il caso di Ferrovie Nord rende urgente la necessità di cambiare le regole. E incentivare la tutela per chi negli uffici combatte il malaffare. Andrea Franzoso e il suo avvocato, nell'esposto, chiedono almeno protezione per quei coraggiosi "whistleblower" che dall'interno denunciano le illegalità. Oggi non sono protetti dalla legge e pagano di persona per il contributo dato alla collettività, affrontando isolamento e ritorsioni. Mentre con puntualità mediatica proprio pochi giorni fa l'attuale presidente di Ferrovie Nord Andrea Gibelli ha presentato un “nuovo codice etico e normative adottate per una gestione più efficiente e trasparente”. Se Gibelli vuole, può subito dimostrare di saper cambiare verso: basterebbe premiare chi ha denunciato gli sprechi e permesso alla collettività di risparmiare centinaia di migliaia di euro.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni?
Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1. Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi. Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia. Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Così gli agenti si spartiscono il bottino con la banda di rom. Furti e spartizioni documentati da video stazione Milano. "Se non ci date quello che avete preso, vi togliamo i bambini e vi facciamo arrestare", scrive Luca Fazzo Giovedì 17/12/2015 su “Il Giornale”. Un saccheggio sistematico delle tasche e dei bagagli dei viaggiatori che avevano la sventura di passare nei mesi prima di Expo e durante Expo per la stazione Centrale di Milano: a realizzarlo, una banda di una ventina di rom serbo-bosniaci, che agivano indisturbati anche grazie alla copertura che ottenevano a caro prezzo da due poliziotti della Squadra Mobile di Milano. Questa mattina la Procura della Repubblica ha annunciato l'arresto di 23 appartenenti alla banda, accusati di associazione a delinquere; per i due poliziotti, che il capo della Squadra Mobile Alessandro Giuliano ha accusato apertamente di "tradimento" della loro missione e dei colleghi, il giudice preliminare (contrariamente a quanto chiesto dal pm Antonio D'Alessio, che voleva spedire anche loro in carcere) ha ritenuto sufficiente la misura degli arresti domiciliari. Ad accusarli sono stati gli stessi rom, che hanno parlato di un taglieggiamento sistematico, confermato da intercettazioni, filmati e pedinamenti: in una occasione i due poliziotti si sono fatti consegnare seicento euro, in un'altra mille. Inoltre pare avessero l'abitudine di minacciare i rom di sottrarre loro i figli se non avessero versato loro la refurtiva. Cosimo Tropeano e Donato Melella erano in servizio da anni proprio alla squadra antiborseggio. La banda di ladri, guidata da Sutka Seidic e Ante e Omar Cizmik, era strutturata in modo gerarchico, agiva sia lungo i binari, che a bordo dei treni, che negli spazi commerciali della Stazione. Ogni appartenente alla banda riusciva a accumulare un bottino tra i 500 e i mille euro al giorno. Dopo la chiusura dell'accesso ai binari, disposta per motivi di sicurezza all'inizio dello scorso maggio, l'attività della banda si è spostata prevalentemente nelle biglietterie e nelle zone d'accesso. Vittime predestinate, soprattutto i turisti stranieri. Tra il bottino dei furti, il record spetta a 120mila euro di gioielli rubati a un passeggero.
Poliziotti spartivano con i rom i proventi dei furti in Centrale. Due agenti della Squadra Mobile arrestati dalla Polfer: invece di arrestare le ladre prendevano soldi da loro e le minacciavano: «Vi portiamo via i figli», scrive il 17 dicembre 2015 “Il Corriere della Sera”. Invece di arrestare una banda di borseggiatrici rom che derubava i passeggeri dei treni, chiedevano soldi per non denunciarle e minacciavano di far «portare via» i loro bambini. Due poliziotti sono stati arrestati dalla polizia ferroviaria, su ordinanza di custodia cautelare del gip di Milano Giuseppe Vanore, perché avrebbero garantito ad un gruppo di persone di origine rom, anche loro arrestate, di compiere furti in Stazione Centrale a Milano chiudendo un occhio e incassando parte dei proventi dei colpi. Le indagini, condotte dalla polizia ferroviaria, sono state coordinate dal pm di Milano Antonio D’Alessio. I due agenti, da giovedì mattina ai domiciliari, sono accusati di concussione e falso in atti d’ufficio. In carcere sono stati invece trasferiti 23 nomadi, di origine serba e bosniaca, con l’accusa di associazione per delinquere. I due agenti arrestati, Cosimo Tropeano e Donato Melella, in servizio al dipartimento Crimini diffusi della Squadra mobile di Milano, riuscivano ad incassare «tra i 5 e i 20 mila euro a settimana» con una serie di furti, durati circa un anno. Diversi episodi, avvenuti dall’ottobre 2014 fino a tempi recentissimi, sono stati filmati dalle telecamere di sorveglianza della stazione. Il furto record è quello di gioielli per 120.000 euro sottratti al passeggero di un treno. Le vittime erano spesso turisti stranieri, anche giapponesi e americani, a volte derubati con la scusa di un aiuto a sistemare i bagagli. I due poliziotti coinvolti «sono agenti esperti, gente che lavora nell’unità antiborseggio e che conta centinaia di arresti all’attivo», ha riferito Alessandro Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Milano. Ad arrestare i due sono stati insieme la Squadra Mobile e la Polizia Ferroviaria. «Facevano parte - ha aggiunto Giuliano - di una sezione che ha dato grandi risultati nel contrasto allo spaccio e alla criminalità predatoria. Se provate, le accuse nei loro confronti sarebbero considerate ben più gravi degli altri reati commessi in questa indagine (quelli contestati ai nomadi) e il loro sarebbe un tradimento nei confronti delle migliaia di altre persone che svolgono onestamente questo lavoro».
Milano, pizzo alle borseggiatrici della stazione: arrestati due poliziotti. "Pagate, o vi togliamo i figli". Ventidue i nomadi in manette, soprattutto donne, colpi anche per 20mila euro a settimana. Gli agenti nei guai per concussione incastrati dai filmati, scrive Emilio Randacio su “La Repubblica” del 17 dicembre 2015. Una retata in stazione ai danni dei borseggiatori rom, o meglio delle borseggiatrici in azione spesso con i figli piccoli in braccio, che si spartivano il bottino con due poliziotti della Squadra Mobile, assegnati proprio al contrasto di questo tipo di reati, arrestati anche loro. Furti anche per un valore di 20mila euro a settimana, in stazione Centrale a Milano, dove è scattato il blitz. Ventidue nomadi, soprattutto donne, sono finiti in manette per associazione a delinquere, mentre i due agenti arrestati devono rispondere di concussione. L'operazione è scattata questa mattina su ordine del pm Antonio D'Alessio ed è stata eseguita dagli uomini della squadra Mobile e della Polizia Ferroviaria. I due agenti sono accusati di essersi spartiti parte dei proventi dei furti che avvenivano in stazione Centrale, messi a segno in particolare dalle donne-mamme, tra i viaggiatori con i bimbi al collo e giacconi a nascondere la destrezza con cui mettevano a segno i borseggi. "Se non ci date quello che avete preso, vi togliamo i bambini e vi facciamo arrestare", era la minaccia degli agenti che assistevano alla razzia quotidiana nelle aree libere della stazione e negli ascensori. Le ladre riuscivano ad incassare "tra i 5 e i 20 mila euro a settimana" con una serie di furti, durati circa un anno, ai danni di turisti soprattutto giapponesi e americani. I furti e le spartizioni dei proventi con gli agenti sono stati documentati dalle telecamere di sorveglianza della stazione. A incastrare gli agenti, i filmati in cui vengono ritratti mentre ritirano materiale da dei borsoni pieni di refurtiva. I due agenti, che erano in servizio alla sezione di contrasto ai crimini diffusi e in particolare all'unità antiborseggio, sono finiti agli arresti domiciliari con le accuse di concussione e falso in atti d'ufficio. Il pm D'Alessio aveva chiesto per loro il carcere, ma il gip di Milano Giuseppe Vanore ha disposto la misura meno afflittiva. Sono finiti in carcere, invece, 23 nomadi serbo-bosniaci, tra cui ci sono anche molte donne. Due di loro, in particolare, Fadila Hamidovic e Patrizia Hamidovic sarebbero state tra i promotori dell'associazione per delinquere finalizzata ai furti perché avrebbero selezionato le persone che dovevano compiere i colpi. "Fino a ieri i due agenti - ha spiegato il capo della Squadra Mobile di Milano, Alessandro Giulian - facevano parte di una sezione che produce grandi risultati nel contrasto ai crimini predatori e se verranno provate le accuse sarà una cosa molto grave, un tradimento verso coloro che svolgono sempre egregiamente e con onestà le loro funzioni". Il dirigente della Polfer Francesco Costanzo, invece, ha precisato che gran parte dei furti al centro delle indagini sono stati compiuti prima che alla stazione Centrale di Milano fossero introdotti, quando è iniziato l'Expo lo scorso maggio, i gate di accesso ai binari (per entrare bisogna mostrare di avere un biglietto per i treni). "Con l'introduzione dei gate - ha spiegato - i furti sono calati del 75%".
Ladre rom e pizzo, in manette anche il superpoliziotto. Tra i fermati Cosimo Tropeano, recordman di arresti, una specie di Serpico. Lui e il collega erano stufi di vedere tornare in circolazione le donne dopo ogni furto, scrive Giuseppe Guastella il 18 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Una piramide del crimine ha gestito per mesi i furti nella stazione Centrale di Milano con al vertice chi avrebbe dovuto abbatterla e che invece di arrestare i borseggiatori li taglieggiava. Sono 25 le persone arrestate, tra le quali ci sono due poliziotti fermati dai loro stessi colleghi. Con una media-record di 250 arresti l’anno, Cosimo Tropeano era considerato una specie di Serpico. Solo che con l’andare degli anni, secondo le indagini del sostituto procuratore Antonio D’Alessio, che fa parte del pool diretto dall’aggiunto Giulia Perrotti, invece di incrementare il suo invidiabile palmares, con il collega Donato Melella avrebbe costretto le borseggiatrici arrestate a consegnare il bottino se volevano tornare ad essere libere di rubare per conto dell’organizzazione, che a sua volta le taglieggiava con una «tassa» sui furti. Forse i due poliziotti erano stufi di vedere tornare in circolazione le donne, abilissime rom originarie della Bosnia Erzegovina, che di solito evitavano il carcere perché erano incinte oppure perché madri di bambini di meno di tre anni, ma sta di fatto che sono state proprio loro a farli finire nei guai, dopo che le avevano minacciate di far loro togliere i figli. L’inchiesta è partita a novembre 2014 da una borseggiatrice che ha rivelato alla Polizia ferroviaria di essere vittima di altri rom, donne e i loro mariti, che pretendevano il «pizzo» per farla «lavorare». Le intercettazioni e le confessioni delle nomadi arrestate via via quest’anno hanno completato il quadro facendo emergere le figure dei due poliziotti (ai domiciliari accusati di concussione per due episodi da 1.600 euro in tutto, ma sospettati di molti altri casi) ed incastrati anche dalle immagini delle telecamere di sorveglianza della stazione che li hanno filmati mentre si facevano dare soldi da una borseggiatrice che avevano fermato. I poliziotti sono stati immediatamente sospesi dal questore Luigi Savina. Come per tutti gli indagati, anche per loro vale la presunzione di innocenza, ma nel caso in cui le accuse fossero provate «le condotte ipotizzate sarebbero assolutamente inaccettabili», sostiene Savina in una nota in cui sottolinea come «ancora una volta la Polizia di Stato ha mostrato di avere in sé anticorpi tali da permettere di individuare presunti comportamenti illeciti anche di propri appartenenti». Le indagini tratteggiano i contorni di un’organizzazione in grado di «incassare» tra i 5mila e i 20mila euro la settimana prendendo di mira in particolare turisti giapponesi, americani e russi. I metodi erano classici: bambini usati come schermo, distrazione delle vittime, perfino falsi interventi di aiuto e tapis roulant bloccati. A una donna del Kazakistan è stata rubata un borsetta con gioielli per 130 mila euro. Quando a maggio con Expo sono comparsi i varchi controllati, gli affari della banda sono crollati del 75%.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
BERLUSCONI, CRAXI E IL PARTITO DELLE TASSE E DELLE MANETTE.
Partito di tasse e di manette. L'accanimento contro Berlusconi ecco dove e come ricorda quanto avvenuto con Bettino Craxi, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Ha ragione Paolo Guzzanti su «Il Giornale». Gli insulti a Silvio Berlusconi, che viene messo ancora una volta al bando solo per aver detto una frase forte, paradossale, ma che rende efficacemente l’idea della persecuzione alla quale è sottoposto lui e la sua famiglia, hanno radici nel lontano 1976. Dalle ingiurie del Pci e della sinistra estrema contro Bettino Craxi. Perché reo di aver portato al potere la sinistra anticomunista e di aver dominato un decennio di politica italiana, negli anni ’80, facendo ballare la Dc e il Pci, pur con il suo magro 12 per cento. Ma, come dice Gianni De Michelis nel libro «Il crollo del Psi» (Marsilio editore): «Bettino era dotato di una intelligenza politica laser, che travolgeva e stupiva ogni volta anche i più stretti e fedeli collaboratori (lo stesso ex potente e autorevole ministro degli Esteri compreso ndr)». Denunciò Stefania Craxi a chi scrive poche ore dopo la morte del padre tra le sue braccia (Hammamet, cinque della sera del 19 gennaio 2000): «Papà è stato ammazzato da un odio devastante». Disse suo fratello Bobo, tra le lacrime che scorrevano come una fontana, il giorno dopo nella Chiesa cristiana di Tunisi: «Caro papà, caro Monsieur le President, come tutti qui ti chiamavano, in segno di rispetto, tu te ne vai, vittima di una campagna d’odio senza precedenti!». Peccato, Bobo, poi prese altra strada, accompagnandosi con quella sinistra i cui esponenti suo padre, negli ultimi giorni di calvario all’Hopital Militare di Tunisi definì lucidamente: «I miei assassini». Chi scrive, da ex inviata speciale dell’«Unità», inviata speciale, in quei mesi tra il finire del 1999 e il 2000, in Tunisia per seguire il «Caso C», lo sa per certo. Il mio allora direttore (ultimo direttore in quel giornale dove non lavoro più dal 2000) Peppino Caldarola, uomo di sinistra ma intelligente, di vaste letture, dalemiano ma capace anche di riattaccare la cornetta del telefono al medesimo Massimo D’Alema, allora premier, su mia sollecitazione e soprattutto dietro mie informazioni esclusive sul grave stato di salute dello statista socialista, mi diede il via per un’intervista a Craxi. Rompendo un tabù, anzi abbattendo in quel giornale il muro di Bettino. Inviai le domande concordate con Caldarola, dove ad un certo punto mettemmo la parola «tecnicamente latitante» per i Pm (era l’unica forma di mediazione per far passare quell’intervista e non esere cacciati il giorno dopo). Craxi lesse, si rigirò sul suo letto d’ospedale e davanti a Bobo e al direttore di «Critica sociale» ( la rivista fondata da Turati) Stefano Carluccio urlò: «Io non dò interviste al giornale dei miei assassini, anche se lei (la sottoscritta) è una brava e coraggiosa donna». Aggiunse Stefania: «E Caldarola è una persona intellettualmente onesta». L’intervista non ci fu. Nonostante arditamente «Peppino» e la sottoscritta inviarono domande, dalle quali scomparì la parola «latitante». Ma ci fu un editoriale di «Peppino» che coraggiosamente diceva: fate tornare in Italia quell’uomo per essere curato e senza essere piantonato». D’Alema fu informato a Palazzo Chigi da «Peppino» a editoriale fatto, ma non ancora pubblicato. E dette il là con un sostanziale silenzio. Da Botteghe Oscure l’allora leader dei Ds, Walter Veltroni, non approvò. Ma non licenziò, forse per miracolo, Caldarola e la sottoscritta. Pochi mesi dopo, «L’Unità» venne chiusa, perché certamente gravata da ingenti debiti. Ma è un fatto che Caldarola non rientrò più come la sottoscritta e per nostra esclusiva volontà. Ognuno ovviamente per ragioni diverse e non solo per il caso Craxi, ma accomunati dal no al tunnel giustizialista. Questo forse fu l’ultimo piccolo tentativo (fatto più da due giornalisti che da D’Alema) di una sinistra riformista, antigiustizialista, di uscire dal tunnell nel quale si è cacciata con il fallimento del Pd, Matteo Renzi o non Matteo Renzi. Forse questo fu l’ultimo piccolo concreto tentativo di salvare la sinistra dal cancro dell’odio nei confronti dei suoi avversari. Quello per «Bettino» fu tale che il portavoce di Enrico Berlinguer, Antonio Tatò lo definì: «Un bandito, un avventuriero». L’epiteto più gentile quando Craxi era premier fu «il ciccione, il ladro, il cinghialone». Ci fu poi «il foruncolone», di cui secondo Antonio Di Pietro Craxi era malato (sic!). Era talmente un «foruncolone» che gli tagliarono, a causa del diabete, in una clinica tunisina alcune dita dei piedi. Il suo calvario non solo lo ha portato alla tomba del cimitero cristiano di Hammamet, ma ha messo a serio repentaglio l’Italia. Craxi in Tunisia era protettissimo dalla polizia di Ben Alì. E per muoversi ogni volta doveva viaggiare accompagnato da una sorta di discreto corteo di auto. Mi sono sempre chiesta: se un commando di un’altra nazionalità un bel giorno lo avesse rapito, allora sì che l’Italia sarebbe stata messa a rischio, essendo stato Craxi negli anni a Palazzo Chigi depositario di tutti i rapporti dei nostri servizi segreti. Doveva andare a S. Vittore? Aveva 59 anni quando scattò la campagna d’odio per via giudiziaria contro di lui. E in quegli anni in carcere ci si suicidava sotto i colpi di «Mani pulite». Prima di andare a Hammamet, Craxi passò per Parigi, dove, ricordò, «mi si aprì una ferita che mi spaccò il piede». Aveva un carico di condanne di oltre 20 anni. Ci sarebbe ancora da vergognarsi di essere italiani per la sorte che toccò a lui, proprio allo statista che l’Italia la fece entrare nel G7. E c’è purtroppo ancora da vergognarsi di essere italiani per la sorte che sta toccando al tre volte tre presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Vittima anche lui di una campagna d’odio senza precedenti. E senza che il Colle anche questa volta intervenga a difesa, neppure dalle ingiurie, di un leader che ha rappresentato l’Italia nel mondo, ha presieduto un G7 e un G8. Comparse una volta un manifesto del Pd che lo sfotteva per i capelli ripiantati. La nuca era ben messa in evidenza. Immagine inquietante. «Ma il Pd ormai è il Ptt». Cioè? Spiega un parlamentare che di centrodestra non è e Berlusconi non lo ha mai votato: «Partito di tasse e di manette».
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"Beato chi cerca giustizia perché sarà giustiziato...". Ex giornalista del "Manifesto" lancia un sito per tenere sotto tiro i magistrati. "Fui il primo al mondo a venir querelato da Di Pietro e dal pool Mani pulite", Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Nonostante le generalità da boss mafioso italoamericano, peraltro conformi al luogo di nascita (New Haven, Connecticut), Frank Cimini è riuscito a vivere per 36 anni a piede libero all'interno del Palazzo di giustizia di Milano, esercitandovi l'arte di cronista giudiziario. Il prolungato contatto con i magistrati lo ha indotto a coniare una massima su calco del Discorso della Montagna, il che è sorprendente, trattandosi di un ateo: «Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato». Forte di questo convincimento, ha fondato su Internet un seguitissimo blog dal titolo coerente, Giustiziami.it, in cui la sigla automobilistica del capoluogo lombardo trasforma il potere del diritto in un imperativo robespierriano. Nell'avventura ha coinvolto Manuela D'Alessandro, che da otto anni batte il tribunale per conto dell'agenzia Italia: «Bravissima. Insieme con Jari Pilati, collega della Rai, la mia più degna erede. Eppure è ancora precaria, l'Agi non si decide ad assumerla con regolare contratto». Giustiziami.it è cliccatissimo da quando ha narrato la guerra fra il procuratore generale Edmondo Bruti Liberati e il pm Alfredo Robledo, meritandosi una menzione speciale del premio Guido Vergani. Lo scoop più sapido servito di recente riguarda il processo iniziato il 19 giugno a carico di Selvaggia Lucarelli, la blogger transitata dalle pagine di Libero a quelle del Fatto Quotidiano, ribattezzato Manette Daily da Cimini. Una brutta storia che vede alla sbarra anche la giornalista Guia Soncini e Gianluca Neri, alias Macchianera, curatore dell'omonimo blog, e che sulla stampa sarebbe passata sotto silenzio se Giustiziami.it non avesse pubblicato sul Web capi d'imputazione e retroscena. Secondo l'accusa, ci sarebbero in ballo password violate e accessi abusivi alle caselle di posta elettronica di Mara Venier, Sandra Bullock, Scarlett Johansson, Federica Fontana e altre star, per conseguire «un profitto consistente nella vendita di fotografie e di informazioni o conversazioni personali» o «comunque al fine di arrecare danno a Elisabetta Canalis». Irrimediabilmente in preda alla sindrome di Stoccolma, invece di godersi la pensione agguantata dopo un tormentato percorso professionale, Cimini continua a frequentare il fascistissimo tempio razionalista in corso di Porta Romana, eretto negli anni Trenta da Marcello Piacentini, l'architetto prediletto dal Duce. Del primo giorno in cui vi mise piede, ricorda la parola d'ordine (ancor oggi richiesta in sala stampa a tutti, uomini e donne indistintamente) coniata da Annibale Carenzo, il decano dei cronisti di giudiziaria, che ha lavorato una vita per l'Ansa e che a 82 anni ancora bazzica il tribunale dal lunedì al venerdì: «Come ce l'hai?». La risposta di rito fu purtroppo usurpata da Umberto Bossi in un comizio pronunciato nel febbraio 1991 a Pieve Emanuele: «La Lega ce l'ha duro». Ciò consentì allo sfrontato Cimini di chiedere allo stesso Bossi, reduce da un interrogatorio sulle tangenti Enimont: «Ma fra lei e Antonio Di Pietro, chi ce l'ha più duro?». La risposta del segretario leghista, madido di sudore, fu: «Ce l'abbiamo duro uguale». Ecco, se c'è una benemerenza di cui Frank Cimini va orgoglioso è quella di essere stato il primo giornalista al mondo a venir querelato dal pubblico ministero molisano e dall'intero pool di Mani pulite, nelle persone di Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. «Era il 28 aprile 1993. Avevo scritto che Cesare Romiti non era stato arrestato perché i manager della Fiat si erano accordati con i magistrati per non finire in galera. Il pool reagì con causa civile e richiesta di danni: 400 milioni di lire. Vinse in primo grado. L'astuto Di Pietro preferì incassare un adeguato indennizzo dal mio editore. I suoi colleghi persero in appello. Come sia finita in Cassazione, non lo so».
Come finì dal Connecticut a Milano?
«Mio nonno Francesco andò negli Stati Uniti a estrarre carbone. Nel 1930 mio padre Luigi emigrò a sua volta da Minori, costiera amalfitana, a New Haven, per fare il parrucchiere. Nel 1952 tornò al paesello e conobbe Trofimena. Si sposarono e partirono per gli Usa, dove l'anno dopo nacqui io. Rimanemmo là fino al 1959, quando papà rientrò per sempre in patria. Nel 1975, con 70.000 lire in tasca, salii a Milano perché avevo vinto un concorso nelle Ferrovie».
Qualifica?
«Manovale. Ma, più che per i treni, stravedevo per i giornali. Ero sempre nella redazione del Manifesto, in via Valtellina. Alla fine il povero Walter Tobagi, che era mio amico, mi suggerì di fare causa. Vinsi e fui liquidato con 400.000 lire al mese per due anni».
Stipendiato per non lavorare.
«Militando nella sinistra extraparlamentare, cominciai a occuparmi di carceri. Entrai in Soccorso rosso. Dirigevo Controinformazione. Dopo l'arresto del responsabile Emilio Vesce, prestai anche la firma ad Autonomia, la testata del gruppo padovano di Toni Negri».
Ma nei giornali veri come ci arrivò?
«Con una sostituzione estiva di due mesi al Gazzettino di Venezia, diretto dal democristiano Gianni Crovato. E poi con un contratto come corrispondente da Milano per l'Aga, l'agenzia di stampa legata a Confindustria».
Bella serpe in seno, si sono allevati.
«Scopro la giudiziaria grazie a Marco Borsa, che mi assume nel neonato Italia Oggi. Primo scoop: un paginone dedicato a ex militanti di Lotta continua che aprivano locali sui Navigli, tipo Le Scimmie, pagando in nero i dipendenti. Pasquale Nonno nel 1987 mi assume al Mattino di Napoli, dove rimango, con base a Milano, fino al 2012».
Il suo barbone è anarchico o cheguevariano?
«Tutt'e due. Non lo taglio dal 1986».
Come manovale prestato al giornalismo che studi ha avuto?
«Ho abbandonato il liceo scientifico in quarta. Per iscrivermi all'albo ho dovuto sostenere l'esame di cultura generale. E dire che Di Pietro è meno intelligente di me. Stiamo parlando di un arrampicatore sociale che s'è trovato al posto giusto nel momento giusto. Ambiva a far carriera ed è stato usato dalla sua corporazione per accontentare le masse, vogliose di vedere in prigione i politici ladri. La magistratura ne ha approfittato per prendersi il potere. Dopodiché, Di Pietro si è candidato guardacaso nell'unico partito uscito indenne dalle sue indagini. I magistrati non sono meglio dei politici. Anzi, la mia personale opinione, dopo averli visti all'opera, è che siano molto peggio».
Se ho ben capito, secondo lei certa magistratura non sarebbe faziosa per pregiudizio politico bensì per avidità di potere.
«Esatto. Non c'entrano né le toghe rosse né l'ideologia. I magistrati puntano solo ad avere un potere superiore a quello dei parlamentari. Per conquistarlo, hanno ottenuto lo stravolgimento dello stato di diritto con la legge sui pentiti, una vergogna che ha esteso i suoi effetti perversi dai processi di mafia a quelli politici. Persino Alfredo Rocco, guardasigilli del governo Mussolini e autore del codice penale tuttora vigente, era contrario alle leggi premiali perché sosteneva che non bisogna favorire la delazione nemmeno fra scellerati. Che poi 'sti pentiti sono furbissimi. Leggono i giornali, guardano la tv, capiscono al volo ciò di cui i magistrati hanno bisogno e gli scodellano su un piatto d'argento che dietro le stragi c'erano Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri».
Ha seguito tutte le traversie giudiziarie del Cavaliere?
«Fin dai tempi della contesa con Carlo De Benedetti per la Mondadori. Avevo chiesto che fosse affidato in prova ai servizi sociali presso il nostro sito. Almeno in sala stampa ci saremmo divertiti a parlare di figa. Ma lui ha preferito andare dai vecchietti».
Dovrebbe moderare il linguaggio.
«È lo stesso invito che mi rivolse Bruti Liberati, sorridendo, in giorno in cui gli dissi che stava processando Berlusconi per un pelo di quella cosa lì».
Ha un buon rapporto con il procuratore capo di Milano?
«Lo conosco da quando simpatizzava per Il Manifesto. Però non mi ha invitato alla festa di compleanno nel giardino di casa sua, dove c'era solo la metà dei Pm, e senza coniugi, perché tutti non ci stavano. Si è bevuto benissimo, mi dicono».
Giustiziami.it descrive il Palazzo di giustizia come un lupanare.
«Racconto ciò che ho visto. Come in tutti i luoghi di sofferenza, in tribunale si tromba. Anche negli ospedali, sa?».
So, so.
«C'era un collega che tutti i pomeriggi fornicava nella cabina di regia della postazione Rai in sala stampa. E quante chiavate in camera di consiglio, dove il giudice presidente, il giudice a latere e i sei giurati popolari hanno a disposizione le brande per quei processi in cui la sentenza va per le lunghe».
Non starà romanzando?
«Potrei farle i nomi di un presidente che copulò in camera di consiglio con la sua giudice a latere, ma a che servirebbe? Mica li può pubblicare. È accaduto anche fra due giudici, uomo e donna, in un processo di primo grado a Berlusconi. Non lo dica all'interessato».
E lei?
«Ho sempre resistito alle tentazioni, a cominciare da quella per una Pm dai capelli ramati che anni fa, in Sardegna, ebbi la fortuna di vedere in bikini. Proprio una bella topa».
Qui finisce con una querela.
«Se usa l'imperfetto, scrivendo che “era” una bella topa, può giurarci».
Una pagina del sito s'intitola Camera di coniglio anziché di consiglio.
«Ci piace lo sberleffo. Ma i contenuti sono seri. Siamo stati gli unici a scrivere che la Procura ha applicato una moratoria sull'Expo, con tanti saluti all'esercizio obbligatorio dell'azione penale. Eppure si tratta di un'inchiesta ben più rilevante di Mafia capitale. È evidente che, a Expo in corso, i magistrati hanno preferito astenersi per carità di patria in base a una valutazione di tipo politico».
Che cosa glielo fa dire?
«Non lo dico io. Se lo dicono fra di loro. Di recente la Procura di Brescia ha prosciolto Bruti Liberati per aver archiviato l'esposto di un esponente della Lista Bonino-Pannella, scrivendo che “alcune remore del procuratore appaiono caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica”. Più chiaro di così».
Esiste una categoria che abbia più potere dei magistrati?
«No, neppure l'alta finanza, perché loro sono gli unici che possono sbatterti in galera e tenertici a vita. Usano i codici come se fossero carta igienica. Colpa della sinistra, la quale da decenni pensa che il mondo debba cambiarlo la magistratura. Ma quando mai il diritto ha modellato la società? Tocca alla politica farlo. Invece la politica è assente. È un gravissimo deficit di democrazia».
Mi sembra puerile ritenere che le toghe spadroneggino solo in Italia.
«Infatti la giustizia ha i suoi problemi ovunque. Ma la politicizzazione che esiste da noi non ha paragoni in Occidente. Con l'aggravante che viene negata. Negli Stati Uniti i magistrati sono eletti, quindi rispondono al popolo. Ma qui a chi rendono conto, visto che sono assunti per concorso?».
Rimedi?
«Abolire l'obbligatorietà dell'azione penale e separare le carriere di pubblici ministeri e giudici. Campa cavallo».
L'avrà pure incontrato un magistrato simpatico, in tanti anni di lavoro.
«Antonio Bevere. Adesso è in Cassazione. A Milano invitava i cronisti a casa sua e ci cucinava pizza e pasta».
Che doti deve avere un cronista giudiziario?
«Deve pensare con la propria testa, essere autonomo dai magistrati. Oltre a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, bisognerebbe separare quelle di magistrati e giornalisti, che spesso procedono di pari passo. Tant'è che i processi si celebrano prima sulla stampa che in tribunale».
Comoda la vita del cronista che può attingere ai faldoni della Procura.
«Basterebbe una riformina semplice semplice: se da una Procura escono carte che sono a disposizione della sola accusa, il magistrato titolare dell'indagine subisce un procedimento disciplinare davanti al Csm. E poi si dovrebbe proibire la pubblicazione dei nomi dei Pm sui giornali. Così cesserebbero le smanie di protagonismo di certe toghe».
Che cosa consiglia a un giovane agli esordi in questa professione?
«Di avercelo duro».
Per 62 magistrati di Milano il "caso Bruti" non esiste. Un folto gruppo di pm smentisce le frizioni in Procura denunciate da Robledo al Csm. "Il nostro ufficio dilaniato? Solo sui giornali, basta con chi vuole delegittimarci", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Adesso la colpa è dei giornali. Pare di leggere la nota redatta da qualche segreterie di partito e invece siamo dentro il palazzo di giustizia più blasonato d'Italia. Anche i pm di Milano non trovano di meglio che buttare la croce addosso alla stampa che da giorni racconta la violentissima contesa in atto fra il capo dell'ufficio Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Una guerra senza esclusione di colpi, con documenti, controdocumenti e audizioni al Csm, in un carosello senza fine di reciproche smentite che lasciano basiti. Non importa. Una sessantina di pm pensano bene di stilare un documento che sarebbe andato bene ai tempi della vecchia Dc. Senza prendere posizione per un partito o per l'altro, i magistrati mettono in fila due concetti: dicono no ad ogni tentativo di delegittimazione, affermano poi che tutte queste divisioni sono in realtà il frutto esasperato di una campagna di stampa che distorce la realtà e strumentalizza anche i dettagli più minuti. Proprio così. «Respingiamo ogni tentativo di delegittimazione complessiva dell'operato della nostra procura - affermano i 62 pm che poi proseguono rimandando la palla alla stampa - e non possiamo non intervenire in ordine alla rappresentazione mediatica non corrispondente al vero che viene offerta alla pubblica opinione con l'immagine di una procura dilaniata da contrapposizioni interne». Insomma, se i giornali non si sono inventati tutta questa storia, poco ci manca. E non importa se lo scontro abbia raggiunto punte inimmaginabili e si sia scoperto, nell'imbarazzo generale, che i vertici della procura più titolata d'Italia in questi anni hanno litigato furiosamente su tutto. Sull'iscrivere o meno Roberto Formigoni nel registro degli indagati; sui reati da contestare per gli appalti dell'Expo, con addirittura la surreale vicenda di un doppio pedinamento condotto o forse no, non si capisce bene, dai due spezzoni antagonisti della procura; e ancora sulla conduzione dell'indagine relativa a Ruby, ambita da Robledo ma poi assegnata all'antimafia di Ilda Boccassini. Uno scenario di macerie che solo un anno fa sarebbe stato liquidato come fantascienza. Ma questa mischia, che mette in crisi anche i fragili equilibri fra la correnti al Csm, rischia di far pagare alla magistratura un prezzo altissimo. E così qualcuno corre ai ripari. Ecco dunque il documento partorito da una delle toghe più autorevoli, Armando Spataro, magistrato dal curriculum chilometri che proprio ieri ha ricevuto la nomina a procuratore della repubblica di Torino, al posto di Giancarlo Caselli, ornai in pensione da alcuni mesi. Spataro ha ottenuto 16 voti, 8 sono andati all'altro candidato, il procuratore di Novara Francesco Enrico Saluzzo, sostenuto dai togati di Magistratura indipendente e dai laici del centrodestra. Insomma, ancora una volta il Csm si è spaccato secondo una frattura in qualche modo riconducibile alle logiche della politica. E oggi lo scontro Bruti-Robledo vive al Csm un'altra puntata: la Settima commissione ascolterà il procuratore aggiunto Alberto Nobili. Oggetto della sua convocazione: chiarire il presunto «peccato originale», insomma le mosse dei diversi pm che si sono contesi il fascicolo Ruby, dunque un'indagine esplosiva sul Cavaliere. Ancora una volta, gli ingranaggi di quella macchina perfetta che era la procura di Milano mostrano un'altra realtà: dietro il velo dell'obbligatorietà dell'azione penale e di regole ferree esistevano ed esistono ampi margini di discrezionalità. Una terra di nessuno in cui si scontrano vecchie ideologie e ambizioni personali.
Da «pool» a pollaio, il triste tramonto della Procura. I pm di Mani pulite per la gente erano eroi. Oggi, con la guerra tra ilc apo e il suo vice, il timore è che le toghe si arrestino tra loro, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I ricordi quando invecchiano si affastellano e confondono. Ma non tutti. Molti di essi rimangono impressi nella memoria, magari non con ogni dettaglio, ma nella sostanza sì. Ci fu un lungo momento, 20 e rotti anni orsono, in cui la Procura di Milano era considerata come una cattedrale, piena di santi e di madonne. La madonna era Antonio Di Pietro. I santi erano Borrelli (il capo carismatico), Davigo, Colombo eccetera. I magistrati, in particolare i rappresentanti della pubblica accusa, furono protagonisti di una svolta assai apprezzata dal popolo, stanco della Balena bianca, dei socialisti (ladri per definizione, allora) e di qualsiasi partito che non fosse tinto di rosso vermiglio. Le toghe avevano buona fama. Chi le indossava con orgoglio e supponenza era guardato con ammirazione, facendo parte attivissima di una sorta di esercito di liberazione. I giudici (pensavano in molti, tra cui io stesso) ci libereranno dai tangentari, dai gaglioffi, dai mariuoli che hanno trasformato la democrazia italiana in una palestra di disonesti, pronti ad arricchirsi alle nostre spalle senza badare all'interesse dei cittadini, sfruttando e mortificando la povera gente oppressa dalle tasse. Un Di Pietro che, infischiandosene della consueta prudenza attribuita agli amministratori della giustizia, procedeva lancia in resta contro i magliari della politica, veniva portato in trionfo. Il suo nome si leggeva sui cavalcavia delle autostrade: «Tonino salvaci tu». Il contadino togato piaceva da matti. In lui identificavamo il vendicatore, colui che avrebbe ripulito anche gli angoli della stalla politica, ormai mefitica, infetta. Le sue prime mosse non erano gradite ai colleghi della Procura, i quali si dichiaravano stupiti e infastiditi dal fatto che costui, da anonimo magistrato, fosse diventato in poche settimane molto popolare, un divo acclamato. Borrelli mi scrisse una lettera all' Indipendente, che allora dirigevo con spirito garibaldino, un po' folle, nella quale raccomandava di non esagerare col giustizialismo. Poi successe una cosa strana ma non troppo. I Pm si resero conto che il dipietrismo era più forte della tradizionale ponderazione cui erano avvezzi i magistrati e mutarono registro. Cavalcarono quasi subito il dipietrismo che in precedenza avevano criticato, consapevoli che esso era foriero di grandi successi e incontrava il consenso delle masse. Se dapprincipio era il solo Di Pietro ad essere applaudito, nel giro di poco tempo il cosiddetto pool di Mani pulite salì in blocco sul palcoscenico, salutato con entusiasmo, e incoraggiato a castigare i mariuoli. I giornali, inizialmente titubanti e restii ad appoggiare la Procura, abbandonarono in fretta ogni timidezza e si prestarono a fare da cassa di risonanza alle inchieste che avevano scoperchiato il malaffare e la corruzione diffusa. Il pentapartito - maggioranza di governo - fu presto sgominato, ogni sua componente ridotta al lumicino. In pratica restarono in piedi soltanto l'ex Pci (cioè il Pds), il Movimento sociale di Gianfranco Fini e la Lega di Umberto Bossi. Ma queste sono cose note, anche se gli italiani più giovani, o meno anziani, le ignorano. Quello che è accaduto nel nostro Paese negli ultimi 20 anni ha dell'incredibile. Poiché la famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, sorprendendo gli addetti ai lavori politici, coincise con la vittoria di Forza Italia, frenando la corsa al potere della sinistra (sconfitta alle elezioni del marzo 1994), l'attenzione del pool milanese si concentrò sul ricco Cavaliere, sospettato di aver brigato - e commesso dei reati - allo scopo di agguantare il potere. Per un paio di decenni la Procura si è così distinta nella caccia grossa con questo obbiettivo: se incastriamo l'erede del Cinghialone torniamo alla regolarità democratica. Come è andata a finire lo sappiamo e non è il caso di ricostruire le fasi che hanno portato alla condanna di Berlusconi, base di lancio di Matteo Renzi, succeduto alle meteore Mario Monti e Enrico Letta. Ciò indispensabilmente premesso, dobbiamo ora registrare che la parziale caduta del fondatore di Forza Italia ha provocato un altro crollo: quello della Procura di Milano, che sta vivendo un periodo orrendo, contrastante con gli anni d'oro inaugurati da Di Pietro e che permisero a Borrelli di candidarsi - regnante Oscar Luigi Scalfaro - alla guida dell'esecutivo (senza fortuna). Oggi il pool sembra un pollaio. Nel senso che le liti interne alla casta dei signori magistrati prevalgono sull'attività dei medesimi. I media non si occupano più delle mirabili (si fa per dire) indagini condotte dai Vip togati, saliti alla ribalta negli anni Novanta e successivi, bensì dei contrasti violenti tra Bruti Liberati - procuratore capo - e Robledo, suo vice. I due da mesi sono in combattimento e non si è ancora capito perché cerchino vicendevolmente di farsi fuori. Lo spettacolo che essi mostrano ai cittadini è desolante. Non sappiamo chi abbia ragione e chi torto, probabilmente sbagliano entrambi a scannarsi senza requie, suscitando nei cittadini un sentimento negativo ai confini dello scandalo. Addirittura qualcuno, con perfida ironia, ha commentato in questo modo la disputa fra gli alti magistrati: avanti di questo passo, in Procura si arresteranno fra loro, in una gara a chi ne fa secchi di più. È solo una battuta, ma esprime una preoccupazione non campata in aria. Il settore giustizia è sotto attacco da alcuni lustri. Per un po' si è pensato che le polemiche con al centro i giudici fossero strumentali, tese a delegittimarli per motivi di bassa bottega politica. Poi però si è constatato che anche negli ambienti tribunalizi (che dovrebbero essere austeri e riservati) ci si mena come disperati per una poltrona, e allora la reputazione di lorsignori ne ha sofferto. I sondaggi sulla credibilità dei magistrati sono crollati rispetto ad altre epoche e dimostrano che la stima di cui essi godevano quando imperversava Mani pulite si è assottigliata paurosamente ed è prossima ad esaurirsi. Qui più che una riforma del sistema giudiziario nel suo complesso, che il legislatore non è stato capace neanche di cominciare ad abbozzare, urge un drastico richiamo alle toghe di non rendersi ridicole. Già. La giustizia può far piangere, ma non deve farsi compatire se desidera conservare un minimo di dignità.
Un altro contro lo strapotere dei magistrati è Sallusti.
Sallusti: “Ho scoperto il pied a terre di Indro”. Scrive Davide Brullo su “Il Giornale”. Alla fine, sono riusciti a farlo ridere. Ospite nel giardino della Villa Mussolini in Riccione, venerdì sera, davanti a un popolo piuttosto folto (500 persone circa) Alessandro Sallusti ha inaugurato il ciclo “Riccione Incontra”. Stimolato dalle domande di Edoardo Sylos Labini, il direttore de il Giornale si è “sbottonato”, svelando i lati più intimi della sua vita. L’ostinato difensore di un pensiero “altro”, controcorrente e contro le mode imperanti, notoriamente impassibile, ha domato la folla con inedita abilità retorica. Ridendo. Sallusti che ride. In pubblico. Un evento mitologico. Ecco alcuni brani, montati come un film iridescente, del dialogo.
Gli esordi, ovvero: un direttore già da bambino. «Il primo giornale penso di averlo disegnato per le vie di Como, a 9 o 10 anni. Faccio il mestiere che ho sempre sognato di fare, più per fortuna che per merito, questo è davvero un dono di Dio. Ero un bambino inquieto e insoddisfatto. Per questo ho preso tante di quelle botte da mio padre…».
Il passato ingombrante. «Mio nonno è stato un ufficiale dell’esercito, passato alla Repubblica Sociale, poi fucilato. Questa storia ha sempre gravato sulla mia famiglia, come un peso insormontabile».
Il Battaglione San Marco: il militare necessario. «Non sono mai stato uno studente modello. Ho fatto l’Istituto tecnico e in anni in cui tutti erano ammessi agli Esami di Stato, mi fermarono. Una vergogna. Immediatamente mi diressi allo sportello del distretto militare. Mi dissero che se firmavo come volontario per il Battaglione San Marco avrei potuto partire dopo due settimane. Firmai. Il militare ha cambiato la mia vita in modo determinante, per questo penso che sia necessario ripristinare la leva obbligatoria. E quando penso ai nostri marò, beh, penso che questo Paese ha ormai perso il senso dell’onore».
Con Don Giussani sulla spider rossa. Considerazioni sulla fede. «Ho cominciato all’Ordine, che era il giornale più scalcagnato di Como, legato alla Curia, che dopo poco, in effetti, chiuse. Fui dirottato a Il Sabato, dove ero noto più che altro perché andavo in redazione con la spider rossa. Così un giorno Don Giussani viene a far visita alla nostra redazione e mi pretende. “Mi porti a fare un giro sulla tua spider rossa?”. Certo, dico io. In macchina, però, per vincere il mio imbarazzo, dico a Giussani che non sono di Comunione e Liberazione. Lui scoppia a ridere, “ma cosa vuoi che mi importi, io non so neanche se credo in Dio!”. Giussani era davvero un uomo straordinario. Mi ritengo un cattolico. Ma non sono un uomo baciato dalla vera fede».
Ersilio Tonini e l’esistenza di Dio. «Quando diventai caporedattore di Avvenire fui convocato a Ravenna dall’allora presidente del giornale, il Cardinale Ersilio Tonini. Di fronte a una minestrina – è sempre stato secco, magrissimo – mi disse, “il suo è un compito difficile perché dovrà mediare tra centinaia di Vescovi che la pensano diversamente su tutto. Anche sull’esistenza di Dio”».
1987: gli anni con Indro Montanelli. «Il Giornale non era un quotidiano, era un salotto. Assistere alle riunioni di redazione, con Montanelli a fare da regista sornione, era come andare al cinema gratis. Ricordo che un giorno il direttore, verso mezzanotte, passò da noi giovani, che parlavamo di donne. Scoccò la battuta folgorante: “non è che a me non mi tira più, è che non so più quando mi tira!”».
1994: il grande scoop. «Quando ero al Corriere della Sera pubblicai la notizia del premier Berlusconi indagato. Era la prima volta che veniva indagato un Presidente del Consiglio, giornalisticamente era uno scoop. All’epoca il direttore era Paolo Mieli. Il giorno dopo successe il finimondo, con perquisizioni della polizia e interrogatori. Nascosi le carte e i nastri che denunciavano l’indagine nella borsa di mia moglie. Poco dopo si aprì il caso di Primo Greganti, tesoriere della sinistra, e Mieli fu costretto a scusarsi in diretta Rai. La differenza di trattamento tra il caso Berlusconi e il caso Greganti mi fece capire che per me era ora di lasciare il Corriere: non sopportavo più il clima opprimente, il fiancheggiamento delle procure. Volevo la mia libertà».
“Libero” nasce davanti alla salamella. «Conobbi Vittorio Feltri quando ero direttore de La Provincia. Dopo un incontro pubblico, ci offrirono delle salamelle. Lì mi disse, su due piedi, “vieni con me a fondare un giornale?”. Accettai. Cominciò allora una avventura editoriale entusiasmante. Il concetto giornalistico di Feltri? Eccolo: quando scrivi di una persona dì che è uno stronzo, quando parli di un Paese dì che è un Paese di merda».
100mila copie per una Maserati. «All’inizio non avevamo un soldo. Ci fu anche un imprenditore riminese, Stefano Patacconi, che mise un po’ di soldi dentro Libero, ma poi si suicidò. Ci aiutarono gli Angelucci, ma il giornale viaggiava intorno alle 20mila copie. Un giorno, un po’ abbattuto, Feltri mi getta un depliant che presentava la nuova Maserati. Nacque una sfida. Se fossimo arrivati a 100mila copie mi avrebbe regalato una Maserati. Le superammo. Ma la Maserati durò poco: l’ho venduta perché consumava troppo e perché era ridicolo girare in Maserati».
Berlusconi e Renzi: differenze al telefono. «Ho girato per 12 giornali e svariati editori, beh, nessuno è più liberale di Silvio Berlusconi e di suo fratello Paolo. Il difetto di Berlusconi è che è troppo buono e rispettoso degli avversari, altrimenti sarebbe ancora Presidente del Consiglio. Telefona quando hai un problema, è di una solidarietà infinita. Al contrario, Matteo Renzi telefona quando è arrabbiato. Un giorno mi ha telefonato incazzato nero, insultandomi. Diciamo che sono modi diversi di fare politica».
1 dicembre 2012: l’arresto e la vergogna. «Una vicenda pazzesca, che la dice lunga su questo Paese. La Digos fece irruzione durante una riunione del Giornale, interrompendola, per procedere all’arresto per diffamazione e omesso soccorso. In realtà, mi aspettavano all’uscita del Giornale, perciò dormii tre giorni in redazione, scoprendo, tra l’altro, il pied a terre di Montanelli… Così, furono costretti a irrompere. Mi scortarono per portarmi a casa. Pretesi il carcere. Uscii con i poliziotti, che mi portarono in Questura con l’accusa di evasione. Intervenne perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per commutare la pena da detentiva in pecuniaria. Mentre mi riportarono a casa mi telefonò Berlusconi: “senti Alessandro, abbiamo capito la tua posizione, ma se evadi ancora ti faccio fare il giro del quartiere a calci nel sedere”».
Juventino represso. «Sono della Juventus, lo ammetto. Un giorno, un po’ per sfida, andai a San Siro con Berlusconi. Milan-Juventus. Dopo cinque minuti segna il Milan. Tutti esultano, io mi esprimo con un tiepido applauso. Le televisioni Sky mi riprendono. Poco dopo sono beccato da un sms di mio figlio, “Infame”».
Amo Daniela (mica la Santanché). «Amo Daniela e stimo la Santanché, che non amo. Stare con Daniela è semplice, stare con Santanché è molto complicato».
Un po’ di cronaca: Grecia. «Sono tra quelli che hanno sperato per il “No” al referendum. Giusto per vedere la Merkel in difficoltà. Ma adesso mi pare che Tsipras abbia già calato le braghe».
Caso Berlusconi. «Berlusconi è un uomo di genio. Non è mica caduto per le “Olgettine”, come vogliono farci credere, ma perché non voleva allinearsi a Francia e Germania».
Isis. «A forza di non essere noi stessi, siamo noi che abbiamo issato le bandiere dell’Isis. Sono per le radici cristiane nella Costituzione europea e per i Crocefissi nelle scuole».
Gay. «Uno Stato non deve tutelare l’amore: altrimenti perché non posso sposarmi con due donne o con il mio cane? Compito di uno Stato è tutelare l’unione che produce nuovi cittadini, i figli. Per il resto, è giusto che ogni persona si ami come desidera. Quando mia nipote mi confessò di essere lesbica le risposi: “abbiamo qualcosa in comune, ci piace la stessa cosa!”».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto
che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo
politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né
Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni
d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella
filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e
Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come
Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro
quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la
versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo
ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica,
come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà
vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
«Votiamo in Lombardia come hanno fatto in Veneto ma su una proposta vera. Niente elezioni on line, portiamo la gente ai seggi». «L’indipendenza è futuro, speranza, dignità, democrazia a qualunque livello venga coniugata». Le quattro virtù politiche di Matteo Salvini, eurodeputato e segretario federale della Lega, sono una sorta di manifesto affisso sui muri di tutto il Nord da qui alle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo, scrive “Il Corriere di Como”. Dopo il referendum virtuale che ha proclamato l’indipendenza del Veneto, il giovane leader del Carroccio preme il piede sull’acceleratore della secessione. Ripesca una vecchia idea sempre spendibile dalle parti del Carroccio - soprattutto in un momento di crisi economico-sociale devastante, qual è l’attuale - e la rimette in gioco compiendo una forzatura tutto sommato sostenibile. «In Lombardia ho chiesto di fare la stessa cosa accaduta in Veneto. L’Italia ha bisogno di più territorio», ha dichiarato Salvini. Ma nella regione in cui governa Roberto Maroni, il folklore della rete è pericoloso. Si cambia quindi copione. E, paradossalmente, si tenta una strada più istituzionale, formalmente sostenibile e comunque meno soggetta a critiche e ironie di chi giudica la democrazia elettronica tuttora troppo poco trasparente, debole e opaca. Il risultato di questa nuova mossa della Lega è un documento che Salvini ha commissionato al capogruppo in Regione Lombardia, Massimiliano Romeo. «Vogliamo chiedere la convocazione di un referendum vero, in cui la gente vota recandosi ai seggi - dice Salvini - un referendum sull’indipendenza della Regione o sulla possibilità di avere lo Statuto speciale». Niente click sul computer, quindi, né hacker pronti a sbugiardare i profeti della web-democracy. Ma schede, seggi e matite. Un buon, vecchio sistema che premetta in primo luogo di contare, uno dopo l’altro, i sì lombardi al distacco dallo Stivale. Perché su un punto Matteo Salvini è pronto probabilmente a scommettere qualsiasi cifra: se fossero chiamati a esprimersi con un referendum sull’indipendenza della Lombardia, i cittadini rovescerebbero nelle urne una valanga di consensi. «Nel 2014 in Catalogna e in Scozia si voterà per l’indipendenza dai rispettivi Stati - dice il segretario federale della Lega Nord - questo è il momento giusto per decisioni simili. La gente ha voglia di identità, vuole gestire le proprie risorse fiscali in piena autonomia». Un referendum sull’indipendenza dall’Italia, poi, è un ottimo veicolo di propaganda. Spacca il Paese e segna in modo netto le rispettive posizioni. «Renzi andrà in direzione opposta ai temi dell’autonomia», dice convinto Salvini. Referendum, quindi. Nel tentativo di accrescere il bacino del consenso in vista del 4%, soglia minima sotto la quale si resta fuori dalla ripartizione dei seggi per il Parlamento europeo. «La Lombardia ha 10 milioni di abitanti - dice ancora il leader del Carroccio - Sarebbe la terza potenza economica del Vecchio Continente. Nessuno dica che la separazione indebolirebbe l’economia lombarda. Semmai, sarebbe vero il contrario». Il processo che Salvini vuole mettere in moto, in ogni caso, si presenta di difficile realizzazione. «È certamente lungo - ammette il segretario leghista - Le europee segneranno una tappa importante di questo percorso. La battaglia contro l’euro, per noi, diventa fondamentale». Uscire dall’Italia, uscire dall’euro e collegarsi ai tanti movimenti che nei Paesi dell’Eurozona contestano le politiche comunitarie. Alle viste, c’è l’alleanza con Marie Le Pen, fresca di un successo elettorale che ha scosso la Francia. «Ci presenteremo con liste diverse ma con un obiettivo comune. Facciamo parte di un unico fronte anti-euro e nel nuovo Parlamento saremo nello stesso gruppo».
SE NASCI IN ITALIA……
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
"In Italia ci sono milioni di vittime della male giustizia". Silvio Berlusconi non poteva evitare di ricordarlo durante l’incontro con il club lombardo di Forza Silvio, riunito a Milano. "Siamo arrivati ad avere magistrati che con troppa leggerezza arrivano a togliere libertà a cittadini italiani - dice Berlusconi - e per questo nella riforma della giustizia che vogliamo realizzare dopo aver vinto le elezioni inseriremo anche l’istituto della cauzione, come accade in America, che sarà graduata a seconda delle possibilità economiche del singolo cittadino. In carcere si dovrebbe andare solo per reati di sangue". Sempre in tema di giustizia, il Cavaliere ha anticipato qualcosa dell’instant book che ha scritto in questi giorni e che verrà distribuito a tutti i club Forza Silvio d'Italia. "Nel libro - ha detto l’ex premier - spiego la magistratura con cui abbiamo a che fare. Che è incontrollata e incontrollabile. Non paga mai anche quando sbaglia. Sono impuniti, godono di un privilegio medioevale. Se ci sono 100 imputati in un processo di solito 50 sono giudicati colpevoli. Ma qual è il risultato se l'imputato è un giudice? la percentuale scende al 4-5%. Ci troviamo in una situazione molto lontana da quella di libertà in cui dovremmo vivere. Nessun italiano può essere sicuro, in queste condizioni dei propri diritti".
Cavaliere, criticare i giudici è reato! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il tribunale di sorveglianza di Milano ha diffidato Berlusconi, colpevole di avere criticato una decina di giorni fa la magistratura nel corso di una udienza (alla quale aveva partecipato come testimone) a Napoli. Diffidato vuol dire che se Berlusconi tornerà a criticare la magistratura, gli sarà sospeso il beneficio dei servizi sociali e finirà in cella. Tradotto in parole semplici, questa decisione della magistratura decreta che è proibito criticare la magistratura. O almeno che è proibito per chi ha subito una condanna. E che violare questa proibizione può costare anche l’arresto al capo dell’opposizione. Se Berlusconi non si atterrà alle disposizioni della dottoressa Crosti, diventerà il primo dirigente politico, nel dopoguerra, a finire in carcere per via di una sua opinione. Circostanza difficilmente compatibile con un regime di democrazia. Per quel che si è saputo, Berlusconi non ha obiettato nulla alla diffida, e la ha accolta. Probabilmente non poteva fare altrimenti per restare a piede libero. È probabile che anche il suo partito dovrà accettare l’intimidazione subita dalla magistratura e abbassare i toni, per evitare l’arresto del suo leader. In queste condizioni si svolgerà la battaglia sulla riforma della giustizia: con il partito storicamente più avverso alla magistratura costretto sulla difensiva e sostanzialmente sterilizzato. La vicenda Berlusconi-tribunale di Napoli è stata già raccontata molte volte nei giorni scorsi. Era successo che Berlusconi, di fronte a una domanda sui suoi rapporti con il finanziere Ponzellini, aveva detto alla giudice: «Non capisco che senso ha questa domanda». La giudice gli aveva risposto con una buona dose di maleducazione: «Non c’è nessun bisogno che lei capisca». Una frase ingiuriosa anche nei confronti di un ”imputatello” di 20 anni, e tanto più inopportuna nei confronti di un signore di 78 anni, a prescindere dal suo ruolo e dal suo status. Berlusconi si era arrabbiato e aveva parlato di irresponsabilità di una «magistratura ormai fuori controllo!». Un giudizio polemico, che in parte è abbastanza incontestabile: qualcuno saprebbe dire chi controlla la magistratura?
Il Commento di Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Silvio Berlusconi, la sua colpa è dire troppe verità sugli errori dei pm. Certa magistratura costringerebbe a difendere Berlusconi anche se mancasse del tutto la voglia di farlo: perché la giustizia ad personam a cui lo sottopongono regolarmente smaschera un’acrimonia peraltro non necessaria, rivelatrice di una determinazione ostinata cui nessun giudice ormai osa sottrarsi. Berlusconi è un fortilizio conquistato, vinto, e ogni episodio che lo riguarda non ci parla solo dell’accanimento cui è sottoposto lui, che pure è Berlusconi: ci parla di ciò che riserverebbero a ciascuno di noi, che non siamo niente. Le notizie le avete viste: la prima è che la procura di Napoli, lunedì, deciderà eventuali iniziative legate alle frasi «contro la magistratura» pronunciate da Berlusconi nell’udienza dell’altro ieri: una decisione che in teoria potrebbe fargli revocare l’affidamento in prova e accompagnarlo direttamente in galera; la seconda notizia riguarda il calendario del processo d’Appello per il caso Ruby, altro record mondiale che oltretutto già apparteneva a Berlusconi: la sentenza è già prevista per il 18 luglio, il processo, cioè, si dovrebbe giocare in sole tre udienze e cioè 11 luglio (requisitoria dell’accusa) e poi 15/16 luglio (arringhe difensive) con sentenza appunto il 18, questo per rispettare un confine procedurale cui i magistrati tengono assai: le vacanze, le ferie, quella pausa tribunalizia che in altri paesi neppure esiste. Liquidiamo subito la prima faccenda, quella del presunto oltraggio alla corte durante il processo contro Walter Lavitola: una violazione obsoleta, depenalizzata e contestata, in passato, soprattutto agli imputati di terrorismo che alzavano il pugno chiuso. In pratica Berlusconi, dopo un’ora e mezza di interrogatorio in aula, ha detto così: «La magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». E qui verrebbe voglia di osservare che è semplicemente la verità, che è «incontrollabile e irresponsabile» proprio tecnicamente, come previsto dalla Costituzione e come nessun referendum sulla responsabilità civile dei giudici è mai riuscito a scalfire. Ma andremmo a impelagarci in una disputa non necessaria: forse basterebbe chiedersi se esista ancora la libertà di opinione (e di critica) o se a essa sono sottratti i cittadini in giudicato, meglio: se a margine dell’oltraggio alla corte, appunto depenalizzato, sia stato reintrodotto il reato di lesa maestà. C’era da chiederselo anche nel marzo scorso, quando il pm Ilda Boccassini parlò di «oltraggio, vilipendio, disprezzo della corte» dopo che Berlusconi e Niccolò Ghedini si erano detti impegnati in Parlamento e impossibilitati a presenziare in udienza. Ora ci risiamo: la critica di Berlusconi (perché è una critica, ci pare) potrebbe avere ricaduta sull’affidamento ai servizi sociali che il tribunale di Milano ha concesso a Berlusconi dopo la condanna per frode fiscale: la specifica prescrizione di non diffamare la magistratura (ciò che dovrebbe valere per tutti) potrebbe riverberarsi sul beneficio ottenuto portando Berlusconi ai domiciliari o addirittura al carcere. Per che cosa? Qual è la differenza tra una diffamazione e una critica sgradita a chi semplicemente non c’è abituato? La differenza tra rispetto a sacralità? Le opinioni, in Italia, sono libere a seconda di chi le esprime? Ed eccoci al processo Ruby d’Appello e ai suoi record mondiali. Un processo d’Appello, cioè, cotto e mangiato in tre udienze: saremmo l’avanguardia d’Occidente, se fosse la norma. A Milano, del resto, sanno correre come lepri: la sentenza di primo grado del caso Mills (il primo caso Mills, quello che le toghe hanno voluto celebrare senza il Berlusconi scudato) è stata emessa il 17 febbraio 2010 e la sentenza d’Appello è stata fotocopiata l’8 febbraio 2011: la durata netta è stata di otto mesi (compreso il periodo estivo: i magistrati hanno 55 giorni di ferie l’anno) e quindi niente da dire, la giustizia anglosassone in confronto è tartarughesca. Lodevole anche l’impegno dei giudici nel render note le motivazioni della sentenza Mills entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse ancora più spedito. Sanno correre, a Milano. Il processo per frode fiscale, quello per cui Berlusconi è ai servizi sociali, ha addirittura accelerato: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione. Un primato imbattibile, ma restano da battere i record di specialità: e un Appello in tre udienze piazzerebbe Milano (e Berlusconi) ancora primi sul podio. Forse un Berlusconi in galera potrebbe addirittura facilitare le cose: ma che il tribunale di sorveglianza lo condanni per «oltraggio» pare improbabile: se fosse indagato come tale, le sue dichiarazioni rese nel processo di Napoli diverrebbero inutilizzabili, e a Berlusconi non dispiacerebbe. I giudici non gli farebbero mai questo favore.
Silvio Berlusconi, il precedente del pm che lo accusa, scrive ancora Filippo Facci. Noi, qui, non stiamo dicendo che «la magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». Questo l’ha detto Silvio Berlusconi, non noi. E noi infatti ci limitiamo a raccontare una storia che ha due antefatti. Il primo, come noto, è che Berlusconi la settimana scorsa ha pronunciato la frase di cui sopra, suscitando la piccata reazione del pm napoletano Vincenzo Piscitelli: «Questo non lo posso accettare», ha detto in aula. Il pm Piscitelli oltretutto è uno dei tre magistrati che esamineranno il verbale di Berlusconi per decidere se trasmetterlo al Tribunale di Sorveglianza di Milano, che a sua volta potrà decidere se revocare l’affidamento ai servizi sociali concesso al leader di Forza Italia. Il secondo antefatto è che il pm Vincenzo Piscitelli fu co-protagonista di una delle vicende più clamorose degli Anni novanta in materia di ingiustizia: il caso di Vito Gamberale, noto manager che nel 1993 era amministratore delegato della Sip (poi Telecom) e che il 27 ottobre di quell’anno fu arrestato per concussione suscitando grande scalpore: nacquero movimenti d’opinione per la sua liberazione (parteciparono semplici cittadini e parlamentari di tutto l’arco costituzionale) e sul possibile «arbitrio» ai danni del manager ebbe a esprimersi anche l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: il 2 febbraio 1994, rivolto al Ministro Guardasigilli Giovanni Conso, scrisse una missiva carica di perplessità sull’operato dei magistrati napoletani con in calce una battuta scritta a mano: «Purtroppo, più che di giustizia, si ha la sensazione dell’arbitrio!!». Con due punti esclamativi. Vito Gamberale, il 18 luglio 1996, fu assolto con formula piena e gli venne riconosciuto uno dei più alti risarcimenti della storia giudiziaria italiana. La vicenda meritò diversi libri e tra questi ci fu il romanzo d’esordio di Chiara Gamberale - Una vita sottile, poi divenuto fiction della Rai - che raccontò l’anoressia vissuta dalla ragazza durante la carcerazione del padre. Bene, domanda: stiamo cercando di ricollegare la vicenda di Gamberale (e di Piscitelli) alla magistratura «incontrollata e incontrollabile» citata da Berlusconi? No. Noi no. Però è vero che il Guardasigilli Giovanni Conso nel 1994 promosse un’azione disciplinare contro Piscitelli, pm che condusse le prime indagini su Gamberale e che secondo il ministro era reo di «essere venuto meno ai propri doveri» e di aver compiuto «una grave violazione processuale» utilizzando un’intercettazione telefonica autorizzata per altro procedimento. L’azione disciplinare fu duplice: la prima degli ispettori del ministero della Giustizia, la seconda del Consiglio superiore della magistratura. E come andò a finire? Noi ci limitiamo doverosamente a segnalarlo: prima il Csm (ottobre 1994) e poi le sezioni unite civili della Corte di Cassazione (settembre 1995) sgombrarono il campo dalle accuse e dichiararono corretto il comportamento tenuto da Piscitelli. Se questo confermi - o smentisca - le tesi di Berlusconi sull’irresponsabilità della magistratura è valutazione che il lettore può fare da solo. Non mancano altri spunti di valutazione. Vincenzo Piscitelli, pm che ha giudicato «inaccettabile» l’uscita di Berlusconi, per la vicenda Gamberale ha anche sporto diverse cause: e le pure vinte. Ci limitiamo a citarne due. Una sentenza è stata emessa l’8 novembre 2003 dal giudice civile Paola Maria Gandolfi (Prima sezione) che ha ritenuto diffamatorio un articolo firmato da Lino Jannuzzi sulla prima pagina del Giornale del 29 novembre 1999: «Gamberale, l’innocente che non può non essere colpevole». Piscitelli ha ottenuto 25mila euro più 13mila e 500 di spese legali; la sentenza è stata pubblicata da Repubblica, Corriere della sera e Giornale il 12 gennaio successivo. Piscitelli ha poi ottenuto altri 25mila euro dal Giornale il 17 gennaio 2002, a seguito di un articolo di Antonio Socci sempre sulla vicenda Gamberale: 25mila euro di risarcimento più novemila di spese legali più la pubblicazione della sentenza con caratteri doppi del normale. E queste non sono certo le uniche querele o cause civili intentate dai magistrati del caso Gamberale, che pure è stato giudicato innocente e meritevole di risarcimento. Anzi, speriamo che questo articolo non allunghi la lista. Del resto noi non stiamo dicendo che «la magistratura è incontrollata e incontrollabile, è irresponsabile e gode di impunità piena». Questo l’ha detto Silvio Berlusconi, non noi. Noi non l’abbiamo detto e non lo pensiamo. Nessuno lo pensa, in Italia.
E' normale, poi, che succeda questo.
TROPPI TESTIMONI INUTILI? PENA PIU’ ALTA!
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
Intanto nelle more della disillusione che la giustizia funzioni. Milano, condanne pesanti per tre poliziotti: "Portavano via soldi e droga agli immigrati". La pena più pesante è a oltre 12 anni. Gli agenti, secondo l'accusa, avrebbero realizzato per oltre un anno una serie di blitz fuori dalle regole per portare via droga e denaro a immigrati e piccoli spacciatori, scrive “La Repubblica”. Tre agenti della Polfer di Lambrate, a Milano, sono stati condannati a pene fino a 12 anni e otto mesi di reclusione perché avrebbero messo in atto per oltre un anno una serie di blitz fuori dalle regole, portando via denaro e droga a immigrati e piccoli spacciatori. Lo ha deciso il gup milanese Gennaro Mastrangelo, che ha condannato i tre poliziotti a pene anche superiori rispetto a quelle chieste dalla Procura. Erano accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere, peculato e detenzione e spaccio di stupefacenti. In particolare Clodomiro Poletti è stato condannato a 12 anni e otto mesi, Ezio Orsini a 11 anni e cinque mesi e Gianluca D'Acunto a sei anni e sei mesi. La sentenza è stata emessa con rito abbreviato, dunque con lo sconto di un terzo della pena. Si tratta di provvedimenti più severi rispetto a quelli invocati dal pm Paolo Filippini, che aveva chiesto fino a 11 anni di reclusione. L'inchiesta era nata dalle denunce del legale di alcuni immigrati, l'avvocato Debora Piazza, e aveva portato la scorsa estate a diverse perquisizioni negli uffici della Polfer a Lambrate. Gli agenti Orsini e Poletti, fra le altre cose, secondo l'accusa avrebbero avuto a disposizione "illecitamente" oltre 144 chilogrammi di hashish "custoditi all'interno del locale posto nell'interscambio ferroviario di via Otto Cima, a Milano, di cui avevano l'esclusiva disponibilità". Droga che secondo l'imputazione era destinata "alla cessione a terzi". Ai poliziotti viene contestato, a vario titolo, anche di aver portato via altri stupefacenti per decine di chilogrammi, fra cui cocaina, tutti rubati durante i blitz. Si sarebbero appropriati anche di pistole, auto, denaro e gioielli. Lo scorso maggio, infine, avrebbero addirittura trattenuto due stranieri in una cella di sicurezza per ore, sempre senza verbalizzare alcunché. Da qui anche l'accusa di sequestro di persona. I due uomini sequestrati si sono costituti parti civili e hanno ottenuto provvisionali di risarcimento da 3mila euro ciascuno. Due immigrati hanno ottenuto risarcimenti da quantificare in sede civile. Provvisionale da 1.000 euro per il ministero dell'Interno, invece, in qualità di parte civile. "Nel processo non è emerso alcun segno di ravvedimento, alcun tentativo di risarcire le parti civili o le persone offese da parte degli imputati", ha scritto in una memoria l'avvocato Piazza. Il legale, che con le sue denunce ha fatto scattare le indagini, si è trovata "di fronte - ha scritto nella memoria - all'epilogo di un processo a cui mai avrebbe voluto partecipare, le cui risultanze colpiscono l'affidamento che tutti noi riponiamo nelle istituzioni poste a difesa di uno Stato democratico, i cui valori devono essere recuperati in fretta perché proprio su questa fiducia dette istituzioni poggiano". Gli imputati, si legge ancora nel documento, "agivano per pure logiche personali in totale disprezzo del nostro ordinamento, in danno dei soggetti socialmente più deboli forti della consapevolezza che per il loro ruolo istituzionale le vittime dei loro soprusi mai avrebbero denunciato l'accaduto". Anche questa inchiesta era finita nelle carte scontro fra il capo della Procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati, e l'aggiunto Alfredo Robledo. In questo caso, il motivo d'attrito fra i due magistrati non ha riguardato lo svolgimento delle indagini, quanto il personale scelto da Robledo per seguirle. Per indagare sui tre agenti il procuratore aggiunto si è servito del pool di investigatori a lui fidato. Bruti, invece, avrebbe voluto affidare le indagini a uomini della polizia, anche in nome di quella cortesia istituzionale secondo cui tocca a una forza dell'ordine scovare eventuali mele marce al suo interno. Significative, a questo proposito, le parole usate dal capo della Procura nella lettera inviata al Csm, il Consiglio superiore della magistratura, il 13 maggio scorso: "Robledo delega pressocché costantemente solo una struttura della guardia di finanza di Milano, la sezione tutela mercati", denuncia Bruti, accusando l'aggiunto di essere "entrato più volte in contrasto con la squadra mobile della polizia diretta da Alessandro Giuliano, il cui livello di professionalità è ben noto". E ancora, "le mie ripetute indicazioni orali al procuratore aggiunto Robledo sull'impiego della polizia giudiziaria sono state disattese", proprio perché "non utilizza l'alta professionalità della sezione di polizia giudiziaria presso la Procura", un vero e proprio "fiore all'occhiello" secondo Bruti.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA. PARE UNA BARZELLETTA.
I 18 magistrati impegnati per il piccione ucciso. Già sei gradi di giudizio per la vicenda del volatile colpito col fucile ad aria compressa da un legale, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Per quasi 5 anni 18 magistrati si sono occupati della morte di un piccione in un andirivieni di processi che è la dimostrazione lampante di come la giustizia italiana possa riuscire a perdere tempo pestando acqua in assurdi bizantinismi. E non è ancora finita. Tutto comincia il 6 giugno 2010 quando un avvocato di 50 anni si affaccia ad una finestra della sua villetta nella zona est di Milano e con un colpo di fucile ad aria compressa centra un piccione che cade morto nel cortile del palazzo a fianco. I vicini, secondo i quali da due anni l’avvocato sparava agli uccelli, chiamano i Carabinieri. Ai militari che bussano alla villetta si presenta un uomo «in palese stato di ebbrezza alcolica», scrivono nel verbale firmato in quattro, che dice di avere sparato perché anni prima suo figlio si era ammalato ed era «entrato in coma a causa di uno di questi volatili». Per rimuovere la carcassa dell’animale deve intervenire un mezzo speciale del Comune. Uccisione di animali con crudeltà e «getto pericoloso di cose» (il proiettile) in luogo privato di uso altrui, recita l’accusa formulata dal pm della Procura al gip Bruno Giordano, che quattro mesi e mezzo dopo il fatto emette un decreto penale condannando il reo confesso a ottomila euro di multa. L’imputato non ci sta, si oppone e chiede di essere giudicato con il rito abbreviato. Per quei reati la prescrizione è di cinque anni. I primi due vanno via ancor prima che il fascicolo arrivi sul tavolo del giudice Andrea Ghinetti che il 6 marzo 2012, su richiesta di un secondo pm, condanna l’avvocato a un mese e 20 giorni di arresto con la condizionale. La cosa potrebbe finire qui, ma anche stavolta lo sparatore non si ferma e, avvalendosi di ogni suo diritto, fa appello perché, sostengono i suoi due difensori, le prove erano insufficienti, nessuno ha visto sparare, i Carabinieri non hanno «redatto un verbale per constatare lo stato del piccione» e, poi, chi l’ha detto che l’uccello è stato ucciso dal proiettile? Non potrebbe essere che si è fatto male da solo andando a sbattere contro un ramo? E «se fosse davvero morto per cause naturali?». E la confessione? «Inutilizzabile» perché resa senza la presenza di un avvocato. Il processo d’appello (tre giudici e un sostituto procuratore generale per l’accusa) l’ 8 ottobre 2012 conferma la condanna dopo aver analizzato il caso da capo a piedi. Neppure questo basta a far desistere gli avvocati che spostano la battaglia in Cassazione. La prescrizione continua a correre. Bisognerà aspettare 16 mesi prima di sapere cosa 5 giudici della terza sezione penale rispondono al pm che, manco a dirlo, chiede la conferma della condanna. Gli ermellini approfondiscono anche loro il caso, quasi ci si appassionano. Vergano tre pagine di motivazioni che confermano come al solito la condanna. Ma attenzione, solo per l’uccisione dell’animale rimandando indietro la questione del «getto pericoloso» perché non era stata sufficientemente motivata dall’Appello. Si torna a Milano il 30 gennaio 2015, Corte d’appello, sezione quarta. Il ricordo del piccione continua a vivere solo nelle aule di giustizia. Tre giudici e il sostituto pg Gaetano Amato Santamaria, che con tutti gli altri che li hanno preceduti fanno la bellezza di 18 magistrati con i quali hanno lavorato qualche decina di cancellieri e impiegati, per l’ennesima volta analizzano la sorte dell’animale finendo perfino a disquisire se il «getto» potesse riguardare la caduta «del corpo stesso del piccione ferito e agonizzante precipitato tra le persone» e non il pallino che lo ha trapassato ad un’ala. Sentenza confermata di nuovo anche per il secondo reato. Ci vorrebbero 30 giorni per le motivazioni, ma il presidente Francesca Marcelli le deposita il 10 febbraio. Il gong finale della prescrizione suonerà a giugno 2015, ma c’è ancora la possibilità di un ricorso in Cassazione: altri sei magistrati. Resta la condanna definitiva per il primo reato, ammesso che ci sia un magistrato dell’esecuzione che tra i fascicoli che gli sommergono l’ufficio abbia anche lui tempo da dedicare al povero piccione e al suo uccisore.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
SENTIAMO SILVIO BERLUSCONI.
Silvio Berlusconi: "Altro che bunga bunga, ecco quello che succedeva ad Arcore", scrive “Libero Quotidiano”. A pochi giorni dalla sentenza della Corte d'appello di Milano che giudicherà Silvio Berlusconi in secondo grado sul processo Ruby il Giornale ripropone ampi stralci del memoriale che il Cav ha usato per le dichiarazioni spontanee rese davanti ai giudici nell'ottobre 2012. L’ex presidente del Consiglio ribadisce di non aver mai avuto rapporti sessuali con Karima El Mahroug sostenendo che l’inchiesta è stata un’intrusione nella sua vita privata, che il bunga bunga era solo una battuta e di non aver mai fatto pressione sui funzionari della questura. Il testo integrale della dichiarazione spontanea resa al Tribunale di Milano è pubblicato sul sito di Forza Italia. Di seguito riportiamo alcuni passi.
Le cene di Arcore - "Le cene", puntualizza il Cav, "si svolgevano in una grande sala da pranzo, un grande tavolo accoglieva tutti gli ospiti insieme, io al centro della tavolata monopolizzavo la conversazione parlando di politica, di sport, di cinema, di televisione, di gossip e mi divertivo confezionando battute e cantando, a richiesta, le canzoni del mio repertorio giovanile e quelle scritte da me in collaborazione con Mariano Apicella. Dopo la cena alcune volte le mie ospiti organizzavano nel teatro della residenza degli spettacoli con musica e costumi, spettacoli che non avevano alcunché di volgare e scandaloso. E a proposito della dizione “Bunga Bunga” questa espressione nasce da una vecchia battuta che ho ripetuto più volte prima dei fatti contestati ed è stata riportata doviziosamente dalla stampa. Altre volte nella discoteca che era stata dei miei figli si ballava (io però non ho mai partecipato ad alcun ballo) ed accadeva quello che si può vedere in qualsiasi locale aperto al pubblico di ogni età. Posso quindi escludere con assoluta tranquillità che si siano mai svolte scene di tipo sessuale. Tutto tra l’altro avveniva alla presenza di camerieri, musicisti, personale di sicurezza, ospiti di una sola serata e, a volte, con l’intervento di miei figli, che venivano a salutarmi".
Ruby - "Voglio innanzitutto ricordare, nei limiti del possibile, come ho conosciuto Karima El Mahroug cioè Ruby.Qualche mese prima dei fatti accaduti il 27 maggio Ruby era intervenuta ad una cena presso la mia residenza in Arcore.Non ricordo con chi venne questa prima volta, forse con Lele Mora. In quell’occasione Ruby attirò su di sè l’interesse e l’attenzione di tutti i commensali raccontando la sua storia.Ci disse di essere di nazionalità egiziana, figlia di una famosa cantante anch’essa egiziana appartenente ad una importante famiglia imparentata col Presidente Moubarak. Ci fece vedere un video con questa cantante che effettivamente aveva qualche somiglianza con lei". Berlusconi ricorda che Ruby disse a lui e ai suoi ospiti "di essere stata buttata fuori casa dal padre che l’aveva anche picchiata, ci fece vedere una vasta cicatrice sulla testa procuratale dal padre con un getto di olio bollente, il tutto ci disse a causa della sua decisione di convertirsi alla religione cattolica. Ci narrò di molte sue tristi peripezie e infine ci raccontò di essere arrivata a Milano un mese prima e di essere stata ospitata da un’amica". "Questa era la storia che lei ci rappresentò piangendo e facendo commuovere molti tra i miei ospiti", continua Berlusconi. "Le offrii subito un aiuto economico per il suo sostentamento e per cercarsi una casa in locazione e le assicurai di poter contare sul mio interessamento e sul mio aiuto. Fece conoscenza con alcune delle mie ospiti ed in seguito intervenne con loro ad altre cene a casa mia".
Nipote di Mubarak - Berlusconi ribadisce che non aveva dubbi che fosse la nipote di Mubarak. "Nel corso del vertice Italo-Egiziano che si era tenuto otto giorni prima del 27 maggio cioè il 19 maggio 2010, a Villa Madama, durante il pranzo, terminata la parte ufficiale dei negoziati avevo chiesto notizie di questa Ruby allo stesso Presidente Moubarak raccontandogli di come l’avevo conosciuta e della sua storia convinto com’ero che fosse una sua parente.Alla mia domanda se conoscesse la madre di Ruby la risposta fu affermativa e mi disse che si trattava di una famosa cantante che effettivamente faceva parte della sua cerchia famigliare ma che non era a conoscenza del fatto che avesse una figlia messa fuori casa per problemi di religione. L’argomento “Ruby” occupò la conversazione, di fronte ai molti commensali, per diverso tempo. Moubarak mi assicurò alla fine che si sarebbe informato e che mi avrebbe fatto sapere. Rimasi quindi nel convincimento che Ruby potesse avere davvero un legame parentale con il Presidente egiziano".
L'età - "Desidero anche ricordare che tutti avevamo l’assoluto convincimento che Ruby fosse maggiorenne, sia perché lei aveva detto a tutti di avere 24 anni, sia per il suo modo di esprimersi proprio di una ragazza matura, sia per il suo aspetto fisico che non corrispondeva assolutamente a quello di una minorenne, sia perché mai avrei pensato che una minorenne potesse intraprendere una attività come quella che le avevo finanziato. Inutile dire che non ho avuto alcun tipo di rapporto intimo con lei e che, durante la sua permanenza alle cene, non vi sono mai stati accadimenti di natura men che lecita".
La telefonata in Questura - "Tornando alla notte del 27 maggio", chiarisce il Cav, "parlai con Nicole Minetti che già aveva saputo da un’amica di quanto stava accadendo a Ruby e che quindi confermò quanto dettomi poco prima dalla Loddo. Poiché mi era stato riferito che si trattava anche di un problema di identificazione, essendo la ragazza sprovvista di documenti, ritenni utile chiedere alla Minetti che aveva conosciuto bene Ruby da me di recarsi in Questura per agevolare tale identificazione. La decisione quindi di contattare la questura, come ho già ricordato, fu suggerita dall’on. Valentini prima e poi dal capo scorta Ettore Estorelli, il quale disse che avrebbe potuto assumere informazioni tramite un funzionario con cui si rapportava per i nostri spostamenti. Io non sapevo neppure chi fosse questo funzionario né che ruolo ricoprisse nella Questura di Milano, ma ero interessato a sapere se effettivamente vi fosse un problema per l’identificazione della ragazza. La telefonata con questo funzionario, il dottor Ostuni, fu estremamente breve. Mi limitai a chiedergli se poteva confermare o meno che vi fossero problemi per l’identificazione di una giovane di nome Ruby di cittadinanza egiziana, e gli dissi che mi risultava che questa giovane potesse avere rapporti di parentela con il presidente Moubarak. Dissi che per agevolare le operazioni di identificazione avevo chiesto al consigliere regionale Nicole Minetti che, ripeto, aveva personalmente conosciuto presso la mia residenza la stessa Ruby, di recarsi presso la Questura". "Qualche tempo dopo", continua Berlusconi, "Nicole Minetti, mi chiamò per mettermi al corrente della situazione in Questura. Mi raccontò che Ruby era stata identificata e che era risultata non essere egiziana bensì di nazionalità marocchina e per di più minorenne. La notizia mi lasciò di stucco e mi resi finalmente conto che Ruby aveva mentito e si era costruita una seconda diversa identità in sostituzione della sua condizione reale".
Niente sesso - "Voglio infine ribadire che i miei rapporti con le ospiti alle mie cene erano basati sulla simpatia, sul cameratismo, sull’amicizia e sul rispetto e che non c’è mai stata alcuna dazione di denaro per ottenere rapporti intimi. Devo anche affermare con forza che nessuna delle mie ospiti poteva essere classificata, per quanto a mia conoscenza, come “escort” come invece poi è accaduto sui media nazionali ed internazionali".
SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.
In occasione della prima udienza del processo d'appello per il caso Ruby, Franco Coppi, difensore di Silvio Berlusconi, ha commentato le pesanti esternazioni fatte dal suo assistito a Napoli, dove è stato sentito come teste al processo Lavitola. "Non l'ho sentito né prima né dopo, ma se ha fatto quelle dichiarazioni avrà avuto un motivo. Ed è stato sicuramente tirato per i capelli dal presidente, che poteva avere più garbo", ha concluso Coppi. A scatenare la furia dei magistrati è stata una frase del Cav pronunciata in Aula: "Magistratura incontrollabile. E impunita". Lo sfogo del Cav è arrivato dopo che la presidente della Corte aveva affermato: "Lei - rivolgendosi a Berlusconi - non deve capire il senso delle domande, deve rispondere". Terminata la testimonianza, Silvio ha parlato in Aula anche del ruolo dei giudici: "La magistratura è incontrollabile, irresponsabile e gode di immunità". L'esternazione del Cav arriva dopo una provocazione del giudice Giovanna Ceppaluni che gli aveva rivolto delle domande il Cav aveva chiesto spiegazioni in merito. La risposta del giudice però è stata piccata: "Lei non deve capire il senso delle domande". Il diverbio lo ha chiuso il magistrato affermando che "la magistratura è ancora tutelata dal codice penale".
Ruby: "Berlusconi condannato per nulla". La giovane: "Se mi avesse dato 5 milioni non dovrei chiedere soldi ai suoceri per fare la spesa", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Lei non ci verrà, al processo che porta il suo nome, anche perché stavolta non l'hanno nemmeno invitata come «parte offesa». Parte stamattina 20 giugno 2014 il processo d'appello a Silvio Berlusconi, e per tutto il mondo è il «processo Ruby».
«Un soprannome che mi sono inventata quando avevo nove anni, e che adesso mi pesa. Vorrei liberarmene, vorrei tornare a essere Kharima, voglio essere la ragazza che vendeva tappeti in spiaggia a Catania. Ma non mi viene permesso, vengo massacrata in continuazione. So che il vero bersaglio non sono io ma è Berlusconi. Ma lui è maggiorenne e vaccinato, io invece devo pensare a difendere me stessa e mia figlia. E mi domando: quanto deve durare questo massacro?».
Converrà, signora el Mahroug, che una mano a questo putiferio lo ha dato anche lei. Nelle sue intercettazioni diceva di avere avuto rapporti con Berlusconi, «l'altra è la pupilla e io il c...». E ai pm quando l'hanno interrogata ha descritto le sere di Arcore in modo abbastanza colorito.
«Avevo diciassette anni, ero totalmente allo sbando, e in quelle telefonate mi attaccavo ad amiche che poi amiche non erano, e mi inventavo cazzate per darmi arie. Errori di gioventù che non credo di dover pagare in eterno. Il problema vero è quello che è successo dopo, quando sono arrivati i pm a interrogarmi, e ho capito subito che di me non gli interessava assolutamente niente, volevano solo e a tutti i costi questo signor Berlusconi, e io gli ho dato quello che volevano. Sono stata anche pittoresca, certo. Faccio mea culpa, va bene? Ma da qui a prendere per oro colato le parole di una ragazzina di diciassette anni scappata di casa ce ne corre».
E allora qual è la verità? Quella dei verbali, delle intercettazioni, degli interrogatori in aula?
«La verità è che Berlusconi mi ha rispettato più di tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita precedente nei locali e nelle discoteche. Gli hanno dato sette anni per nulla».
Per avere sostenuto questa versione durante il processo di primo grado, lei è stata incriminata per falsa testimonianza e oggi è sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari. I giudici dicono che Berlusconi ha comprato il suo silenzio.
«Io di essere sotto inchiesta l'ho saputo solo dai giornali, perché nessuno mi ha detto niente. È dall'inizio di questa storia che leggo tutto sui giornali. Sono sotto inchiesta? Bene. Io sono tranquilla, perché se Berlusconi mi avesse dato i cinque milioni di cui parlavo nelle intercettazioni, non sarei ridotta adesso a chiedere ai miei suoceri i soldi per fare la spesa. Invece quando cerco lavoro, anche come commessa, trovo solo porte chiuse perché la gente pensa "ma come, questa ha cinque milioni di euro e vuole lavorare, chissà cosa c'è sotto". Adesso forse ho trovato un posto in un ristorante a Milano. Se va male anche lì, andrò dalla Boccassini a chiederle di prendermi come donna delle pulizie».
Ilda Boccassini non è stata tenera con lei, nella sua requisitoria. L'ha accusata di «furbizia orientale».
«Io l'ho incontrata per la prima volta in aula, al processo, quando dovevano interrogarmi e poi non mi hanno interrogata. Poi ho letto quella frase e mi ha lasciata di sasso. Diciamo che non mi è sembrata per niente garbata né nei miei confronti né delle donne orientali. Mi è sembrata una frase razzista. E soprattutto mi ha lasciata incredula che una persona del livello della Boccassini non sapesse che il Marocco non è in Oriente. Magari adesso faccio una colletta e le regalo un atlante o un mappamondo».
Io sarei più cauto.
«Io sono stanca. Sono finita dentro una macchina da guerra, davanti a gente che non voleva sapere la verità ma solo perseguire un obiettivo, l'interesse non era per me ma per una persona che aveva un ruolo infinitamente più grande. Quando sono entrata in aula e ho letto scritto sul muro che la legge è uguale per tutti mi è venuto da ridere, perché in questi quattro anni ho potuto toccare con mano come per colpire una persona abbiano rovinato la vita e la psiche di una ragazza di diciassette anni. Grazie a loro sono stata coperta di spazzatura mediatica, ho dovuto cambiare città, a volte faccio ancora fatica a girare per strada. Mi sento trattata come un killer mentre i veri killer sono a piede libero».
Le guerre che il Csm non vede. Della guerra Robledo-Bruti Liberati e del correntismo interno al Consiglio superiore, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Da alcuni mesi anche i lettori meno attenti si sono accorti che alla Procura di Milano è in corso un violentissimo scontro tra il capo, Edmondo Bruti Liberati, e uno dei suoi più stretti collaboratori, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Detta in breve: i due si sono scambiati accuse gravissime sulla conduzione delle inchieste (non si parla di fascicoletti sull’abigeato, ma dell’Expo o del Mose), sull’assegnazione delle indagini, sugli atti da compiere. Una guerra che, in qualsiasi altro ufficio pubblico o privato, si sarebbe risolta con l’avvicendamento di uno dei due o con una precisa direttiva su chi deve fare che cosa e con l’indicazione tassativa sui confini entro i quali ognuno avrebbe dovuto muoversi. L’organo che avrebbe dovuto dirimere la vicenda è il Consiglio superiore della magistratura. Il quale ha indagato, audito, approfondito, dibattuto, valutato. Stava anche per decidere chi aveva torto e chi ragione, fatto più unico che raro, quando a poche ore dal voto è stata recapitata a palazzo una «lettera riservata» del presidente della Repubblica. Che ha avuto effetti dirompenti perché capace di far battere in ritirata chi aveva già messo nero su bianco le sue conclusioni a sfavore del procuratore. Un fatto inaudito. Il Csm ha così deciso di non decidere (un classico) e i due litiganti sono tornati immediatamente a farsi la guerra, dandosele di santa ragione. Badate bene: non parliamo di dispettucci tra colleghi, ma di comportamenti legati a delicatissime inchieste giudiziarie; al punto che uno degli indagati, stufo della manfrina tra capo e aggiunto, s’è messo a fare lo sciopero delle dichiarazioni. Così il procuratore generale di Milano è tornato a rivolgersi al Csm (e campa cavallo) per censurare il comportamento del procuratore. Il vicepresidente del Csm, quello che aveva ricevuto la «lettera riservata» di Giorgio Napolitano, ha commentato «il caso Milano per noi è chiuso» e forse mentre lo diceva si riferiva agli occhi che il Csm ha pilatescamente chiuso confezionando questo bel capolavoro. Insomma, una telenovela della peggior specie. Luciano Violante, che sa perfettamente di che cosa parla, oramai lo ripete fino alla noia: «Le correnti della magistratura sono diventate luoghi in cui si costruiscono carriere. I componenti del Csm vengono da queste correnti e anche il personale amministrativo, dai segretari alle altre figure professionali, viene selezionato dalle correnti e questo fa venire meno la neutralità del Csm». Ora mi rivolgo a voi, gentili ministro della Giustizia e presidente del Consiglio: che bisogno c’era, dopo 4 mesi dall’insediamento del governo, di perdere tempo con le 12 linee guida sulla riforma della giustizia e buttare la palla avanti almeno fino a settembre? La verità è che ci voleva e ci vuole coraggio per sfidare i niet che arrivano dallo strapotere dei magistrati e condizionano lo sviluppo del Paese. Chiedo troppo, lo so. Continuate pure a fare melina.
Expo, il memoriale di Frigerio: "Vi racconto gli affari della sinistra", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Dalla sua cella nel carcere di Opera (Milano) Gianstefano Frigerio, 74 anni e quasi cieco, continua la sua battaglia contro la carcerazione preventiva nell’ambito dell’inchiesta sull’Expo. E in un memoriale in due parti, lungo 20 pagine, inviato al procuratore meneghino Edmondo Bruti Liberati, lancia accuse pesantissime alla sinistra e alle cooperative rosse e invia messaggi sibillini al Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Il linguaggio è felpato, allusivo, ma la sostanza è urticante come un cespuglio di ortiche. In apertura il detenuto - accusato di associazione per delinquere con finalità di turbativa d’asta - si rivolge all’«illustre procuratore» e si affida alla «sua alta funzione di garanzia». Quindi l’ex notabile lombardo della Dc gli chiede «umilmente la grazia» per lui «vitale» di essere interrogato. Ai convenevoli seguono le prime bordate che lasciano intravedere lo spirito combattivo di questo ex parlamentare democristiano. Frigerio non ha digerito la perquisizione inflitta al figlio: «C’è forse da aspettarsi in futuro una pioggia di avvisi di garanzia su tutti i fruitori di protezioni familistiche? Sto pensando alle generose consulenze di Finmeccanica, Ferrovie, Eni a favore dei figli dei vertici del Paese». Qui il riferimento neppure tanto velato è agli eredi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma non solo a loro. «Sto pensando a molti rampolli dell’alta burocrazia o forze dell’ordine o magistratura che hanno trovato un futuro nelle grandi banche o nelle grandi istituzioni finanziarie». A fianco alla parola «magistratura» si intravede, cancellato, l’aggettivo «milanese». I riferimenti a Napolitano ritornano quando elenca gli argomenti dei suoi colloqui con l’imprenditore piddino Primo Greganti, altro componente della presunta «cupola dei tre vecchietti al bar» degli appalti per Expo 2015 (il terzo membro è l’ex senatore Luigi Grillo). «Con Greganti io parlavo solo di politica; del presente di cui era molto scontento (la linea di Renzi gli era indigesta) (…) e soprattutto del passato con grande nostalgia. Emergevano allora i ricordi dei miei rapporti molto solidi e duraturi con Gianni Cervetti (uno dei leader, assieme a Napolitano dei miglioristi)». Quei miglioristi del Partito comunista che ai tempi di Tangentopoli finirono nel mirino dei pm milanesi. «Con Greganti parlavamo spesso delle paure dentro il Pci di un colpo di Stato, dei finanziamenti da Mosca, dei rapporti con gli altri Paesi comunisti, delle tensioni dei miglioristi (in particolare Napolitano) con Berlinguer, della vicinanza dei miglioristi a Craxi (giunta Tognoli) e dopo le elezioni dell’’83 con Berlusconi». Manda bigliettini Frigerio, molto in alto. Fa intendere, allude. Quasi a dire: Enrico Berlinguer, il santino della sinistra e dei grillini, era molto diverso da Napolitano, re Giorgio era più in sintonia con Silvio Berlusconi. E Greganti, il compagno G. delle tangenti rosse, l’uomo del conto Gabbietta, ora in carcere per l’Expo? «Mantiene tuttora forti collegamenti col mondo delle coop, coi leader del vecchio Pci (Fassino, D’Alema, Bersani, Moretti ecc.) e coi giovani turchi (Barca, Orlando, Fassina ecc.) e con numerose realtà internazionali (Cuba, Cina, Vietnam)». Sorpresa: l’”uomo nero” della sinistra avrebbe tuttora legami stretti con tre ex segretari di Pds-Ds-Pd, con l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti, con l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina, con l’ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca e con il Guardasigilli Andrea Orlando. Ovviamente sono tutte affermazioni senza riscontri o rilievi penali, ma potenzialmente di grande valenza politica. Frigerio entra anche nel merito delle accuse a lui rivolte e in particolare al presunto interesse della “cupola” a mantenere al suo posto Giuseppe Nucci, l’ex ad della Sogin. Nucci doveva “turbare” la gara europea per la centrale di Saluggia (Vercelli)? Ecco la perfida chiosa: «Il responsabile unico della procedura era l’ingegner Cittadini (collaboratore strettissimo e fidato di Nucci), molto legato a Bersani» e nonostante Grillo abbia presentato Nucci a Gianni Letta, Bersani e ad altri politici, alla fine Enrico Letta alla Sogin «nominò il suo amico Casale». Frigerio scrive anche che il grande progetto della Città della salute non era sponsorizzato solo dall’ex governatore lombardo Roberto Formigoni: «Tutta l’elìte politica milanese, a cominciare dal sindaco (Giuliano Pisapia ndr) era favorevole a collocare la città della salute sull’area del Cerba del professor Umberto Veronesi, favorendo anche Mediobanca e Ligresti». Nel memoriale del “vecchietto” terribile c’è spazio pure per Angelo Paris, il manager Expo finito agli arresti domiciliari, che Frigerio sostiene di aver messo in contatto con «il fratello dell’autorevolissimo segretario generale del Quirinale». «Paris era convinto che si stesse saldando un legame del tutto privilegiato tra Sala e il Pd: questo mi fu ampiamente confermato da Greganti. Del resto nel mondo politico di sinistra prendeva sempre più forza la candidatura di Sala a sindaco (di Milano ndr)». Per Frigerio tutte le gare per l’Expo hanno visto «una semplificazione delle procedure», «un’ansiosa corsa contro il tempo», con «ben 4 direttive in tal senso dal governo Letta-Lupi e Renzi-Lupi». La conseguenza? «Una giungla di fantasiose procedure anomale con tutti i poteri decisionali nella mani di Giuseppe Sala (l’ad di Expo spa, ndr)». Ma la “deregulation” dei governi di sinistra avrebbe avuto «un altro risultato riassuntivo evidente». Quale? «Il trionfo delle coop rosse». Che si sarebbero spartite la torta con il mondo vicino a Comunione e Liberazione: «In queste grandi opere si era realizzata una saldatura profonda tra le coop rosse e le imprese della Compagnia delle opere». Per Frigerio «solo la gara per la piastra (la più contestata dai pm ndr) era coerente con le normative europee». Alla fine il detenuto invia un messaggio in bottiglia alla procura e le ricorda che nel 2010 il ministro Giulio Tremonti aveva mandato gli ispettori in Lombardia a studiare «i sovracosti per l’Erario dei project financing» per le grandi opere. Al termine dell’ispezione «Tremonti mandò i fascicoli dell’indagine ministeriale in procura. (…) Come mai ora è calato l’oblio e tutti soffrono di vistosi vuoti di memoria?». Quesito interessante a cui qualcuno, forse, dovrà dare una risposta. Insieme con i saluti, Frigerio chiede a Bruti Liberati di «segretare integralmente» il contenuto della suo j’accuse «per evitare gli slogan roboanti e ad effetto dei media reali e virtuali». La Procura ha preferito non farlo.
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
Le Brigate nere del voyeurismo giudiziario. La Corte d’appello di Milano ha smontato il processo Ruby-Berlusconi, una fiction contrabbandata per processo penale, mentre un manipolo di giornalisti guardoni insiste nel tentativo di lapidazione pubblicando intercettazioni irrilevanti, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Lo dico con assoluta certezza: sono stati anni di piombo. Anni putridi, in cui nel nome della superiore necessità di distruggere quel nemico personale e politico chiamato Silvio Berlusconi, s’è sparato ad alzo zero come negli anni più bui della Repubblica. Non abbiamo sentito il rimbombo dei colpi di P38 ma abbiamo sulla nostra pelle le cicatrici di micidiali pallottole di carta mentre le molotov sono state sostituite da vergognose serpentine televisive. E d’altronde l’humus quello era. Quello, cioè, di un gruppo di reduci del ’68 che occhieggiavano alla lotta armata senza impugnare una pistola perché tanto a fare il lavoro sporco ci pensavano i poveracci della classe proletaria. È il loro «stile», che inizia col lurido manifesto contro il commissario Calabresi dopo la morte di Giuseppe Pinelli. Venne pubblicato per tre settimane di fila dal settimanale L’Espresso nel giugno del 1971, meno di un anno dopo Luigi Calabresi veniva ucciso dalla manovalanza di Lotta continua su incarico dell’ideologo del gruppo Adriano Sofri. Quel manifesto agghiacciante che «ricusava» la legge e bollava come «torturatore» il commissario lo firmarono in 757 (andatevi a leggere chi lo sottoscrisse e vi sembrerà di partecipare a una riunione di redazione del gruppo L’Espresso). Non è stato perciò sorprendente, per me, leggere la scorsa settimana su L’Espresso un articolo che dava conto di una intercettazione telefonica del luglio 2013 tra me e Marina Berlusconi della quale ignoravo l’esistenza non essendomi mai stata consegnata dai signori magistrati. Ma all’Espresso, ribadisco, lo stile impunito della casa è questo. Che permette, nonostante una diffida legale, la pubblicazione di un atto penalmente irrilevante qual è questa conversazione tra il direttore e il suo editore, non indagato, in un procedimento comunque archiviato ben quattro mesi fa. Una barbarie assoluta. La cui presunta rilevanza pubblica viene giustificata meschinamente ai propri lettori con il bla bla politico che vuole Marina Berlusconi prossimo leader del centrodestra. Quell’intercettazione, tra l’altro, rappresenta uno dei punti più bassi nella storia giudiziaria italiana. Per settimane, infatti, sull’onda di un’ipotesi di reato offensiva e palesemente farlocca (si presumeva che io avessi corrotto qualcuno per avere uno scoop) vennero ascoltate migliaia di telefonate su 24 utenze in uso al sottoscritto, al vicedirettore esecutivo, al capo della redazione romana, a un giornalista e a un collaboratore. Una gigantesca operazione degna della peggiore Stasi. Un anno fa, appena seppi di questa enorme infamia mascherata da investigazione, misi in guardia dal fatto che «conversazioni personalissime» sarebbero potute finire «nelle mani di giornalisti guardoni» e invocai l’intervento del presidente della Repubblica in qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di garante della Costituzione laddove è contemplata la libertà di stampa. Il presidente Napolitano, che ha dimostrato anche recentemente di saper far sentire (eccome!) la sua voce al Csm, non ha mosso un dito. Non l’hanno fatto, se è per questo, neppure i miei colleghi conigli che rappresentano la categoria. Il risultato è che, certamente dall’interno di un ufficio giudiziario, è stata consegnata all’Espresso la telefonata numero 831 (vi rendete conto quante migliaia ne hanno ascoltate!) tra me e Marina Berlusconi. Invocare non un intervento, ma anche una sola parola di condanna da parte di Matteo Renzi sarebbe inutile: il ragazzino deve essere così atterrito dai signori in toga che – pensate in che mani siamo – ha smesso di mandare sms o rispondere ai miei da quando il 30 maggio scorso ho scritto che i nostri scambi sarebbero stati letti anche da «qualche pubblico ministero che controlla le mie comunicazioni». Il silente ministro della Giustizia, che un giorno sì e l’altro pure corre a confessarsi con Repubblica, potrebbe trovare la favella visto che è alle prese con la riforma anche delle intercettazioni telefoniche. Faccia il seguente esercizio per sentire scorrere un brivido: provi a pensare se una sua conversazione intercettata in cui magari si sfoga e, che so io, dà dello stronzo a Renzi potrebbe finire sui giornali. Brutta roba, eh? Però, vedete, questa è ahimè l’Italia che negli anni di piombo ha lapidato Berlusconi e chiunque gli stesse vicino. È l’Italia che ha additato come «guardie armate» di Berlusconi facenti parte di un’orrida Struttura Delta alcuni direttori del gruppo Mondadori, Mediaset e del Giornale colpevoli, Repubblica dixit, di «propiziare “atti sediziosi” e inquinare fatti incontrovertibili» come l’indagine su Ruby. È l’Italia che ha calpestato la dignità di ragazze che frequentavano Arcore dandogli lo stigma di puttane a vita. È l’Italia dei maître-à-penser che nel 2011 sputavano sul proprio Paese scrivendo sul New York Times articolesse per spiegare «Why have italians, especially the women, tolerated Mr. Berlusconi for so long?». È l’Italia che ha criminalizzato chi si riconosceva in una parte politica e che si è bevuta, nel 2011, un colpo di Stato morbidissimo consumato sull’onda del voyeurismo giudiziario e sull’imbroglio dello spread. Adesso che la Corte d’appello di Milano ha smontato questa fiction agghiacciante contrabbandata per processo penale è il caso di ricordare ciò che Marina Berlusconi disse a Panorama, non intercettata ma in un’intervista, nel maggio del 2013 a proposito della vicenda Ruby: «Finirà tutto in una bolla di sapone, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?». Vedremo adesso che cosa succederà nell’Italia del 2014 che si dice coraggiosa e che, finora a parole, vuol cambiare verso.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista. Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. In quale altro Paese - Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Imbarazzi - Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.
Ruby, rissa in procura a Milano: Armando Spataro contro Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. L'assoluzione di Silvio Berlusconi nel secondo grado del processo Ruby ha gettato nello sconforto la procura di Milano. O almeno parte della procura, che sulla vittoria del Cav ufficialmente non commenta, anche se tra i corridoi di palazzo di Giustizia si parla soltanto di quello. E se ne parla anche nella mailing list di categoria, con toni molto, molto accesi. Infatti il fronte uscito con le ossa rotte dalla sentenza, ossia quello che fa riferimento alla grande accusatrice Ilda Boccassini e al suo "capo", Edmondo Bruti Liberati, è partito un missile diretto contro il Consiglio superiore della magistratura. L'accusa rivolta all'organo di autocontrollo delle toghe è quella di aver indebolito il pool di Milano alla vigilia della sentenza, avviando il procedimento disciplinare contro Boccassini e Bruti in seguito agli esposti presentati da Alfredo Robledo. Botta e risposta - Un'accusa che viene accolta con sdegno dal fronte opposto. Portavoce dei malumori è Armando Spataro, nuovo procuratore di Torino, da sempre in aspra antitesi con Ilda la rossa. Ad innescare la sua rabbia non solo la mailing list, ma anche un articolo comparso su Repubblica in cui, citando fonti anonime, si scriveva della tesi complottista: "Chi sta con Bruti e Boccassini - scriveva il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata (la sanzione disciplinare, ndr) se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby". Durissimo il commento di Spataro: "Penso che quell'affermazione sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm sia ai componenti della Corte di Milano che hanno emesso la sentenza". Orecchie che soffiano - Una dura replica, quella di Spataro, palesemente rivolta all'entourage-Boccassini, se non a Ilda la rossa stessa. La giornalista di Repubblica - che, come detto, citava fonti anonime - chiamata in causa da Spataro non ha però voluto rivelare da chi arrivasse la soffiata complottista. Una circostanza che ha fatto ulteriormente inalberare Spataro, che ha messo nuovamente nel mirino la parte della Procura che getta fango sul Csm: "Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi, diversi da loro, possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!", chiosa Spataro. E alla Boccassini, che vive probabilmente il momento più difficile della sua carriera, soffiano le orecchie...
Effetto Ruby: in Procura volano gli stracci tra pm. Violento scambio di mail al vetriolo, Spataro contro la Boccassini e Repubblica, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Inevitabilmente, la «botta» della sentenza Ruby fa sentire i suoi effetti anche all'interno della magistratura. Nessuna dichiarazione ufficiale: ma nei corridoi degli uffici giudiziari (a Milano, e non solo) le toghe non parlano che della clamorosa assoluzione in appello di Berlusconi. E se ne parla con franchezza quasi brutale anche all'interno delle mailing list interne alla categoria. Dal fronte uscito sconfitto dal processo (l'asse tra Ilda Boccassini e il capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati) parte un siluro contro il Consiglio superiore della magistratura, che viene accusato di avere indebolito - avviando il procedimento disciplinare contro la Boccassini e Bruti poco prima della sentenza Ruby -la procura milanese, per rendere possibile l'assoluzione del Cavaliere. Accusa pesante. Dal fronte opposto si risponde con altrettanta asprezza. Insomma: volano gli stracci. A lanciare l'attacco è il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, che da sempre mal sopporta la Boccassini. Il giorno dopo della sentenza, legge su Repubblica un articolo che citando fonti anonime ma immaginabili della Procura di Milano lancia la tesi del complotto: «Chi sta con Bruti e Boccassini - scrive il quotidiano - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata - gli atti per entrambi ai titolari dell'azione disciplinare - se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby». Spataro si infuria, scrive all'autrice che «già la tecnica dell'anonimo è fortemente criticabile specie in relazione a fatti così importanti», e poi attacca: «Autorizzo a girare questo mio commento all'anonimo o agli anonimi: penso che quell'affermazione (che tra l'altro allude alla permeabilità dei componenti il collegio che ha assolto B.) sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm (comunque abbiano votato) sia ai componenti della Corte d'appello di Milano che ha emesso la sentenza».Chiamata in causa da Spataro, la giornalista di Repubblica rifiuta di indicare le sue fonti: «Rivendico il diritto, soprattutto in tempi di azioni disciplinari facili, di riprodurre un virgolettato anonimo in un articolo». Spataro si arrabbia ancora di più: ed è chiaro che nel mirino più di Repubblica sono i suoi contatti all'interno della Procura di Milano. «Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi - diversi da loro - possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!». Accanto a Spataro scende in campo uno dei membri del Csm che ha deciso l'esito del «caso Milano», Paolo Carfì: che pure fu giudice del processo intentato dalla Boccassini a Cesare Previti, e accolse in pieno le sue tesi. Ma stavolta prende di petto la faccenda: spiega di sperare che la ricostruzione di Repubblica sia frutto di «una qualche incomprensione tra l'articolista e gli anonimi magistrati della Procura di Milano», ma poi aggiunge che in caso contrario «bisognerebbe concludere che c'è negli uffici giudiziari di Milano chi ritiene che la sentenza di assoluzione di Berlusconi non sia stata assunta in piena libertà dal collegio giudicante e che tra il Csm e la Corte d'appello di Milano sarebbe intercorso un filo rosso avente per fine ultimo la normalizzazione degli uffici giudiziari milanesi, in primis la Procura della Repubblica. Il che prima che offensivo è incredibilmente ridicolo». Dopodiché Carfì si spinge ancora più in là, e se la prende anche con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel pieno della discussione al Csm del «caso Milano» era intervenuto con una lettera in aperta difesa di Bruti Liberati: «Certo non ha aiutato il tutto sommato inutile (rispetto alla materia del contendere) messaggio del presidente della Repubblica e la gestione che del medesimo se n'è fatta». A togliersi un sassolino contro la Boccassini è anche Ferdinando Pomarici, grande vecchio della procura milanese: che affronta direttamente il tema per cui la Boccassini è finita sotto procedimento disciplinare, ovvero il pervicace rifiuto di fare circolare le notizie all'interno del pool antimafia e di comunicare le indagini alla Dna, la Procura nazionale antimafia. Il magistrato della Dna che aveva accusato la Boccassini, Filippo Spiezia, ha dovuto lasciare il posto dopo la furibonda reazione della dottoressa. E al suo posto a tenere i rapporti con Milano è arrivata Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica e buona amica di Ilda. Al Csm, la Canepa, la Boccassini e Bruti Liberati hanno cercato di spiegare che a Milano va tutto bene, e che comunque una certa riservatezza fa parte delle tradizioni del pool antimafia meneghino. Ma Pomarici, che era capo dell'antimafia appena prima della Boccassini, insorge con una mail: «Per debito di verità, essendomi già doluto con Anna Canepa della rappresentazione non corretta della situazione, contesto assolutamente che sotto la mia gestione ci fossero delle criticità nell'inserimento dei dati per quanto concerne la Dda di Milano. Ignoro, e non mi interessa sapere, quale sia la situazione attuale, ma le mie disposizioni puntualmente attuate erano univoche: tutte le informative della polizia giudiziaria con i relativi seguiti, tutte le richieste di misure cautelari, tutte le relative ordinanze, tutte le sentenze di primo grado sono state inserite in banca dati e in tempo reale e trasmesse alla Dna. Chi riferisce di cose diverse afferma il falso, e viene da chiedersi il motivo. Ed eguale circolazione di informazioni è stata ovviamente assicurata all'interno della dea i cui magistrati ricevevano semestralmente relazione completa su tutte le indagini assegnate agli altri colleghi sul loro sviluppo e su tutti i nomi delle persone sottoposte a indagini». Esattamente ciò che la Boccassini è accusata ora di non avere fatto, e perciò rischia il procedimento disciplinare.
Il Cav? Critico condanna e assoluzione”, scrive Antonio Di Pietro (Già magistrato ed ora contadino) su “Il Garantista”. Le sentenze si rispettano sempre, sia quando piacciono che quando non piacciono, e a me francamente non piace né la sentenza di Appello che ha assolto Berlusconi per la vicenda Ruby, né la sentenza di primo grado che invece per gli stessi fatti lo aveva condannato a 7 anni di carcere. Ripeto, le sentenze vanno sempre rispettate e anche io stavolta mi atterrò a questo sacro principio. Le sentenze però possono essere serenamente commentate (pur rispettando i giudici, gli accusati e gli accusatori). Ciò premesso, a me pare che ci siano state due forzature di troppo: in primo grado aver condannato Berlusconi anche per “concussione per costrizione” ed in Appello averlo assolto anche per il reato di “prostituzione minorile”. Ma andiamo con ordine ed innanzitutto riassumiamo la vicenda. La procura della Repubblica di Milano, in relazione alla vicenda Ruby, aveva accusato Berlusconi di due specifici reati: quello di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Karima-Ruby El Marhouh (Ruby Rubacuori, appunto) punito dall’art. 600 bis del codice penale con la pena da uno a sei anni di reclusione e quello di concussione per costrizione punito dall’art. 317 del codice penale con la pena da sei a dodici anni di reclusione, per avere egli – nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di presidente del Consiglio in carica – abusato di tale sua qualità per “costringere” il capo di Gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, a far rilasciare la predetta Ruby (che, nel frattempo, era stata portata in questura dagli agenti di polizia ed ivi trattenuta per accertamenti) sostenendo che, altrimenti, sarebbe successa una diatriba internazionale in quanto la predetta era imparentata con l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak (mentre invece, nella realtà era ed è una cittadina marocchina che nulla aveva a che vedere con l’Egitto). Ebbene, i giudici di primo grado hanno riconosciuto Berlusconi colpevole di entrambi i reati, ritenendo provato sia che Berlusconi fosse perfettamente al corrente che la signorina Ruby fosse minorenne (e quindi aveva il dovere di non avere rapporti sessuali con lei perché appunto la legge vieta ai maggiorenni di avere rapporti sessuali con minorenni) sia che il funzionario della questura, Ostuni, fosse stato costretto ad assecondare le richieste del presidente del Consiglio di far uscire dalla questura la signorina Ruby. I giudici di Appello, invece, hanno assolto Berlusconi da entrambi i reati, sebbene con motivazioni diverse. Egli infatti è stato assolto dall’accusa di concussione “perché il fatto non sussiste” e dall’accusa di prostituzione minorile “perché il fatto non costituisce reato”. Assoluzione che ho così tradotto “in dipietrese” a mia sorella Concetta che – qui a Montenero dove mi trovo – me ne ha appena chiesto spiegazione: i giudici di Appello hanno assolto Berlusconi dall’accusa di concussione perché Ostuni non era e non può essere considerato alla stregua di un “povero Cristo” che – siccome gli telefona il presidente del Consiglio – si impaurisce a tal punto da non potergli “resistere” e quindi da non potergli dire che Ruby non era e non poteva essere affatto parente di Mubarak e soprattutto che non poteva essere rilasciata nell’immediatezza in quanto anche nei suoi confronti dovevano essere effettuati gli accertamenti di rito che ogni ufficio stranieri di ogni questura d’Italia ha l’obbligo di svolgere in casi del genere. Insomma, ai giudici di Appello potrebbe essere sembrato più plausibile che il dottor Ostuni si sia volontariamente adeguato alle richieste di Berlusconi, pur essendo le stesse improprie e fuori luogo. Attenzione però: per capire meglio le ragioni per cui i giudici di Appello si sono determinati ad assolvere Berlusconi dobbiamo attendere la pubblicazione delle motivazioni perché non dobbiamo dimenticarci che nel frattempo è intervenuta le legge n. 190 del 6 novembre 2012 con cui è stato di fatto abolito il reato di “concussione per induzione”, reato tipico di chi vuole convincere spintaneamente – si ho scritto “spintaneamente” e non spontaneamente – un pubblico ufficiale a favorirlo, abolizione che è comunque intervenuta a fagiolo per risolvere anche questo caso (come anche il “caso Penati”, in verità). Quindi, e in conclusione, per la Corte di Appello di Milano – mancando un elemento essenziale per la commissione del reato (ovvero la “costrizione”) – il fatto-reato “non sussiste”, vale a dire che è come se non si fosse mai verificato. Berlusconi, però, è stato assolto dall’accusa di prostituzione minorile ma in questo caso non perché “il fatto non sussiste” bensì perché “il fatto non costituisce reato”, vale a dire che – sempre secondo i giudici di Appello – il “fatto” c’è o ci potrebbe essere stato ma non è reato in quanto Berlusconi non aveva avuto la percezione di avere a che fare con una minorenne (anche in questo caso, comunque è bene attendere la pubblicazione della sentenza per capire meglio su quali elementi di fatto i giudici sono arrivati a tale conclusione). Così stando le cose, e tornando all’inizio del mio discorso, ribadisco che a me – pur dovendo rispettare, come rispetto, entrambe le sentenze – nessuna delle due mi convince. Già non mi aveva convinto la sentenza di primo grado e cioè quella che aveva condannato Berlusconi per “concussione per costrizione” ai danni di Ostuni e ciò in quanto a me è sembrato sin dal primo momento più plausibile che tale funzionario della questura di Milano possa aver deciso di sua sponte di assecondare Berlusconi o quanto meno possa esservi stato “indotto” dal fatto che stava parlando con il presidente del Consiglio in persona ma in tal caso – come abbiamo sopra precisato – tale tipo di reato era stato nel frattempo abolito dalle legge n. 190 del 2012 (che fortunata coincidenza, eh!!!). Comunque per me – per come sono fatto io e per come mi sono sempre comportato – avrei preferito che il funzionario della questura avesse reagito come dovrebbe reagire sempre un pubblico ufficiale “con le palle” (scusate il termine), resistendo a qualsiasi pressione esterna, fosse pure del presidente del Consiglio!!! Bene quindi hanno fatto i giudici di Appello a rivedere questo passaggio della sentenza di primo grado, anche se, forse poteva essere meglio esplorata la figura processuale del nuovo reato pure introdotto dalla legge n. 190/12 (istigazione alla corruzione) e comunque attendiamo di leggere come si esprimeranno in relazione all’abolito reato di “concussione per induzione”. Parimenti non mi convince neanche l’assoluzione che in Appello i giudici hanno riconosciuto a Berlusconi per il reato di prostituzione minorile e ciò perché non vedo la ragione per cui costui si sia dato tanto da fare quella notte per far uscire dalla Questura la ragazzina Ruby Rubacuori e farla affidare addirittura alle cure della nota Nicole Minetti se non perché poteva sapere che la ragazza era minorenne e quindi poteva metterlo nei guai. Ma comunque, ripeto, le sentenze si rispettano ed io ho voluto esprimere le mie riserve, solo per far sapere come la penso e non già per pretendere di giudicare gli altri. Per il resto chi vivrà vedrà!!!
L’arresto di Galan è la fulminea rivincita del partito dei magistrati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista” E così ne hanno spedito in prigione un altro. Bravi. Violando la legge, lo spirito della Costituzione, il codice di procedura penale. Prima i magistrati e poi la Camera dei deputati hanno commesso un atto illegale violando i principi della democrazia politica, le leggi della Repubblica e lo Stato di diritto. Non esiste nessuna autorità democratica in grado di mettere un argine a questo sopruso. Ed è esattamente questo che fa impazzire di rabbia. Anche un po’ di paura. La consapevolezza che le istituzioni non si possono opporre a una violenza illegale, perché le istituzione, tutte o in parte, sono le autrici di questa violenza. La magistratura ha deciso consapevolmente di chiedere l’arresto di una persona, in spregio dell’articolo 275 del codice di procedura. I magistrati sono pienamente consci dell’illegalità che compiono, ma sanno che nessuna autorità potrà contestargliela, o perché non ha le competenze o semplicemente per viltà. La Camera dei deputati ha mostrato senza neppure cercare di mascherarsi la sua viltà. Il Csm non interverrà. Né interverrà il ministro della Giustizia, che anzi ha votato a favore del sopruso. Diceva Manzoni che se uno il coraggio non ce l’ha non può darselo. Galan, seppure in gravi condizioni di salute, andrà in carcere, in barella, e questo atto sarà simbolicamente il grido d’accusa contro la vigliaccheria e l’ignoranza del nostro sistema politico. E il nostro sistema politico resterà schiacciato dall’atto di sottomissione, dall’umiliazione accettata con spirito lieve, ieri, nei confronti e da parte della magistratura, anzi – per essere più precisi – della corporazione dei Pm. E adesso? Ricomincia la partita che ha per posta la riforma della giustizia. Ma ricomincia in condizioni del tutto rovesciate rispetto a due giorni fa. L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi, nel processo Ruby, e la conseguente delegittimazione del partito dei Pm appoggiato dalla grande stampa legalitaria (Repubblica, Il Fatto e tanti altri) poteva aprire uno spiraglio e rendere più sereno il clima nel quale ci si apprestava ad affrontare lo scoglio della riforma della giustizia. Ma il partito dei Pm, bisogna riconoscerlo, ha dimostrato di avere forza morale, coraggio e intelligenza infinitamente superiori rispetto al mondo politico. In due giorni è riuscito ad annullare gli effetti politici della sentenza Ruby e a ristabilire una posizione nettissimamente di forza. Prima con l’attacco feroce alla politica e alla democrazia del Pm di Palermo Di Matteo, che ha chiamato i giudici ad una azione compatta e sovversiva – la famosa sovversione delle classi dirigenti: vi ricordate Gramsci? Però ora non sono più classi, come immaginava lui, sono corporazioni, o caste, o gruppi di potere – una azione di sbarramento che impedisca la riforma e che avvii anzi una controriforma, per permettere una ulteriore riduzione dello Stato di diritto. Il partito dei Pm questo vuole, e lo dichiara: niente separazione delle carriere, niente responsabilità e punibilità dei giudici, niente revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, niente riduzione del carcere preventivo e delle intercettazioni, ma invece due drastiche misure: abolizione dell’appello e allungamento sine die della prescrizione. Di conseguenza aumento smisurato del potere dei magistrati, e soprattutto dell’accusa, riduzione degli spazi della difesa e quasi annullamento dei diritti del sospettato e poi dell’imputato. Ci spiace dirlo, senza lasciare neppure una lucetta accesa: i giudici ieri hanno vinto la partita.
Divisioni e sconfitte. L'anno terribile della Procura di Milano. La guerra intestina tra Robledo e Bruti, i difficili rapporti tra Ilda Boccassini e la Dna. Così si è rotto un equilibrio che sembrava perfetto, scrive Giuseppe Vespo su “L’Unità”. Un anno fa oggi la procura di Milano incassava la seconda sentenza di condanna sul caso Ruby, quella a carico del trio Fede, Mora, Minetti. Un anno fa oggi nessuno avrebbe immaginato che il 2014 sarebbe stato così travagliato per i pm guidati da Edmondo Bruti Liberati. Invece l’equilibrio si è rotto, e alcuni dei commenti all’assoluzione Berlusconi lo ricordano senza appello. «La disfatta della procura», come si è affrettato a titolare l’ex fedelissimo Fabrizio Cicchitto, è solo l’ultimo di una serie di risultati negativi per i pm milanesi. Non certo dal punto di vista della produttività investigativa - basti ricordare i colpi inflitti alla corruzione, alla criminalità organizzata e le inchieste su Expo - quanto da quello dell’immagine. E non è poco in un Paese che da oltre venti anni si trova spesso diviso in due fazioni, pro e contro i magistrati. In questi mesi agli attacchi esterni si sono aggiunti i veleni interni all’ufficio. Alle notizie sulle indagini si sono affiancate quelle su chi le indagini le conduceva: esposti, lettere, audizioni al Csm e comportamenti affidati al vaglio dei cosiddetti titolari delle azioni disciplinari nei confronti dei togati. La «guerra» intestina è scoppiata a marzo con il primo esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo nei confronti del procuratore Capo Bruti Liberati. Il titolare del pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione attacca il suo capo per i metodi usati nell’assegnazione dei fascicoli d’indagine. Bruti Liberati, in sostanza, avrebbe preferito affidare ad altri pm inchieste che per competenza spetterebbero a Robledo. La notizia svela le frizioni interne all’ufficio e scatena una serie di reazioni a catena che hanno quasi messo a rischio alcune inchieste. L’ultima è arrivata con la bocciatura da parte del Consiglio Giudiziario milanese della «area omogenea Expo», l’unità organizzativa con la quale il procuratore capo si assegna l’esclusivo e diretto coordinamento di tutte le indagini che riguardano l’evento. Mentre gli atti sulla «scarsa collaborazione» tra Ilda Boccasini, capo della Dda, e la Direzione nazionale antimafia, finiscono al pg di Cassazione e al ministro della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare. La sentenza di assoluzione di Berlusconi dal caso Ruby arriva dunque in un momento poco felice per la procura, che aspetta di sapere se sarà ancora guidata dallo stesso capo o se ne arriverà uno nuovo. Il procuratore è in scadenza e si è candidato per un nuovo mandato. A questo proposito, dieci giorni fa Bruti Liberati ha scritto una lettera ai suoi pm: «A dispetto di qualche piccola, circoscritta polemica degli ultimissimi mesi - si legge - l’apprezzamento per l’opera della procura di Milano nel quadriennio corso è stato ampio e condiviso e il prestigio indiscusso». «Ma ciò che rileva - continua - sono i riscontri ottenuti a livello di giudizio, in termini di accoglimento delle richieste e dei tempi di definizione». Spetterà al Csm decidere sulla riconferma. una vittoria ai mondiali Ma intanto chi paga i danni subiti da Berlusconi per quella che adesso viene definita «un’autentica operazione non solo giudiziaria ma anche politica e mediatica»? Dietro questa domanda si ricompatta non solo Forza Italia, ma tutto il centro destra. L’attacco ai magistrati ritorna con «la disfatta della Procura di Milano e in primo luogo - aggiunge Cicchitto - sia di Bruti Liberati che della Boccassini, che hanno gestito questo processo in una chiave addirittura unilaterale ed esclusiva». Brunetta, capo gruppo di Fi alla Camera, vuole una commissione parlamentare d’inchiesta sulla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, causata «anche grazie a questo fango». Mentre Micaela Biancofiore chiede che «i pm e i giudici di primo grado che hanno diffamato Berlusconi, a quel tempo presidente del Consiglio e dunque gettato fango internazionalmente sull’Italia intera, dovrebbero dimettersi spontaneamente lasciando spazio alla maggioranza della magistratura italiana, quella maggioritaria, indipendente, autonoma e terza». E così via, nelle parole degli altri parlamentari di centro destra è tutto un susseguirsi di bordate contro il quarto piano del palazzo di Giustizia di Milano: «Verità e giustizia», fine di «un accanimento senza precedenti», «milioni di euro spesi per il processo». Sollecitato sulla «sconfitta della procura di Milano», uno dei legali di Silvio Berlusconi, il professor Franco Coppi - che insieme all’avvocato Filippo Dinacci ha difeso l’ex premier nel processo d’Appello - dice: «Non ho mai considerato il processo penale come una specie di gara sportiva tra chi vince e chi perde». In molti invece lo considerano proprio così. C’è addirittura chi esulta, come il senatore siciliano e forzista Vincenzo Gibiino, «come se l’Italia avesse vinto i mondiali».
La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...
Piacere di indagarvi. Ritratto di Forno, un allegro pm che vede pedofili dappertutto, scrive “Tempi”. Dalle intercettazioni appena pubblicate dal Corriere della Sera sembra che dietro al Rubygate ci sia il procuratore aggiunto Pietro Forno. Ripubblichiamo un articolo del 1999 (e un altro in allegato) che racconta le gesta del pm che ha compiuto forse i più gravi e ripetuti errori giudiziari che il tribunale di Milano abbia mai registrato. Pubblicando le intercettazioni che la Procura avrebbe dovuto distruggere, il Corriere della Sera ci ha fatto il grande servigio di rivelarci il vero protagonista dell’inchiesta che Ilda Boccassini si è peritata di coprire con la sua austera e, a suo modo, nobile autorità. Secondo le indiscrezioni che la signora Nicole Minetti ha raccolto tre mesi prima dell’emersione dell’inchiesta e che riferisce telefonicamente a Silvio Berlusconi, il pm da cui scaturirebbe il famoso Rubygate altri non sarebbe che l’aggiunto procuratore Pietro Forno. Il pm che ha compiuto forse i più gravi e ripetuti errori giudiziari che il tribunale di Milano abbia mai registrato e di cui basta un semplice giro in web per dimostrare l’inquietante curriculum. Di lui Tempi si occupò già nel 1999, quando gli dedicammo un ritratto a cura di Luigi Amicone, Francesco Esposito e Maurizio Zottarelli che riproponiamo qui di seguito. Dopo il nostro articolo e le denunce da parte delle vittime delle sue inchieste, Forno fu difeso da D’Ambrosio e Borrelli, allora capi della Procura di Milano. E anche il Csm, che in seguito aprì una pratica nei confronti del pm milanese che vedeva pedofili ovunque, alla fine insabbiò l’inchiesta limitandosi ad accettarne la richiesta di trasferimento a Torino, da cui tre anni fa Forno si trasferì nuovamente per tornare a Milano come procuratore aggiunto. “Apprendo che è stata depositata una richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti per un’accusa infamante. Che dire? Qualcuno al Tribunale di Milano ha pensato bene di aprire la campagna elettorale. Quando poi sento dire che sarebbero indagate per la stessa vicenda delle suore stimate da tutti perchè hanno dedicato la loro vita all’impegno sociale tra i giovani, dico che siamo alla follia. È intollerabile, e qualcuno dovrà rispondere del male che sta facendo a tante persone, il livello di barbarie raggiunto da metodi giudiziari che non hanno nulla a che vedere con la giustizia”. Così, Alessandro Patelli, ex leghista e attuale consigliere regionale lombardo nel gruppo misto, commenta al giornalista di Tempi la notizia della richiesta di rinvio a giudizio nei suoi confronti per “atti di libidine e violenza sessuale”, depositata dal pm milanese Pietro Forno il 24 novembre scorso. Sulla richiesta di Forno deve ora pronunciarsi il Gip Maurizio Grigio, al quale spetta di decidere se accoglierla o archiviarla. Resta il fatto che questa vicenda ha già sconvolto la vita di una famiglia – quella dei Patelli, delle sue tre figlie e della compagna, un commissario di polizia – e perfino di un convento di suore benedettine, da anni impegnate in un’opera di accoglienza di bambini e giovani con disagi familiari, che nell’ambito dell’inchiesta Patelli, il magistrato Pietro Forno ha fatto mettere sotto intercettazione telefonica. “Non auguro a nessuno quello che abbiamo passato e che ancora stiamo passando” è lo sfogo di una delle suore, “la vita della nostra comunità, suore e bambine che assistiamo, è stata sconvolta da mesi di pressione. Telefoni sotto controllo, interrogatori, cose che non capiamo. Mi sono sentita male quando ho saputo che la mia consorella è scoppiata a piangere per la tensione durante uno di questi interrogatori. lei è la più battagliera di noi. Quella che ci fa coraggio. Io non me ne intendo di Tribunali e non so come funzionano queste cose. Stiamo pregando perchè Maria tocchi questi cuori. Sono sicura che tutto finirà bene”. Benchè il segreto istruttorio sia caduto il 24 novembre scorso e il cronista di Tempi provi cortesemente a domandare al pm Pietro Forno le ragioni per cui ha voluto ugualmente depositare la richiesta di rinvio a giudizio nonostante la ritrattazione della ragazza, il magistrato preferisce glissare, “prechè la materi è delicata e ogni parola rischia di venire tirata da una parte e dall’altra”. Dichiara il pm Pietro Forno a Tempi:”io preferisco parlare con gli atti giudiziari”. E infatti la materia è così delicata che, il pomeriggio la richiesta di rinvio arriva sul tavolo di Grigo, la sera stessa Patelli è già sui Tg… E la ragione di tanta prudenza anche in un circuito messmediatico notoriamente molto disponibile a dare il massimo risalto ai casi di violenze, specie se compiute su minori, è la seguente: il pm Pietro Forno non è nuovo a scandali giudiziari rivelatisi una bolla di sapone. Anzi, nell’ultimo anno, anche a seguito di sentenze che hanno smontato i suoi impianti accusatori e di inchieste che hanno avuto scarsi risultati e lasciato un pesante strascico di polemiche sui massmedia, i metodi di indagine utilizzati da Forno sono stati duramente stigmatizzati dal giudice Guido Salvini. Ora nei corridoi del Tribunale di Milano ci si comincia a chiedere se dieci anni alla guida di un pool specializzato solo nella persecuzione dei reati di natura sessuale non siano troppi anche per un magistrato che un tempo era stimato per competenza ed equilibrio. Oggi il pm antipedofili appare stanco e provato da una professione interpretata come una sorta di missione religiosa al servizio di una purificazione dell’etica e dei costumi della società. E infatti, l’unico magistrato che, in termini di anzianità nel pool antiabusi, poteva competere con Forno, è la dottoressa Laura Borgonovo, che però ha preferito trasferirsi in altra sezione di indagini. E questo anche perchè si dice che la Borgonovo non condividesse i metodi di un pm che fa ricorso ad un sistema molto rodato, ma poco garantista, nella raccolta e verifica delle prove, e che utilizza sempre gli stessi periti senza mai confrontare le loro tesi con quelli di specialisti esterni al pool. Il pm Pietro Forno è inoltre il solo pm dei tanti transitati dal pool antiabusi, che sia rimasto tanti anni ininterrottamente ad occuparsi di pedofilia e violenze sessuali esclusivamente in ambito familiare. Ed è anche il solo, se si esclude il pool Mani Pulite, che grazie a un accordo con la Questura di Milano, ha ottenuto che la Polizia gli mettesse a disposizione decine di uomini che lavorano solo per lui. Pietro Forno ha definitivamente conquistato gli onori delle cronache nel 1985, dopo il caso Armando Verdiglione, lo psicoanalista piu’ amato dalle signore della Milano salottiera, accusato di avere sottratto a una paziente 200 milioni e condannato nel 1989 a quattro anni per estorsione e circonvenzione di incapace. Da allora Forno ha collezionato altre celebri inchieste, come quella sullo scandalo degli “aborti terapeutici” – eseguiti dopo il terzo mese di gravidanza – alla clinica Mangiagalli di Milano (dicembre 1988) e sulla chiesa di Scientology (marzo 1989, processo rinviato in appello nell’ottobre 1997). Ma dopo che per anni e’ stato considerato un’autorità per i reati a sfondo sessuale, da qualche tempo il Grande Inquisitore di pedofili e violentatori, ha inanellato un’impressionante serie di veri e propri errori giudiziari. Si comincia nel 1995, con l’assoluzione di un padre di famiglia, arrestato su richiesta di Forno con l’accusa di sevizie sessuali sulla figlioletta di quattro anni. In questa occasione la corte stigmatizza la “propensione accusatoria” del pm e critica la “drammatica esperienza processuale” imposta alla piccola. Seguono la storia di Nikolin Ndreka, albanese di 31 anni che nel 1997 trascorre 9 mesi in carcere per violenza sessuale, prima di essere assolto dall’accusa; quella di Vito Cangialosi, accusato nel maggio 1998 di aver violentato la figlia e riconosciuto in seguito innocente; di una mamma e uno zio di Lissone rimasti un anno agli arresti domiciliari per presunta violenza ai danni di un bambino di cinque anni, assolti nel maggio 1999 con formula piena (per quest’ultimo caso, contro Forno è stato inoltrato un esposto al CSM). Si è concluso nel luglio di quest’anno il calvario di Maria, anziana signora accusata di non aver impedito al figlio (la cui pericolosità era stata provata dal pm citando una sua frase pronunciata qualche anno addietro: “mi piacciono le bambine”) di violentare la nipotina, e per cui il pm aveva pure richiesto una perizia psichiatrica. Il gip Guido Salvini ha emesso la sentenza di non luogo a procedere sottolineando le irregolarità delle indagini. È una censura durissima quella di Salvini nei confronti del pm Forno: “Consulenza psichiatrica inutile e invasiva” e poi “l’accusa si basava su un dato estremamente fragile, cioè sulle dichiarazioni rilasciate dalla bambina agli agenti. A quell’interrogatorio non erano presenti psicologi né altri tipi di figure specializzate nel trattare con i bambini (…). Si aggiunga che assai scorrettamente la donna è stata sentita in qualità di testimone quando già erano state acquisite dal personale della Squadra Mobile ed erano pervenute all’ufficio del pm le dichiarazioni che il pm aveva poi utilizzato per la richiesta di rinvio a giudizio (in pratica una persona indagata interrogata come testimone senza avvocato, ndr). Sono state peraltro mosse dal funzionario delle domande curiose …) in particolare se le figlie ormai adulte della donna, da piccole (cioè 30 anni or sono) “si toccassero il pube”, circostanza questa che non si comprende cosa abbia a che vedere con gli abusi ascritti al fratello”. Ma le storie più conosciute dal grande pubblico sono quelle di Lorenzo Artico e William Valerio. Il primo condannato a 13 anni di carcere (l’accusa ne chiedeva 18) per abusi su sette bambini di una comunità di recupero dove lavorava come educatore. Un processo incominciato nel 1997 e proseguito per 40 udienze nel corso delle quali quattro dei giovani accusatori hanno ritrattato. Dopo alcuni mesi di carcere Artico è passato agli arresti domiciliari, mentre nel suo quartiere si costituiva un comitato in sua difesa, formato dagli amici e dalle mamme che da anni affidavano a Lorenzo i propri figli. In suo favore sono intervenuti anche alcuni personaggi politici, come Luca Manconi, che ha criticato l’accanimento, quasi persecutorio, della pubblica accusa. Oggi il giovane è in libertà con l’obbligo della firma due volte la settimana. Il processo di appello è atteso a fine anno. Per William Valerio (vedi Tempi n. 29/30) accusato di aver violentato, minacciandola con una pistola, una ragazza minorenne, il pm Forno aveva chiesto una condanna esemplare: 10 anni. Così a 21 anni il giovane si è ritrovato in una cella del carcere milanese di S. Vittore, insieme ad altri 6 pedofili. Poi ha trascorso più di un anno agli arresti domiciliari. Finchè il gip Italo Ghitti ha emesso la sentenza di assoluzione per un delitto senza movente, senza alcun riscontro oggettivo e basato soltanto sulle dichiarazioni di una ragazzina rese sotto l’effetto di sostanze allucinogene. “Il problema è che voi giornalisti pubblicizzate solo le assoluzioni”, ha dichiarato Forno prima di annunciare che contro Valerio ricorrerà in appello. Lui i suo indagati li conosce bene, ha perfino fatto intendere di non credere nell’efficacia degli interrogatori: “Il verbale tipo – ha dichiarato in un’intervista – potrei anche scriverlo prima di sentire l’imputato”. Niente male per la giustizia che, fino a eventuali sentenze definitive di condanna emesse da un tribunale, in uno stato di diritto, dovrebbe agire nei confronti del cittadino indagato nel massimo rispetto del principio della “presunzione di innocenza”.
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.
Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?
«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.
Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.
L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.
Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.
Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.
Possibile che sia un bugiardo? I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.
«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” - A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»
Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...
«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».
Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...
«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».
«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.
Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?
«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».
ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.
Riina: "Borsellino era intercettato". Il Capo dei capi parla in carcere: "Sapevamo doveva andare perché le ha detto 'domani mamma vengo'", scrive “La Repubblica”. Riina e il boss Lorusso ripresi in carcere Cosa nostra teneva sotto controllo il telefono del giudice Paolo Borsellino o dei suoi familiari. E' lo stesso Totò Riina, in una conversazione intercettata, a rivelarlo a un compagno di carcere. "Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: 'domani mamma vengo'", racconta il boss, riferendo le parole dette dal magistrato alla madre. "Questa del campanello però è un fenomeno...Questa una volta il Signore l'ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto". E' un pezzo della conversazione intercettata in cui il boss Totò Riina, racconta all'uomo con cui trascorre l'ora d'aria in carcere, Alberto Lorusso, che a innescare l'esplosione che uccise Paolo Borsellino fu lo stesso magistrato, suonando al citofono in cui era stato piazzato un telecomando. La conversazione - il cui contenuto era noto, ma non il testo - è stata depositata al processo sulla "trattativa". "Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla... Ma lui l'attiva lo stesso", commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Il boss detenuto racconta di avere cercato di uccidere Borsellino per anni. "Una vita ci ho combattuto - dice - una vita... Là a Marsala (il magistrato lavorava a Marsala ndr)". "Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?" si chiede Riina. "Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre", aggiunge confermando che a innescare l'esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre del magistrato in via D'Amelio. "Minchia - racconta - lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E' troppo forte questa". Secondo gli inquirenti Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell'autobomba, l'impulso che avrebbe innescato l'esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l'attentato al rapido 904 per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell'esplosione.
QUEL CHE SUCCEDE NEI TRIBUNALI. GENTE CHE VA, GENTE CHE VIENE. GENTE CHE IMBROGLIA O SPARA.
9 aprile 2015: strage al Tribunale di Milano. Non c'è sicurezza senza responsabilità. Il Palazzo di Giustizia di Milano era un colabrodo. Al bando le polemiche pretestuose e lo scaricabarile. Abbiamo bisogno di interventi, scrive Marco Ventura su Panorama. Il Palazzo di Giustizia di Milano era un colabrodo e questo oggi sembra incredibile. Facile elencare, il giorno dopo, tutte le falle. Chi ci lavora lo sapeva bene. Subito dopo l’impresa criminale di Giardiello, quei tre morti lasciati lungo un percorso di vendetta interno al tribunale e la fuga niente affatto rocambolesca in scooter, s’era sparsa la voce che il metal detector all’ingresso per avvocati e magistrati fosse rotto. Invece no. Non c’era, quel controllo era stato abolito. La responsabilità era passata a dipendenti di una società privata non armati, ormai si poteva filtrare sventolando una tessera qualsiasi, anche di una banca o un supermercato, nelle borse poteva esserci di tutto, comprese armi, come in effetti si è verificato (la Beretta di Giardiello con due caricatori dalla quale sono stati sparati 13 colpi). C’è che in Italia manca la cultura della sicurezza, perché manca la cultura della responsabilità. La dimostrazione di quanto siamo indifesi non ce lo dicono solo i fatti, ma i commenti a caldo. Come quello del procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, che ammette le falle ma avverte che fino a ieri i controlli avevano funzionato. Davvero? O, semplicemente, non si era finora presentato alle “barriere” un assassino? Le denunce di funzionari interni al tribunale, come quella un mese fa del capo dell’archivio, un ex carabiniere, erano rimaste inascoltate. In compenso, qualche ex magistrato ha pensato bene di spiegare l’attacco solitario di Giardiello a un supposto clima di denigrazione e “sottovalutazione” del ruolo delle toghe, quasi che i tribunali di tutta Italia non fossero per loro natura luoghi particolari, da difendere. I primi a “sottovalutare” il ruolo delle toghe, per la verità, sono i magistrati stessi, se è vero che il metal detector al loro ingresso era stato tolto. Chi lo ha deciso? E perché? Passare attraverso i controlli fa perdere un po’ di tempo, è vero, e c’è forse chi ha una considerazione così alta del proprio ruolo, da ritenere di non doversi sottoporre alla fastidiosa trafila, un po’ come accade agli ingressi vip degli aeroporti. Se qualche magistrato avesse chiesto di eliminare quei controlli, peraltro già spuntati dal disarmo dei vigilanti, ci troveremmo di fronte altro che a una “sottovalutazione”. A una pesante responsabilità. Senza contare gli interrogativi che si pongono adesso per l’Expo, che partirà tra 70 giorni e creerà non pochi problemi per l’ordine pubblico. Problemi che non riguardano soltanto l’Expo. L’afflusso straordinario di forze dell’ordine a Milano rischia di sguarnire altri luoghi delicati (per esempio le porte d’ingresso all’Italia, i varchi doganali) e altri potenziali bersagli. Premier, ministro dell’Interno, della Giustizia, vertici della magistratura nei Palazzi di Giustizia, tutta la piramide di coloro che dovrebbero essere responsabili della nostra sicurezza, devono in primo luogo avere chiaro il concetto che non c’è sicurezza senza responsabilità, mentre certi spettacoli di scaricabarile, certe polemiche pretestuose, certi arroccamenti arroganti o pretese di esenzione dai controlli per singole categorie, oltre alla dilagante indifferenza della pubblica opinione, sono una miscela esplosiva che non può farci sentire sicuri. Nelle denunce inascoltate di Milano si segnalava la facilità con la quale un’autobomba sarebbe potuta entrare fin nella pancia del Palazzo. Ora, qualcuno ne trarrà delle conseguenze non solo rispetto alla sicurezza, ma anche alle (o alla) responsabilità?
Gente che va, gente che viene, ma senza alcun vero controllo, scrive “Il Garantista”. I morti del tribunale di Milano dimostrano, ancora una volta, come questo Paese non abbia nel suo dna la cultura della sicurezza. La tragedia di ieri mattina è il frutto dell’italica superficialità con cui vengono affrontati temi delicati ed importanti come, appunto, la gestione delle emergenze e la tutela della sicurezza pubblica. Per capire come sia stato possibile, infatti, che Claudio Giardiello, dopo essere entrato in tribunale con una pistola, abbia compiuto la sua mattanza e, al termine, ne sia uscito indisturbato, bisogna fare un passo indietro di qualche anno. Quando la sicurezza dei palazzi di giustizia era garantita dai carabinieri. Allora l’Arma si occupava, oltre che della traduzione dei detenuti, della vigilanza dei plessi e dell’assistenza nelle aule dibattimentali. Esisteva per queste incombenze un reparto ad hoc, il Nucleo Tribunali e Traduzioni. Negli anni Novanta, con la riforma della polizia penitenziaria, cambia tutto. L’Arma cessò di occuparsi di traduzioni dei detenuti. E cessò anche di occuparsi della vigilanza dei tribunali, dedicandosi solo all’assistenza nelle aule dibattimentali. I carabinieri furono sostituiti, nella vigilanza dei tribunali, dalle guardie giurate. La motivazione era quella di ottimizzare le risorse, destinando il personale in servizio pressi i tribunali al controllo del territorio. Sulla carta tutto bene. Tranne il fatto che anche l’onere della vigilanza dei palazzi di giustizia venne di colpo scaricato sui Comuni. Perché, come forse non tutti sanno, gli stabili che ospitano gli uffici giudiziari sono di proprietà dei Comuni, i quali provvedono alla loro gestione: dal verniciare il muro scrostato, al garantire, appunto, la sicurezza dell’immobile. Questa follia italiana, che costa ai comuni 280 milioni di euro l’anno, è frutto di una legge del 1941, la n. 392, che aveva addossato agli enti locali sede degli uffici giudiziari i costi per la loro gestione. Si tratta delle spese per i locali, dalla manutenzione all’illuminazione, dalla custodia all’arredo per finire con la pulizia e le utenze varie (riscaldamento, acqua, telefono e così via). Dal prossimo primo settembre 2015, salvo imprevisti, sarà il ministero della Giustizia a farsi carico delle citate incombenze, dando cosi una boccata d’ossigeno alle disastrate finanze comunali. Il comune di Milano, per la cronaca, spende per il suo palazzo di giustizia circa 23 milioni l’anno. In questa cifra rientra anche il servizio di vigilanza che viene affidato, visto l’importo, con una gara d’appalto. Come tutte le gare pubbliche il criterio per la scelta del vincitore è quello del massimo ribasso. E come è possibile garantire la sicurezza risparmiando? Semplice: affidando la vigilanza, oltre che a delle guardie giurate, a dei semplici portieri. Che hanno un costo orario nettamente inferiore rispetto alle guardie giurate. I portieri sono soggetti disarmati, privi della qualifica di guardia particolare giurata, con requisiti soggettivi e percorsi formativi diversi. Possono svolgere le funzioni di portieri, ad esempio, anche cittadini non italiani e obiettori di coscienza. Una persona normale noterà subito questa situazione surreale: si affida la sicurezza del tribunale di Milano, uno degli obiettivi più sensibili d’Italia, a dei semplici custodi. Come se fosse il parcheggio di un centro commerciale. C’è da ridere, per non piangere, a pensare che in caso di minaccia armata, come per il tragico fatto di ieri, il portiere/custode possa reagire solamente a mani nude. Ma oltre a questa “particolarità”, la tragedia di ieri ha confermato che l’Italia è il Paese delle caste. Perché, come chiunque si sia recato in tribunale a Milano ha potuto verificare, gli avvocati, ma anche i semplici praticanti, hanno un varco riservato. Un ingresso tutto loro, dove non si viene controllati con il metal detector. I responsabili delle sicurezza del tribunale di Milano hanno stabilito che nessun avvocato possa introdurre armi e compiere gesti inconsulti. Una certezza che dopo il caso del pilota tedesco Lubitz, forse, andrebbe rivista. A queste domande qualcuno dovrebbe rispondere. Prefetto, Sindaco, Presidente della Corte d’Appello. Per evitare che fra qualche giorno tutto torni come prima.
Quei caduti sul fronte della legge. E Milano si scopre fragile. Davanti all’ingresso del Tribunale, dietro transenne, poliziotti e carabinieri, con un elicottero che volteggia e le ambulanze che si incrociano, la gente in strada si chiede come mai, com’è possibile sparare, uccidere e ferire in un’aula di giustizia, scrive Giangiacomo Schiavi su “Il Corriere della Sera”. Un cortocircuito di follia. Una leggerezza nei controlli. E tre morti sulla scia del dovere, del semplice esercizio della responsabilità. Di colpo Milano si scopre fragile e vulnerabile nel luogo simbolo della giustizia e della sicurezza. In via Freguglia, davanti all’ingresso del Tribunale, dietro transenne, poliziotti e carabinieri, con un elicottero che volteggia e le ambulanze che si incrociano, la gente in strada si chiede come mai, com’è possibile sparare, uccidere e ferire in un’aula di giustizia, quale mente diabolica c’è dietro una messinscena del genere e che cosa può succedere, ovunque ormai, se i presidi di sicurezza vacillano e la ferocia di una vendetta non conosce limiti. Quali risposte darà adesso lo Stato ai familiari del giudice, dell’avvocato, dell’ex socio, caduti sul fronte della legge, emblema del rischio che comporta assumersi il dovere dell’onestà? Quale risarcimento ci può essere al dolore immenso di una vita perduta dopo un attentato che ha colpito il luogo della legalità e della giustizia? C’è incredulità e sconcerto anche tra i magistrati, quasi una rabbia muta e un senso di sofferenza, perché è stato colpito chi applicava la legge. Gherardo Colombo, l’ex magistrato di Mani Pulite, è frastornato e impressionato dalla facilità con cui una pistola ha potuto entrare nell’aula, ma parla anche di clima ostile alla magistratura, di «sottovalutazione di un ruolo» che contribuisce alla sua delegittimazione. Si avverte il disagio per quel che si poteva fare e non si è fatto, attraverso controlli più rigorosi, con un presidio in aula, un agente di guardia nei processi più insidiosi, quelli che un tempo si affidavano ai carabinieri ma oggi, con i tagli e le esternalizzazioni, con le risorse al contagocce, si riducono sempre di più. «C’è una tensione che si alza e un controllo che si abbassa», mormora un vecchio avvocato, e sembra il preludio delle misure in arrivo: nei prossimi giorni scatteranno controlli straordinarie per Milano, sicuramente arriverà qualche agente in più, c’è l’Expo da presidiare, e non sarà un’impresa facile. Milano è scossa, ferita da una grande tragedia. Il Comitato per l’Ordine e la sicurezza dura per l’intero pomeriggio: bisogna rassicurare la città e i futuri visitatori. In Comune la solidarietà alle vittime si esprime con un minuto di silenzio, arriva il messaggio del Capo dello Stato Mattarella, con la difesa del ruolo dei magistrati e la richiesta di fare piena luce su quel che è successo, mentre il premier Renzi parla apertamente di una falla nei sistemi di sicurezza. Il Tribunale sembra in stato d’assedio. Una vecchia cancellata arrugginita circonda l’ingresso dove Claudio Giardiello, l’imputato di bancarotta protagonista della mattinata di follia, è passato mostrando un falso tesserino. Ci sono cartelli dappertutto, «Modalità di accesso al Palazzo di Giustizia», «Ingresso testimoni»... Marciapiedi sconnessi, mozziconi dappertutto, l’orologio di strada con i minuti sbagliati. Non è una bella immagine di efficienza. Via Freguglia sembra quella dei vecchi tempi. Televisioni, microfoni accesi, interviste a tutto spiano. Un set, come nel ‘92. Allora si stazionava sulle gradinate di Porta Vittoria, dove adesso c’è un’aiuola spelacchiata e un targa che ricorda un altro eroe civile, Marco Biagi. Tre camionette della polizia. Agenti con le armi in pugno. Un avvocato commenta: «Ma adesso tutto questo a che cosa serve?». Certi presidi di sicurezza potrebbero evitare le tensioni che alcuni processi sviluppano nelle aule, fa notare un collega di Fernando Ciampi, il giudice ucciso. Le cause per fallimento si portano dietro un carico di angoscia e disperazione. E la crisi non fa che aumentare il peso psicologico sui responsabili di un crac o di una bancarotta. Viene in mente l’assassinio di Ausonio Coli, perito del Tribunale di Grosseto, colpito dall’odio dell’uomo che aveva contribuito a far condannare.«Aveva scelto di dedicare il suo lavoro al pubblico interesse, trovando una ragione di entusiasmo e di fierezza» ha scritto di lui Umberto Ambrosoli. Chi esercita il senso del dovere, come le vittime di Milano, ci lascia un esempio che non può essere dimenticato. Ci dice che gli ostacoli si affrontano, non si aggirano. Ma oggi si può solo dire che è assurdo morire così, da servitori dello Stato, da avvocati, da semplici cittadini, in un luogo dove il rispetto della vita deve essere una garanzia per tutti.
Quella denuncia rimasta inascoltata: «Qui entra di tutto». Dopo i tagli di spesa del 2011, al Tribunale di Milano militari sostituiti con civili disarmati. Ignorato il dossier di un funzionario: "Siamo esposti a ogni attacco", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Un fortino indifeso, esposto a ogni attacco: questo è il Palazzo di giustizia di Milano. Dirlo adesso, dopo l'orrore seminato ieri nelle sue aule e nei suoi corridoi da un bancarottiere impazzito di rabbia, è facile. Ma l'allarme era stato lanciato per tempo, ed è rimasto inascoltato. È una lettera che un funzionario del palazzaccio milanese ha diramato appena un mese fa, il 5 marzo scorso, indirizzandola a tutti i vertici delle istituzioni coinvolte: al ministro, al procuratore della Repubblica, al presidente del tribunale. Nulla. Adesso ovviamente si correrà ai ripari. A scrivere è uno che di sicurezza se ne intende: Umberto Valloreja, oggi responsabile dell'Archivio del tribunale, ma per molti anni carabiniere, e non da scrivania. Per deformazione professionale, coglie le falle del sistema di sicurezza del palazzaccio. E alla fine, decide di metterle nero su bianco. L'occasione è un fatto apparentemente marginale, ma che nella dinamica della tragedia di ieri ha avuto un suo ruolo, la chiusura del presidio medico interno al tribunale: resa drammatica ieri dall'impressionante lentezza con cui sono arrivati i soccorsi. Ma in quell'occasione, Valloreja affronta per intero il tema della sicurezza. Ed ecco cosa scrive: «Il Palazzo di Giustizia è un fortino strategicamente indifendibile, esposto ad ogni attacco, dove la sicurezza è labile tanto da doversi rimodulare in ogni aspetto». «Ricordo che il Presidente la Corte di Appello dott. Grechi, ebbe a certificare, nel febbraio 2006, il Palazzo di Giustizia quale obiettivo sensibile del terrorismo. E questo in tempi in cui il terrorismo internazionale non aveva ancora esteso le sue allucinate mire anche in Italia. Nella situazione attuale che prevede l'apertura, tra meno di 70 giorni, della mostra universale Expo, che porterà circa 20 milioni di visitatori a Milano, non è possibile sottovalutare il pericolo di una azione eversiva che possa interessare il nostro Palazzo. Preciso, per chi ancora non lo sapesse, che la struttura progettata dall'architetto Piacentini è frequentata giornalmente da 5500 persone, con picchi (il mercoledì e giovedì) che raggiungono anche 11.500 accessi». Di esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe, per dimostrare la vulnerabilità del tribunale. Valloreja sceglie il più eclatante: «Nessuno controlla, ad esempio, se un furgone che vi accede per necessitati approvvigionamenti nasconda, tra le materialità portanti, anche un congegno esplosivo Ied ovvero di altro sofisticato assemblaggio. Non esiste ad oggi neppure un apparato bomb jammer di inibizione dei segnali di radiofrequenza che attivano le cariche esplosive». Ma l'incursione di un furgone carico di tritolo è solo l'ipotesi estrema. Da tempo, la leggerezza - per usare un eufemismo - dell'apparato di sicurezza era sotto gli occhi di tutti. Di chi la colpa? Come ieri fa presente a botta calda un importante magistrato, «la sicurezza è responsabilità della Procura generale, la stessa Procura generale che da anni impedisce l'accesso in tribunale alle telecamere dei mezzi di informazione». E certamente che in aula d'udienza possano entrare le calibro 9 e non gli iPad fa impressione. Ma il tema più generale che viene segnalato, e che lo stesso Valloreja ieri rimarca, è il controllo degli accessi, una volta affidato ai carabinieri, poi appaltato ad aziende di sicurezza private. Il vero crollo avviene nel 2011, quando per risparmiare sui costi di gestione il Comune di Milano - che ha in gestione il Palazzo di giustizia e ne paga le spese relative - riduce il capitolato, dimezzando la presenza di guardie giurate armate alle entrate e affiancandole (e spesso sostituendole) con dipendenti civili disarmati di una azienda privata. La decisione del Comune venne impugnata davanti al Tar da un gruppo di aziende specializzate in vigilanza, che denunciavano come l'affidare una mansione tanto delicata a personale non specializzato rispondesse indubbiamente a esigenze di bilancio ma non a quelle di garantire la sicurezza dell'obiettivo. Il Tar respinse il ricorso, e il Comune di Milano si giustificò dicendo che la modifica del contratto d'appalto non inficiava la efficienza della vigilanza. Ieri, la cruenta smentita.
Tribunale di Milano: come è possibile entrare con una pistola. La sicurezza è scarsa: se si entra con il proprio avvocato è facile bypassare i controlli, scrive Ilaria Molinari su “Panorama”. Per capire come sia possibile portare un'arma da fuoco nel Tribunale di Milano bypassando le misure di sicurezza, basta scambiare due parole con chi in quel tribunale è entrato, almeno una volta nella vita per testimoniare. Quello che dovrebbe essere uno dei posti più sicuri in Italia, in realtà non lo è. O quantomeno non abbastanza. Lo dimostra quanto accaduto oggi: un uomo, Claudio Giardiello, imputato per bancarotta della sua impresa edile, ha sparato nell'aula in cui si testimoniava sul suo caso e ha ucciso tre persone, tra cui il giudice Ferdinando Ciampi e l'avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani. I quattro ingressi del Palazzo di giustizia di Milano, dove stamani è avvenuta la sparatoria, sono presidiati dal personale di una società di vigilanza privata. Per accedere è necessario svuotare le tasche dagli oggetti metallici e oltrepassare un metal-detector. All'interno del Palazzo di giustizia di Milano, oltre agli addetti alla sorveglianza, sono in servizio anche alcuni carabinieri che presidiano l'edificio nei vari piani. Sono quattro, quindi, gli accessi al tribunale riservati al pubblico: in Via Freguglia, in Via S.Barnaba, in Via Manara e in Corso di Porta Vittoria dove si trova l'accesso principale con la gigantografia dei giudici Falcone e Borsellino. Ad ogni accesso solitamente sono in servizio tre o quattro addetti alla sorveglianza, che si occupano dei controlli. Se esitono infatti gli accessi riservati al pubblico, ne esiste uno anche "sul lato sinistro del Palazzo da cui entrano gli avvocati" racconta un abituale frequentatore del Tribunale. "Spesso gli imputati entrano con i loro legali da questa porta di accesso dove i controlli sono molto più superficiali rispetto alle porte riservate al pubblico generico". Da lasciare senza parole. Se non fosse che anche ascoltando le parole di giudici e avvocati presenti in Tribunale in mattinata, si trovano solo conferme: "Qui dentro siamo sempre insicuri" ci dice un giudice che vuole mantenere l'anonimato. "Sappiamo che i controlli di sicurezza fanno acqua da tutte le parti". A restare senza parole anche il Presidente dell'Anac Raffaele Cantone: "Non so nulla ma certo dovrebbe essere impossibile entrare in un Tribunale e sparare". E invece, lo è stato.
Claudio Giardiello: come funziona la vigilanza nei tribunali, scrive “Blitz Quotidiano”. La sicurezza nei tribunali la garantisce il Comune con la Prefettura ma può essere delegata alla vigilanza privata. Così come è successo a Milano, dove giovedì un imputato è entrato armato in tribunale facendo fuoco e uccidendo. Il servizio di vigilanza esterno dei palazzi di giustizia è quindi competenza dei Comuni d’intesa con le prefetture e può essere appaltato a privati. Quello interno è disposto sulla base di provvedimenti che competono al procuratore generale presso la corte d’appello e, salvo casi di assoluta urgenza, tali disposizioni sono adottate sentito il prefetto e i capi degli uffici giudiziari interessati. Questo, in sintesi, l’impianto che regola la sicurezza negli uffici giudiziari, tema balzato in primo piano dopo quanto accaduto a Milano, dove Claudio Giardiello, un imputato, ha sparato in Tribunale facendo delle vittime. Se la sicurezza esterna può essere affidata a guardie giurate, quella interna agli edifici è normalmente affidata ai carabinieri; con due sole eccezioni, che derivano dalle disposizione di un regio decreto che non sono mai state cambiate e sono rimaste valide nel tempo: quello dei palazzi di giustizia di Roma e Napoli, dove la sicurezza interna è svolta da uomini della polizia penitenziaria. Per il resto, gli appartenenti a questo corpo, non hanno tali mansioni, a meno che non si tratti di trasferimenti di detenuti che debbono partecipare a udienze. E non era questo il caso dell’omicida che ha agito a Milano, Claudio Giardiello, che era imputato ma a piede libero.
Tribunale ed Expo: sicurezza in mano alla All System. Milano, un uomo spara al Palazzo di Giustizia: 3 morti. Aveva un tesserino falso. Doveva sorvegliare la società privata All System. La stessa del grande evento, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”. Felicia Russo, che al tribunale di Milano lavora, continua a ripetere due parole: «Siamo sconcertati». Raggiunta al telefono dopo aver passato una mattina nel suo ufficio, mentre Claudio Giardiello sparava e uccideva tre persone, la responsabile Giustizia della Funzione pubblica della Cgil non riesce a darsi pace. «Da domani vogliamo porre la questione ai responsabili sicurezza della corte di Appello e della procura e vedremo quali iniziative prendere: all'ingresso ci sono le guardie giurate», ripete, «come è possibile?». È possibile se il tesserino falso con cui il killer si è presentato in tribunale non è stato controllato, come ha dichiarato il capo della procura milanese Edmondo Bruti Liberati. Ma se lo si chiede al maresciallo Contini, responsabile delle guardie presso il palazzo di giustizia, risponde trafelato che sta già riferendo i fatti a polizia e carabinieri e che le domande possono essere rivolte alla sua società. Il suo datore di lavoro, quello che gestisce la sicurezza esterna del tribunale di Milano, per un appalto di 8 milioni di euro, è la All System Spa, un'azienda privata di sorveglianza fondata nel 1988. Che è anche la capogruppo della rete temporanea di imprese di sicurezza che si occuperanno di Expo2015. La All System Spa di Brescia è operativa soprattutto nel Nord-Ovest, ha alle sue dipendenze 1700 guardie private ed è membro associato della Assiv - l'associazione italiana vigilanza e servizi fiduciari -: «è una delle ditte più grosse del settore», assicurano da Roma. Alla sede milanese, in via delle Forze Armate, però non risponde nessuno: riunioni in corso, dicono al centralino. Ma rispondono all'Assiv. La vice presidente dell'associazione, Maria Cristina Urbano, spiega che guardie private giurate sono in servizio «in tutti i grandi tribunali italiani, da Roma a Firenze a Bologna». Mentre il servizio di sicurezza interno dei palazzi di giustizia è affidato normalmente ai carabinieri ed è disposto sulla base di provvedimenti che competono al procuratore generale presso la corte d'Appello, il servizio di vigilanza esterno è infatti di competenza dei Comuni, spesso proprietari degli immobili, che lo dispongono d'intesa con le prefetture. E possono appunto anche appaltarlo a privati. «Le procedure dei controlli, gli strumenti usati, se vengono fatte perquisizioni a campione o se vengono controllati tutti, però, dipendono sempre dalla stazione appaltante», sottolinea Urbano. «Per altri servizi come porti, aeroporti e missioni anti-pirateria», aggiunge la numero due di Assiv, «ci sono protocolli internazionali e norme specifiche di ingaggio che dettano procedure e tipologia di formazione che devono avere i contractor in servizio. Nei luoghi 'domestici' come i tribunali invece il livello di sicurezza viene deciso di volta in volta nei bandi di gara di chi appalta». «Il servizio, in sostanza», conclude, «viene deciso dal cliente». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando di fronte alla strage del tribunale promette di cambiare le regole, ma intanto questa è la situazione. Per capire che procedure le guardie erano formalmente tenute a seguire nel caso del Palazzo di Giustizia di Corso Vittoria, insomma, bisogna controllare il bando di gara. E sarebbe il caso di farlo anche per l'appalto sulla sicurezza di Expo. Il comune di Milano contattato da Lettera43.it finora non ha fornito risposte in merito alla gara vinta per il servizio di sorveglianza esterno del tribunale. Ma la procura di Brescia ha già avviato un'inchiesta. E le indagini dovranno accertare anche se, rispetto a quel bando, sono state date indicazioni differenti per l'ingresso riservato a magistrati, avvocati e cronisti: quello utilizzato dal killer.
Strage di Milano,Tribunale ed Expo hanno la stessa sicurezza privata. Dopo la sparatoria, costata la vita a tre persone, si scopre che l’appalto per la security dell’esposizione milanese e del Palazzo di Giustizia sono affidati alla stessa azienda. Polemiche anche sulla soppressione del servizio medico interno, scrivono Paolo Biondani e Michele Sasso su “L’Espresso”. Dopo la strage con tre vittime è polemica sulla sicurezza del palazzo di giustizia di Milano, appaltata a una società privata: la stessa che dovrà vigilare sull'Expo. Ed è polemica anche sulla mancanza di un medico interno in un tribunale affollato da migliaia di persone, dove fino a qualche anno fa c'era un ambulatorio con un dottore fisso, che poi è stato tagliato per motivi economici. Dopo tanti allarmi sulla sicurezza e il terrorismo, il signor Claudio Giardiello, 57 anni, imputato in un processo penale per bancarotta fraudolenta, è potuto entrare armato nella cittadella giudiziaria nel centro di Milano. È salito al terzo piano, si è sistemato tra il pubblico, in fondo all'aula del tribunale dove si apriva il suo processo, ha estratto la pistola e ha sparato, uccidendo un avvocato e un coimputato. Poi è sceso indisturbato al secondo piano, nell'ottava sezione del tribunale, è entrato nell'ufficio del magistrato Ferdinando Ciampi e ha sparato di nuovo, provocando la morte di uno più stimati giudici civili milanesi. Quindi il killer è riuscito a fuggire dal tribunale in motorino ed è stato catturato dai carabinieri per strada, nella zona di Vimercate. La sorveglianza degli ingressi del palazzo di giustizia è affidata per contratto a una società privata, la All System spa, una grande azienda che guida anche la cordata di imprese che dovranno garantire la sicurezza dell'Expo 2015. Il logo della All System è ben visibile sulle divise delle guardie giurate che ogni giorno controllano l'accesso di migliaia di persone in tribunale. La società All System, nel pomeriggio, ha precisato che "Presidia solo sei dei sette varchi complessivi di accesso al tribunale": il controllo dell'ingresso di via Manara, quello da cui è passato l'assassino, è invece "responsabilità di un'altra società". Ogni visitatore deve superare un varco individuale con il metal detector e deporre borse e valigie su un nastro scorrevole collegato a un monitor, come negli aeroporti. In teoria, quindi, nessuno dovrebbe essere in grado di entrare con una pistola e neppure con un coltello o qualsiasi altro strumento metallico. Per prassi, però, gli avvocati non vengono controllati, ma entrano da una porta riservata mostrando il tesserino. Ora secondo la prima ricostruzione, accreditata dallo stesso procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, si ipotizza che il killer sia entrato, mostrando un falso tesserino di avvocato, alle 9,19 del mattino. Avrebbe scelto l'ingresso di via Manara proprio perché è quello riservato a avvocati, magistrati e forze di polizia. Ragione che avrebbe spinto la sorveglianza a non attivare il metal detector. L'ingresso dell'assassino sarebbe stato ripreso dalle videocamere interne. Edmondo Bruti Liberati ricostruisce la dinamica della sparatoria al palazzo di Giustizia, in cui sono state uccise tre persone. Il killer è riuscito a entrare in tribunale, evitando i metal detector e i controlli, esibendo agli uomini della sicurezza un falso tesserino da avvocato. Dopo una lite con il suo legale, che avrebbe rinunciato al mandato, Giardiello ha esploso i primi colpi in aula; sceso al secondo piano è entrato nell'ufficio del giudice Ciampi freddandolo con due colpi. Il tribunale è presidiato anche dalle forze di polizia statali, in particolare da un apposito gruppo di carabinieri, che però sorvegliano soprattutto i detenuti, mentre il controllo degli ingressi esterni spetta proprio alle guardie private. Dopo la sparatoria, molte persone terrorizzate, tra cui alcuni magistrati, hanno chiamato i soccorsi, scoprendo così che in uno dei tribunali più affollati d'Italia non esiste più un servizio interno di guardia medica. Fino a pochi anni fa c'era un apposito ambulatorio con un dottore sempre presente, ma poi il servizio è stato soppresso. Un alto magistrato milanese ha spiegato a “l'Espresso” che il medico interno sarebbe stato cancellato per ragioni economiche, «a quanto pare perché l'Asl non pagava da anni l'affitto». Di conseguenza i feriti hanno dovuto aspettare l'arrivo della prima ambulanza dall'esterno del tribunale, che ci ha messo alcuni interminabili minuti a raggiungere le vittime. La proprietà del palazzo di giustizia è del Comune di Milano, ma il personale e le risorse dipendono dal ministero della giustizia, cioè dall'amministrazione statale. La società All System, fondata nel 1988 in provincia di Biella, è diventata in questi anni una più delle più grandi aziende di sicurezza privata, con circa 100 milioni di fatturato e 1900 dipendenti concentrati soprattutto nel Nord Italia. Nel 2005, come informa il suo sito, ha acquisito anche l'istituto di vigilanza “Cittadini dell'Ordine” e nel 2006 la società Mondialpol, specializzata nel trasporto valori. Nel gennaio scorso la cordata guidata dalla All System spa e da altre imprese private come il gruppo Ivri si è aggiudicata anche l'appalto da 20 milioni di euro per la sicurezza dell'Expo 2015. Già in passato, quando la vigilanza del palazzo di giustizia era affidata ad altre società, non erano mancate polemiche sulla privatizzazione della sicurezza degli edifici pubblici più a rischio. Nel 2005 il gruppo Ivri, che allora aveva vinto l'appalto per il tribunale, era stato travolto dalla maxi-inchiesta della procura di Milano sulle reti di corruzione, dossieraggio e spionaggio telefonico dei colossi privati della security, in primis il gruppo Pirelli-Telecom. L'indagine aveva messo in dubbio anche la qualità dei controlli: diverse società private erano state accusate di gonfiare i prezzi dichiarando di schierare un numero di guardie superiori al vero. E proprio in tribunale a Milano erano spuntati perfino monitor di controllo che sembravano accesi, ma in realtà mostravano sempre la stessa immagine coloratissima di un un'unica valigia, per far credere che fossero in funzione anche mentre erano spenti. Accuse che però non hanno mai coinvolto la All System. E in questi ultimi anni nessuno ha più messo in dubbio la serietà dei controlli in un luogo sensibile come il tribunale. Ora si scopre che anche la Regione Lombardia si è affidata a All System. È il 2010 quando il Pirellone decide di bandire una gara per la «vigilanza armata delle sedi della Regione Lombardia». Un appalto in tredici lotti per più di ventitré milioni di euro. Ad arrivare prima, anche in quel caso, è la All System s.p.a.come capogruppo del raggruppamento temporaneo d’imprese insieme agli Istituti di Vigilanza Riuniti d'Italia s.p.a. e Europol s.r.l. In ballo la sicurezza di migliaia di lavoratori per tutto l’universo delle società regionali: Ersaf, Navigli Lombardi, Iref, Ilspa, Irer, Cestec, Finlombarda, Arpa, Lombardia Informatica, oltre che quello della sede del Consiglio regionale e della Giunta che occupavano due palazzi distinti di fronte alla stazione centrale. Sul primo lotto si concentra il ricorso al Tar della Lombardia dei secondi classificati, B.t.v. e Civis che ritengono troppo bassa l’offerta di All System e soci: «anomalia dell’offerta e costo pari quasi allo zero (e quindi in perdita)» si legge nella documentazione presentata. All System già fornisce i servizi messi a gara e due anni dopo (a febbraio 2012) arriva la vittoria: il Tar respinge il ricorso con questa motivazione:«Il fatto che l’amministrazione (regionale) abbia espresso un giudizio favorevole sulla congruità dell’offerta presentata dal raggruppamento All System senza supportarlo con un analitica motivazione non è censurabile, essendo ciò semplicemente indice del fatto che le giustificazioni presentate dall’impresa sono state ritenute convincenti».
Quindi il magistrato più alto in carica ha la responsabilità della sicurezza negli uffici ed aule giudiziarie. Se invece succede qualcosa di cui loro sono responsabili se ne escono a “Coppe”. Come ha fatto Giardiello a entrare armato nel Palazzo di giustizia? “E’ veramente qualcosa che non riesco a spiegarmi – spiega a SkyTg24 il giudice Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite – sia l’entrata per il pubblico, sia quella per avvocati e magistrati sono controllate in modo rigoroso. Non so proprio spiegarmi come possa essere stata introdotto una pistola all’interno del Palazzo”. “Sono frastornato e sconvolto – ha detto ancora Colombo – conoscevo personalmente il giudice Ciampi, che si possa morire così, mentre si sta svolgendo il proprio lavoro, è assurdo”. Un episodio del genere è rivelatore “di un clima che c’è oggi contro la magistratura – ha detto ancora il magistrato – non dico che vi sia un collegamento, me ne guardo bene, ma certamente questa continua sottovalutazione del ruolo, di svalutazione dei magistrati, contribuisce a creare un clima. Quanto è successo è terribile”.
Virus Rai 9 aprile 2015 22:02. Salvini: "La frase di Gherardo Colombo è una frase infelice. E' inaccettabile buttarla in politica. E' un messaggio pessimo. I magistrati facciano i magistrati e pensino ad accelerare i tempi dei processi. L'importante è non fare sconti. Chi uccide 3 persone, non deve uscire da galera". Migliore: "Sui giudici, Salvini ha ragione. I magistrati non devono alimentare lo show mediatico".
Polemica sulla sicurezza. Renzi: "Falle nel sistema". Mattarella: "Basta discredito su toghe". Scoppia il caso sui livelli di protezione: falla nell'ingresso riservato a pm e avvocati, da 9 mesi il metal detector non c'è più. Plenum straordinario del Csm presieduto dal capo dello Stato. Le reazioni della politica: cordoglio di Grasso e del Csm. Maroni: "Tranquillo per Expo", scrivono Davide Banfo ed Andrea Montanari su “La Repubblica”. Scoppia il caso sui livelli di sicurezza a Palazzo di Giustizia. E sulla questione interviene, poco dopo le 15 in diretta da Palazzo Chigi, anche il primo ministro Matteo Renzi. "Questo è il momento del cordoglio, ma bisognerà fare chiarezza su come si sia potuto introdurre un'arma all'interno di un tribunale". "Faremo una richiesta in tutte le sedi opportune" per chiedere chiarezza, "bisogna capire chi è il responsabile per capire come sia potuto succedere" quello che è accaduto nel tribunale di Milano. "Su questa vicenda ora devono parlare gli inquirenti, i responsabili della sicurezza del Tribunale di Milano. Il governo ha dato un mandato molto forte sulle falle che è evidente che ci sono state" nella sicurezza. Da parte mia c'è bisogno di ascoltare e di assicurare la piena collaborazione degli organi dello Stato", ha proseguito il premier. "Non strumentalizziamo poi quanto accaduto, L'Expo non c'entra nulla". "Il nostro impegno è che non succeda più e che chi ha sbagliato paghi", ha aggiunto Renzi, spiegando che "il nostro sistema di sicurezza poggia su donne e uomini che si sono dimostrati capaci di atti di vero eroismo" come l'aver fermato il killer di Milano che al momento dell'arresto "era ancora armato". Da Milano sono intervenuti il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il titolare del Viminale Angelino Alfano. Secondo Orlando "il sistema ha visto compiersi un insieme di errori gravi" che "le indagini dovranno chiarire se ci sono state delle falle". Poche parole dal ministro Alfano: "E' accaduto qualcosa di gravissimo e inaccettabile, faremo in modo che non accada mai più". "Io ero qui per il Comitato per l'ordine e sicurezza pubblica, abbiamo seguito istante per istante tutto ciò che si è verificato e mi sento di ringraziare le forze dell'ordine e specificatamente i carabinieri. E' stato attivato un sistema in modo da arrivare presto alla cattura di un'uomo che era pronto a uccidere altre persone a Vimercate". Gli inquirenti stanno cercando di capire come Claudio Giardiello sia riuscito a entrare in tribunale armato di pistola senza essere bloccato dai controlli con i metal detector. La falla è una porta di vetro larga due metri e mezzo - quella dell'ingresso di via Manara - che è ancora manuale (le altre sono automatiche). Schiusa per 12 ore al giorno, dalle 7.30 alle 9.30, dal lunedì al sabato. Fino a 9 mesi fa, anche via Manara aveva il suo metal detector: lo prevedeva il protocollo di sicurezza, materia di competenza della procura generale. Fino a luglio dello scorso anno, dunque, il dispositivo c'era, ma si rompeva in continuazione. Alla fine è stato tolto per garantire un accesso più facile: gli addetti ai lavori per entrare si limitano a mostrare un tesserino. Le telecamere di sorveglianza riprendono l'uomo in giacca e cravatta che, dopo aver parcheggiato il suo scooter in via Manara, entra in tribunale mostrando un documento, si ipotizza un tesserino di riconoscimento, a una delle guardie giurate che presidiano l'ingresso riservato solo a magistrati, avvocati, e personale amministrativo, e quindi sguarnito di metal detector. Immediate le reazioni del mondo politico: il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, che era presente al vertice in prefettura, ha definito "sconvolgente" il fatto. "È inconcepibile che uno possa entrare in Tribunale con un’arma, che una persona qualunque riesca ad entrare con una pistola". Il presidente della Lombardia ha comunque tranquillizzato, sul fronte della sicurezza, in vista di Expo: "L'impegno c'è e sono tranquillo". Stessi concetti per il presidente della Corte d'Appello di Milano: "I sistemi di sicurezza per l'accesso agli uffici di palazzo di Giustizia, che hanno sempre garantito il sereno svolgimento delle attività giudiziarie nel corso dei passati decenni, hanno tuttavia palesato, oggi, una evidente falla nel loro funzionamento". Sul caso interviene l'Associazione nazionale magistrati: "I fatti di Milano "ripropongono drammaticamente il problema della sicurezza all'interno dei luoghi in cui quotidianamente si lavora per l'affermazione della legalità" e l'Anm "chiede con forza che si provveda all'adozione di misure urgenti". L'Anm esprime poi "profondo sgomento e dolore per i tragici eventi" accaduti nel Palazzo di giustizia di Milano, nei quali ha trovato la morte anche il collega Fernando Ciampi, e manifesta "sentita solidarietà e vicinanza ai familiari delle vittime e ai feriti". E fa presente che nei tribunali "il rischio di atti di violenza è particolarmente elevato e dunque eccezionali devono essere le garanzie di tutela dell'incolumità di tutti gli operatori di giustizia e dei cittadini". Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel pomeriggio ha presieduto un plenum straordinario del Csm. "I magistrati - ha detto il capo dello Stato - sono sempre in prima linea e ciò li rende particolarmente esposti: anche per questo va respinta con chiarezza ogni forma di discredito nei loro confronti". "Siamo qui - ha proseguito Mattarella - per onorare la memoria di Fernando Ciampi, giudice probo, rigoroso e intransigente. Un altro magistrato caduto nell'esercizio delle sue funzioni". "Con grande commozione prendo la parola in questa seduta particolare, dopo l'assurda vicenda accaduta questa mattina al tribunale di Milano. Provo terribile dolore. Dolore tanto più lacerante poichè gli assassini si sono consumati in un luogo dedicato al rispetto della legge". "La società democratica, aperta e accogliente - ha ancora detto Mattarella - è per sua natura vulnerabile: alle insidie criminali lo Stato italiano risponde con fermezza, sempre nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali e dei diritti dell'uomo". Intervento nel pomeriggio in consiglio comunale per il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: "Credo sia importante dare un'immagine del fatto che siamo uniti per dare il massimo di sicurezza alla nostra città. E' importante che la magistratura, l'avvocatura e i lavoratori sentano vicina la città e l'impegno di tutti noi affinché fatti di questo tipo non si ripetano", ha aggiunto. Pisapia ha anche assicurato che "abbiamo fatto tutto il possibile, per parte nostra, per i controlli in Tribunale". "Mi sono recato immediatamente a Palazzo di Giustizia - ha ricordato Pisapia - anche perché è un mondo che conosco, e ho espresso alla magistratura, all'avvocatura e ai lavoratori la vicinanza e il cordoglio dell'intera città". Il sindaco infine ha aggiunto di essere sicuro che "la magistratura metterà il massimo impegno per arrivare immediatamente ad accertare se ci sono state carenze a livello di sicurezza". Polemica l'esponente di Forza Italia, Daniela Santanchè: "L'Isis è alle porte e ci minaccia ogni giorno, tra pochi giorni avrà inizio l'Expo: il nostro paese dovrebbe essere iper sicuro invece è ridotto a uno scolapasta. Ci spieghi Alfano - e lo faccia in fretta - come si fa ad entrare armati in un Tribunale come è avvenuto a Milano". Intervento a gamba tesa per il segretario della Lega, Matteo Salvini: "Il primo pensiero è per le famiglie delle vittime del Tribunale, il secondo è che sono preoccupatissimo: se questo è il livello di sicurezza nella Milano di Expo immagino cosa possano pensare di fare dei potenziali terroristi; come sentirsi sicuri se questa è la sicurezza di cui parla Alfano?". Di tono istituzionale e sentito le reazioni di Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, e del presidente del Senato, Pietro Grasso. "Sono in contatto con il presidente della Repubblica, con i capi degli uffici giudiziari di Milano e con i consiglieri con i quali tra poco ci riuniremo per decidere sulle iniziative che l'Organo di governo autonomo della magistratura intraprenderà fin dalle prossime ore in segno di solidarietà alla magistratura milanese ed italiana e per porre con forza l'esigenza di maggiore sicurezza degli uffici giudiziari e di tutti gli operatori del sistema giustizia", ha detto Legnini esprimendo il suo cordoglio. "Seguiamo tutti con grande apprensione" i fatti "gravissimi accaduti nel Palazzo di Giustizia. Fatti che destano enorme sconcerto", gli ha fatto eco Grasso. Cauto il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone: "L'ipotesi che qualcuno possa entrare nel Tribunale di Milano armato di pistola dovrebbe essere difficile, impossibile, ma non sono in grado di giudicare perchè non conosco i fatti". Il folle gesto omicida che ha causato la morte del magistrato Ciampi, dell’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani e del signor Giorgio Erba riempie di grave sconcerto ed angoscia. Nel pomeriggio è poi arrivato anche un messaggio dell'arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola: "Unisco il mio dolore e quello della Chiesa ambrosiana al dolore dei cittadini di Milano e del paese intero. Lo smarrimento e la paura che ora invadono noi tutti non diano spazio a sterili polemiche. La tragica morte delle vittime incrementi il nostro impegno nell’edificazione della vita buona tesa al benefico sviluppo della nostra Milano. Ogni Istituzione, a partire dalla Chiesa, faccia la propria parte per prevenire e contenere il male che acceca e uccide, per educare al bene comune e per garantire sicurezza ai cittadini".
Mattarella e l'accerchiamento dei magistrati. Il presidente della Repubblica ha legato la sparatoria al tribunale di Milano al clima contro le toghe. Capito Matteo Renzi? Scrive Infiltrato Speciale su Panorama. Che non sarebbe stato un settennato presidenziale all’insegna dell’innovazione stilistica o tecnologica lo si era capito da subito. Un neopauperismo di stampo francescano nei modi e nei mezzi aerei o tramviari (a proposito di sicurezza chissà cosa avranno pensato al Quirinale appresa la notizia che il primo volo di linea per Palermo aveva ai comandi un pistolero) accompagnato da un burocratese di antica schiatta democristiana hanno fatto intendere che da Sergio Mattarella non ci si sarebbero potuti attendere effetti speciali. E tale sensazione si è confermata anche ieri, nel discorso “alla nazione” seguito ai tragici fatti di Milano. Non fossero bastati un Gherardo Colombo oramai troppo confuso tra incarichi pubblici e privati e l’immancabile sindacato dei magistrati a sproloquiare sulla responsabilità del gesto di un folle originata, a dire loro, dal sempiterno clima ostile verso le toghe è arrivata, puntuale, anche la banalità di rango costituzionale. “Di fronte alle molteplici minacce interne ed al terrorismo internazionale, i magistrati sono sempre in prima linea (e dove dovrebbero stare invece?). E va respinta ogni forma di discredito nei loro confronti”. Se la prima parte dell’affermazione è capace di fare invidia a Monsierur de Lapalisse, la seconda proprio risulta incomprensibile nel contesto dei fatti di ieri. Chi la avrebbe armata la mano di Giardiello secondo questa intemerata? Salvini? Berlusconi? O magari pure Renzi che ha osato adombrare che 2 mesi di ferie per un magistrato siano troppe? Con tutto il rispetto, non sembra che in una simile circostanza la vita di un magistrato possa essere messa su un piano diverso da quella di un avvocato o di un semplice testimone. La presunta sindrome da accerchiamento torna buona solo alla, questa si sempiterna, difesa corporativa di una tra le più potenti ed insindacabili categorie del servizio pubblico. E, probabilmente, a giustificare il prossimo obiettivo nella inestinguibile disfida tra politica e magistratura. Un obiettivo che somiglia tanto al nuovo inquilino di Palazzo Chigi.
I FATTI. 9 aprile 2015. Milano, imputato di bancarotta fa strage in tribunale: "Vendetta verso chi mi ha rovinato".
Il killer, Claudio Giardiello, ha ucciso tre persone. E' entrato con un falso tesserino per evitare il metal detector. Le vittime: un giudice, il suo ex avvocato e il coimputato. Testimone: "L'obiettivo era il pm Orsi". Il magistrato: "Ho visto morire un testimone davanti a me". Dopo l'arresto ha avuto un malore. Il ministro Alfano: "Era pronto a uccidere ancora", scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Un falso tesserino da avvocato per entrare in tribunale con in tasca una pistola (regolarmente detenuta) e due caricatori pieni. Tredici colpi calibro 7.65 per compiere una strage. E' di tre morti e due feriti (uno molto grave) il bilancio della mattina di terrore a Palazzo di Giustizia di Milano, dove l'imputato di un processo per bancarotta fraudolenta, l'immobiliarista Claudio Giardiello, 57 anni, ha ucciso il giudice Ferdinando Ciampi, Giorgio Erba (suo coimputato nel processo sul fallimento dell'Immobiliare Magenta di cui Giardiello era socio di maggioranza) e il suo ex avvocato, Lorenzo Alberto Claris Appiani. "Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato" avrebbe detto ai carabinieri, subito dopo la cattura. Il 57enne ha sparato dentro un'aula del terzo piano, nel corso del processo in cui si discuteva del fallimento. Poi è sceso di un piano, ha cercato l'ufficio del giudice Ciampi (anche lui doveva testimoniare nel processo), e lo ha ammazzato con due colpi. Nel bilancio delle vittime, in un primo momento si era parlato anche di una quarta persona deceduta per malore, ma la notizia è stata smentita nel pomeriggio. Secondo gli investigatori, Giardiello voleva colpire ancora, per questo era diretto a Vimercate, dove vive un suo ex socio. Questa almeno è l'ipotesi investigativa riportata dal ministro Alfano: i carabinieri, ha detto, hanno "attivato un sistema in modo da arrivare presto alla cattura di un uomo che era pronto a uccidere altre persone a Vimercate". "Ha agito con fredda determinazione" ha aggiunto Tommaso Bonanno, il procuratore di Brescia, uno dei magistrati che si occuperà dell'inchiesta. Secondo una prima ricostruzione, Giardiello era seduto tra i banchi del pubblico. Era in corso il controesame di un testimone da parte del pm quando è scoppiato un litigio in aula. A quel punto ha estratto la pistola e ha sparato uccidendo con un colpo al cuore Lorenzo Alberto Claris Appiani, suo ex avvocato, ora testimone nel processo per il fallimento Magenta. Sempre in aula ha ferito Davide Limongelli (socio di Giardiello nella società): i colpi ricevuti gli hanno provocato nove buchi nell'intestino. Poi ha lasciato l'aula, è sceso al secondo piano, ha raggiunto l'ufficio del giudice Ciampi. Sulle scale ha incontrato Stefano Verna, il commercialista interessato alle indagini e testimone del processo sul fallimento, e lo ha gambizzato. Poi è entrato nell'ufficio del giudice che era seduto dietro alla sua scrivania e ha sparato ancora. Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ha precisato che Ciampi è stato raggiunto da due proiettili ed è morto dopo aver cercato di proteggere una sua collaboratrice. Aveva 75 anni e a dicembre sarebbe andato in pensione. "Ero in una stanza vicino a quella del giudice - ha raccontato un avvocato - ho sentito gli spari e poi ho sentito una persona correre. Sono entrato nella stanza del giudice, c'erano le cancelliere che piangevano e l'ho visto sdraiato dietro la sua scrivania. Non c'erano tracce di sangue ma gli ho sentito il polso ed era già morto". Nato 57 anni fa a Benevento (esattamente il 6 marzo), Giardiello è residente in Brianza, dove lavora nel settore dell'edilizia. L'uomo - che soci ed ex soci chiamavano il conte Tacchia - aveva avuto diverse società e vari guai finanziari. Negli ultimi tempi poi si trovava in gravissime difficoltà finanziarie, sfociate in diverse cause giudiziarie. Il panico in un palazzo di giustizia, che a quell'ora era pieno di persone, è scoppiato intorno alle 11 quando sono stati uditi 4 o 5 colpi di pistola. Dopo gli spari è iniziato il fuggi fuggi generale. Giardiello si è prima nascosto nei corridoi labirintici del tribunale, dove ha continuato a sparare. Tutte le uscite sono state sbarrate. L'edificio è stato evacuato: centinaia di persone sono sulla strada davanti alle diverse uscite del tribunale. Nel mirino del killer ci sarebbe stato anche il pubblico ministero Luigi Orsi che si trovava nell'aula della strage a rappresentare l'accusa. Secondo alcuni testimoni, infatti Giardiello avrebbe rivolto l'arma anche contro di lui senza però riuscire a colpirlo. Un avvocato presente in aula sostiene che l'obiettivo dello sparatore fosse proprio Orsi. Ma sulla traiettoria dei proiettili, mentre il magistrato si riparava rannicchiandosi a terra, si è trovato, invece, Appiani. Il magistrato, che è rimasto illeso, ha commentato: "Ho visto colpire delle persone. E ho visto morire un testimone davanti a me". Lo zio del legale, Alessandro Brambilla Pisoni, conferma che Giardiello "era stato cliente di mio nipote. Poi aveva iniziato a combinare disastri e lui ha smesso di seguirlo. Sapevo che oggi mio nipote era in aula come testimone in una causa penale perché Giardiello era stato denunciato". Dopo essere rimasto nascosto nel tribunale per più di un'ora, Giardiello è riuscito a uscire e a fuggire in moto, un grosso scooter di cui, però, i carabinieri hanno ottenuto presto la targa. La fuga è durata per circa trenta minuti, poi il killer è stato arrestato a Vimercate, paese dell'hinterland che si trova circa a 30 chilometri dal luogo della strage, nelle vicinanze del centro commerciale Torri Bianche. Quella non era una destinazione scelta a caso: Giardiello stava raggiungendo un suo ex socio per ucciderlo. Dopo essere stato portato nella sede della compagnia dei carabinieri del paese per essere sentito (dove è arrivato anche il comandante generale dell'Arma, Tullio Del Sette), Giardiello ha avuto un malore ed è stato portato via da un'ambulanza scortata da due pattuglie dei carabinieri. La circostanza che il killer sia riuscito a entrare dentro il Palazzo di giustizia armato di una pistola è una circostanza che ha impressionato tutti coloro che frequentano quotidianamente il tribunale e ha posto severi interrogativi a tutti coloro che si occupano di sicurezza. Sulla questione è intervenuto anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Verificheremo se ci sono state falle". La questione è stata affrontata anche da Bruti Liberati che ha spiegato l'ipotesi del falso tesserino ("Stiamo ancora verificando"): in questo modo Giardiello è potuto entrare da un accesso laterale, quello di via Manara, che è senza metal detector, perché riservato a magistrati, avvocati e cronisti. "Ho sentito degli spari e ho visto un uomo con una gamba insanguinata, ho avuto paura e sono scappato": lo ha raccontato un testimone, che si trovava nel palazzo di giustizia di Milano quando è avvenuta la sparatoria. Diverse persone hanno sentito il rumore degli spari e sono fuggite dai corridoi e si sono dirette verso l'uscite dell'edificio. In prefettura, dove era in corso il Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica in vista di Expo, con il ministro Angelino Alfano è stato sospeso e poi rinviato. La notizia della strage ha scosso tutto il Paese e tutti gli organi istituzionali si sono mobilitati e interrogati sulla tragedia, anche se "di fronte a un gesto isolato - ha osservato Bruti - le difese difficilmente possono essere assolute". Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel pomeriggio preside il plenum straordinario del Csm. Mentre i ministri Alfano e Orlando hanno effettuato un sopralluogo in tribunale. I ministri si sono recati anche nella stanza 510 al secondo piano del tribunale sul lato San Barnaba dove è stato ucciso il giudice Ciampi.
Chi è Claudio Giardiello, il killer del Tribunale di Milano. 57 anni, di Benevento, ma residente da tempo in Brianza, era titolare di diverse società in gravi difficoltà finanziarie, scrive “Panorama”. Lavorava nel settore dell'edilizia Claudio Giardiello, il 57enne di Benevento che questa mattina ha ucciso tre persone nel Tribunale di Milano. E' residente a Brugherio, in Brianza. "Ha abitato qui per parecchi anni ma ora è un sacco di tempo che non lo vedo, sono rimasti a vivere nell'appartamento l'ex moglie e una figlia, Laura''. A parlare è una vicina di casa della famiglia di Claudio Giardiello. Secondo quanto hanno raccontato altri vicini, l'uomo, che ha un altro figlio, si era trasferito a vivere altrove, pare a Garbagnate Milanese dopo la separazione. ''Sono rimasta senza parole quando ho saputo che era lui l'uomo della sparatoria di tribunale - ha detto ancora la vicina di casa - a me è sempre sembrato una persona tranquilla quando lo incontravo a qualche riunione condominiale''. Altri vicini descrivono Giardiello come una "persona cordiale, molto educata". Risulta titolare di diverse società, ma negli ultimi tempi si trovava in gravi difficoltà finanziarie, sfociate in diverse cause giudiziarie. "Una persona sopra le righe, ingestibile come cliente, perché non ascoltava mai i consigli. Pensava che tutti lo volessero fregare". Lo descrive così Valerio Maraniello, suo avvocato fino a un paio di anni fa. Il processo per cui si trovava nel Palazzo di Giustizia era quello relativo all'Immobiliare Magenta srl, di cui era socio al 55%. La società era stata dichiarata fallita il 31 marzo del 2007 e l'udienza era stata fissata nella stessa aula dove era previsto l'inizio di un altro procedimento, sempre per bancarotta, ovvero quello del gruppo di call center Eutelia-Agile. I due feriti, Davide Limongelli (in passato suo socio al 30% nell'Immobiliare Magenta) e lo zio Giorgio Erba, erano o coimputati o testimoni nel processo sul fallimento dell'immobiliare. Un terzo socio con il 15% si chiama Giovanni Scarpa. Nel novembre del 2006 era stato depositato un atto di sequestro delle quote di partecipazione di Limongelli e di Scarpa, mentre nel giugno e nel novembre del 2007 erano stati depositati atti di sequestro delle quote di Giardiello. Nell'ultimo bilancio della società risultava avere attivi per 1,5 milioni di euro, con un fatturato di 446 mila euro circa e utili per 2.883 euro. Una società collegata alla Immobiliare Magenta, in liquidazione, e nella quale era già cessata la carica di Giardiello risulta poi la Miani Immobiliare srl. Oltre alla società di Giardiello, quest'ultima faceva capo per il 75% alla Cisep, società di costruzioni con sede a Cassina de' Pecchi (Milano) anch'essa dichiarata fallita nel 2008, a gennaio, su provvedimento dell'autorità giudiziaria di Monza. L'azienda faceva capo a Consiglia Di Nuzzo (e con quote minori a Massimo D'Anzuoni). Il nome di Giardiello risulta poi collegato, con cariche recesse, alla Immobiliare Washington 2002 srl in liquidazione di Milano, e alla CaGi. Srl, sempre con sede a Milano. All'imprenditore edile aveva fatto capo in passato anche una società in accomandita semplice, la Edil Casa di Brugherio.
Il fallimento dell'Immobiliare Magenta alla base del processo per bancarotta fraudolenta. Probabilmente l'uomo è entrato con il suo legale dall'ingresso riservato agli avvocati. «Era un imprenditore distinto, educato, ma si era convinto di essere vittima di una truffa da parte dei soci». La storia del Conte Tacchia, scrive “Next Quotidiano”. Si chiama Claudio Giardiello, è nato a Benevento il 6 marzo del 1958 e risiede in Brianza. Lui è l’uomo accusato di aver sparato oggi al tribunale di Milano uccidendo quattro persone tra cui il magistrato Ferdinando Ciampi e l’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, mentre sono rimasti feriti i coimputati Giorgio Erba e Davide Limongelli, zio e nipote. L’uomo aveva interessi nel settore dell’edilizia, e la sua Immobiliare Magenta, posseduta al 55% e al 30% da Davide Limongelli (il terzo socio è Giovanni Scarpa) era stata dichiarata fallita il 13 marzo 2008. Il curatore fallimentare nominato dal Tribunale si chiama Walter Marazzani. Nel novembre del 2006 era stato depositato un atto di sequestro delle quote di partecipazione di Limongelli e di Scarpa, mentre nel giugno e nel novembre del 2007 erano stati depositati atti di sequestro delle quote di Giardiello. La foto di Claudio Giardiello è stata pubblicata dal Corriere della Sera nell’edizione on line. Secondo le ipotesi degli investigatori Giardiello sarebbe entrato con un falso tesserino dall’entrata degli avvocati. L’udienza del processo era stata fissata nella stessa aula dove era previsto l’inizio di un altro procedimento, sempre per bancarotta, ovvero quello del gruppo di call center Eutelia-Agile. I due feriti, Davide Limongelli (in passato suo socio nella Immobiliare Magenta) e lo zio Giorgio Erba, erano o coimputati o testimoni nel processo sul fallimento dell’immobiliare. Lo sparatore è rimasto a lungo all’interno del Palazzo Giustizia, che è stato evacuato. Claudio Giardiello avrebbe puntato la pistola contro il pm che si trovava in aula, prima di sparare alla prima vittima. È quanto ha riferito un avvocato che era in aula, che si trovava in Tribunale quando è avvenuta la sparatoria e ha assistito alla scena. Giardiello è riuscito a far perdere le sue tracce e a fuggire in moto. L’uomo è stato arrestato poco dopo dai carabinieri nella zona di Vimercate. A riferire del suo arresto è stato lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, oggi a Milano per partecipare ad una riunione del Comitato per la Sicurezza. La riunione del Comitato è stata immediatamente sospesa. La sezione fallimentare del tribunale di Milano è la più importante d’Italia. Il giudice Fernando Ciampi, dopo l’uscita di scena dell’ex presidente Bartolomeo Quatraro (oggi a Novara), nel 2009 era stato chiamato a guidare la sezione ad interim. Ciampi aveva fama di intransigente. “Non so nulla ma certo dovrebbe essere impossibile entrare in un Tribunale e sparare. Ho saputo dell’uccisione di un collega, una cosa che mi sconvolge”, ha commentato il presidente dell’autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. L’ex magistrato Gherardo Colombo, che ha trascorso l’intera sua carriera a Palazzo di Giustizia di Milano, si è detto “frastornato e sconvolto”. “Non dico che vi sia una correlazione diretta, ma vi è un clima contro la magistratura che certamente non contribuisce”. I testimoni della strage in tribunale a Milano raccontano di momenti di terrore e panico vissuti nei corridoi, negli uffici e nelle aule del palazzo di giustizia. Una dipendente racconta di aver visto a un certo punto l’omicida accucciato dietro una panca al secondo piano del palazzo. Nei concitati momenti degli spari e poi della caccia al killer, alcuni avvocati si sono invece chiusi a chiave nelle aule d’udienza con i cancellieri e i magistrati. «Ho visto colpire delle persone. Ho visto morire un testimone davanti a me», dice il pm di Milano Luigi Orsi, che oggi si trovava in udienza quando Claudio Giardiello ha sparato. Luigi Orsi, uno dei sostituti procuratori più stimati della Procura di Milano esperto in reati economico-finanziari. A quanto pare subito dopo i primi spari sono intervenuti i carabinieri, arrivati al secondo piano nell’aula da dove provenivano i rumori. Il tribunale è stato evacuato piuttosto velocemente, ma a quanto pare l’omicida nel frattempo è riuscito a fuggire con una moto e ad arrivare fino a Vimercate, a una ventina di chilometri dal luogo della sparatoria, dove è stato arrestato dai carabinieri di Monza. Come è entrata la pistola in tribunale? Giardiello potrebbe avere evitato i controlli presenti ad ogni ingresso del Palazzo di Giustizia semplicemente entrando insieme al suo legale. Solo così, al momento, troverebbe una giustificazione il fatto che l’uomo possa essere entrato armato in un’aula di giustizia.«Probabilmente - spiega Valerio Maraniello, ex legale di Claudio Giardiello - potrebbe essere entrato insieme all’avvocato e quindi avrebbe evitato i controlli presenti in tutti gli ingressi». La presenza dell’arma portata con sé fa ipotizzare che l’uomo abbia pianificato la sua azione: secondo quanto trapela, Giardiello prima ha colpito a morte il giudice, quindi si è diretto verso l’aula e ha rifatto fuoco sparando all’avvocato dopo aver revocato il mandato al legale che da più tempo lo rappresentava e con il quale, proprio in aula, in mattinata, avrebbe avuto un diverbio. Quindi ha sparato verso i suoi coimputati che lui riteneva causa dei suoi guai. «Era una persona particolare, inquietante ma non avrei mai immaginato che fosse capace di una cosa del genere», dice sempre Maraniello. «Era un imprenditore distinto, educato, ma si era convinto di essere vittima di una truffa da parte dei soci coimputati nel processo in corso», aggiunge il legale. L’immobiliare si occupava di mediazione e proprio rispetto al fallimento della stessa sarebbe legata l’azione di oggi. Claudio Giardiello si trova nella caserma della compagnia dei carabinieri di Vimercate (Monza e Brianza). L’uomo viene sentito dagli investigatori che stanno ricostruendo la dinamica dell’accaduto. Giardiello, residente a Brugherio, viveva da qualche tempo a Garbagnate Milanese. Nell’ultimo bilancio della Immobiliare Magenta che si riesce a consultare con il sistema telematico della Camera di commercio, quello relativo al 2006, la società di intermediazione immobiliare, ristrutturazioni e costruzioni per conto terzi, risultava avere attivi per 1,5 milioni di euro, con un fatturato di 446 mila euro circa e utili per 2.883 euro. Una società collegata a Immobiliare Magenta, in liquidazione, e nella quale era già cessata la carica di Giardiello risulta poi la Miani Immobiliare srl (Natale Capodicasa il nome del liquidatore). Oltre alla società di Giardiello, la Miani Immobiliare faceva capo per il 75% alla Cisep, società di costruzioni con sede a Cassina de’ Pecchi (Milano) anch’essa dichiarata fallita nel 2008, a gennaio, su provvedimento dell’autorità giudiziaria di Monza (i curatori fallimentari sono Nadia Farina e Luca Brivio). L’azienda faceva capo a Consiglia Di Nuzzo (e con quote minori a Massimo D’Anzuoni). Il nome di Giardiello risulta poi collegato, con cariche recesse, alla Immobiliare Washington 2002 srl in liquidazione di Milano, e alla CaGi. Srl, sempre con sede a Milano. All’imprenditore edile faceva poi capo in passato anche una società in accomandita semplice, la Edil Casa di Brugherio. Un articolo di Walter Galbiati su Repubblica riepiloga la vicenda giudiziaria in cui era finito Giardiello, soprannominato in un documento che poi ha acquisito dignità di prova giudiziaria “Il Conte Tacchia”, ovvero il personaggio interpretato da Enrico Montesano nel film di Corbucci. I guai finanziari di Claudio Giardiello prendono origine da un contenzioso con la Cisep spa, una società con cui condivideva, attraverso la Magenta srl, una partecipazione nella Miani immobiliare. Le liti tra i soci erano legate alla contabilità occulta della partecipata e del giro di affari in nero. Gli amministratori della Miani, società partecipata da quella di Giardiello, si erano accordati per intascare gli anticipi dei contratti preliminari: Giardiello li riscuoteva e li girava ad altri tre amministratori, tenendosi il 25%. “La prova di tale meccanismo di pagamento è contenuta – scrivono i legali della Cisep nell’atto di denuncia – in un documento, sottoscritto dai signori D’Anzuoni, Tonani, Erba, Giardiello e Limongelli, nel quale viene riepilogata, alla data del 29.9.2005, la situazione degli importi percepiti da ciascuno dei compartecipi dell’accordo, tutti indicati con uno pseudonimo (il sig. Claudio Giardiello è il “Conte Tacchia” e il sig. Davide Limongelli è il “Marchesino”)”.
Il prospetto è chiaro e preciso:
– € 1.355.235,00 dal sig. Claudio Giardiello (il “Conte Tacchia”), il quale ha versato € 393.392,50 all’altro socio della Magenta, sig. Davide Limongelli (il “Marchesino);
– € 1.245.968,03 dal sig. Massimo D’Anzuoni (il “Predatore”);
– € 1.245.968,03 dal sig. Giorgio Erba (il “Comandante”);
– € 1.245.969,02 dal sig. Silvio Tonani (“Tinto Brass”).
Secondo la ricostruzione, i guai tra i soci iniziano quando Giardiello pretende maggiore compensi: “I rapporti tra gli amministratori della società esponente avevano iniziato a deteriorarsi allorquando il sig. Claudio Giardiello, evidentemente non soddisfatto della disponibilità finanziaria procuratagli dal descritto accordo con i signori D’Anzuoni, Erba e Tonani, aveva iniziato ad avanzare insostenibili ed ingiustificate pretese economiche nei confronti degli altri amministratori della Miani. I quali in nessun modo riuscivano a ricondurre a ragione il loro interlocutore, soggetto, peraltro, ad improvvise alterazioni dell’umore e propenso anche all’aggressione pur di farsi ragione”. Da lì la fine degli affari e dei rapporti. La Miani e la Cisep cercano di regolarizzare la propria posizione col Fisco, mentre la Magenta e Giardiello tentano di scansare l’onere (circa 6 milioni di euro), sostenendo di non essere a conoscenza dell’accordo della spartizione occulta, tanto da aver denunciato alle competenti autorità i comportamenti evasivi. Nessuna società però riesce a sopravvivere allo scontro e finiscono davanti al Tribunale fallimentare.
Sparatoria a Milano, il sopravvissuto. «Prima i colpi, poi solo il sangue Aveva già scelto i suoi bersagli». Il racconto di Luigi Liguori, 48 anni, avvocato penalista: giovedì mattina era in tribunale per assistere uno degli imputati del processo per il crack Magenta, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. «Ho provato a fare qualcosa, ma non potevo fare niente». Sono passate poco più di tre ore dalla strage nel Palazzo di Giustizia di Milano. L’avvocato Luigi Liguori ha ancora negli occhi tutto l’orrore della «scena terrificante» che gli si è materializzata davanti: era nell’aula della seconda sezione penale del Tribunale quando sono cominciati gli spari. Proprio l’aula che in passato è stata teatro dei grandi processi per scandali finanziari, a cominciare da quello che ha seguito il crac di Parmalat.
Lei era all’udienza del processo per la bancarotta della Immobiliare Magenta nel quale assiste uno dei imputati. Cosa è successo?
«Avevamo cominciato alle 9.30 e per la prima ora tutto è andato tranquillo, come in un normale processo di bancarotta. Si è discusso se mantenere validi gli atti visto che dall’udienza successiva uno dei giudici del collegio sarebbe stato sostituito».
Giardiello dov’era?
«All’ultimo banco, tre dietro di me. Indossava un cappotto blu e un vestito marrone. Aveva la cravatta. Poteva sembrare un avvocato. Nella panca davanti a lui c’erano Davide Limongelli e Giorgio Erba».
Era tranquillo?
«Non mi sembrava particolarmente nervoso, ma poi ha cominciato ad agitarsi».
Perché?
«Chiedeva con insistenza al suo avvocato, il collega Michele Rocchetti, di fare alcune domande specifiche. Insisteva, pressava. A un certo punto l’avvocato Rocchetti ha detto al presidente che rinunciava al mandato perché non poteva continuare la difesa in quanto non c’era coordinamento con il suo assistito».
A quel punto è stato chiamato a testimoniare l’avvocato Lorenzo Claris Appiani.
«Era un collega che, per conto di un suo cliente che lamentava un credito non onorato, aveva presentato un’istanza di fallimento nei confronti dell’immobiliare. Mentre stava declinando le sue generalità, come fanno tutti i testimoni, ho sentito i primi spari, almeno due. Stavo nella prima panca, proprio di fronte ai giudici».
Cosa ha fatto?
«Mi sono gettato a terra mentre tutti urlavano. C’era un caos incredibile, dopo ho capito che in quel momento aveva colpito Limongelli ed Erba».
Poi?
«Poi Giardiello ha sparato ancora, stavolta di fronte a sé, contro Appiani che stava al banco dei testimoni. Mi pare altri due o tre colpi».
È andato verso il teste?
«Non so se si sia alzato. Con la coda dell’occhio ho visto Appiani che si era accasciato sul pavimento. Urlavano tutti e dopo qualche secondo c’è stato un fuggi fuggi generale. Ci siamo diretti tutti verso la porta che conduce alla camera di consiglio e da lì ci siamo rifugiati in corridoio».
Ha capito subito che si trattava di colpi di pistola?
«Certo, ho fatto il carabiniere. Sono in grado di capirlo».
Dopo è tornato dentro?
«Sì e mi sono diretto verso il collega Appiani tentando di fare qualcosa, di soccorrerlo in qualche modo, ma mi sono subito reso conto che probabilmente era già morto. Aveva una brutta ferita al ventre. Avrei fatto qualsiasi cosa, ma non ho potuto fare niente. Allora mi sono avvicinato a Limongelli».
Come stava?
«Anche lui aveva una ferita, ma nella parte bassa dell’addome. Ho tentato di chiamare il 112, senza riuscirci perché il telefonino non prendeva. È stato a quel punto che è entrato un magistrato al quale ho chiesto di chiamare un’ambulanza, che però è arrivata dopo un bel po’ di tempo, mentre l’aula si riempiva di poliziotti e carabinieri. C’era sangue dappertutto».
Ed Erba?
«Anche lui era ferito, ma era ancora vivo in quel momento. Un collega gli teneva la mano gridando “Giorgio, Giorgio”».
Ha avuto l’impressione che Giardiello volesse sparare anche al pm Luigi Orsi?
«No. Credo che ha sparato a chi voleva colpire».
Strage in tribunale a Milano, ritratto dei protagonisti: chi sono il killer e le sue vittime.
Tutti ad affrettarsi a rimarcare le origini meridionali del killer, invece...
Il killer Giardiello e Ciampi, il giudice vittima, sono campani. A Napoli udienze ferme per mezzora. Ha ucciso tre persone al Palazzo di Giustizia di Milano. Ha 57 anni ed è residente in Brianza. Gestiva una società immobiliare in corso Magenta. La vittima è il giudice Ciampi, originario di Fontanarosa, in Irpinia, dove tornava ogni estate. Strage al palazzo di giustizia di Milan (tre morti e un ferito): il killer e il giudice ucciso sono entrambi campani, anzi entrambi della «terra dell’osso»: sannita l’omicida Claudio Giardiello, irpino una delle vittime, il giudice Fernando Ciampi.
I giudice vittima è irpino. Ciampi, 72 anni, era nato a Fontanarosa ed è stato presidente della sezione ottava civile. Da sei anni era alla seconda sezione civile, incaricata dei fallimenti. Fama da integerrimo, dal 19 giugno al 30 settembre 2009 era stato anche presidente facente funzione della sezione fallimentare. Nella sua carriera, Ciampi si è occupato soprattutto di diritto societario e fallimentare, a proposito dei quali ha scritto anche numerosi testi. La sua azione negli ultimi anni si concentrava soprattutto nel campo dei brevetti, dei marchi, della concorrenza sleale e del diritto d’autore. Dolore e sconcerto a Fontanarosa, il piccolo centro della provincia di Avellino, 3.200 abitanti nella Valle del Calore, di cui era originario Ciampi. Il giudice tornava a Fontanarosa almeno una volta l’anno per trascorrere alcuni giorni nella casa di proprietà che si trova nel centro del paese. La sua famiglia è molto nota e apprezzata: suo padre, Mario Ciampi, scomparso alcuni anni fa, per decenni è stato il medico condotto di Fontanarosa. In un incidente giovanile, il magistrato aveva perso l’uso della mano sinistra. Laureatosi giovanissimo alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli, aveva superato brillantemente il concorso per entrare in magistratura. Il sindaco di Fontanarosa, Flavio Petroccione, ha espresso il dolore e la solidarietà della comunità in una nota e in un manifesto di cordoglio.
L’assassino è sannita. Claudio Giardiello, l’assassino, ha 57 anni: è nato a Benevento il 6 marzo del 1958, ed è residente a Brugherio in Brianza. Aveva due società ma, negli ultimi tempi, si trovava in gravissime difficoltà finanziarie, sfociate in diverse cause giudiziarie, come quella che lo vedeva imputato per la Immobiliare Magenta Srl.«È una persona sopra le righe, ingestibile come cliente perché non ascoltava mai i consigli. Era uno che pensava che tutti lo volessero fregare, era paranoide». È la descrizione dall’avvocato di Giardiello, Valerio Maraniello. Il legale spiega di avere difeso Giardiello fino ad un paio di anni fa e poi di avere lasciato il mandato proprio perché era un cliente «difficile». «Era una persona particolare, inquietante ma non avrei mai immaginato che fosse capace di una cosa del genere», dice Maraniello che ne traccia un breve profilo. «Era un imprenditore distinto, educato, ma si era convinto di essere vittima di una truffa da parte dei soci coimputati nel processo in corso».
L'identikit di Giardiello, immobiliarista 57enne alla sbarra per bancarotta fraudolenta, che ha ucciso a colpi di pistola tre persone: hanno perso la vita il giudice Ciampi, l'avvocato Appiani e un coimputato dell'assassino. Tra i feriti, il nipote ed ex socio della Immobiliare Magenta, dichiarata fallita nel 2008, scrive Michela Scacchioli su "La Repubblica”. Tredici colpi sparati con una pistola 7.65. Per vendetta. Poi il terrore, le urla e la morte a Palazzo di Giustizia di Milano. Sotto processo per bancarotta fraudolenta, Claudio Giardiello, 57 anni, immobiliarista originario di Benevento, si è armato di pistola, ha ucciso tre persone e ne ha ferite altre due. L'uomo ha premuto il grilletto in un'aula del tribunale lombardo ubicata al terzo piano - quella dov'era in pieno svolgimento l'udienza nella quale era imputato -, poi ha deciso di scendere una rampa di scale e, giunto al secondo, ha ammazzato un giudice che stava lavorando nella propria stanza. Nulla è stato lasciato al caso: i bersagli individuati da Giardiello erano legati a quelle accuse per le quali era finito alla sbarra. Giardiello è nato il 6 marzo del 1958, è residente in Brianza e lavora nel settore dell'edilizia. Dopo la mattanza di oggi, la sua vita e le sue attività professionali sono state subito scandagliate: è emerso che era socio in svariate società: tra queste, l'Immobiliare Magenta Srl, dichiarata fallita il 15 marzo 2008. Negli ultimi tempi, però, l'uomo si trovava in gravi difficoltà finanziarie sfociate in alcune cause giudiziarie. Stamani, prima di colpire una delle sue vittime, l'uomo avrebbe puntato la pistola anche contro il pm che si trovava in aula. A raccontarlo è stato un avvocato che si trovava in tribunale quando è avvenuta la sparatoria e che ha assistito alla scena. Sotto shock la ex moglie di Giardiello, Anna Siena, che nel pomeriggio ha detto: "Mai avrei pensato che fosse così disperato, sono scioccata, non immaginavo che potesse fare una cosa simile. Ora devo pensare soprattutto ai miei figli, sono loro che devo proteggere dalle conseguenze più drammatiche". Il magistrato ucciso è Fernando Ciampi, 72 anni, giudice della decima sezione fallimentare del tribunale di Milano, la più importante d'Italia. Il giudice Ciampi, dopo l'uscita di scena dell'ex presidente Bartolomeo Quatraro (oggi a Novara), nel 2009 era stato chiamato a guidare la sezione ad interim. Ciampi aveva fama di intransigente. Dolore e sconcerto, subito dopo i fatti, a Fontanarosa, il piccolo centro della provincia di Avellino - 3.200 abitanti nella Valle del Calore - di cui il magistrato era originario. Ciampi tornava a Fontanarosa almeno una volta l'anno per trascorrere alcuni giorni nella casa di proprietà al centro del paese. La sua famiglia è molto nota e apprezzata: suo padre, Mario Ciampi, scomparso alcuni anni fa, per decenni è stato il medico condotto di Fontanarosa. In un incidente giovanile, il magistrato aveva perso l'uso della mano sinistra. Laureatosi giovanissimo alla facoltà di Giurisprudenza dell'università di Napoli, aveva superato brillantemente il concorso per entrare in magistratura. Il sindaco di Fontanarosa, Flavio Petroccione, ha espresso il dolore e la solidarietà della comunità in una nota e in un manifesto di cordoglio.
L'avvocato colpito in aula durante l'udienza è il 37enne Lorenzo Alberto Claris Appiani, originario dell'isola d'Elba. Era stato il legale di Giardiello e oggi era in aula come testimone nella causa per bancarotta contro lo stesso Giardiello, il quale lo ha ammazzato sparandogli al torace. Appiani viene da una famiglia di legge: sua madre, oggi in pensione, è avvocato e la sorella è un magistrato. Lui stesso era molto stimato per la sua capacità di analisi del diritto. Lo zio della vittima, l'avvocato Alessandro Brambilla Pisoni, arrivando al pronto soccorso del Fatebenefratelli di Milano ha raccontato: "Giardiello era stato cliente di mio nipote, poi aveva iniziato a combinare disastri e lui ha smesso di seguirlo. Sapevo che oggi mio nipote era in aula come testimone in una causa penale perché Giardiello era stato denunciato".
Lorenzo, il giovane avvocato genio del foro. Vittima dell'ex cliente Giardiello: oggi era in Aula come testimone, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Un genio del foro, una mente brillante, un giovane timido ma pieno di entusiasmo. Gli amici e i parenti lo descrivono così: Lorenzo Alberto Claris Appiani, l’avvocato trentasettenne ucciso oggi a Palazzo di Giustizia dal suo ex cliente Claudio Giardiello. Oggi il legale era in aula come testimone nella causa per bancarotta contro quell’uomo che aveva assistito in passato e che lo ha freddato sparandogli al torace. Portato al pronto soccorso del Fatebenefratelli, l'avvocato è arrivato in asistolia: nonostante le manovre rianimatorie, i sanitari non sono riusciti a far ripartire il suo cuore, a salvare quella che tutti ricordano come una promessa dell’avvocatura civile. "Giardiello era stato cliente di mio nipote - racconta l'avvocato Alessandro Brambilla Pisoni, zio di Lorenzo - poi aveva iniziato a combinare disastri e lui ha smesso di seguirlo. Sapevo che oggi mio nipote era in aula come testimone in una causa penale perché Giardiello era stato denunciato". Doveva dunque testimoniare contro il suo ex cliente. "In una causa non si testimonia né a favore né contro qualcuno, ma per la verità e la giustizia": una spiegazione tecnica, quella dello zio, che è quasi un ritratto del nipote, descritto da chi lo conosceva bene come una persona molto ligia al dovere, un avvocato che non mollava mai. Lui, che veniva da una famiglia tutta legata alla legge, con la mamma Alberta avvocato, oggi in pensione, lo stesso zio legale e la sorella Francesca magistrato a Pavia, era quello che veniva consultato da parenti e amici quando c’era un problema legale. Dopo aver frequentato il liceo scientifico Leonardo da Vinci ed essersi laureato all’Università Statale di Milano, ha avuto un periodo di prestigiose collaborazioni prima di aprire uno studio legale, guadagnandosi la stima dei colleghi per la sua capacità di analisi del diritto. Era un avvocato molto capace, attivo soprattutto nel campo del diritto societario e aveva vinto importanti cause legate allo scandalo derivati, ma era anche un giovane molto legato alla famiglia, in particolare alla sorella minore e alla nonna, con cui aveva passato molto tempo. Parenti e amici ricordano che andava a pranzo dalla nonna quasi ogni giorno e che nelle ultime festività di Pasqua aveva rinunciato alle vacanze all’Elba, dove la famiglia possiede un’azienda vinicola gestita dal padre Aldo, per restare a Milano con lei. Lorenzo Appiani, che gli amici chiamavano affettuosamente "Conte" per via delle origini nobili della famiglia Appiani (Signori di Piombino dal ’300 al ’500), era un giovane di idee liberali. "Mio fratello - racconta la sorella Francesca - all'inizio si era entusiasmato alle idee che gli sembravano liberali di Forza Italia, salvo poi abbandonare sia il partito sia l’ attività politica per dedicarsi solo all’avvocatura. Non aveva intenzione di riprendere l'attività politica, era completamente preso dalla professione e da una bellissima carriera". Lorenzo, che non era sposato, viveva da solo, nello stesso palazzo dove vive la sorella, di fronte alla nonna e a pochi metri dai genitori. "Per me mio fratello è stato il mio consigliere, l'ispiratore dei miei studi, ho fatto di tutto per emularlo, è stato un fratello guida, che negli ultimi anni - ricorda Francesca - avevo scoperto anche nella funzione dolcissima di zio dei miei bambini, cui si dedicava molto".
La terza vittima è Giorgio Erba, coimputato assieme al killer nel medesimo processo. Ferito anche Davide Limongelli, socio di Giardiello (oltre che nipote) nella società Magenta Immobiliare, anch'egli presente in aula come coimputato. Per ore si è parlato anche di una quarta vittima, una persona trovata morta sulle scale del tribunale, probabilmente a causa di un malore. Ma la notizia si è rivelata infondata.
Uno dei due feriti è Stefano Verna, dottore commercialista dello studio Verna, che è stato colpito a una coscia mentre si trovava in aula in qualità di testimone. Giardiello, infatti, era stato cliente di quello studio. "Non vi preoccupate, sto bene", ha detto il professionista a chi lo ha contattato al telefono. Il killer è rimasto a lungo all'interno del Palazzo Giustizia che è stato evacuato. Giardiello è riuscito a far perdere le sue tracce e a fuggire in moto ma è stato arrestato poco dopo dai carabinieri nella zona di Vimercate.
LA DINAMICA. L'allarme scatta attorno alle 11: nel palazzo di giustizia risuonano spari. Carabinieri e poliziotti impugnano le armi e corrono all'interno. All'esterno ancora nessuno, tranne le forze dell'ordine, si è reso conto di cosa sia avvenuto. A sparare è Claudio Giardiello, 57 anni, imprenditore edile imputato nel processo per il fallimento della "Magenta srl". Secondo le ricostruzioni, Giardiello era seduto tra il pubblico durante un'udienza, poi si è alzato con la pistola in mano e ha sparato. Lorenzo Alberto Claris Appiani, 37 anni, ex avvocato di Giardiello, è stato colpito dai primi spari ed è morto. Stava testimoniando in aula al processo per bancarotta fraudolenta. Insieme a lui è stato ucciso Giorgio Erba, coimputato di Giardiello. Ferite anche altre due persone. Il giudice Fernando Ciampi, 71 anni, è l'altra vittima della sparatoria. Da sei anni era alla seconda sezione civile, che si occupa dei fallimenti. Giardiello lo ha raggiunto nel suo ufficio e gli ha sparato, dopo aver lasciato l'aula del processo che si trova al piano superiore. I primi soccorritori arrivano al palazzo di giustizia. Oltre alle persone ferite, c'è stato anche chi è stato colpito da malore. Uno dei feriti viene portato via a bordo di un'ambulanza, dall'ingresso laterale. Arriva la polizia scientifica: Giardiello ha esploso in tutto 13 colpi. L'omicida si era dotato di due caricatori pieni di cartucce. Il palazzo di giustizia viene circondato. Una delle persone ferite nella sparatoria viene portata via in barella. Sulle scale del tribunale si soccorre un ferito. Anche le telecamere accorrono: vengono trasmesse le immagini in diretta. L'evacuazione degli avvocati, dei magistrati e delle persone che si trovavano all'interno del tribunale. Attorno al palazzo la folla delle persone che si sono messe in salvo. L'avvocato Valerio Maraniello, anch'egli ex legale di Giardiello, parla ai cronisti dopo essere uscito dal tribunale: "Si tratta di una persona con atteggiamenti paranoidi", dice descrivendo l'omicida. Il procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili, davanti al tribunale dopo la sparatoria: è lui il titolare delle indagini. Le forze dell'ordine attorno all'edificio. All'interno del palazzo è caccia all'omicida. Dopo essere rimasto nascosto tra la gente, è riuscito ad uscire e a dileguarsi in moto. I sigilli davanti all'aula del tribunale nella quale è iniziata la strage. Secondo il procuratore capo di Milano, Bruti Liberati, l'omicida "sarebbe uscito dallo stesso ingresso di via Manara da cui è entrato, che non prevede il metal detector ma solo controllo dei documenti e da cui possono entrare avvocati, magistrati e personale amministrativo. Questa è al momento solo un'ipotesi investigativa". Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha parlato di una "evidente falla" nei sistemi di sicurezza del tribunale, che ha permesso all'omicida di entrare armato. Arriva in tribunale uno dei familiari del giudice Ciampi, ucciso nella strage. Il questore di Milano, Luigi Savina, davanti al palazzo. Arriva anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: "Conoscevo personalmente il giudice ucciso", rivela. Elicotteri sorvolano la zona per dare la caccia all'omicida. La moglie del giudice Fernando Ciampi accompagnata sul luogo della strage. Vengono chiusi i cancelli del tribunale. Giardiello viene rintracciato a 26 chilometri dal palazzo di giustizia. I carabinieri lo fermano in un centro commerciale a Vimercate, in provincia di Monza-Brianza, dove è arrivato in moto. "Non sembrava molto agitato", ha spiegato il generale Maurizio Stefanizzi, comandante dei carabinieri della provincia di Milano. L'arresto di Claudio Giardiello. Giardiello viene portato in caserma. Arriva anche il generale dei carabinieri Tullio Del Sette, comandante dell'Arma. A caldo l'omicida ha detto di aver colpito "chi voleva rovinarlo". E, riferiscono i carabinieri, ha aggiunto che si stava recando "a uccidere un'ulteriore persona che riteneva compartecipa della sua bancarotta, del fallimento della sua azienda". Mentre viene interrogato Giardiello ha un malore: viene allertato il 118. Giardiello lascia la caserma a bordo di un'ambulanza. Claudio Giardiello viene portato via ricondotto nella caserma di Vimercate. Lo scooter di Claudio Giardiello sequestrato dai carabinieri dopo l'arresto.
Nell'ultimo bilancio della Immobiliare Magenta che si riesce a consultare con il sistema telematico della Camera di commercio, quello relativo al 2006, la società di intermediazione immobiliare, ristrutturazioni e costruzioni per conto terzi, risultava avere attivi per 1,5 milioni di euro, con un fatturato di 446mila euro circa e utili per 2.883 euro. Una società collegata a Immobiliare Magenta, in liquidazione, e nella quale era già cessata la carica di Giardiello risulta esseer la Miani Immobiliare Srl (Natale Capodicasa il nome del liquidatore). Oltre alla società di Giardiello, la Miani Immobiliare faceva capo per il 75% alla Cisep, società di costruzioni con sede a Cassina de' Pecchi (Milano) anch'essa dichiarata fallita nel 2008, a gennaio, su provvedimento dell'autorità giudiziaria di Monza (i curatori fallimentari sono Nadia Farina e Luca Brivio). L'azienda faceva capo a Consiglia Di Nuzzo (e con quote minori a Massimo D'Anzuoni). Il nome di Giardiello risulta poi collegato, con cariche recesse, alla Immobiliare Washington 2002 Srl in liquidazione di Milano, e alla CaGi Srl, sempre con sede a Milano. All'imprenditore edile faceva poi capo in passato anche una società in accomandita semplice, la Edil Casa di Brugherio.
Il killer: «Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato». Da tre anni le sue aziende erano entrate in una profonda crisi economica. L’uomo ha sparato 13 colpi e aveva con sé due caricatori, scrive Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Claudio Giardiello, il 57enne di origine campane che ha sparato giovedì mattina nel Tribunale di Milano, dove sono morte tre persone e due sono rimaste ferite, lavorava nel settore dell’edilizia. E da tre anni le sue aziende erano entrate in una profonda crisi economica. Potrebbe essere questa la causa scatenante della follia omicida dell’uomo. Dopo una fuga durata poco più di un’ora, Claudio Giardiello è stato rintracciato e fermato dai carabinieri davanti a un centro commerciale di Vimercate. Qui, secondo quanto ha riferito il ministro dell’Interno Angelino Alfano, sarebbe stato pronto a uccidere ancora. Obiettivo: «Un’altra persona che riteneva compartecipe della sua bancarotta». Dopo la cattura, Giardiello è stato accompagnato in caserma, dove gli è stato notificato l’ordine di arresto, per essere poi interrogato e spiegare i motivi del suo tragico gesto. Durante l’interrogatorio, l’uomo ha accusato un malore ed è stato portato al Pronto soccorso dell’ospedale di Vimercate, dove è stato sedato. Piantonato dai militari, il 57enne — come ha riferito l’avvocato d’ufficio, Nadia Savoca — si è avvalso della facoltà di non rispondere. Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato»: queste, secondo quanto si è appreso, le prime parole pronunciate da Claudio Giardiello, subito dopo essere stato bloccato dai carabinieri, che lo hanno intercettato a bordo del suo scooter vicino ad un centro commerciale di Vimercate. Dalla ricostruzione della sparatoria è emerso, inoltre, un particolare inquietante. Il 57enne ha sparato 13 colpi con una pistola calibro 7.65 e aveva con sé due caricatori: una potenza di fuoco che avrebbe potuto causare molte più vittime. Giardiello, 57 anni, è nato a Benevento il 6 marzo del 1958 ed è residente in Brianza, a Brugherio. Aveva quote in un paio di società immobiliari, che però sono entrambe fallite, la prima nel 2008, la seconda nel 2012. Claudio Giardiello era imputato nel processo Magenta Immobiliare e non nel processo Eutelia, come precedentemente riferito. Il bilancio della Magenta, in particolare, era in passivo di quasi 3 milioni. A dicembre, il liquidatore aveva disponibilità per 284 mila euro Lorenzo. Alberto Claris Appiani, morto nella sparatoria, era stato l’avvocato dell’aggressore in un procedente processo per fallimento e all’udienza di giovedì nel Palazzo di giustizia milanese era andato a testimoniare. Nella tarda mattinata di giovedì il procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili, e il pubblico ministero di turno, Angelo Renna, hanno raggiunto Vimercate per interrogare Giardiello. Sulla vicenda procederà poi la procura di Brescia, competente per reati commessi o subiti da magistrati in servizio a Milano. Durante l’interrogatorio, il 57enne si sarebbe sentito male e sarebbe stato portato via da un’ambulanza, scortata da due pattuglie dei carabinieri. Il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette è andato alla Compagnia dei Carabinieri a Vimercate, per assistere all’interrogatorio di Claudio Giardiello.
Giardiello, il crac e i guai finanziari L’ex socio salvo: «Devo la mia vita all’avvocato. Mi ha detto: non venire». Massimo D’Anzuoni era l’ultimo obiettivo del killer: «Non fosse stato per il legale sarei stato in quell’aula». Il fallimento della Magenta Immobiliare, soldi in nero mai spartiti, scrive "Il Corriere della Sera”. «Devo la vita al mio avvocato, se non fosse stato per lui sarei stato in quell’aula. E probabilmente sarei morto». Massimo D’Anzuoni era l’ultimo obiettivo di Claudio Giardiello, il killer del tribunale di Milano. Sarebbe toccato a lui, dopo il giudice Ciampi, il suo ex socio Giorgio Erba e il nipote Davide Limongelli: quando l’hanno bloccato, Giardiello stava per accedere al raccordo con l’A4 che l’avrebbe portato a Bergamo e da lì a Carvico, da D’Anzuoni. L’imprenditore, al di là essere imputato nel processo trasformato in strage a Milano da Giardiello, nell’ottobre di due anni fa aveva patteggiato una condanna a tre anni ed un mese dopo esser stato arrestato a maggio del 2013. Che aveva combinato il geometra titolare di varie società immobiliari? Assieme ad altri imprenditori e membri della Giunta municipale di Trezzano Sul Naviglio (Milano), oltre al comandante della polizia locale della cittadina milanese, era coinvolto in un giro di tangenti per la realizzazione di un’area commerciale. Il perché D’Anzuoni fosse l’ultimo della lista del killer, è una lunga storia fatta di soldi in nero, partecipazioni societarie, appartamenti venduti e comprati, amicizie rotte. «Credo che probabilmente l’inizio della sua crisi sia avvenuta nel momento in cui ha pensato che tutti gli amici lo avessero abbandonato, peccato che la storia non è andata così», ha detto D’Anzuoni al suo avvocato, Luigi Liguori. Come sia andata davvero lo dirà il processo che è in corso. Quel che si sa è che la storia inizia nel 2002 e ruota attorno a due palazzine in via Biella, a Milano. L’immobile lo costruisce la Miani Immobiliare, società che fa capo per un 75% alla Cisep, in cui ha delle quote D’Anzuoni, e per il restante 25% alla Magenta immobiliare di Giardiello e Limongelli. La Magenta verrà dichiarata fallita nel 2008 ma sono i passaggi che portano al fallimento a scatenare, probabilmente, la rabbia di Giardiello. L’accordo prevedeva infatti che la Miani corrispondesse alla Magenta un 3% sugli appartamenti venduti. Soldi che, dice oggi l’avvocato di D’Anzuoni, vengono regolarmente versati. Ma il punto è un’altro: secondo l’accusa quel 25% di quota della Magenta serviva in realtà per far girare il «nero», che poi i soci si spartivano secondo accordi ben precisi. In sostanza, i soldi che venivano corrisposti al compromesso, al rogito sparivano e finivano nella contabilità occulta. L’intesa comincia a scricchiolare già nel 2004 ma alla fine i soci trovano una sorta d’accordo che prevede che ognuno rimetta la sua parte nella società. D’Anzuoni, sostiene sempre l’avvocato, è l’unico che lo fa. E così salva la Miani, mentre la Magenta comincia ad andare a fondo. Anche perché, e siamo a fine del 2006, Giardiello, che era socio di maggioranza, estromette dalla gestione societaria il nipote, che era l’amministratore. E da quel momento, sostiene D’Anzuoni, i soldi invece che nelle casse della società finiscono tutti nelle tasche del killer, fino al fallimento che arriva nel 2008. «Io non lo vedo e non lo sento dal 2007 - ripete ancora l’unico sopravvissuto - e devo la vita al mio avvocato». «È vero - conferma il legale - sono stato io a dirgli di non venire oggi in Tribunale: era in programma un’udienza tecnica, era previsto l’esame dei consulenti e il suo apporto non era necessario». A volte, il non esser necessario, ti salva la vita.
Strage al Tribunale, il carabiniere che lo ha preso scrive su Facebook: colpaccio, alla grande, scrive “Libero Quotidiano”. Il carabiniere Mario Nufris era fra i militari che ieri, giovedì 9 aprile, hanno arrestato Claudio Giardiello, l'imprenditore fallito imputato per bancarotta che ha ucciso quattro persone al Tribunale di Milano. Nufris lo ha fermato al parcheggio delle Torri bianche. Subito dopo le manette ha scritto - forse un po' incautamente - sul suo profilo Facebook tre parole: "Colpaccio - alla grande". Un vanto social che era meglio evitare ma che i suoi "amici su fb" hanno apprezzato: "Quelli dell'85° corso Iglesias non scherzano! bravo Mario! orgoglio Sardo!", scrive uno, "complimenti", commenta un altro. "Grazie a tutti", chiosa Nufris.
Ma non c'è solo Milano. Genova, cerca di entrare a Palazzo di Giustizia con un coltello: denunciato, scrive “La Repubblica”. E' accaduto ieri: protagonista un uomo di 63 anni. L'entrata del Palazzo di Giustizia di Genova Ha cercato di entrare nel Palazzo di Giustizia di Genova armato con un coltello ma il metal detector del servizio di vigilanza del tribunale ha individuato l'arma che si trovava all'interno di una borsa. Per questo un genovese di 63 anni residente a Sestri Ponente è stato denunciato dai carabinieri in servizio al Tribunale. L'uomo è imputato in un processo in corso a Genova e adesso dovrà rispondere anche del reato di porto di oggetti atti ad offendere. Ai carabinieri ha detto di essersi "dimenticato l'arma nel borsello". Il coltello è stato sequestrato.
Già in un precedente episodio il Ministero escluse le sue responsabilità. "Sicurezza e metal detector nei tribunali? Non spetta al ministero ma alla Procura". In una nota il dicastero retto da Mastella si chiama fuori: "Spetta al procuratore generale presso la corte d'appello adottare i provvedimenti necessari ad assicurare la sicurezza interna delle strutture in cui si svolge attività giudiziaria". Il ministero della Giustizia non ha alcun ruolo per ciò che riguarda la sicurezza dei tribunali, dunque la tragedia accaduta ieri a Reggio Emilia non può chiamare in causa il dicastero diretto da Clemente Mastella. E', in sintesi, il senso della nota diffusa oggi dal capo del dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, Claudio Castelli: "Spetta al procuratore generale presso la corte d'appello - spiega citando alla lettera il decreto del 1993 che disciplina le competenze in materia di sicurezza interna ed esterna delle strutture giudiziarie - adottare i provvedimenti necessari ad assicurare la sicurezza interna delle strutture in cui si svolge attività giudiziaria. Salvo che nei casi di assoluta urgenza i provvedimenti sono adottati sentito il prefetto e i capi degli uffici giudiziari interessati". Peraltro, nel caso "si rendano necessari interventi - puntualizza Castelli - la richiesta del procuratore generale dei relativi stanziamenti passa attraverso i competenti uffici del ministero della Giustizia che provvedono in merito. Ovviamente lo stesso procuratore generale deve essere informato sulle situazioni esistenti da parte degli uffici giudiziari interessati". Quanto alla vigilanza esterna, "la competenza - ricorda il capo del dipartimento - è dei comuni che, se richiesti dagli uffici giudiziari, adottano le necessarie misure; il relativo costo al pari delle locazioni e degli altri oneri grava sul ministero". Tutto ciò detto, e "sottolineato che in via generale un ruolo istituzionale viene altresì svolto dal Comitato provinciale sull'ordine e la sicurezza pubblica", Castelli rileva che "in relazione al caso specifico non risultano pervenute richieste al ministero riguardanti il palazzo di giustizia di Reggio Emilia".
Sparatoria in Tribunale: prima di Milano è accaduto a Reggio Emilia. L'episodio riapre le discussioni sulla sicurezza nei palazzi di giustizia: un precedente (con tre morti) nel 2007 per una causa di divorzio, scrive Panorama. A dispetto dello stupore di cittadini e politici per quanto accaduto al Tribunale di Milano, con l'uccisione del giudice Fernando Ciampi e di almeno altre due persone da parte di Claudio Giardiello, non è la prima volta che le armi entrano per far fuoco in un palazzo di giustizia italiano a dispetto dei controlli di sicurezza.
Il precedente di Reggio Emilia. Era infatti già accaduto il 17 ottobre 2007 al Tribunale di Reggio Emilia, quando Clarim Fejzo, albanese di 40 anni, lì presente per una causa di divorzio, estrasse davanti agli occhi delle due figlie una pistola calibro 7.65 per scaricarla prima contro l'avvocato della controparte, ferendolo di striscio, e poi contro la moglie Vjosa (che morì poi in ospedale per le ferite riportate) e contro il fratello di quest'ultima, freddato a morte mentre cercava di disarmare il cognato. Dopo di che ci fu l'intervento di due giovani poliziotti che si trovavano in un'aula vicina: il primo venne a sua volta ferito a una gamba, il secondo freddò invece Fejzo, che dopo aver scaricato un caricatore ne stava inserendo un altro nell'arma per andare avanti nella sua folle strage.
L'imprenditore-killer di Perugia. Altro contesto, ma dinamica per molti versi simile nel doppio omicidio compiuto dal quarantenne imprenditore Andrea Zampi alla sede della Regione Umbria, a Perugia, il 6 marzo 2013. Armato di una pistola Beretta, l'uomo fece irruzione nell'ufficio in cui lavoravano Daniela Crispolti (46 anni, precaria con contratto di collaborazione) e Margherita Peccati (61 anni, prossima alla pensione), freddandole sul colpo per "vendicarsi" di un mancato finanziamento da 100 mila euro. L'uomo si è poi ucciso sparandosi a sua volta.
Sparatoria Tribunale di Milano, due i precedenti a Reggio Emilia e Varese, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Nel 2007 un quarantenne albanese sparò alla moglie a all'avvocato della donna durante l'udienza di divorzio in Emilia Romagna. Nel 2002 un 62enne siciliano uccise la compagna nel Tribunale di Varese nella stessa circostanza. La sparatoria al tribunale di Milano non è il primo episodio in cui qualcuno è riuscito a entrare armato nelle aule di giustizia e a uccidere delle persone. Altri due episodi si sono svolti a Reggio Emilia e a Varese, quando due uomini si resero protagonisti di sparatorie nel corso di due udienze di divorzio. Nel 2007 tre morti in aula a Reggio a Emilia. Il 17 ottobre 2007, un albanese di 40 anni, Clarim Fejzo, sparò in un’aula di giustizia del Tribunale nel corso di un’udienza di divorzio, provocando tre morti e due feriti. Davanti agli occhi delle due figlie, esplose dei colpi con una pistola calibro 7.65 contro l’avvocato della moglie, ferendolo di striscio, e contro la moglie stessa, Vjosa, che morì in ospedale dopo 24 ore. Il cognato cercò di disarmare l’uomo fuori dall’aula ma venne colpito a morte da un proiettile. Due poliziotti, provenienti da un’aula vicina, intervennero: il primo fu ferito ad una gamba, il secondo uccise il quarantenne che dopo aver scaricato un caricatore ne stava preparando un altro per colpire altre persone. Nel 2002 a Varese un uomo sparò alla moglie uccidendola in pieno tribunale. Rosolino D’Aiello, di 62 anni e originario di Palermo, era un’ex carabiniere in pensione e fu arrestato per l’omicidio di Cosima Damiano, di 49 anni, uccisa mentre si discuteva la loro causa di separazione. La situazione precipitò poco prima di mezzogiorno, quando D’Aiello tirò fuori dalla tasca una pistola ed esplose quattro colpi consecutivi davanti al giudice e ai legali dei due coniugi. La separazione della coppia era stata contrastata per ragioni patrimoniali, i problemi riguardavano principalmente incomprensioni sull’assegno di mantenimento che l’ex carabiniere doveva concordare con la moglie.
In altri casi, invece, non vi è stata la strage, perché mancava lo stragista, non l’opportunità.
Allarme del prefetto a Savona: tribunale colabrodo. Poca sicurezza nel Palazzo di giustizia e rischio costante di infiltrazioni: è questo, in sintesi, il concetto che la Prefettura esprime in una dettagliata lettera inviata, in primis, al presidente del Tribunale Giovanni Soave e al procuratore Francantonio Granero. Ma la missiva ha raggiunto anche il procuratore generale di Genova, il sindaco e il questore di Savona, il comando dei carabinieri e della finanza. I contenuti sono pesanti. Il testo, a firma del prefetto Gerardina Basilicata, fa riferimento a un sopralluogo, effettuato lo scorso 4 marzo, in Tribunale, dal Gruppo di lavoro Interforze, coordinato dal vicario del questore. Nell’occasione, sono state rilevate criticità proprio sulla sicurezza dell’edificio: accessi non sorvegliati, porte aperte dopo l’orario di chiusura, cassetti senza lucchetti. Occasioni che aumenterebbero il rischio delle infiltrazioni di estranei e l’eventuale inserimento di ordigni pericolosi. Soprattutto a seguito dei recenti “allarmi bomba” che avevano determinato l’evacuazione dello stabile. Tanto che si ribadisce l’importanza della stesura di un Protocollo sulla sicurezza, firmato dagli organi coinvolti, e si invita il Tribunale a “valutare e definire” le criticità indicate. Tanti i punti segnalati. Si parte dall’ingresso principale che, pur se presidiato dalle 7 del mattino alle 18, consente l’introduzione di qualsiasi oggetto, “anche di eventuali strumenti offensivi, esplosivi e armi”. Per due motivi: esiste un unico varco, per addetti al lavoro e per utenti, ma soprattutto il metal detector e le apparecchiature di controllo non sono funzionanti. Non solo. Spesso, l’ingresso di servizio che porta al garage, riservato a chi possiede le chiavi, è lasciato aperto. Per non parlare dei “locali caldaie”: presenti in quasi tutti i piani, non vengono chiusi a chiave potendo, così, essere facilmente manomettibili o sedi per ordigni. Si passa, poi, a tutti quegli ambienti che, fuori dagli orari d’ufficio, restano aperti: biblioteca e alcune stanze al primo piano. Oltre agli armadi, presenti nei corridoi, “che sono aperti e che costituiscono facile nascondiglio per 0accumulo di eventuali ordigni”. Sempre tra le “zone a rischio”, la prefettura parla del bancone di un bar, di fatto mai realizzato, cavo al proprio interno, oltre a cinque stanzette ubicate sopra le aule udienza, adibite a camere di consiglio, raggiungibili facilmente salendo alcuni gradini, aperte e non presidiate.
Tribunale-colabrodo di Savona. Un’evasione da ridere è l’ultima beffa Imputato in un processo apre la gabbia e fugge sotto il naso di giudici e avvocati, scrivono Marco Raffa e Claudio Vimercati su “La Stampa”. Un detenuto che evade dalla gabbia nell’aula di tribunale dove è in attesa di essere processato, semplicemente infilando una mano tra le sbarre, facendo scorrere il catenaccio che chiude la porta e uscendo indisturbato dall’edificio. E’ di ieri l’ultimo, sconcertante capitolo della storia del Palazzo di giustizia di Savona, il «tribunale-colabrodo» come molti addetti ai lavori ormai lo definiscono. Il protagonista, un immigrato tunisino con tre pagine di alias e numerose denunce per furto, rapina e stupefacenti, è stato catturato un’ora e mezza più tardi su un treno che da Savona era quasi arrivato a Genova. Ma l’episodio, esasperato dalla caccia all’uomo scatenata tra i banchi del mercato che ogni lunedì affolla la piazza del tribunale, potrebbe essere la classica goccia che fa traboccare il vaso. I capitoli precedenti oscillano tra il farsesco e il preoccupante, sconfinando talvolta nel boccaccesco. Sì, perchè è successo più volte, di sera ma anche in pieno giorno, anzi in orario di udienza, che gli addetti alla sorveglianza del Palazzo di Giustizia siano dovuti intervenire per far sloggiare coppiette intente a scambiarsi effusioni a luci rosse negli anfratti esterni dell’edificio, negli angoli ciechi dei cortili e dei piazzali, quando non addirittura sullo scalone d’ingresso. Complice il progetto avveniristico dell’architetto Leonardo Ricci che, per i sei piani del nuovo Tribunale inaugurato nell’87 (ma già nel ‘95 si fu costretti a una sopraelevazione: mancava, e manca tuttora, spazio per gli uffici) pensò a una sorta di cattedrale moderna, con una gigantesca vetrata obliqua che dà luce a un atrio altissimo e triangolare sul quale si affacciano i ballatoi di quattro piani. Tutt’intorno, all’interno e soprattutto all’esterno, una grande agorà con una piazza coperta, una piazza gradonata, cortili e portici che però i savonesi non hanno mai sentito come loro e che, da sempre, sono deserti e degradati. Accanto alle coppiette, i tossicodipendenti: quando i giardini di piazza del Popolo sono troppo affollati, cosa c’è di meglio dello scalone del tribunale o di un gradone di granito dell’agorà per iniettarsi una dose di eroina? Nuovo intervento della sicurezza, ma non sempre è possibile distogliere uomini dal controllo degli accessi che, come è stato dimostrato ieri, sono in realtà molto difficili da presidiare specialmente negli orari di udienza. La casistica potrebbe continuare: i clochard che stendono materassi e coperte sugli angoli dei terrazzi o addirittura sul tetto della palazzina - chiusa da tempo - che una volta ospitava il bar del tribunale, oppure gli extracomunitari che, dopo aver dormito nei dintorni del palazzo, hanno utilizzato i bagni del tribunale come un «diurno» in piena regola. Per arrivare all’episodio del coniglio, entrato nella «mitologia» del Palazzaccio savonese: si ride, ma non troppo. Accadde nel settembre del 2004: un giovane male in arnese, che spiegava a tutti di essere bosniaco di Sarajevo, peregrinò da un ufficio all’altro, chiedendo l’elemosina, e portando con sè un grosso cesto coperto da uno straccio. Qualche impiegato gli allungò pochi spiccioli, giusto per levarselo di torno: l’incasso dovette sembrargli insufficiente e a questo punto il giovane alzò il tiro: entrò in un’aula dove era in corso un’udienza, superò la balaustra e posò il cesto ancora coperto davanti a un esterrefatto giudice donna. Tolse lo straccio e mostrò al magistrato il contenuto del cesto: un coniglio vivo, vivacissimo. «Mi dà qualcosa per comprargli da mangiare?» fu la richiesta. E se al posto del coniglio ci fosse stato qualcos’altro? In molti, oggi, si chiedono se e come funzionano i metal detector dell’ingresso principale, se e come sono sorvegliate le uscite del garage e del pianterreno. E c’è chi teme che il prossimo episodio possa essere meno farsesco. Conigli e clochard, tossicomani e coppiette, ora anche evasioni in pieno giorno: il problema sicurezza, più volte sollevato dal procuratore capo della Repubblica Vincenzo Scolastico, è da ieri molto più serio. Anche perchè la gabbia dell’aula numero 3 mancava - come tutte le altre - di un piccolo, poco costoso ma determinante accessorio: un lucchetto per bloccare il catenaccio.
Varese. "Striscia" mette a nudo il Tribunale colabrodo. L'Ulivo attacca la Lega, scrive Varese News. E' entrato con un mestolo nella giacca, mostrando a milioni di italiani la realtà del metal detector che non funziona. Il Tribunale di Varese torna ad essere sotto accusa, per la mancanza di sicurezza. Non è bastato l'omicidio del 25 settembre - quando l'ex carabinieri Rosolino D'Aiello giustiziò la moglie durante l'udienza di separazione al primo piano dello stabile - per mettere fine alla realtà del tribunale colabrodo, ora evidenziata anche davanti a milioni di telespettatori. E se gli operatori della giustizia di Varese, che da anni si lamentano, non possono fare altro che ribadire le denunce, dalle forze politiche arrivano commenti irritati sulla situazione. Il portavoce cittadino dell'Ulivo, Alessandro Alfieri, se la prende con chi governa la città: «Alle promesse della Lega e dei suoi alleati su "Varese città sicura"- dichiara - , corrisponde la triste realtà del Tribunale di Varese in cui chiunque può entrare armato. Come Ulivo, abbiamo più volte denunciato il mancato funzionamento dei sistemi di controllo ed anche l’assenza delle condizioni minime di sicurezza intorno al Tribunale. Ai cittadini non interessa assistere al solito "scaricabarile" fra le Istituzioni, ma si aspettano che gli Enti competenti si assumano le proprie responsabilità e trovino finalmente una soluzione per garantire l’incolumità di tutti coloro che lavorano o si recano al Palazzo di Giustizia». Il tribunale di Varese è stato inaugurato un anno e mezzo fa dal ministro di giustizia Castelli. La guardiola di entrata risulta però sempre scoperta a causa di una mancanza cronica di personale. I vertici del tribunale hanno sottolineato più volte la situazione. Secondo Alfieri «sia il Ministro della Giustizia Castelli sia il Sindaco Fumagalli, entrambi esponenti della Lega, non hanno mai risposto concretamente» a quelle sollecitazioni. «E’ tempo che la Lega - conclude Alfieri - invece di perdere tempo con attacchi vergognosi alla Magistratura, si attivi per far arrivare i soldi necessari a realizzare un sistema di allarme e di sorveglianza efficace».
«Striscia» smaschera il tribunale insicuro. Incursione a Palazzo di giustizia: il metal detector è spento Il magistrato D' Agostino: «Il problema lo abbiamo segnalato da anni. La risposta? Manca personale», scrive Del Frate Claudio su “Il Corriere della Sera”. Gli intrusi armati di telecamera non sono passati inosservati all'occhio vigile di un sottufficiale dei carabinieri, ma solo dopo che avevano scorazzato in lungo e in largo dentro il palazzo di giustizia e stavano per andarsene. Troppo tardi. Che il tribunale di Varese non sia una fortezza inespugnabile è fatto noto da tempo, al punto che nel settembre scorso un uomo era entrato senza problemi armato di pistola dentro l'ufficio di un magistrato e aveva ammazzato l' ex moglie durante l' udienza di divorzio; ieri il tg satirico «Striscia la notizia» ha messo a nudo davanti a milioni di italiani le debolezze dell' edificio, mandando una sua troupe a compiere un' incursione tra aule e corridoi. I "guastatori" di Antonio Ricci hanno superato senza problemi il metal detector all' ingresso, che c'è ma è spento da sempre, nascondendo un mestolo sotto il cappotto; da lì hanno cominciato a girare indisturbati per tutto il palazzo, sono entrati in diversi uffici (compreso quello di un sostituto procuratore) lasciando qua e là bigliettini con la scritta «complimenti per la sicurezza»; analogo esito ha avuto una «visita» al parcheggio sotterraneo dove i magistrati lasciano le loro auto. Infine il mestolo, che avrebbe potuto essere un ordigno esplosivo, è stato depositato in una toilette. Solo quando il gruppo si è avviato verso l' uscita è stato notato da un carabiniere che ha identificato i componenti. «Volevamo dimostrare che qualunque malintenzionato può entrare in tribunale» fanno sapere dalla redazione di «Striscia». «Il problema della sicurezza esiste da anni - commenta Ottavio D' Agostino, magistrato varesino, subito dopo aver visto le immagini di Canale 5 - più volte abbiamo fatto presente la necessità di attivare il metal detector inutilizzato ma c' è sempre stato risposto che manca il personale per farlo funzionare. Speriamo che almeno questo episodio serva a cambiare la situazione». Ieri sera i telespettatori avranno sorriso vedendo il servizio sul tribunale - colabrodo ma la questione sicurezza nell' autunno scorso era balzata alla ribalta della cronaca in maniera drammatica, con l' omicidio avvenuto nella stanza del giudice civile Gabriele Fiorentino. Altri episodi, per fortuna meno gravi, hanno messo in luce la vulnerabilità del luogo; l' ultimo è di poche notti fa quando la polizia si è accorta che l' ingresso del parcheggio sotterraneo era aperto, così come una delle porte antincendio. Per fortuna si trattò di un falso allarme. Ora il servizio di «Striscia» ha sfondato una porta aperta. Non solo in senso metaforico.
Napoli, metal detector rotti e zero controlli. le Iene: è un tribunale colabrodo, scrive “Il Mattino di Napoli”. Un servizio tv per dimostrare come è facile entrare nel tribunale di Napoli senza controlli. Le Iene, con i loro armamentari di telecamere nascoste, sono entrate nel palazzo di giustizia napoletano superando facilmente i metal detector guasti da giorni. Un servizio nato dopo un'irruzione, da parte di ignoti, in un ufficio dell'antiabusivismo.
Avellino Tribunale, allarme sicurezza. Il presidente Rescigno: metal detector, problema da affrontare subito, scrive “Corriere Irpinia”. Nuovo allarme al tribunale di Avellino. Sono stati momenti di autentico panico. La scena, il palazzo di Giustizia. Protagonista, un trentatreenne avellinese, già gravato da precedenti di polizia. Ieri mattina è entrato all’interno del Palazzo. Per lui è stato facile, a quanto pare, l’accesso. Sappiamo che il sistema di sicurezza non è adeguato. L’uomo, mentre si trovava nell’androne del pianterreno ha repentinamente estratto un bastone di legno che teneva occultato sotto la giacca e si è diretto, con un improvviso movimento, contro alcune persone che si trovavano nei paraggi. Persone del tutto ignare, e che tra l’altro non conoscevano quell’uomo, né lui conosceva loro. Il tempestivo intervento dei Carabinieri della Compagnia di Avellino, al momento presenti all’interno del Tribunale, ha consentito di disarmare avventore che è stato bloccato. Condotto presso gli uffici del Comando Provinciale Carabinieri di Avellino, il trentatreenne è stato identificato e deferito in stato di libertà, per il reato di porto di oggetti atti ad offendere, alla Procura della Repubblica di Avellino diretta dal Procuratore Dr. Rosario Cantelmo. La notizia si è diffusa in un battibaleno, non solo negli ambienti giudiziari. Un fatto che riporta alla ribalta la precarietà del sistema del tribunale avellinese. “E’ sicuramente un problema di sicurezza, anche perchè da almeno sei mesi attendiamo che venga ripristinato il metal detector all’ entrata principale, per cui è stato già predisposto un servizio con la Polizia Penitenziaria". Il presidente del Tribunale di Avellino Michele Rescigno ammette che nella sicurezza del Palazzo di Giustizia ci sono delle falle, come ha dimostrato l’ episodio di ieri mattina. Alla presidenza del Tribunale però e alla stessa Procura non compete la gestione della sicurezza della struttura, che è prerogativa della Procura Generale di Napoli. Dopo questo episodio ci dovrà essere una accelerazione del lavoro già predisposto dalla Procura di Avelllino. Questa mattina ne parlerò con il Procuratore della Repubblica Rosario Cantelmo e per martedì convocherò una seduta della Commissione di manutenzione. Quello del metal detector non funzionante e un problema che impone di intervenire con urgenza". E quindi, come avevamo già scritto tempo fa, parlando di Tribunale "colabrodo" per la sicurezza, trova a distanza di mesi purtroppo riscontro con un episodio che fortunatamente, grazie al rapido intervento delle forze dell’ordine è stato bloccato. Sulla vicenda è intervento anche il presidente dell’Ordine degli avvocati, Fabio Benigni: «Quello della sicurezza è un problema che abbiamo posto da tempo, anche con una nota congiunta alle Autorità competenti. Ci sono stati due incontri in Prefettura e si è arrivati alla definizione di un piano per accessi controllati. Molto spesso avviene che ci siano soggetti che, ritenendosi senza fondamento lesi, tentano anche azioni contro gli uffici pubblici e credo che la sicurezza vada fondamentalmente garantita».
Pistoia Tribunale insicuro, il Comune: prima il Ministero ci rimborsi. Gli uffici del tribunale di Pistoia sono tra i meno sicuri della Regione, ma la vicesindaca Daniela Belliti chiama in causa Roma, scrive “Il Tirreno”. Gli uffici del tribunale di Pistoia sono tra i meno sicuri della Regione: a Palazzo Pretorio, sede del tribunale, e a San Mercuriale (ex pretura) si entra e si esce senza alcun tipo di controllo. L’allarme l’ha rilanciato nei giorni scorsi il procuratore capo Paolo Canessa, lamentando però che «qui nessuno ci ascolta». Il riferimento è ovviamente al Comune, che per legge è obbligato a mettere a disposizione degli uffici del Ministero della giustizia delle sedi adeguate, salvo rimborso delle spese. Ma dopo la risposta immediata dell’assessore Nuti (era alla stessa iniziativa di Canessa), arriva ora la replica della vicesindaca Daniela Belliti. “L’amministrazione comunale – scrive Belliti – fin dal momento in cui è stata investita del problema, si è impegnata a concorrere alla sua soluzione nell’ottica della piena collaborazione istituzionale, ma facendo presente in via preliminare due elementi: in primo luogo, la questione della sicurezza non rientra tra le competenze dei comuni, come stabilito in una circolare del 1994 del Ministero di grazia e giustizia, e riconfermata in una informativa urgente del governo del 2007; secondo, stiamo attendendo che lo Stato provveda al rimborso delle spese sostenute dal Comune per gli uffici giudiziari, come previsto dalla legge, nell’ordine dell’80%”. Il Comune fornisce anche alcuni dettagli. Finora Palazzo di Giano ha potenziato il sistema delle telecamere esterne. Un servizio di vigilanza privata costerebbe 70.000 euro annui, “che allo stato attuale potrebbero essere sostenuti solo comprimendo altre voci di spesa anticipate dall’amministrazione comunale nei confronti degli uffici giudiziari”. E in effetti dal 2010 al 2013 il Comune di Pistoia ha anticipato proprie risorse per coprire le spese di manutenzione e funzionamento degli uffici giudiziari per oltre 6,1 milioni di euro, ricevendo finora un rimborso di 1,6 milioni, cioè il 30% invece dell’80% previsto per legge. Solo nel 2013 il Comune ha speso 1,7 milioni, mentre il Ministero non ha effettuato alcun rimborso.
E' SICURO IL TRIBUNALE DI TARANTO?
INCHIESTA: Sicurezza nei tribunali di “Striscia La Notizia”
IN ONDA: 30 dicembre 2008
INVIATO: Fabio e Mingo
Dopo numerose segnalazioni sulla mancanza di sicurezza nel tribunale di Taranto, Fabio e Mingo decidono di simulare un attentato, con tanto di "provolone" targato "Striscia la Notizia". Gli inviati contano sul fatto che i tribunali dovrebbero essere dei luoghi super sicuri, sia per il numero di persone che per tutto ciò che vi si svolge ogni giorno all'interno. Per questo, utilizzando barba e baffi finti per non essere riconosciuto, Mingo decide di entrare nel tribunale e dirigersi verso un'aula per provare a posizionare un "provolone bomba". Così, opportunamente "travestito da pregiudicato", con barba, occhiali scuri, cappellino nero, telecamera nascosta e provolone, fingendo di parlare al telefonino, si dirige verso l'entrata principale. Quando passa attraverso il metal detector, il "Bip" di allarme non allarma nessuno e l'inviato passa tranquillamente. I corridoi sono molto affollati. Mingo, camminando, commenta: "Sono in corso diversi processi importanti e nonostante questo ci stiamo tranquillamente girando all'interno del tribunale. Non ci ha fermato nessuno". Quindi, sale le scale, dirigendosi direttamente verso l'aula più importante, su al primo piano. "Siamo al primo piano. Siamo entrati in un'aula, chiudiamo la porta. L'aula è vuota. Obiettivo raggiunto. Adesso arriva il momento di agire", e così dicendo piazza il "provolone bomba" nell'aula, proprio sopra la poltrona del giudice. A questo punto, il pericoloso malvivente alias l'inviato travestito alias il nostro Mingo, continua: "Ovviamente potevo posizionarlo anche sotto la poltrona e fra un po' far saltare tutto. Ricordo che ci sono due processi importanti in questo tribunale. E non ci ha fermato nessuno". Arriva il momento di andar via, finalmente, e tranquillamente come è stato nell'ingresso: il losco figuro riscende le scale, attraversa i corridoi invasi di gente ed esce. Poi si allontana indisturbato senza che nessuno apparentemente abbia nulla da dire. Ecco l'atteso incontro con Fabio. "Caro Fabio - esulta Mingo, togliendosi il travestimento - bisogna dire che l'impresa è compiuta. Siamo riusciti a piazzare un bel provolone bomba proprio in un'aula del tribunale, sulla poltrona del giudice. Nessuno mi ha fermato, né all'entrata né all'uscita. Tenendo pure conto che ci sono due importanti processi in corso...".
L’insicurezza, spesso, arriva dall’interno dei Tribunali ad opera dei funzionari che ivi ci lavorano. Fabio e Mingo «rubano» carte dal Tribunale di Bari. Gli inviati di Striscia realizzano un documento «choc»: entrano nella sede del Tribunale di Bari con baffi e barbe finte e si impossessano di un faldone delle cause in corso. Un fascicolo a caso, lo sfogliano, leggono i nomi dei protagonisti della vicenda e lo mettono nella borsa, scrive Manlio Triggiani su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Una mattina qualunque, verso le 10.30, davanti al Tribunale. Coppola, barba posticcia, occhiali, naso camuffato e impermeabile blu, con in mano una valigetta marrone scuro. Era credibile Mingo, al secolo Domenico De Pasquale che, nella trasmissione televisiva «Striscia la notizia» di ieri sera, ha dimostrato l’incuria nella quale vengono conservati documenti e atti del Tribunale di Bari. Travestito da anonimo avvocato, si è avviato verso l’ingresso del tribunale e, una volta lì, è passato sotto il metal detector che ha squillato, dando quindi l’allarme. Il vigilante c‘era ma nessuno ha fermato Mingo. Quell’importante mezzo per individuare i pericoli, suona. Ma forse avranno considerato inutile fermare la gente, inutile controllare. Quindi, logica vorrebbe, inutile il metal detector. Mingo prosegue nella scorribanda, va al Tribunale civile, si dirige al primo piano con fare discreto ma nello stesso tempo con passo spedito, gira per i corridoi, finché non entra in uno stanzone nel quale, su ampie scaffalature metalliche sono messi in fila i fascicoli delle cause in corso. Si guarda intorno ed entra: chiude la porta e a questo punto potrebbe fare qualsiasi cosa. Si impadronisce di un fascicolo a caso, lo sfoglia, legge i nomi dei protagonisti della vicenda e lo mette nella borsa che chiude rapidamente. Fa vedere che potrebbe andare via così, con un fascicolo. Si fa fotografare e riprendere dal suo amico che ha una telecamera nascosta. Ovviamente riapre la borsa e rimette a posto il fascicolo avvisando i telespettatori che avrebbe potuto tenere il fascicolo nella borsa. E decide di uscire dal Tribunale. Borsa chiusa, barba posticcia e occhiali neri, passo spedito. Di filato sino al piano terra. Prosegue e di lì esce dal tribunale senza che nessuno lo fermi, senza che nessuno verifichi nulla. È fuori, si toglie gli occhiali, la barba posticcia, sgrana gli occhi e commenta la beffa. Chiunque potrebbe entrare tranquillamente, anche senza mascherarsi, girare per il Tribunale, scegliere o cercare il documento che lo interessa e sottrarlo. Una persona non conosciuta, che non appare in tv, potrebbe anche andare senza travestimenti... Sottrarre un fascicolo è un danno tremendo, che arrecherebbe seri problemi ai cittadini in causa fra loro e agli avvocati che non potrebbero affrontare il caso. Secondo regola, ogni avvocato dovrebbe essere accompagnato da un usciere nella stanza dove sono custoditi i fascicoli delle cause in corso. Ma questo non avviene. Già la dice lunga il fatto che gli atti dovrebbero essere protetti, per una questione di privacy, non lo sono: chiunque potrebbe entrare e leggere gli atti, con tanto di nome, cognome, indirizzo, conoscere i fatti degli altri con estrema facilità. Per non parlare della possibilità che chiunque potrebbe avere, di far slittare una causa a chissà quando, come lo stesso Mingo ha sottolineato in apertura di servizio: basta far sparire il fascicolo e l’udienza salta. Salvo poi farlo riapparire in una data gradita a chi li ha sottratti.
Bologna e i fascicoli spariti. Saltano 2.321 processi. Riguardano udienze a citazione diretta con pena fino a 4 anni: furti, truffe, lesioni colpose, infortuni sul lavoro, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. Chiamatelo pure l'armadietto della vergogna. Un normale mobile da ufficio a due ante, addossato ad un muro nella cancelleria della Procura di Bologna. Anonimo, probabilmente grigio. A stupire è il contenuto, 2.321 fascicoli di indagine per i quali il Tribunale aveva fissato la data d'inizio del processo. Ma invece di procedere con le citazioni a giudizio, ovvero le notifiche alle parti interessate, quei procedimenti sono stati messi sotto chiave. Ad ingiallire fino al sopraggiungere, nella maggioranza dei casi, della morte naturale, ovvero la prescrizione. Senza che nessun pubblico ministero sentisse la necessità di chiedere dove fosse andata a finire la sua inchiesta. La somiglianza con l'originale si limita al contenitore. Il vero armadio della vergogna, quello che per quarant'anni nascose i fascicoli sulle stragi naziste in Italia, rivelò una storia di connivenze e volontà politica. Ma nel suo piccolo, anche l'omologo bolognese rappresenta qualcosa. La difficoltà della magistratura a fronteggiare carichi di lavoro crescenti. Oppure, una certa incuria da parte dei titolari di quei procedimenti e dei loro superiori che non può essere spiegata soltanto con le carenze di personale amministrativo e di mezzi. Dipende da come la si guarda. Come al solito, quando si tratta di giustizia. Quel che colpisce è l'entità dello spreco nascosto dietro a quella cifra. Prendere i 2.321 fascicoli, che riguardano processi a citazione diretta, che prevedono pene fino a quattro anni. C'è di tutto, furti, truffe, ricettazione, appropriazioni indebite, lesioni colpose, infortuni sul lavoro. La gran massa di quello che negli uffici giudiziari viene definito «ordinario », anche se le definizione non è lusinghiera per chi li ha dovuti subire, quei reati. In termini di «fatturato», è più di un decimo delle notizie di reato che si accumulano in un anno. Ogni dieci procedimenti, ne è andato perso uno. Adesso, moltiplicare 2.321 per il lavoro degli investigatori, i soldi spesi per perizie e intercettazioni. Tutto evaporato, tutto inutile, perché nessuno ha sentito il bisogno di prendere in mano quei fascicoli pronti per il processo. La scoperta avviene alla fine del 2008, nel mezzo di una ispezione ordinaria disposta dal ministero della Giustizia che si è conclusa soltanto a febbraio. La visita è dovuta all'eterno conflitto tra la magistratura inquirente bolognese e quella giudicante. La Procura accusa il Tribunale di lavorare a rilento, addirittura ignorando le richieste sempre più pressanti di fissazione dei processi. Addirittura quantifica il numero dei procedimenti per i quali ha chiuso le indagini e predisposto al citazione a giudizio, senza che venisse mai fissata l'udienza. Il Tribunale risponde con una parziale ammissione di colpa. Tutto vero, dice. Ma a noi risultano «solo» 8-9000 fascicoli, antecedenti all'anno in corso. Comunque tanti. Degli altri, quelli che mancano per arrivare a quota 11.000, non ne sappiamo nulla. Il mistero dura poco, anche se sul suo scioglimento le versioni divergono. Quella più romanzata prevede la scoperta dell'armadietto da parte degli ispettori ministeriali. In Procura sostengono invece di che si tratti del risultato di una indagine interna, avviata dal procuratore Silverio Piro, reggente dell'ufficio in attesa che il Csm trovi un successore a Enrico De Nicola, andato in pensione nel luglio del 2008. Comunque sia, 2.321 fascicoli per i quali i processi sono stati fissati, ma nessuno che in Procura abbia messo la firma per farli partire. L'incombenza spetta all'ufficio notifiche, ovvero alla cancelleria. La spiegazione della responsabile è disarmante. Non ce la facciamo, dice, a tenere questi ritmi di lavoro. E quindi ci siamo tenuti i fascicoli nell'armadio. Il danno, e naturalmente pure la beffa. Perché la scelta di «nascondere» alla vista gli incartamenti nasce dal ritorno sulla retta via del tribunale, che dopo tanti solleciti della procura, e un nuovo presidente, dall'inizio del 2008 ha cominciato a dedicarsi maggiormente al processo penale, cercando di «smaltire» il più possibile l'arretrato. Il nuovo e più virtuoso corso avrebbe però prodotto un curioso effetto collaterale, il crollo dell'ufficio udienze. Dopo la scoperta, la responsabilità delle notifiche è tornata di competenza dei pubblici ministeri. «A causa della delicatezza della questione», Piro sceglie di non commentare, limitandosi a sottolineare come con il tribunale «vi sia un clima di ritrovata armonia ». Le scuse ci sarebbero anche, i tagli alla giustizia, eccetera. E queste cose succedono anche altrove. Mai però con questi numeri, che lasciano lo spazio a parecchie domande. Per quale ragione si è scelto di delegare la gestione delle notifiche dei procedimenti «ordinari» alla cancelleria? Possibile che nessun magistrato abbia mai chiesto conto della sorte dei suoi fascicoli? E infine, perché da parte dei vertici della procura non è stato fatto alcun controllo? Gli ispettori del ministero hanno sentito il bisogno di un supplemento di indagine, sottolineando come il caso bolognese sia «abnorme». Vergogna forse no, ma le belle figure sono decisamente un'altra cosa.
GIUSTIZIA A ROMA. UNA GIORNATA COME TANTE. Giornata di ordinaria follia al tribunale di Roma tra prostitute, burini e magistrati oberati dall’obbligo penale. Luglio 14, 2014, scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Basta passare un giorno in aula giudiziaria per capire quanti oneri assurdi e pretese inverosimili gravano sulle spalle di pm e giudici. Come mai nel repertorio dei suoi elettrizzanti tweet Matteo Renzi sfiora appena quel filo che porta dritto al circuito mediatico-giudiziario? “Riforma della giustizia in 12 punti”. Così ha promesso il nostro ganzo leader. Se ne riparlerà in autunno. Ma intanto che ciofeca di hashtag è per un guascone che prende l’Europa con un «se si facesse un selfie sarebbe il ritratto della noia»? Paura di rimanere attaccato al filo, folgorato dal circuito? Sia come sia, può capitare anche al nostro simpatico incantatore di serpenti di ritrovarsi per caso, come è capitato alla canaglia che scrive, dentro l’iCloud del sistema giudiziario disegnato dalla più bella costituzione del mondo. Grazie a Dio, se sei solo un testimone (ma stai alla larga dai processi a Berlusconi), una volta di difesa, l’altra di accusa, puoi stare tranquillo: non corri alcun rischio di finire metamorfizzato in un insetto da espellere dalla società. Certo. Ricoprire ruoli opposti nel giro di qualche giorno, fa un bell’effetto. Specie se ti ritrovi rimbalzato tra Roma e Milano. In tribunali di due pianeti diversi. Come testi della difesa siamo stati convocati a Milano. Dove a dispetto dell’architettura fascista, l’amministrazione della giustizia sembra ispirarsi a una efficienza da tecnicalità ospedaliera. Entri al palazzaccio e, al di là dell’odore e sudore di carte, la sensazione è quella che puoi aver provato in un reparto di terapia intensiva. Convocazione alle 9 del mattino. Minuti di attesa in compagnia di persone stranamente in angoscia per essere testimoni della difesa. C’è un direttore di carcere («perché mi hanno convocato? Cosa ho fatto?») e c’è il pannelliano insolente («questi non sanno neanche chi è Beccaria, desolante che se ne siano impipati dell’amnistia»). Poi, come una botola, si apre la porticina dell’aula dell’udienza. L’impiegata fa l’appello, stila l’ordine di comparizione testi, prende nota di eventuali richieste. Arriva il tuo turno. Reciti l’orazione secondo verità, declini le generalità, rispondi ad avvocati e pm. Il giudice tace, non tradisce emozioni, ascolta. Incombe un silenzio da sala operatoria. Sbrigata la deposizione, vieni gentilmente accomiatato. «Si può accomodare». E sei messo alla porta con neanche una mosca che vola. Seicento chilometri più a sud è tutta un’altra musica. A Roma ci arrivi la sera prima. Pernotti. Non puoi fare altrimenti. L’udienza è fissata alla stessa ora, sullo stesso fuso orario della giustizia ambrosiana. Insomma, sono le 9 del mattino e nell’aula della cittadella giudiziaria capitolina non c’è anima viva. Passa un quarto d’ora e arriva un tizio che ha l’aria del mio pony fornitore di giornali. Ha una sua grazia nella strampalata t-shirt che indossa e nel trasportare una pila di fascicoli che finirà sulla scrivania della corte in un bel tonfo rimbombante per tutta l’aula. Verso le 9.30 si appalesano avvocati e altri tizi, seguiti da cai e semproni. In piedi, salutiamo la messa in moto della macchina giudiziaria: entra il giudice monocratico. Breve conciliabolo con il cancelliere. Partono le udienze. E il giudice sale in cattedra. Dirige il traffico delle domande dell’avvocatura. Azzittisce chi chiacchiera. Interroga i testi con puntiglio e vivacità oratoria. Giganteggia per autorità e competenza. Si avverte in lui addirittura un tocco di umanità e l’acume di non dare per scontato alcun elemento istruttorio. Insomma, ha un impianto da persona non supponente, cerca di capire, entra nei dettagli. Il problema è quella pila lì. Fascicoli che si affastellano sul suo tavolo senza una apparente logica. Delitti gravi e reati bagatellari sono sullo stesso piano e finiscono nello stesso ingorgo. È sufficiente lo spettacolo di una mattina di udienze romane per avere la fotografia della giustizia italiana. Che in virtù dell’obbligo dell’azione penale è come un gigante a cui è stato assegnato l’impossibile compito di risolvere tutti i conflitti e lenire tutte le disgrazie in seno alla vita di un popolo. E in più con un assurdo peso sulle spalle, gravando sul gigante-magistrato pure la faticaccia di traversare le sabbie mobili del giudizio alla luce abbacinante dei media. Che, inevitabilmente, heideggerianamente, invariabilmente, invece della trasparenza realizzano il rumore e l’oscuramento di tutto. Colpisce vedere un pubblico ministero caricato dell’intera casistica che passerà al vaglio della corte nel corso di questa giornata di prima estate. Come farà a studiarsi i contenuti della quotidiana pila di fascicoli e presentarsi a dibattimento in aula sapendo quello che fa, quello che dice, quello che chiede come sentenza? Quanto alla spicciolata di cause che scorrono sotto i nostri sensi, si comincia da una denuncia per violenza privata, rissa, danni per traumi fisici, psicologici, morali eccetera. La montagna si rivelerà il topolino di una baruffa chiozzotta tra donne. Con tre-quattro equipaggi di volanti intervenuti su segnalazione della titolare di una macelleria che testimoniano cose al limite dell’ilarità. A un certo punto spunta il mancato pagamento di una “prestazione”. «Scusi – fa il giudice al poliziotto – che genere di prestazioni?». «Beh, pare che una signora non avesse pagato la parrucchiera». «Ah, la parrucchiera. Ma che c’entra la macelleria?». «C’entra perché l’altra signora è l’esercente di carni e la rissa è avvenuta proprio davanti al suo negozio». «Ma ci sono stati feriti?», chiede il giudice a un altro poliziotto di una seconda volante presente sulla scena del delitto. «No». «Ah – riprende il giudice – non ci sono stati feriti… Dunque si è trattato di un alterco. È così?». «No – interviene il pm – è stato infranto un vetro e distrutto un telefono…». «Quale vetro e quale telefono?», incalza il giudice. In breve, dopo la sfilata delle volanti, l’assenza di feriti e nessun bollettino medico, si viene a sapere che il vetro infranto è in realtà un vetro scheggiato e il telefono di cui nessuno dei testi ricorda la tipologia è un cordless della macellaia che nella concitazione – non si è capito per colpa di chi e perché – è stato raccolto in pezzi a terra. L’udienza viene aggiornata a novembre. Sempre con lo stesso pm, ma con un diverso avvocato d’ufficio, segue il caso di una donna di colore che ha rubato due camicette in un grande magazzino. Di nuovo, sporta denuncia da parte del direttore del negozio, «anche se la signora si è mostrata collaborativa quando è stata scoperta e fermata dalla guardia privata», il pm non può far altro che rappresentare l’obbligo dello Stato a perseguire il reato. Risultato? Sentenza costituzionalmente ineccepibile e umanamente abominevole. La povera incensurata si becca sei mesi di carcere e 800 euro di multa. Segue vicenda notte magica italiana. Una bella, giovanissima e molto ben equipaggiata brasiliana è testimone d’accusa e parte lesa in una movimentata avventura notturna avuta con un giovanotto, iniziata in discoteca e finita prima a letto e poi a botte. Due sono le versioni. La bella sostiene che dopo essere stata convinta dal giovanotto a passare la notte con lui in cambio di un “regalo” (mille euro), già ubriaca di beveroni e dopo essersi fatta convincere a strafarsi anche di cocaina, al settimo rapporto sessuale ha detto basta, sono stanca, non ce la faccio più. Il giovanotto a quel punto, per non sapere né leggere né scrivere, avrebbe preteso la restituzione del “regalo” e pure le chiavi dell’automobile di lei». La bella descrive tutto nei minimi particolari. In estrema sintesi: «Intorno all’una di notte il tale mi ha avvicinato in discoteca e mi ha offerto il “regalo” in cambio della notte insieme. Saremo arrivati a casa mia alle tre, alle sei mi ha menata, è scesa la mia amica, gli ha spruzzato lo spray al peperoncino, lui è scappato, poi però mi ha chiesto scusa e mi ha restituito il regalo e le chiavi. Mi chiedeva di perdonarlo perché stava fuori di testa (“ho moglie e figlio”, diceva), poi la polizia se l’è portato via e io sono andata con la mia amica al pronto soccorso. Perdevo sangue dal naso. Avevo paura». Domanda il giudice: «E al pronto soccorso cosa le hanno detto? Dico, le hanno riscontrato ferite? Ha detto di essere stata presa a calci in faccia, è così?». «Sì, è così, ma il naso non era rotto e il medico mi ha dato una settimana di riposo». Versione della bestia (presunta). Ammette la nottata folle. Ma smentisce che abbia preso a calci la bella («che sennò cor peso che c’ho ’a sdrumavo»), la circostanza dei sette rapporti sessuali («ecche so’ Tarzan?!»), l’ora del fattaccio («ma quali tre de mattina, sarò arivato a’e cinque»). Poi si rivolge al pubblico forse cercando gli occhi della bella: «Aò, ma se stavo nudo sur letto, strafatto, t’ho visto che me rubbavi nei pantaloni…». Ma non fa in tempo a finire la frase che il giudice lo richiama: «Scusi, forse non ha capito, deve rivolgersi alla corte, non all’uditorio». Il ragazzotto cerca di biascicare una replica e il giudice stavolta si incazza: «E non mi dia sulla voce! Si limiti a rispondere alle domande! Ha capito?». L’imputato si stremisce e tace. «Le ho chiesto se ha capito. Ha capito?» «Sì, sì, signor giudice, me scusi…». Ed è come un pallone sgonfio che per un po’ risponde solo a monosillabi. «Sì, no, no, sì, sì, sì…». Ma toccato sul soldo arriva la scarica di adrenalina: «Eh no, giudice, ma quali mill’euri! So’ arivato da lei a’e cinque: e che je davo, mill’euri pe’ du ore? J’avrò dato trescento… mannò, che dico, saranno stati duscento ar massimo. Poi quann’ho visto ’a mano ’nfilata nella tasca dei pantaloni nun c’ho visto più: aò, j’ho detto, ma che stai affà?! E j’ho dato ’no schiaffo. E l’ammetto: pure ’no spintone, ma carci no». «Prosegua», fa il giudice un po’ scettico. «E che je devo dì? So passato prima da un amico a prenne i sordi». «Ma scusi, non aveva già con sé i mille euro del “regalo”?». «Vabbè, mica potevo annà ’ngiro senza sordi». «Ah, “in giro senza soldi”, dice lei», ironizza il giudice. «Sì vabbè, c’avevo questi mille, che poi duscento l’ho dati a lei, ma poi dar mio amico ne ho presi artri cinque-seicento e…». «Dunque, dopo che alla signorina ha restituito il “regalo”, aveva con sé altri cinque-seicento euro. Soldi che le servivano per cosa?». «Ma quali sordi? Quella nun m’ha ridato niente, so’ scese queste cor peperoncino, nun c’ho capito più niente, è arrivata ’a polizia e m’ha portato ar gabbio». «Ci sta dicendo che i soldi li ha lasciati nell’appartamento della signorina?». «Embè, io quelli nun l’ho più rivisti, là li ho lasciati, che tra peperoncino e strafatto di alcol e cocaina com’ero nun c’ho capito più niente». L’udienza viene aggiornata al 2015. Causa quarta e testimone d’accusa un’istruttrice di polizia. Il caso riguarda un automobilista fermato senza Rc auto. Seguiva verbale di sequestro dell’auto, apposizione dei sigilli, intervento del carro attrezzi, trasferimento del veicolo medesimo presso un box indicato dal proprietario dell’auto. Fatto avvenuto nel 2010. «L’anno seguente – prosegue il teste della polizia – nel corso di un sopralluogo constatiamo che all’indirizzo indicato non c’è alcun box e neanche il veicolo». Ennesimo obbligo di legge, scattano denuncia e processo a carico del proprietario. Processo che si attorciglia su carte, verbali, carri attrezzi e su chi ha firmato cosa e per conto di chi. La sostanza è che l’auto è sparita. Il pm conclude la sua breve requisitoria con una richiesta di assoluzione perché «non sappiamo dove è stato portato il veicolo, il box non è mai esistito, il bene è scomparso». Camera di consiglio: l’imputato è assolto. Siamo solo a metà mattina. Sotto i nostri occhi scorre la povera Italia. E potrebbe essere chiunque incappi in un colpo di testa, una disgrazia, nell’irruzione del male o del burocratese. C’è il marito che picchia la moglie un giorno sì e l’altro pure. C’è la vertenza per danni patrimoniali tra soci di una srl. Una per diffamazione a mezzo stampa e un’altra che non inizia nemmeno causa vizio di notifica. La giornata del giudice, del cancelliere, degli avvocati, dei testi e degli imputati, non è ancora finita quando lasciamo l’aula. Roma ci ha riconciliati con la legge. Roma non è il porto delle nebbie. Roma è la luce abbagliante sulla guida a fari spenti nella notte della giustizia italiana.
E poi ci meravigliamo della realtà che ci circonda, aliena ai controlli.
GIUSTIZIA ADDIO. Giustizia addio. Sette giorni nei gironi del Tribunale di Roma. Roma, Italia. In tempo di elezioni si parla solo di economia: della giustizia son se ne deve mai parlare. Un cronista ha vissuto per una settimana nei corridoi del palazzo di giustizia della capitale. Per raccontarne il disastro. Egli è Fabrizio Paladini di “Panorama”. Lasciate ogni speranza, o voi che entrate in un’aula di tribunale. Sarete fortunati non se verrete assolti, se otterrete il giusto compenso richiesto, ma anche se riuscirete a vedere la fine del vostro processo in questa vita. Per arrivare a una sentenza d’appello penale ci vogliono 1.646 giorni, 1.514 per una civile. Più il tempo necessario per ottenere una pronuncia della Cassazione. Complessivamente fanno 7 anni. Venerdì 25 gennaio, come accade da tempo immemorabile, il primo presidente della Corte di cassazione Ernesto Lupo inaugurerà l’anno giudiziario 2013 davanti al presidente della Repubblica. Il giorno successivo toccherà alle singole corti d’appello. Scoppieranno, come sempre, polemiche sui dati del disastro; ancora una volta terranno banco l’estenuante lunghezza dei processi, la loro quantità, le assurde lungaggini burocratiche. Alla data del 31 dicembre 2012 c’erano 3,4 milioni di cause penali pendenti e 5,4 milioni di cause civili. Quasi 9 milioni. E poiché ogni causa coinvolge almeno due persone, si capisce che almeno un terzo della popolazione italiana è interessato alla snervante lentezza della giustizia. Per «prepararsi» alla stanca cerimonia del 25 gennaio, Panorama ha trascorso una settimana nel Tribunale civile di Roma, il più grande d’Europa. I primi 2 giorni sono serviti quasi esclusivamente per orientarsi in questo autentico inferno, e questo nonostante l’assistenza di più di un Virgilio. Avvocati, cancellieri, giudici, commessi, semplici cittadini vittime di una giungla più intricata di quelle del Sud-Est asiatico. E, proprio come accade in ogni giungla, chi ha più spirito di iniziativa, inventiva, risorse economiche e tecnologiche, sopravvive. Gli altri affogano, risucchiati dalle sabbie mobili della burocrazia, dei cartelli incomprensibili, delle indicazioni fuorvianti, del personale impotente (quando ha voglia di lavorare) e indisponente (quando non ne ha). Ricordate l’Alberto Sordi di Un giorno in pretura? Non è cambiato molto da quel 1953. Anzi, nel film il pretore Salomone Del Russo, interpretato dal grande Peppino De Filippo, almeno si presentava in udienza con la toga. Oggi, nel tribunale civile della capitale d’Italia, non è raro vedere un giudice senza la cravatta (la toga proprio non ce l’ha nessuno) e negli uffici del giudice di pace c’è chi ha visto un «togato» addirittura in tuta e scarpe da ginnastica.
SE LA FILA RENDE LIBERI. Ma cominciamo dall’inizio. La fila delle anime dannate costrette ad andare all’ufficio notifiche inizia di notte. In realtà l’ufficio apre alle 8, ma se ti presenti a quell’ora i pochi numeretti disponibili sono già stati distribuiti. E allora al di qua dell’Acheronte, che poi sarebbe la sbarra di viale Giulio Cesare, le macchine dei dannati si dispongono in fila già alle 4 del mattino. Sono i ragazzi delle agenzie: giovani pagati (poco) per bivaccare fuori del tribunale e per mettersi in lista. Qui compare per la prima volta «il foglietto». Il primo che arriva prende una pagina bianca e scrive il suo nome. Poi il secondo. Poi il terzo e così via. Alle 8, rigorosamente nell’ordine del foglietto, si varca l’Acheronte e si va all’ufficio notifiche. Lì c’è la distribuzione dei numeretti, una specie di superenalotto: 120 sono riservati agli avvocati, 70 alle agenzie. In pochi minuti i numeri si esauriscono e inizia una nuova attesa. Quello della fila-fai-da-te è un classico. Davanti a ogni ufficio gli avvocati, i loro praticanti, le segretarie, le agenzie e i semplici cittadini che si illudono con il «faccio tutto da solo» compilano sul foglietto la loro lista. Uno scrive il proprio nome, il numero d’ordine, valuta l’attesa e se ne va a fare un’altra fila. Torna dopo un’ora, appena in tempo per la pratica di turno (l’iscrizione a ruolo, la copia di un decreto ingiuntivo, la copia di una sentenza...). Va detto che fra i disperati, almeno, vige un rispettoso codice etico e nessuno cerca di fare il furbo. In compenso, nell’era in cui se non hai uno smartphone sei un poveraccio, qui tutto funziona solo su carta, con la lista sul foglietto, senza numeretto elimina-coda che, quando c’è, è rotto. Quando hai finito la tua pratica, cancelli dal foglietto il tuo nome e dici al prossimo: «Tocca a te, abbi pazienza che oggi all’impiegata “je rode”».
VANNO BENE 6 MESI? Il «ruolo» invece è un foglio molto più pulito e ordinato: qui sono elencati tutti i processi della mattina di ogni giudice. Si fa udienza dalle 9 alle 12, ma il carico di lavoro individuale è impressionante. Il 15 gennaio, per esempio, il giudice Francesca Girone della IV sezione (esecuzioni mobiliari) ha 76 udienze. Il 17 il giudice Maria Cristina D’Angeli ne ha 71. Il 18 gennaio il giudice Luigi Argan ne ha addirittura 113: tutte regolarmente iscritte a ruolo. Un profano immagina, magari ripensando al film di Steno, il giudice di una volta, con la toga, che discute la causa, con l’imputato. Macché. Pensate al povero dottor Argan che deve esaminare (è, in verità, un verbo assai esagerato) 113 processi in 4 ore: sono 28 ogni ora, cioè 2 minuti e 12 secondi a udienza, altro che Usain Bolt. Pensi: «Non può essere» ed entri nell’aula. Ma il giudice non lo vedi, perché è assediato da decine di avvocati. Sono tutti lì a discutere (anche qui, si fa per dire) le loro cause, e il giudice sembra una dea bendata. Sulla sua scrivania c’è «il mucchio». A Roma viene chiamato così, in gergo, l’insieme dei fascicoli dei processi in discussione quel giorno. L’avvocato sceglie il proprio fascicolo, redige lui il verbale di udienza (il cancelliere non c’è mai) e più o meno ogni volta dice al giudice: «Propongo di fissare una nuova udienza per il prossimo incombente (si chiama così l’udienza istruttoria, ndr), il collega di controparte è d’accordo». E il giudice: «Vanno bene 6 mesi?». E si passa al successivo.
UFFICI APERTI (ANCHE TROPPO). Al tribunale civile l’accesso è libero. Nessun controllo. Ci sarebbero anche alcuni metal detector, però non hanno mai funzionato e sembrano più un monumento al magistrato ignoto. Chiunque può entrare, non solo nei corridoi. Anche in molti uffici, anche in quelli interdetti al pubblico, come le cancellerie. Qui vengono conservati i fascicoli originali di tutti i processi in corso, divisi per sezione e per giudice cui la causa è stata assegnata. Panorama è entrato nella sezione lavoro dove si discutono, in tempi biblici, licenziamenti, indennizzi, mobbing: primo piano, stanza 205, cancelleria dei giudici Bellini, Belli e Magaldi. Toc toc. Silenzio. Il cronista entra: non c’è nessuno e i fascicoli sono tutti lì. Si potrebbe prendere qualsiasi carta, gettarla dalla finestra, bruciarla, o più semplicemente nascondere sotto il cappotto il fascicolo che interessa. Si potrebbe rallentare ulteriormente la giustizia, danneggiare una azienda o un lavoratore. Nessuno si fa vivo. Sarà un caso isolato? Macché: stanza 221 (giudici Leoni e Cerroni), stanza 220 (Emili), stanza 224 (Foscolo), stanza 227 (Valle e Vincenzi). Per 2 ore nessuno disturba il cronista intruso. A Napoli hanno appena arrestato 26 tra avvocati e cancellieri che (in cambio di denaro) facevano opportunamente sparire i fascicoli dagli uffici. Qui a Roma si può fare lo stesso, senza spendere un euro.
LA «STAZIONE DEL DOLORE». In viale Giulio Cesare c’è un posto famoso chiamato «la stazione». È la sala d’attesa della sezione famiglia. Un posto squallidissimo, con il pavimento in linoleum tipo cinema a luci rosse con un po’ di sedie di legno di qualche decennio fa, disposte in fila contro il muro. Qui transitano le coppie in attesa di un’udienza di separazione o divorzio. I coniugi arrivano, ognuno con l’avvocato, pronti a consumare in quei pochi minuti la vendetta, il rancore, la rabbia per la fine di un matrimonio. Alla predominante civiltà fa eccezione, ogni tanto, il risentimento e quindi scoppiano liti, battute pesanti sulla moralità di ex mogli o nuove fidanzate. Gli avvocati di solito tentano la mediazione (a volte anche fisica), ma resta, nella costernazione generale, qualche scena da mercato rionale di cui il pubblico farebbe volentieri a meno.
OPERAZIONE MUCCHIO SELVAGGIO. Parla un cancelliere di una sezione del tribunale (niente nomi): «Qui manca tutto, le penne le portiamo da casa, la carta per le fotocopie pure. Perfino la carta igienica è razionata. La distribuiscono il lunedì e nei bagni è finita già di martedì. Noi ne imboschiamo qualche rotolo per le nostre necessità. Due o tre volte a settimana aspetto le 15 e vado, insieme a qualche collega disperato come me, nelle cancellerie delle altre sezioni, meglio se di un altro piano. Qui scatta l’operazione «mucchio selvaggio». Entriamo e prendiamo quello che ci serve. Ma il vero oggetto del desiderio sono i faldoni, quelle grandi cartelle di cartone dove si archiviano i fascicoli. Li svuotiamo del loro contenuto, lasciamo i fascicoli su un tavolo e ce li portiamo su. Incolliamo un foglio con scritto il nuovo nome della sezione e del giudice e li sistemiamo nei nostri archivi».
INABILE MA ARRUOLATA. In una cancelleria del primo piano serviva un commesso: qualcuno che portasse i fascicoli da un ufficio all’altro. Si dovrebbe fare con un carrello, però i carrelli non ci sono e il trasporto così avviene con le sedie dell’ufficio che almeno hanno le rotelle. Finalmente, dopo lunga attesa, il rinforzo è stato assunto. Ma dopo 2 giorni la ragazza in questione esibisce un certificato medico: lombosciatalgia. Non potrà sollevare pesi, né fascicoli di qualsiasi tipo. La giovane, è ovvio, non può essere licenziata e non può svolgere il lavoro per cui è stata assunta, ma ha una scrivania con un computer. Il suo livello di contratto, però, non le permette di accedere al sistema informatico: il computer è buono solo per andare su Google e giocare al solitario.
RADIO TRIBUNALE. Nel trionfo dell’arte di arrangiarsi c’è una lodevole iniziativa degli avvocati dell’associazione Movimento forense. Si chiama Radio tribunale. Dice Massimiliano Cesali, l’avvocato presidente dell’associazione: «Su Twitter indichiamo la situazione logistica, minuto per minuto, in ogni ufficio: file, pubblicazione delle sentenze... Insomma, cerchiamo di dare una mano ai colleghi (sono 24 mila gli avvocati di Roma, più tantissimi praticanti e segretarie, ndr) e ai cittadini a districarsi in questo inferno che è il tribunale». Radio tribunale ha 2.100 follower, che ogni giorno leggono e scrivono in base a quello che vedono: «Oggi computer rotti, non si riesce ad avere una copia di nulla» avvertivano alle 9 del 18 gennaio. «Ufficio decreti ingiuntivi: è entrato il numero 35 della lista» e così il 36 sa che tra poco tocca a lui. Gli avvocati hanno anche fatto di più: «Quando il presidente dell’Ordine era Antonio Conte, abbiamo assunto sei persone per smaltire le pubblicazioni delle sentenze presso il giudice di pace» continua Cesali. Se oggi stanno pubblicando le sentenze emesse nel giugno 2010, è anche merito loro. Sì, ci sono solo 2 anni e mezzo di ritardo tra l’emissione della sentenza e la sua pubblicazione. Siete ancora vivi?
Sei giorni, sei palazzi di giustizia. Per una settimana "L'espresso" si è infiltrato dentro il tribunale penale, la Cassazione, il Tar, il Consiglio di Stato, il tribunale civile e il giudice di pace. Dove un perfetto estraneo può "bucare" non solo gli archivi, ma le cancellerie con le carte di processi in corso, i cassetti dei pm e gli uffici dei dirigenti. Dove chiunque può spadroneggiare tra corridoi e stanze private, tra sottoscala e armadi con lucchetti rigorosamente aperti. Scoprendo che la giustizia è peggio di un formaggio groviera, un sistema insicuro dove stanze che dovrebbero essere supervigilate sono peggio di un self service all'ora di punta. Già. Nella capitale si può rubare e saccheggiare, distruggere verbali di udienza, fare sparire notifiche e bloccare così qualsiasi provvedimento. Piccole diatribe o cause miliardarie, è uguale: prendendo le carte giuste si possono mandare all'aria anni di lavoro di magistrati, e vanificare le indagini della polizia giudiziaria. Non ci credete? Eppure si può entrare nelle camere di consiglio dei magistrati a meno di un'ora dalla seduta, trovando sulla tavola i faldoni in disordine e pezzi di pizza ancora caldi. Per infilarsi in una borsa verbali di udienza ci vogliono 30 secondi, nessuno si accorge di nulla. Un normale cittadino può penetrare nella cancelleria e nell'archivio della corte d'appello e rovistare tra i fascicoli dei giudici, mentre segretarie gentili passano salutando. "Buongiorno". "Buongiorno a lei". Nessuno ferma gli sconosciuti, nessuno chiede niente. "Se in sede civile scompare un verbale d'udienza", spiega un magistrato, "il procedimento deve ripartire da zero, se porti via una notifica e il processo è vicino la prescrizione, c'è il rischio che i tempi per ricostruire il fascicolo siano troppo stretti. Il lavoro di anni può andare bruciato. C'è persino la possibilità che sicuri colpevoli la facciano franca". Nulla è cambiato dai tempi della causa Imi-Sir, quando la scomparsa di una semplice procura stava per far saltare un ricorso da mille miliardi di lire: i processi sono ancora di "carta", l'informatizzazione resta un miraggio. Per non parlare del rispetto della privacy: nei tribunali si può fotografare e filmare atti coperti da segreto istruttorio, leggere carte che raccontano le gesta di assassini e stupratori, annotare ogni dettaglio di cause da decine di milioni di euro o i fatti intimi di cittadini qualunque.
È un lunedì di ottobre, primo giorno. Tocca al Tribunale amministrativo del Lazio, il più grande l'Italia. I suoi giudici decidono il primo grado di ogni ricorso contro tutte le decisioni della pubblica amministrazione. Le sue sentenze sono fondamentali: solo negli ultimi giorni il Tar ha deliberato su business a sei zeri come il concorso del Gratta e Vinci, sulle graduatorie della scuola, su temi sensibili come il biotestamento e le cellule embrionali. Oltre ai processi che riguardano ogni cittadino, tipo quelle sui concorsi pubblici o il mobbing del capo. All'ingresso c'è un piantone, ma è come non ci fosse. È giorno d'udienza, la sala degli avvocati al secondo piano è piena di gente. A dieci metri ci sono gli archivi: la stanza 326, la stanza 307 della Seconda sezione. Le porte sono aperte: dentro vengono conservate sentenze di primo grado. Nei corridoi del terzo piano il cronista può leggere memorie difensive che riguardano vecchie contese tra Banca d'Italia, Holmo e Banco di Bilbao, può aprire armadietti con le chiavi attaccate alla serratura che traboccano di "ricorsi in attesa di rinuncia". Poi sfoglia una domanda di fissazione di un'udienza per una professoressa bocciata a un concorso, atti della sezione terza quater buttati in corridoio, un ricorso di una grossa azienda contro l'authority sulla vigilanza dei concorsi pubblici. Nella stanza 203, sembra quella di un giudice, oltre ai fascicoli c'è persino un'agenda personale. Anche la sala di consiglio è deserta: sul tavolo ci sono le carte di cinque consiglieri. Un dipendente sorride. Il cronista continua a scartabellare. Ha accesso a migliaia di fascicoli. Ne prende uno dove c'è scritto a penna che l'avvocato verrà a leggerlo, lo prende, si infila nel bagno, mette i fogli in uno zainetto, scende tre piani e va via. Si tratta di copie originali: se non avesse rimesso a posto il faldone prima di uscire, avrebbe bloccato il ricorso.
Martedì è il turno della Corte d'appello penale. Entrare da via Romeo Romei è facile, i controlli fanno ridere. Passando davanti ai carabinieri basta mostrare un tesserino qualunque. Di metal detector neanche l'ombra. Il palazzo è nuovissimo, i corridoi lindi, non c'è una carta in giro. Al piano terra c'è udienza, l'aula è piena come un uovo. Inutile provare a curiosare nelle stanze riservate ai testimoni, sono chiuse a chiave. Al primo piano, però, la cancelleria della sezione lavoro e previdenza e l'ufficio pubblicazioni sentenze sembrano una libreria Feltrinelli. Il via vai è impressionate. Ci sono carte (di primo grado) per cause che verranno discusse l'anno successivo, i fascicoli aperti del "presidente", quelli "in attesa di pubblicazione" del 4° e 5° collegio. Liti, diatribe tra società e dipendenti, abusi, c'è l'imbarazzo della scelta. Anche l'archivio è peggio del deserto dei tartari: l'infiltrato può far finta di rubarsi la sentenza penale contro un ragazzo di 17 anni, oltre a fogli originali del Tribunale dei minori.
Mercoledì l'agenda prevede un salto al Palazzaccio, la Cassazione. Il luogo dove nel 1992 si volatilizzò la procura dell'Imi. Un tipo scaltro può accedere dall'entrata secondaria sul Lungotevere: la guardia è distratta. Se va male, l'alternativa è passare per l'ingresso al pubblico, consegnare la carta d'identità dicendo che si vuole far visita alla biblioteca. Una volta entrati, è fatta. Il palazzo è enorme, si macinano chilometri tra scaloni e corridoi, ma ne vale la pena: in cinque ore si riesce facilmente a guardare le carte dalla cancelleria civile al primo piano, far scomparire ricorsi ancora caldi, bersi un buon caffè nel bar interno, entrare negli archivi più svariati, persino spulciare fascicoli lasciati nell'anticamera dell'ufficio procedimenti disciplinari. Un dirigente ha lasciato le chiavi della segreteria penale attaccate alla porta ed è andato a mangiare, aprire gli armadi pieni di documenti è un giochetto. Le sorprese non mancano nemmeno visitando i seminterrati: sotto la Cassazione tra motorini di magistrati e dipendenti c'è un enorme deposito di rifiuti speciali, migliaia di stampanti, computer, monitor e schede madri fatte a pezzi e gettate alla rinfusa nel corridoio.
Anche al tribunale ordinario di Roma, sezione lavoro, i cancellieri si contano sul lumicino. È giovedì. L'edificio è stato visitato due anni fa da "Repubblica". Nulla è cambiato rispetto all'inchiesta di Attilio Bolzoni. Anzi. Fregarsi il verbale di udienza, il cuore di un processo civile, è più semplice del previsto. Dentro le stanze delle cancellerie nessuno fa domande, si arraffa a piacimento, si può rubare indisturbati. Senza quel verbale (che si può facilmente far volatilizzare) la causa tra due parenti per un affare immobiliare andrebbe rifatta daccapo. Anche la stanza 114 è aperta al pubblico: dentro il guardiano non c'è, sulla scrivania giace una diatriba tra due fratelli e le vicende segrete di un ingegnere che non paga gli alimenti ai figli. Mentre il cronista aspetta che arrivi qualcuno a redarguirlo, ammazza il tempo aprendo fascicoli a caso.
Venerdì, si prova il doppio colpo. Prima si va a via Teulada, dai giudici di pace. L'inferno sceso in terra. Un flusso compatto di persone urlanti e sudate che quasi ti spinge nelle camere di giudici oberati e dentro cancellerie abbandonate, dove tutti possono fare il comodo loro. "Entrare uno alla volta", c'è scritto sulla porta. Come no. Liti condominiali, ricorsi alle multe, piccole cause civili, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Dopo un'oretta di pirateria della privacy, si tenta un'ultima tappa, il Consiglio di Stato. Dalle stalle, alle stelle. In teoria Palazzo Spada, uno dei più belli di Roma, dovrebbe essere protetto come Fort Knox. Qui 120 magistrati strapagati decidono le controversie che riguardano la pubblica amministrazione. Affari miliardari, o ricorsi contro le sentenze del Tar depositate da semplici cittadini. "L'espresso" ha fatto un sopralluogo qualche settimana prima: anche oggi i custodi e i carabinieri sembrano messi lì per bellezza. L'ascensore, piano meno uno, porta dritti all'archivio: non c'è anima viva, chiunque può leggere con calma i dettagli di cause di Vodafone, Consob, ministeri vari, Assitalia, Ferrovie e decine di altre piccole aziende. Su una porta gialla c'è scritto: "Si fa presente che per accedere ai locali dell'archivio generale occorre chiedere le chiavi di accesso al personale o ai carabinieri". Sarà un caso, ma la porta è aperta, le chiavi sono inserite nella toppa. Al primo piano, tra affreschi e mobili antichi, c'è la camera di consiglio dei magistrati della quarta sezione: sul tavolo decine di fascicoli appena dibattuti o da dibattere a breve, toghe spiegazzate, armadietti personali pieni di documenti. Sono spalancati. In giro non si sente volare una mosca. È mezzogiorno, il weekend si avvicina. All'uscita, ineffabile, il custode parla con il carabiniere. "Arrivederci ". "Buona giornata a lei".
Strage di Milano. I magistrati fanno le vittime ma non erano loro l'obiettivo. Subito dopo la sparatoria è partita la corsa a legare il fatto al clima d'odio contro le toghe. Ma nel mirino di Giardiello non c'era solo un giudice, scrive Orlando Sacchelli su "Il Giornale. Il giorno dopo la mattanza al Tribunale di Milano, con un uomo che ha fatto fuoco per tredici volte uccidendo tre persone, come spesso purtroppo avviene nel nostro Paese ci si è subito divisi in fazioni. E qualcuno (volutamente o no) ha strumentalizzato la vicenda, dimenticandosi una cosa molto importante: quando si verificano certi episodi a perdere è tutta la società, nessuno escluso. E non ci sono, non possono esserci, vittime di serie A e di serie B. Invece abbiamo assistito a qualche stonatura di troppo. Con parole a sproposito pronunciate a caldo, quando i morti ancora giacevano per terra, subito dopo la strage. Sono stati i magistrati i primi a fare quadrato, ergendosi a vittime, le prime vittime di quanto è accaduto. Eppure i morti sono tre, e oltre al giudice Fernando Ciampi, tra loro c'è anche un avvocato, Lorenzo Claris Appiani, e un'altra persona, Giorgio Erba, coimputato nello stesso processo a carico di Claudio Giardiello, autore della sparatoria. Il primo ad aprire le danze, ieri, evocando un clima infame da "caccia ai magistrati" è stato il giudice Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani pulite: "Temo che il sentimento che si nutre nei confronti della magistratura in questi periodi, questa sottovalutazione e svalutazione del ruolo, sia un’aria che contribuisce, ovviamente involontariamente, a rendere più facilmente possibile atteggiamenti mentali di questo tipo. Non faccio un collegamento diretto, certo è che la scarsa considerazione che a tutti i livelli hanno i magistrati toglie loro credibilità e in qualche misura li svaluta". Frasi su cui si può tranquillamente discutere. Ma, tralasciando il fatto che, lo ripetiamo, il killer non ha sparato solo a un magistrato, era proprio il caso di pronunciarle ieri, aprendo una polemica pochi minuti dopo la strage? Dopo Colombo il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha usato lo stesso "tasto". Dopo aver convocato un plenum straordinario del Csm per esprimere il dolore per quanto accaduto e onorare la memoria del giudice ucciso, prendendo la parola davanti ai consiglieri ha detto: "I magistrati sono sempre in prima linea e ciò li rende particolarmente esposti, anche per questo va respinta con chiarezza ogni forma di discredito nei loro confronti". Oggi alla commemorazione delle vittime a Palazzo di Giustizia, il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, ha ricordato che la strage "ha un valore simbolico", anche perché "troppe tensioni e troppa rabbia si raccolgono sulla giustizia e occorre richiamare tutti al diffuso rispetto verso la giustizia". Sulla stessa lunghezza d'onda il vice presidente del Csm Giovanni Legnini: "I magistrati non possono essere lasciati soli". Poi, dopo aver espresso un ringraziamento alla magistratura milanese, "che insieme alle istituzioni, ai cittadini, hanno dato una risposta ferma, addolorata e costernata ma serena", ha sottolineato che "questa è Milano e ci rappresenta tutti, rappresenta il nostro Paese". Molto toccante il ricordo della mamma di un'altra vittima, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani, intervenuta all’assemblea convocata dall’Anm nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano. "E' morto perché non è stato una marionetta" in mano al suo cliente, ha detto Alberta Brambilla Pisoni. "Sono la mamma di Lorenzo e Francesca, avvocato e giudice - ha esordito la donna, di fronte alla vasta e commossa platea - chi più di me può sentire la necessità che questi due mondi stiano insieme. Mia figlia è giudice fallimentare a Pavia, come lo è stato Ciampi per molti anni. Anche lei rischia come lui, ma oggi è morto mio figlio". Brambilla Pisoni, anche lei avvocato, ha rievocato il momento del giuramento del figlio: "Quando era venuto Lorenzo a giurare, il discorso di accoglienza lo fece l’avvocato Biagi, il quale diceva 'voi non dovete fare i ventriloqui, dovete avere la vostra testa e non dovete essere delle marionette, dovete fare quello che è giusto per il cliente...'. Lorenzo è morto perché non è stato una marionetta in mano a quelle persone. "Era orgoglioso del suo lavoro - ha proseguito - ci facevano tanta compagnia alla sera, veniva spesso a mangiare con me, perchè suo padre era spesso via per lavoro. Mi diceva sempre: Sai che il nostro giuramento è il più bello di tutti, è la cosa più bella, quando la formula richiama alla consapevolezza della funzione sociale dell’avvocato; senza di noi, mi diceva, non ci sarebbero la dignità, la famiglia, la comunità. Voglio che tutti gli avvocati siano orgogliosi - ha concluso la mamma di Lorenzo - della dignità della professione forense, solo così non sarà morto per niente".
Che strano! Una famiglia di geni. Tutti avvocati e giudici! C'è da chiedersi come si fa a nascere in certe famiglie e vincere tutti i concorsi pubblici e gli esami di Abilitazione?
Dura presa di posizione dell’Organismo unitario dell’avvocatura. L’Oua, che oggi ha riunito la giunta a Roma, chiede che si metta fine alle polemiche sterili, ricordando che nei tribunali lavorano fianco a fianco avvocati e magistrati, nonché tutti gli altri operatori del settore: "Sarebbe inaccettabile che si facessero differenze di fronte a un fatto tragico come questo: non esistono vittime di serie A e di serie B". "Evocare un clima contro i giudici - sottolinea in una nota l’Unione delle camere penali - è fuorviante e quantomeno inopportuno. L’omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con un’asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura. Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale questa. Avevamo rilevato che si trattava di un dramma per il quale si doveva esprimere il più profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e che colpiva avvocatura, magistratura e società nel suo complesso. Come bene ha detto il presidente della Corte di Appello di Milano Giovanni Canzio di fronte a episodi come questo occorre misurare gesti e parole e non è il tempo per rivendicazioni corporative o sindacali". A conferma del clima da caccia alle streghe e del "tutti contro tutti", per salvare credibilità (e faccia), spunta anche un'altra grave accusa. Quella di alcuni vigilantes in servizio al tribunale di Milano, che puntano il dito contro gli avvocati, accusandoli di non voler aspettare troppo tempo, di pretendere di entrare subito e in alcuni casi di far passare i propri clienti per evitare le code. La colpa, come si vede, è sempre di qualcun altro. Anche questo è un il solito brutto vizio italiano. La giustizia farà il proprio corso (almeno si spera) e Giardiello pagherà per quanto ha fatto. "Li ho uccisi per vendicarmi", ha detto subito dopo l'arresto. Non ha premuto il grilletto tredici volte per punire i magistrati. Ce l'aveva con tutti: con le regole, con i soci, con il suo ex avvocato (e con quello nuovo). Con lo Stato. E, forse, con il mondo intero.
Ed a proposito della tanto decantata sicurezza.
La privacy batte la sicurezza Le toghe rifiutano i controlli. Subito dopo l'attacco al tribunale, vertice urgente con esponenti del governo Consolo propone i tornelli e i badge agli ingressi ma i magistrati dicono no, scrive Luca Fazzo su "Il Giornale”. Il tribunale sotto choc, Milano e mezza Italia a domandarsi come sia possibile che un pregiudicato abbia potuto entrare armato nel Palazzo e che un'udienza di un processo come tanti altri si sia trasformata in un bagno di sangue. Ma alle due del pomeriggio di giovedì scorso, in una grande stanza dello stesso Palazzo di giustizia milanese, nella riunione d'emergenza convocata tra esponenti del governo e la magistratura milanese, si è toccato con mano quanto sia difficile trovare un accordo anche sulle misure più elementari per evitare il ripetersi di simili tragedie. Perché proprio quando è stata avanzata la proposta più apparentemente elementare, quella di installare un sistema di badge e di tornelli, da parte delle toghe è venuto lo stop immediato: «I badge non li vogliamo». Tutto accade nel grande studio di Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello milanese. Canzio era stato tra i primi ad accorrere sui luoghi della strage. Era entrato nell'aula della seconda sezione penale, ha visto il corpo ormai esanime dell'avvocato Lorenzo Claris Appiani, aveva visto l'imputato Giorgio Erba, ferito mortalmente ma ancora vivo; poi è sceso al piano inferiore, dove nella stanza 250 era riverso il corpo del giudice Fernando Ciampi. Ed è nello studio di Canzio che si ritrovano i massimi esponenti del governo con i vertici delle toghe. La riunione è affollata, ci sono almeno venti persone. Per il governo, i ministri dell'Interno e della Giustizia, Angelino Alfano e Andrea Orlando; con Orlando c'è anche uno dei suoi collaboratori più importanti, Santi Consolo, il magistrato che il ministro ha voluto alla testa del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Consolo è, per la sua stessa funzione, uno specialista di sicurezza. Non è un burocrate ministeriale, nella sua carriera è stato a lungo nelle procure generali di Palermo e di Catanzaro: due sedi giudiziarie di trincea, dove la protezione degli uffici dei magistrati e delle aule di giustizia è un tema delicato. Ed è lui, giovedì scorso, a lanciare la proposta di introdurre con effetto immediato a Milano un sistema di controllo elettronico degli accessi. È una proposta che può apparire quasi scontata: anche perché in quel momento è già chiaro (ne parlerà poco dopo il procuratore Edmondo Bruti Liberati in conferenza stampa) che proprio l'errore umano di un addetto al varco su via Manara ha permesso a Giardiello di entrare in tribunale con una calibro 9 e due caricatori. Ma contro l'idea di Consolo si alza immediata l'opposizione dei magistrati. In particolare di quelli della Procura generale, ed è un elemento decisivo perché proprio la Procura generale ha la responsabilità di gestire la security degli uffici giudiziari. Gli appalti (compresi quelli per la vigilanza ai varchi, al centro delle polemiche) vengono gestiti dal Comune, ma i criteri a cui si debbono attenere sono dettati dalla Procura generale. «I badge non li vogliamo», dicono le toghe. Consolo e anche il ministro faticano a capire. Come si è visto giovedì scorso (e come sa bene chiunque ne conosca la complicata struttura interna) il palazzo di giustizia milanese all'interno è quasi impossibile da tutelare, ma ha un grande vantaggio: ha solo quattro accesso pedonali e tre accessi carrai. Un sistema di varchi elettronici costerebbe forse un quarto di quanto oggi si spende per il servizio di vigilanza e «portierato». Certo, per essere efficace dovrebbero sottostarvi tutti coloro che vi lavorano: cancellieri, avvocati, e anche i magistrati, i cui accessi verrebbero registrati elettronicamente: e i rappresentanti del governo hanno avuto l'impressione che i badge vengano considerati dai giudici una minaccia per la loro privacy. Ogni giorno a Palazzo di giustizia di Milano entrano oltre 5mila persone. Ma si arriva a picchi doppi.
Incredibile vittimismo. Strage al Tribunale, Mario Giordano su “Libero Quotidiano”: "I giudici usano il massacro per regolare i conti". Usano cadaveri ancora caldi per una polemica corporativa. Fra i tanti orrori della magistratura italiana, adesso c’è anche questo: la strage di Milano non era nemmeno ancora chiarita in tutti i suoi aspetti, e già Gherardo Colombo aveva trovato il colpevole: il «brutto clima» creato da chi osa criticare i giudici. Lui ha dettato subito la linea, e gli altri gli sono andati a ruota: prima il presidente della Repubblica Mattarella («Bisogna respingere il discredito contro i magistrati»), poi il presidente dell’Anm Sabelli («Troppa tensione e troppa rabbia sulla giustizia»), poi il presidente del Csm Legnini («I magistrati non possono essere lasciati soli»). Come a far passare l’idea che quel pazzo assassino abbia preparato la carneficina dopo aver letto qualche editoriale garantista di Filippo Facci o Paolo Liguori…Questa versione dei fatti, che stanno cercando di imporre a suon di esternazioni, la dice lunga sullo squilibrio che regna nei palazzi di giustizia, dove l’ultracasta togata evidentemente ha perso ogni contatto con la realtà. Quello di Milano, infatti, è stato un attacco alla categoria dei magistrati tanto quanto lo è stato a quello degli avvocati o dei commercialisti o dei testimoni o dei nipoti. Claudio Giardiello, l’imprenditore fallito, non ce l’aveva con i giudici: ce l’aveva con il mondo. E infatti contro il mondo ha ripartito la sua rabbia senza differenze e senza preferenze, tanto da colpire persino un membro della propria famiglia. E allora ci sarà qualcuno che si leva a dire: «I nipoti di Giardiello non possono essere lasciati soli?». Palazzo di giustizia, per altro, non è il cortile dei pm, il privé delle toghe, ma un luogo pubblico, di tutti i cittadini. Infatti sono stati i cittadini ad essere stati colpiti. E allora perché i giudici vogliono accaparrarsi l’unicità della sofferenza? Perché pretendono di essere le "vere" vittime? La pratica del protagonismo li ha ubriacati fino al punto da voler addirittura soverchiare il dolore degli altri? Se davvero solo i giudici sono nel mirino - come sostengono - come si spiega che una mamma avvocato stia piangendo il proprio figlio avvocato? E perché un figlio ventenne piange un padre che aveva un autolavaggio a Monza? Forse anche la categoria degli autolavaggi è particolarmente nel mirino come quella dei giudici? C’è un clima d’odio contro i proprietari di spazzoloni e asciugatori per interni in pelle? Se poi proprio dobbiamo dirla tutta, i magistrati prima di cercare colpevoli altrove, dovrebbero provare a fare un po’ di autocritica: il sistema di sicurezza del palazzo di Giustizia, come è noto, è affidato al Procuratore Generale. Tocca a lui stilare i piani di protezione e chiedere uomini e mezzi al Comune. Ed è evidentemente il piano di protezione che non ha funzionato. Per questo sono stati colpiti un avvocato, un testimone, un nipote, un commercialista, l’intera città di Milano, la popolazione italiana. E un magistrato. Tutti vittime allo stesso modo di errori umani, magari pure degli errori dei magistrati. Non certo di un clima. Che c’entrano infatti la «tensione e la rabbia sulla giustizia»? Perché tirarle in ballo a sproposito? Fra l’altro tutti dicono che Fernando Ciampi fosse una persona rigorosissima e serissima. E ancor di più, allora, appare terribile l’uso del suo cadavere per una battaglia politica, o peggio corporativa. Per orchestrare una campagna in favore della categoria. Magari solo con lo scopo di difendere qualche privilegio. O, peggio, l’integrità delle ferie estive.
All'origine di ogni forma di corruzione. Responsabilità, ma dov’è finita? Si domanda Donatella Di Cesare su “Il Corriere della Sera”. Oggi nessuno vuole più rispondere di nulla ma chi scarica sugli altri ogni fardello nei fatti si dichiara sostituibile e superfluo. «Non ne rispondo io — mi spiace». «Che si assuma la responsabilità chi di dovere!». «Sarà il caso di passare la palla ad altri». Quante volte al giorno capita di ascoltare frasi del genere? O persino di pronunciarle? Sfuggire alla responsabilità è una prassi diffusa nella vita privata come nella sfera pubblica. Dai piccoli gesti della quotidianità ai rapporti affettivi, dai legami sociali all’agire politico: non c’è ambito che non sia pervaso da una rinuncia sistematica alle risposte che ciascuno è chiamato a dare. E la rinuncia finisce per volgersi in vera abdicazione là dove le responsabilità aumentano. Gli esempi sono molteplici: l’insegnante acquiescente che chiude gli occhi sulla prepotente bullaggine dell’allievo; il giornalista che sceglie sbrigativamente la parola più comoda o passa sotto silenzio quel che dovrebbe dire a gran voce; il magistrato che strizza l’occhio agli imputati, proscioglie quando dovrebbe condannare, allunga i tempi del processo fino alla prescrizione; il medico che tratta il paziente come un corpo malato, tra disattenzione e volontà di lucro; il politico che, mentre dovrebbe sollevare lo sguardo verso il bene comune, è chino sul proprio tornaconto. La rinuncia ad assumere le proprie responsabilità erode ogni relazione, corrode la comunità. La corruzione nasce da qui. È un fenomeno etico, prima ancora che politico. Questo non vuol dire né diluirne la portata né ampliarne pericolosamente i confini. Ma non sarà mai possibile vederne con chiarezza gli effetti devastanti, se non si risale a quel luogo in cui la corruzione affiora. Ed è là dove il legame con l’altro si deteriora, dove chi dovrebbe rispondere preferisce sottrarsi. L’io si deresponsabilizza. Chiamato in causa, non si assume l’onere della decisione, e aggira l’impegno, evade l’obbligo che lo lega agli altri. Così apre una falla, una incrinatura. E mentre una crepa si aggiunge alla precedente, la comunità, inevitabilmente, si sgretola. La corruzione non sta solo nelle mazzette — simbolo del disfacimento che prevale, dell’integrità che viene meno. Una comunità corrotta è quella i cui membri non rispondono di sé e non rispondono agli altri. La leggerezza inebriante di cui si compiace l’io deresponsabilizzato è a ben guardare una trappola. Chi ha eluso il fardello della responsabilità, crede di averla fatta franca. Si prepara a schivare così tutti i fardelli a cui andrà incontro. L’onore senza l’onere diventa il suo stile di vita. Ma ogni volta che l’io abdica, che lascia agli altri la responsabilità a cui era stato chiamato, crede, e fa credere, di essere sostituibile. «Perché mai dovrei risponderne proprio io? Che se la veda qualcun altro!». Può darsi che il «qualcun altro» che viene dopo si comporti in modo analogo — in un continuo rinvio, un incessante riversarsi a vicenda pesi e obblighi. Eppure nessuno è sostituibile. La responsabilità che incombe su di me, in questo momento, non può essere ceduta. Se la cedo, non solo apro una falla, ma accetto l’idea che qualcuno potrebbe rimpiazzarmi. Mentre nessuno, mai, può farlo. L’io deresponsabilizzato ammette invece di essere sostituibile, avvalora la sconcertante ipotesi della propria superfluità. Si crede in genere che la responsabilità sia un gesto ulteriore di un soggetto autonomo e sovrano. Nella sua superba priorità questo soggetto, privo di vincoli, detterebbe legge a se stesso. Ma che cosa sarebbe l’io senza l’altro che sempre lo precede? Il mondo non è cominciato con me. Prima di me c’è sempre l’altro che mi convoca, mi interroga, e a cui sono chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria — valutando se dire sì o no. Ma semplicemente volgendomi verso chi mi chiama. Prima ancora di ogni possibilità di scelta, perché è nella torsione verso l’altro che l’io si costituisce. Rispondo, dunque sono. Senza la responsabilità, l’io non esisterebbe neppure. La mia esistenza si coagula ogni volta nell’obbligo che mi vincola all’altro. Se eludo l’obbligo, gli effetti ricadono sul mio stesso esistere. La leggerezza inebriante si rivela inconsistenza angosciosa. E quel detestabile io, che pretendeva di essere soggetto assoluto, rischia di restare tragicamente intrappolato nella sua errata idea di libertà astratta, senza più via d’uscita. I filosofi non hanno mai parlato tanto di «responsabilità» come in questi ultimi decenni. Con Emmanuel Lévinas e con Hans Jonas la responsabilità è diventata, anzi, uno dei temi più discussi nel dibattito contemporaneo. Il che non sorprende. Perché viviamo nell’epoca di una crescente deresponsabilizzazione. La complessità del mondo globale, la rilevanza assunta dalla scienza che, malgrado i progressi compiuti, appare sempre più incapace di offrire un orientamento e dar conto delle sue stesse scelte, la specializzazione estrema e il connesso ruolo dell’«esperto», al quale viene spesso lasciata la parola ultima, la frantumazione della responsabilità, che impedisce di scorgere le ripercussioni dei propri gesti: tutto ciò ha contribuito a privare i più della possibilità di decidere e di agire. È la razionalizzazione tecnica della vita a influire, però, in modo determinante. Dove trionfa la tecnica viene meno la responsabilità. Non solo perché l’essere umano è diventato «antiquato» rispetto ai suoi stessi prodotti, costretto — come ha sostenuto Günther Anders — a rincorrerli disperatamente, nel tentativo vano di sincronizzarsi alla loro disumana rapidità. Ma anche perché l’ingranaggio della tecnica stravolge il rapporto tra mezzi e fini, nel senso che potenzia i mezzi e fa perdere di vista i fini, sia quelli individuali, sia quelli comuni, che rendono coesa una comunità. Si è in grado di fare molte più cose, ma non si sa bene a che scopo. Così, mentre si moltiplicano le etiche applicate, dalla bioetica all’«etica degli affari», volte non di rado a rassicurare l’opinione pubblica sulla moralità di un settore, ad esempio quello delle imprese, mentre dunque l’etica può diventare a sua volta fonte di profitto, la «responsabilità» resta la terra incognita di questa tarda modernità, la stessa che abita un pianeta devastato, dove nulla sembra ci sia ancora da scoprire. La responsabilità è infatti rispetto sia per gli altri, sia per quell’altro che sono le cose del mondo. Da quando gli esseri umani sono diventati più pericolosi per la natura, di quanto la natura fosse per loro, si rende necessaria un’etica che risponda all’esigenza di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile. Sono responsabile non solo verso l’altro che sempre mi precede, ma anche verso l’altro che viene dopo di me. E guardando al suo futuro non dovrei allora mai mancare di chiedermi se anche il più piccolo dei miei gesti non avrà ricadute su di lui. Proprio quello che non mi riguarda richiede la mia attenzione. Solo io sono responsabile — sta qui la suprema dignità umana.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Per l'Europa è tortura anche il carcere duro. I forcaioli che dicono?". Se fosse introdotto il reato di tortura allora dovremmo abrogare anche il 41 bis, il cosiddetto carcere duro: come la mettiamo? Il paradosso è decisamente sfuggito all’ampio fronte che ieri ha plaudito alla decisione della Corte Europea di condannare l’Italia per il reato appunto di tortura, che da noi non esiste: ed è interessante che trattasi dello stesso fronte che considera il 41 bis come un moloch sacro e intoccabile, anzi, vorrebbe estenderne l’applicazione. Tocca citare il solito Fatto Quotidiano (che ieri ha ufficialmente scoperto la Corte Europea per i diritti umani) ma anche il Corriere della Sera e nondimeno ampi settori del Pd, tutta gente che invoca una legge che sembra eternamente pronta, sempre in dirittura d’arrivo: ma di cui, di fatto, si parla e basta dal 1984, anno in cui l’Italia firmò la convenzione Onu contro la tortura. La condanna del 2008 - E quel che non si ricorda - dicevamo - è che la stessa Corte Europea ha condannato lo Stato italiano per il regime del 41 bis: il 16 gennaio 2008 fu deliberato che quel regime violava due articoli della Convenzione, al punto che l’avvocato del ricorrente dichiarò che «il 41 bis è una Guantanamo italiana». Ma non c’è solo la Corte Europea. Più di un giudice statunitense, negli anni passati, condannò il carcere duro all’italiana come un regime di detenzione al quale la giustizia americana non voleva prestare il fianco. Uno dei casi più noti risale all’11 settembre 2007, quando un magistrato di Los Angeles negò l’estradizione in Italia del narcotrafficante Rosario Gambino - che aveva già scontato 22 anni - perché a suo dire il 41 bis aveva caratteristiche «che costituiscono una forma di tortura» e violavano la convenzione delle Nazioni Unite in materia: le stesse motivazioni della Corte Europea. Ma le fonti sono anche altre: basta rileggere i rilievi del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, quelli di Amnesty International, così pure i rapporti degli ispettori europei che visitarono il nostro sistema penitenziario: nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) disse che il 41 bis italiano era risultato il più duro tra tutti quelli esaminati dagli ispettori: la delegazione parlò di trattamenti inumani e degradanti che potevano tradursi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Ultime ma non ultime, ci sono le denunce solitarie e puntuali di Amnesty Italia e di Nessuno tocchi Caino. Risale a meno di due settimane fa, poi, la denuncia del senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Ecologia e Libertà: «Se la ratio del 41 bis resta quella di costringere al pentimento, allora è una tortura». Celebrazioni selettive - Insomma: questa celebrazione selettiva delle sentenze della Corte Europea - soprattutto da parte del fronte forcaiolo - può diventare imbarazzante, perché è la stessa Corte che ci ha condannato non solo per il 41 bis (tortura anche quella) ma anche per durata eccessiva dei procedimenti e per il sovraffollamento carcerario. Da non confondere con la Corte di giustizia europea, quella che nel novembre 2011 ha detto che dovevamo aggiornare la norma sulla responsabilità civile dei giudici. Morale: è un attimo santificare le cortei e trovarle, subito dopo, tremendamente impiccione.
Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa. Dal dirigente convinto che Borrelli fosse un clone al «vendicatore» che suonava «Bella ciao» Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici. Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi. É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni. Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irriferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero. Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni. Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?
A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»
I magistrati sanno solo dire: “Lei non sa chi sono io?”
Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi? ». « Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia,dove però il gip ha archiviato.
Se invece succede qualcosa di cui loro sono responsabili se ne escono a “Coppe”.
Come ha fatto Giardiello a entrare armato nel Palazzo di giustizia? “E’ veramente qualcosa che non riesco a spiegarmi – spiega a SkyTg24 il giudice Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite – sia l’entrata per il pubblico, sia quella per avvocati e magistrati sono controllate in modo rigoroso. Non so proprio spiegarmi come possa essere stata introdotto una pistola all’interno del Palazzo”. “Sono frastornato e sconvolto – ha detto ancora Colombo – conoscevo personalmente il giudice Ciampi, che si possa morire così, mentre si sta svolgendo il proprio lavoro, è assurdo”. Un episodio del genere è rivelatore “di un clima che c’è oggi contro la magistratura – ha detto ancora il magistrato – non dico che vi sia un collegamento, me ne guardo bene, ma certamente questa continua sottovalutazione del ruolo, di svalutazione dei magistrati, contribuisce a creare un clima. Quanto è successo è terribile”.
Neanche la morte è uguale per tutti. Dal capo dello Stato a Di Pietro: cordoglio solo per il giudice ucciso. E nessuno si "ricorda" del giovane avvocato morto Vaglio (Ordine avvocati di Roma) "Spero che non mancherà di ricordare il collega" Tagliaferri (Camera penale Roma): "Tutte le vite hanno lo stesso valore", scrive Luigi Garbato su "Il Tempo". Onore a Fernando Ciampi, magistrato morto ammazzato a Milano per mano di un uomo fallito, in tutti i sensi. Il capo dello Stato ha reso omaggio alla memoria del giudice ma ha ammonito: "Basta discredito sulle toghe». Antonio Di Pietro, con lui i soliti noti, tra un Fatto e l’altro, è apparso in tivvù e ha accusato il sistema, governanti e affini, di avere allestito, in questi ultimi vent’anni, un attacco feroce alla magistratura; il morto di Milano, dunque, sarebbe il conto da fare pagare non soltanto all’omicida Giardiello, in galera a vita mi auguro, ma al resto della ciurma, di giornalisti e folla di piazza, che si è scagliata contro i depositari della giustizia. Invece di ammettere le proprie colpe, sostiene Di Pietro, si preferisce accusare chi è chiamato a correggerle e a punirle. Verissimo ma, a volte, l’ammissione dovrebbe essere reciproca e non risulta, agli atti e agli archivi, che nessun magistrato finora abbia pubblicamente dichiarato un proprio errore, chiedendo almeno scusa al condannato senza colpa. Ma questo nulla toglie alla gravità dell’evento e alle vittime della pazzia (Di Pietro, in verità, sostiene che l’azione di Claudio Giardiello non sia stata un atto di improvvisa follia ma un disegno studiato, preparato e realizzato ad arte). La domanda sorge spontanea: come mai Mattarella, Di Pietro e gli altri di cui sopra, non hanno fatto un accenno, così anche per distrazione non dico per cordoglio, a Lorenzo Claris Appiani, l’avvocato ucciso anche lui nelle stanze, buie e sporche, del Palazzo di Giustizia milanese? Forse perché la morte di un avvocato ha un valore inferiore a quella di un giudice? Forse perché nei confronti della categoria degli stessi avvocati, o di quella dei medici o, ancora, di quella dei giornalisti, uccisi anch’essi negli anni di piombo e ancora oggi, non ci sia stata mai, in questi ultimi vent’anni, una strategia della tensione e dell’odio? O forse perché se muore un avvocato non fa notizia come, invece, accade quando a morire è un giudice? Allora la casta si ribella, chiama all'ordine il Paese tutto, interviene anche il Capo dello Stato che chiede rispetto per le toghe. Ma la toga di un magistrato è differente da quella di un avvocato in giudizio? Chi non la indossa vada pure all'inferno, si limiti a registrare un cenno di cronaca e una carezza ai parenti e sappia che la sua morte passa in secondo piano, anche nei titoli dei tiggì e dei giornali. Dopo il martirio, in esclusiva, si esige la beatificazione del magistrato. Fernando Ciampi non ha alcuna colpa di questo vociare opportunista. Lorenzo Claris Appiani non sapeva che, se la legge è uguale per tutti, la morte ha la facoltà di distinguere. Parola di giudice. Non di Dio.
L'ira degli avvocati contro i giudici "Per loro siamo le vittime di serie B". Dopo la sparatoria in tribunale, i legali protestano per l'eccessivo protagonismo delle toghe: "Fuorviante parlare di clima antimagistrati, ci siamo anche noi", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Anche in mezzo a una tragedia, c'è chi cerca di rubare la scena agli altri. E mentre tutti parlano di «attacco alla magistratura», gli avvocati insorgono: «Non esistono vittime di serie A e di serie B». L'Organismo unitario dell'avvocatura si appella al Capo dello Stato Sergio Mattarella, perchè «si contrasti anche la campagna denigratoria contro l'avvocatura in corso da anni, non solo quella rispetto alla magistratura». Stessa linea dei penalisti: «Evocare un clima contro i giudici è fuorviante e quantomeno inopportuno», dicono, per un fatto «attribuibile a una lucida follia, frutto forse della disperazione e di un disagio sociale». La nota dell'Unione Camere Penali parla chiaro: «Sul processo, civile o penale che sia, si scaricano tutte le tensioni e le aspettative sociali, il che rende più vulnerabili i suoi protagonisti, senza nessuna distinzione». Per i penalisti, «l'omicida ha espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura». In quell'aula del tribunale di Milano, diventata la scena del crimine, è caduto sotto i colpi di un imprenditore folle un ragazzo biondo di 37 anni, il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani. Quando il padre e la madre, avvocato pure lei, sono entrati nella sala del palazzo di Giustizia per la sua commemorazione, ne uscivano i neoavvocati che avevano prestato giuramento. Come Lorenzo, solo pochi anni fa. Gli applausi e le lacrime, più ancora dei discorsi, ricordano quel momento. Un entusiasta avvocato agli inizi di una carriera che si prometteva brillante e uno stimatissimo magistrato, Fernando Ciampi, che a 71 anni si avviava alla sua conclusione: due vittime della strage che sono, devono essere, sullo stesso piano. Lo dice anche l'ex Guardasigilli, l'avvocato Paola Severino: «Questo episodio raccapricciante ha riguardato giudici, ma anche avvocati e testimoni. Tutti coloro che contribuiscono alla formazione di una sentenza e della giustizia devono essere tutelati». Sottolinea il presidente Oua, Mirella Casiello: «Sarebbe inaccettabile che si facessero differenze di fronte a un fatto tragico come questo. L'avvocatura, da anni, subisce una continua campagna di denigrazione, si viene dipinti come azzeccagarbugli, come lobby di affaristi e compagnia cantando. Non vengono discreditati solo i giudici, quindi, come ha giustamente sottolineato la massima carica dello Stato. Anche gli avvocati sono troppo spesso, ingiustamente, sul banco degli imputati». Ieri l'Oua ha riunito la giunta a Roma. Chiede che si metta fine alle polemiche sterili e un incontro urgente con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: sulla sicurezza, sì, ma anche su come recuperare fiducia e rispetto dei cittadini verso la Giustizia e chi la rappresenta. «Spesso i tribunali sembrano dei bazar, dei mercati, non i templi del diritto», dice la Casiello. «Da sempre prima linea della lotta alla criminalità e ai soprusi, sono diventati la trincea simbolica del disagio sociale e, in alcuni casi, della follia assassina. Gli avvocati, spesso, diventano capri espiatori. Se c'è la crisi, se la mia impresa va male, rischio di fallire, la colpa è dell'avvocato che mi ha difeso male nel processo». L'Ucpi sottolinea: «Gli avvocati sono, al pari dei magistrati, soggetti della giurisdizione, che concorrono all'amministrazione della giustizia e non sono ospiti in tribunale. Meritano la stessa fiducia e devono sottoporsi agli stessi controlli di magistrati e personale amministrativo». E il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin: «L'avvocatura resterà in prima linea a tutela della nostra democrazia, ma non può e non dev'essere lasciata sola».
“Il mio Giorgio ignorato da tutti. Non voglio i funerali di Stato”. La vedova dell’uomo ucciso in Tribunale con il giudice e l’avvocato: “Alla commemorazione non c’ero: nessuno mi aveva invitata”. La cerimonia dell’altro giorno in ricordo delle vittime: la vedova di Sergio Erba non c’era, scrive Fabio Poletti su “La Stampa”. Saranno funerali di Stato a metà. Non ci sarà il feretro della terza vittima, Giorgio Erba, l’ex socio di Claudio Giardiello ammazzato anche lui in Tribunale. Lo ha deciso sua moglie Rosanna Mollicone: «Ci sono stati vari annunci ma nessuno ha parlato con me. I funerali di mio marito avverranno mercoledì alle 10 e 45 nel Duomo di Monza con tutti i suoi amici».
Signora Rosanna Mollicone, perchè questa scelta?
«L’unica persona con cui ho parlato in tutti questi giorni è un tal signor Ferraro o Ferrari del Tribunale... Questo incaricato mi ha contattato venerdì pomeriggio per dirmi che al mattino c’era stata in Tribunale a Milano la commemorazione delle vittime. Ma io non c’ero. Perchè nessuno mi aveva avvertito. Nessuno mi ha chiesto di partecipare. Ho visto la cerimonia al telegiornale della sera. L’unico telegiornale che ho guardato in questi giorni».
E allora lei ha deciso che la bara di suo marito non sarà ai funerali di Stato...
«Sono lusingata se i famigliari delle altre vittime che stimo - un bravo giudice e un bravo avvocato - hanno pensato che si potessero fare i funerali tutti insieme...».
Ma?
«A me non importa la vetrina delle autorità. Io non sono mai stata contattata da nessuno, tantomeno da Matteo Renzi o da altre persone dello Stato come ho letto. E non ho ricevuto alcuna telefonata dal cardinale Angelo Scola come qualcuno aveva preannunciato. Allora preferisco che mio marito sia ricordato dai suoi amici. Sono stati i primi a pensare che ci fosse un momento di preghiera tutto loro per Giorgio».
In che senso?
«Mio marito era un grande appassionato di volo a vela. I suoi compagni avrebbero voluto che i funerali fossero celebrati nel campo che frequentava da tanti anni. La curia di Como ci ha fatto però sapere che non era possibile perchè i funerali devono avvenire solo ed esclusivamente in una chiesa. Allora mi sono informata e ho deciso che i funerali di Giorgio saranno mercoledì ma nel Duomo di Monza. Dove sono sicura verranno tutti i suoi amici».
E magari zero autorità...
«A me non interessa. Anche se nessuna delle cariche dello Stato mi ha chiamato io non mi sono mai sentita sola un minuto. Ci sono 300 o 400 persone che mi stanno vicine. Sono persone che volevano partecipare a un momento di preghiera per mio marito. Se io avessi accettato di far celebrare i funerali di mio marito con quel giudice e quell’avvocato solo 4 o 5 degli amici di Giorgio sarebbero entrati in chiesa».
Quindi lei tra le autorità e gli amici di suo marito sceglie questi ultimi?
«Io credo molto in Dio. Credo che davanti a lui siamo tutti uguali senza distinzioni. Preferisco che in chiesa ci siano tutte le persone che lo amavano e lo rispettavano, non una parata di autorità. Per mio marito sarebbero stati più importanti i suoi amici con cui divideva la passione del volo a vela».
Dopo le polemiche di questi ultimi giorni sui morti di serie A e di serie B, lei crede che ci siano anche partecipanti ai funerali di serie A e B?
«Se non avessero ucciso anche un giudice - una persona degnissima, un bravo magistrato - quello che è accaduto sarebbe finita come tutte le cose che avvengono in Italia. Io so che quelle 300 o 400 persone che mi stanno vicino in questi momenti tra qualche giorno diventeranno molto meno e alcune le perderò di vista per sempre. Ma adesso le sento vicinissime a me. L’altro giorno una famiglia musulmana che conosco ha detto che avrebbe pregato per me. È una cosa che mi ha fatto molto piacere anche se non siamo della stessa religione. Davanti a Dio siamo tutti uguali, siamo 7 miliardi di anime».
Lei non aveva mai parlato con un giornalista...
«E non intendo farlo più».
Va bene. Ma in questi giorni si è parlato molto di suo marito. Del fatto che era il coimputato di chi lo ha ucciso, delle liti che avevano... Vuole raccontarci lei chi era Giorgio Erba?
«Non mi interessa. Non è un problema mio quello che viene scritto sui giornali o detto alla televisione. Io so molto bene che Giorgio era una persona onesta. E lo sanno tutti i suoi amici che vorranno essergli vicino al funerale, mercoledì in Duomo a Monza».
L’ex moglie difende l’assassino «Troppo facile dire che è un folle». Anna Siena: «I suoi legali non si sono impegnati come avrebbero dovuto Nel lavoro ha aiutato tante persone, le stesse che gli hanno voltato le spalle», scrivono Andrea Galli e Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Eppure «è troppo facile adesso dire che è un folle impazzito». Nonostante tutto. Nonostante le vittime innocenti, le famiglie annientate. Anna Siena è l’ex moglie di Claudio Giardiello. Si sono innamorati e sposati da giovani. Hanno avuto due figli, il maggiore di 30 anni e la minore di 24. Più di metà vita insieme. Fino alla separazione, effetto collaterale della devastazione nella quale il killer era caduto travolto dai debiti, dai fallimenti, dalle ossessioni di un uomo convinto d’essere un perseguitato. «Ho letto sui giornali e sentito in tivù colleghi che hanno parlato del raptus di un pazzo, di una persona psicologicamente fuori controllo. Ma nessuno si sta fermando a ricordare il lato umano di Claudio. Quello che ha fatto per aiutare tanta gente nel mondo del lavoro. La stessa gente che l’ha affossato e lasciato affondare». Agli investigatori e ai (pochi) conoscenti che in questi giorni drammatici l’hanno ascoltata e incontrata nella sua casa di Brugherio, subito fuori Milano, la cinquantenne Anna ha po-sto alcune domande. «Perché Claudio ha cambiato così tanti avvocati? Possibile che non ce ne fosse uno che andava bene? Oppure gli avvocati non si sono impegnati come avrebbero dovuto, hanno lasciato che le cose andassero per la loro strada senza intervenire?». Un altro degli interrogativi dell’ex moglie era già stato anticipato da Fabio Fanciullacci, uno degli amici più intimi di Giardiello; l’interrogativo riguarda i procedimenti che vedevano imputato il killer. Dall’estorsione alla truffa, dalla bancarotta fraudolenta alle lesioni. Problemi con le banche, problemi con gli ex soci, problemi con i curatori fallimentari, problemi con il povero nipote Davide Limongelli, uno dei feriti di giovedì in Tribunale. Come Fanciullacci, anche Anna si domanda se qualcuno ha mai voluto per davvero esaminare il «contenuto» dei procedimenti. Siamo proprio sicuri che tutte le accuse avessero un fondamento? L’ex moglie non ha potuto vedere Giardiello in carcere. È in contatto con l’avvocato Nadia Savoca che l’aggiorna sulla detenzione nel penitenziario di Monza, una detenzione condotta in isolamento, sotto sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro nel timore che il killer si tolga la vita, come aveva in progetto di fare se fosse riuscito a eliminare l’ultimo «obiettivo», Massimo D’Anzuoni. Non ha nessuna intenzione, Anna, di seguire il coro e accodarsi a chi considera Claudio Giardiello uno psicopatico che ha trascorso l’esistenza puntando a litigare col mondo fino a farsi giustizia da solo. Con l’ex moglie, a Brugherio, in una palazzina costruita proprio da una delle imprese di Giardiello, vive la figlia, una bella ragazza che ha i lineamenti del padre e ha un passato lavorativo da hostess. Il figlio invece abita da solo, dopo aver trascorso parecchio tempo insieme al papà, a Milano, dalle parti di corso Sempione, quando già la caduta era cominciata e i soldi esauriti: il killer non aveva denaro per pagarsi un trasloco, i vecchi amici gli avevano prestato una loro macchina e avevano fatto una colletta. Quegli stessi amici adesso vorrebbero poter incontrare Giardiello, mandargli un telegramma, far sì che riceva un messaggio. Sono tutti reduci di una Milano sparita, euforia e ricchezza, lavoro e divertimento in abbondanza. Uno degli amici, il tassista di notte Mauro Malvenuti, è da un pezzo che non vede più la famiglia di Giardiello. Pescando nei ricordi, ripete che Anna e Claudio formavano una bella coppia, serena, affiatata; ma dice anche, il tassista di notte, che di solito le immagini di facciata sono illusorie, che da fuori è impossibile conoscere appieno un rapporto di coppia, anche longevo, e che bisogna star lontani dai giudizi facili. Anna ha avuto un’attività di parrucchiera e ha fatto molto la mamma. Chi la conosce giura che la sua non è una difesa d’ufficio oppure una reazione scarsamente lucida a causa dello strazio per una strage che ha prostrato anche lei e i figli. Piuttosto, appare come una donna che vuol sapere quand’è cominciato l’epilogo e che cosa da allora è stato fatto per provare a evitarlo. Alle persone che le telefonano, dice: «Se vi chiedono, non ripetete che è soltanto un folle impazzito».
«Giardiello criminale o eroe?». La pagina choc su Facebook su chi era l’imprenditore fallito. Sul social aperta una pagina dedicata all’imprenditore autore della strage in tribunale: alcuni «mi piace» e soprattutto reazioni indignate: «Vergognatevi, è un assassino», scrive “Il Corriere della Sera”. Sullo sfondo la facciata del tribunale di Milano e come «foto profilo» quella in bianco e nero di Claudio Giardiello, l’uomo che ha sparato e ucciso tre persone, durante un’udienza nel palazzo di giustizia: sono le immagini scelte per la pagina Facebook che è comparsa nel primo pomeriggio sul social network. Si chiama «Claudio Giardiello criminale o eroe?», finora conta alcuni «mi piace« e non ha indicazioni su chi l’ha creata. Non mancano però reazioni indignate da parte di utenti Facebook: «Ma cosa avete nel cervello!!! Le vittime sono i 4 poveri cristi - è il tenore di una serie di commenti - che sono stati uccisi da Giardiello... già forse vi era sfuggito, ma è appena morto il quarto. Vergogna!». Sicuramente gesto sbagliato. Poche righe descrivono il senso della pagina: «Sicuramente gesto sbagliato ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l’esistenza e ti induce a commettere queste azioni». Poi un post in cui si chiede una riflessione sulla situazione di un uomo «tagliuzzato da uno Stato che vuole solo fregarti le tasse». E il post conclude: «Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia».
Su Facebook spunta una pagina a favore di Giardiello. Frasi choc sul social network: "Riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia per colpa di uno stato strozzino, con situazioni simili pronti ad esplodere", scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Incredibile ma vero, c'è qualcuno che si schiera dalla parte dell'uomo che ha sparato e ucciso tre persone all'interno del Palazzo di Giustizia di Milano. Su Facebook spunta una pagina intitolata "Claudio Giardiello Criminale o Eroe?". Si capisce subito da che parte sta chi l'ha creata: "Sicuramente un gesto sbagliato - si legge - ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l’esistenza e ti induce a commettere queste azioni". "Come definire Claudio Giardiello! - si legge nel post -. Sicuramente gesto forte ma pensiamo alla situazione dietro a quest’uomo, tagliuzzato da uno stato che vuole solo fregarti le tasse, messo in croce con continui processi e condanne, sicuramente derubato di tutti i suoi beni materiali e per finire hanno tentato di metterlo pure in gabbia. Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia per colpa di uno stato strozzino, con situazioni simili pronti ad esplodere".
Milano, su Facebook spunta la pagina che inneggia al killer. Il web offre uno spazio di difesa all'imprenditore. Ci si chiede: "Giardiello criminale o eroe?" Scrive Michele Di Lollo su “Il Tempo” . Aveva un falso tesserino da mostrare all'ingresso e un'imputazione per bancarotta fraudolenta. Il fallimento sarebbe alla base del gesto estremo dell'imprenditore. Claudio Giardiello ha 57 anni. E' nato a Benevento, ma risiede in Brianza, a Brugherio. Aveva un paio di società immobiliari, entrambe fallite, la prima nel 2008, la seconda nel 2012. Ha sparato questa mattina nel Tribunale di Milano. Ha fatto 3 morti e 2 feriti. Ha ucciso un giudice, un avvocato e un testimone. Da tre anni le sue aziende erano entrate in una profonda crisi economica. Dovrebbe essere questa la causa scatenante della follia. Dopo una fuga durata poco più di un'ora Giardiello è stato rintracciato e fermato dai carabinieri a Vimercate. È stato quindi accompagnato in caserma, dove gli è stato notificato l’ordine di arresto per essere poi interrogato. E' chiamato a spiegare i motivi del tragico gesto. "Criminale o eroe?" Tra lo stupore di opinione pubblica e governo (Matteo Renzi parla di "gesto incomprensibile", ndr), la rete si muove in fretta. Non prende le parti del folle, ma si pone una domanda che, se comparata alla violenza e alle vittime della tragedia, sembra offrire uno spazio di difesa all'attentatore. Viene creata una pagina su Facebook dal titolo: "Giardiello criminale o eroe?" Un titolo che sembra mancare di rispetto alle famiglie e alle vittime, innocenti, della strage. Mentre il premier in conferenza stampa, prima che parta per un impegno internazionale a Malta, si chiede come sia stato possibile e cosa sia andato storto nel comparto sicurezza del Tribunale milanese, il web offre un primo riparo al killer. Il social network, come un avvocato d'ufficio senza madato, mostra un lato in ombra del crimine. Nel post pubblicato sulla bacheca si legge: "Sicuramente un gesto sbagliato, ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l'esistenza e ti induce a commettere queste azioni?" Una riflessione a sostegno dell'uomo. "Come definire Giardiello? Sicuramente autore di un gesto forte, ma pensiamo alla situazione dietro il gesto: uno Stato che vuole solo fregarti con le tasse, un imprenditore messo in croce con continui processi e condanne, derubato di tutti i suoi beni materiali prima di tentare di metterlo pure in gabbia". Chi scrive prende poi le dovute distanze: "Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Giardiello ci sono in Italia. Un branco di disperati, ridotti sul lastrico per colpa di uno Stato strozzino". Uomini con un'ingiustizia da espiare e con una pistola carica pronta a uccidere.
Sparatoria a Milano: Claudio Giardiello è un eroe per molti utenti di Facebook. Su Facebook sono già nate diverse pagine a sostegno di Claudio Giardiello l’imprenditore che stamattina ha compiuto una strage al Tribunale di Milano, per molti utenti del noto social network, l’uomo, adesso arrestato, è un eroe, scrive “Urban Post”. Gli utenti di Facebook hanno impiegato pochi minuti a creare sul social network delle pagine di solidarietà a sostegno di Claudio Giardiello, l’imprenditore presunto pluriomicida che ha sparato stamattina al Tribunale di Milano uccidendo 4 persone. In questi gruppi leggono frasi del tipo: “Giardiello ha sbagliato, ma lo Stato vessa i cittadini e li spinge a gesti estremi”. Mentre in un altra pagina a difesa dell’imprenditore gli internauti si chiedono: “Claudio Giardiello, criminale o eroe?”. Le discussioni all’interno di queste pagine sono molto significative, uno dei commenti dice: “Sicuramente gesto sbagliato ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l’esistenza e ti induce a commettere queste azioni”. In un’altro gruppo ancora più schierato a favore di Giardiello e della strage che gli viene attribuita si trova scritto: “Claudio Giardiello sicuramente ha fatto un gesto estremo spinto dal’esasperazione e da uno stato che pensa solo a strozzarti con tasse assurde spingendoti al fallimento. Non voglio giustificarlo ma fermiamoci un’attimo a pensare quanti Claudio Giardiello ci sono pronti ad esplodere con situazioni simili, tagliuzzati da uno stato che pensa solo ad incassare spingendoti alla bancarotta togliendoti tutto quello che possiedi e poi tenta pure di metterti in gabbia”.
Quelli che… «Claudio Giardiello? È quasi un eroe». Commenti disgustosamente gentisti sulla strage del tribunale di Milano. Dove chi spara diventa vittima - della burocrazia, dei giudici - e chi muore aveva sicuramente fatto qualcosa di male. E non poteva mancare V per Vendetta e la minaccia al parlamento, scrive Alessandro D’Amato su “Nexquotidiano”. Ce ne sono tanti, sono intorno a voi e potrebbero esservi amici su Facebook. I commenti gentisti su Claudio Giardiello e sulla strage al tribunale di Milano non serve nemmeno cercarli: sono puntualmente tra i più votati e commentati sulle pagine Facebook dei quotidiani. Tutti i commentatori sono convinti che Giardiello fosse una specie di Taxi Driver pronto a riparare a un’ingiustizia subita lavando l’onta con il sangue. Ovviamente senza conoscere nulla della storia che ha portato il Conte Tacchia – come veniva chiamato in un documento finito per diventare una prova per la Corte – a finire a Palazzo di Giustizia.
QUELLI CHE A CLAUDIO GIARDIELLO DANNO QUASI RAGIONE. Ci sono quelli che se la prendono con gli “sciacalli usurai” del tribunale, che osavano far rispettare la legge sulla bancarotta fraudolenta. Ci sono evidentemente un sacco di giustificazionisti a prescindere. Ci sono quelli che decidono che Giardiello era un piccolo imprenditore tartassato dal sistema. Nonostante, come sappiamo, Giardiello si fosse autodenunciato per aver preso soldi in nero spartendosi gli anticipi con altri tre soci di un’azienda di cui la sua possedeva una quota, ben prima della bancarotta fraudolenta. Poi ci sono quelli che riescono a infilarci la colpa degli zinghiri anche stavolta. Oppure, come sempre, della burocrazia. Ci sono poi incredibili offese a pubblici ministeri come Ilda Boccassini. E tentativi francamente disgustosi di buttarla in politica. Insieme a tanti convinti che ci sia Equitalia di mezzo. E non poteva mancare, come nelle migliori famiglie c’è uno un po’ meno sveglio, anche quello che suggerisce di andare invece in Parlamento.
V PER VENDETTA E ALTRE SCIOCCHEZZE. Parliamo di commenti presi da quotidiani come il Fatto e il Corriere. Protesi di complotto invece riporta questa meravigliosa perla di origini sconosciute ma intuibili. Altri poeti si nascondono sulla pagina Fb di Beppe Grillo. Mentre l’aspetto sociologico della vicenda è quello che trova un collegamento tra un pazzo che spara per uccidere e i cosiddetti suicidi causa crisi, altra categoria demagogica strautilizzata in questi giorni. Anche Alba Dorata Italia, imitazione della greca, ha aperto una sottoscrizione per aiutare quella che chiamano “Una vittima del sistema usuraio. D’altro canto lo stesso Giardiello ha detto: “Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato”, per spiegare il suo gesto ai carabinieri che l’hanno catturato a Vimercate. La strage è scattata dopo una discussione con il suo avvocato che intendeva rinunciare al mandato. Giardiello prima ha sparato al testimone avvocato Claris Appiani, uccidendolo, poi ha esploso colpi contro Davide Limongelli, rimasto gravemente ferito. Uscito dall’aula si è imbattuto in Stefano Verna, commercialista che in passato si era occupato del fallimento della sua azienda, e gli ha sparato ferendolo a una gamba. Infine si è recato nell’ufficio del giudice Ciampi colpito con due spari: uno che gli ha trapassato il collo e l’altro all’altezza dell’inguine. Infine la fuga in moto in direzione di Vimercate, paese della Bassa Brianza nell’intenzione di uccidere altre persone e dove, fortunatamente, il killer e’ stato fermato dai Carabinieri. Ora Giardiello, che avrebbe accusato un malore, si trova ricoverato in ospedale. Gli inquirenti contano di interrogarlo il prima possibile. Lui stava andando a Vimercate per uccidere un’altra persona che considerava responsabile della sua situazione. Proprio il modus operandi di un eroe, no?
Claudio Giardiello, su Facebook create pagine: "Criminale o eroe?". Scrive “Il Giorno”. Tutte con stile simile, riportano una foto in bianco e nero di Giardiello: "Pensiamo a quest'uomo tagliuzzato dallo Stato. Quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema?" Claudio Giardelli, le pagine Facebook dedicate all'uomo che ha sparato in Tribunale a Milano. Poche ore dopo la tragedia nel tribunale di Milano, su Facebook sono comparsi sei gruppi dedicati a Claudio Giardiello, l'uomo accusato di bancarotta che durante il processo ha scatenato la sparatoria lasciando dietro di sè tre morti e un ferito. I nomi delle pagine create da ignoti autori vanno dal semplice "Claudio Giardiello" (comunità) a "Giocare a Call of Duty con Claudio Giardiello" (Chiesa), per proseguire con "Claudio Giardiello vittima dello Stato" a "Claudio Giardiello Criminale o Eroe?", "Io sono Claudio Giardiello" e "Io sto con Claudio Giardiello?" (allenatore). Su "Claudio Giardiello criminale o eroe?" si vede ad esempio la facciata del tribunale di Milano e come foto profilo quella in bianco e nero di Claudio Giardiello. Finora conta alcuni mi piace e non ha indicazioni su chi l'ha creata. Poche righe descrivono il senso della pagina: «Sicuramente gesto sbagliato ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l'esistenza e ti induce a commettere queste azioni». Poi un post in cui si chiede una riflessione sulla situazione di un uomo «tagliuzzato da uno Stato che vuole solo fregarti le tasse». E il post conclude: «Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia». Uno stile che si ripete anche nelle altre pagine che parlano di "uno Stato che pensa solo a strozzarti con tasse assurde spingendoti al fallimento" e "alla bancarotta togliendoti tutto quello che possiedi e poi tenta pure di metterti in gabbia" defindendo "stato strozino (sic), con situazioni simili pronti ad esplodere", per concludere con un altro che dichiara "siamo tutti vittime dello Stato e della crisi, non carnefici". Non mancano i commenti, per lo più prevalenti quelli di coloro che esprimono riprovazione per gli amministratori di tali pagine.
Virus Rai 9 aprile 2015. 21:55, in collegamento dal tribunale di Milano, c'è Filippo Barone. Parla l'ex avvocato di Claudio Giardiello: "L'ho sempre visto come una persona perbene. Da come si vestiva, poteva assolutamente sembrare un avvocato". Barone intervista un altro avvocato che afferma che entrare con un'arma nel tribunale è molto semplice. Va in onda un servizio dedicato a ciò che succede nei tribunali italiani, mandato in onda più di un anno fa.
Ma il torto sta sempre da una parte? E quindi dalla parte di quei Giardiello che, però, killer non lo sono diventati?
«Volevo uccidere la pm»: scanner ko, entra armata di coltello in Procura. 26 maggio 2015. Fermata una 40enne: il coltello era nascosto nella borsetta. Voleva raggiungere Alessia Menegazzo, il pm che indaga su di lei. Il metal detector non funziona da sei mesi, scrive Francesco Gastaldi su “Il Corriere della Sera”. L’incubo della strage al tribunale di Milano si è materializzato in un attimo, martedì mattina, nel palazzo di giustizia di Lodi. Una donna è entrata in Procura con l’intenzione di uccidere a coltellate il magistrato che si stava occupando del suo caso. Ha aggredito e mandato in ospedale, devastandole l’ufficio, il cancelliere che le aveva negato l’incontro con la pm. Bloccata e portata in una camera di sicurezza ha anche insultato pesantemente il procuratore Vincenzo Russo e la pm Alessia Menegazzo che stavano cercando di calmarla. E quando il sostituto procuratore si è voltata per uscire dalla stanza, le è saltata addosso cercando di strangolarla con una mossa di karate alle spalle. Nella borsa aveva inoltre un lungo coltello da cucina, sfuggito ai controlli del metal detector (che non funziona da mesi). È stata lei stessa a dire ai carabinieri, più tardi, che era arrivata a Lodi con l’intenzione di uccidere il magistrato, colpevole a suo dire di aver snobbato una sua denuncia. Cronaca di ordinaria follia negli uffici giudiziari di Lodi: a mandare in tilt il già labile sistema di sicurezza del palazzo di giustizia è stata Rosa Maria Capasso, 38enne di Nola ma residente nel Lodigiano, a Codogno. Una precaria, che il 24 aprile scorso aveva presentato alla Procura di Lodi una denuncia a quanto pare per essere stata «scavalcata» nella ricerca di un lavoro sicuro. Denuncia che, secondo lei, andava avanti troppo lentamente. Così martedì mattina, appena giunta da Nola dove si trovava fino al giorno prima, la 38enne si è presentata già alle 7.30 a palazzo di giustizia, con un coltello a doppia punta nascosto nella borsa. I vigilantes all’ingresso l’hanno fatta passare sotto il metal detector che non ha rilevato nulla di irregolare, ma non le hanno fatto posare la borsa sullo scanner aeroportuale che è fuori uso dallo scorso dicembre. Alle 9 le è stato consentito di entrare negli uffici della Procura. Voleva incontrare Alessia Menegazzo, il magistrato che si sta occupando del suo caso, in quel momento fuori ufficio. Quando la cancelliera Maria Pia Sciortino le ha risposto che senza appuntamento non avrebbe potuto parlare con la pm, la Capasso ha perso la testa, iniziando a urlare; poi ha aggredito la malcapitata dipendente della Procura graffiandola, prendendola a pugni e calci e sbattendola a terra. Sentendo le urla sono accorsi sia il marito della cancelliera, che lavora in tribunale come ufficiale giudiziario, sia i carabinieri e le guardie giurate. In quattro, cinque hanno bloccato la donna impazzita. Poi l’hanno chiusa in una camera di sicurezza cercando di calmarla, mentre Sciortino veniva portata in ospedale a Lodi, sotto choc e piena di lividi e contusioni. Avvertiti dell’accaduto, il procuratore e la pm, nel frattempo rientrata in ufficio, hanno cercato di far ragionare l’autrice dell’aggressione, ricevendo accuse, improperi e insulti. Quando la Menegazzo le ha voltato le spalle per uscire dalla stanza, è avvenuta la seconda aggressione. Rosa Maria Capasso si è alzata di scatto, le ha circondato il collo con un braccio, ha tentato ripetutamente di picchiarla. Bloccata dai carabinieri e perquisita, le è stato trovato il coltello nella borsa. Una lama con cui – ha detto poi – avrebbe voluto uccidere il magistrato stesso. La 38enne è stata arrestata e successivamente condotta in ospedale a Lodi, dove si trova tuttora, piantonata dai carabinieri. Il sostituto procuratore è ancora terrorizzata per l’accaduto: «Sono provata da quanto accaduto, soprattutto dal fatto che quella donna voleva uccidermi ed è arrivata senza problemi fino al mio ufficio. Solo per un caso non mi trovavo lì. Ne ha fatto le spese il mio cancelliere». Il procuratore Russo ha accusato pesantemente il livello di sicurezza inesistente nel palazzo di giustizia lodigiano. «Scanner fuori uso, guardie giurate che non possono perquisire, telecamere bruciate, utenti che girano tra gli uffici liberamente – ha affermato — : l’aggressione di oggi è la classica goccia, ma anche nei mesi scorsi si sono verificati episodi sconcertanti, con i dipendenti del palazzo di giustizia aggrediti verbalmente da utenti infuriati. Non si può lavorare in queste condizioni. Il Comune non effettua le manutenzioni perché, a detta del sindaco Simone Uggetti, il ministero di Grazia e Giustizia non paga da anni. Siamo forse l’unica Procura d’Italia con uffici al pianterreno, alla mercè di tutti». Secondo i calcoli di palazzo Broletto, tra affitto, manutenzioni e ammodernamenti, il Ministero ha un debito nei confronti del Comune di sei milioni di euro. «Il metal detector funziona perfettamente, lo abbiamo subito provato e un oggetto metallico in una borsa viene immediatamente segnalato. Quindi evidentemente la borsa che conteneva il coltello non è stata fatta passare sotto il metal detector». La risposta del sindaco di Lodi Simone Uggetti, chiamato in causa per l’assenza di sicurezza all’interno del Palazzo di giustizia da procuratore capo e presidente del Tribunale, non si è fatta attendere. «Quanto allo scanner per gli oggetti, abbiamo già dato mandato un mese fa a una ditta di ripararlo. A giorni sarà di nuovo funzionante». Il vero problema per il sindaco riguarda il forte credito con il ministero della Giustizia sul tribunale di Lodi, di proprietà comunale: «Ci devono rimborsi per 6,4 milioni di euro, negli ultimi tre anni le cose sono peggiorate, i pagamenti non arrivano più. Siamo un Comune piccolo e con un bilancio da 45 milioni annui. Sei milioni pesano eccome, è difficile provvedere a tutte le manutenzioni se poi non ci vengono rimborsate».
Lodi, in tribunale con un coltello: "Sono venuta per uccidere il magistrato". La donna, dopo l'arresto, ha ammesso le sue intenzioni omicide. Il metal detector che controlla borse e zaini era rotto da mesi. Polemiche sulla sicurezza, scrive “La Repubblica”. Qualche minuto di ritardo per dei problemi legati a un processo per direttissima, altrimenti per il sostituto procuratore di Lodi Alessia Menegazzo poteva finire molto peggio rispetto a quel pugno arrivatole alle spalle. Nella città lombarda, infatti, poteva verificarsi qualcosa di simile a quanto accadde lo scorso 9 aprile a Milano dove Claudio Giardiello, imprenditore imputato per bancarotta ha ucciso tre persone tra cui un giudice, ferendone altre, a colpi di pistola. Perché Maria Rosa Capasso, 38 anni, lavoratrice nella scuola, lo avrebbe detto dopo l'arresto a un agente della Polizia Giudiziaria: "Io volevo ucciderla!". Per questo, era giunta da Nola, in provincia di Napoli, a Lodi, di prima mattina. A causa della rottura dello scanner del metal detector all'entrata del tribunale - e su questo infuria la polemica - la donna aveva introdotto un coltello da cucina lungo 32 centimetri che teneva nella borsa. E' arrivata presto ed è stata fatta entrare nell'androne del tribunale in attesa che aprisse la segreteria del pm Menegazzo. Aveva un aspetto ordinario e fino alle 9 ha attesto pazientemente l'arrivo del magistrato. Ha detto solo una frase, nell'attesa, che ha lasciato un poco perplessi gli addetti alla sicurezza: "Io non so dove dormire questa notte". Le è stato risposto che, per questo, il sostituto Menegazzo non poteva fare nulla. Poi si è diretta verso l'ufficio, chiedendo insistentemente di essere ricevuta. L'assistente del pm ha cercato prima di dissuaderla ma la Capasso l'ha aggredita a calci e pungi; è sopraggiunta Alessia Menegazzo e anche lei ha ricevuto un pugno. Sono intervenuti gli agenti della polizia giudiziaria e i carabinieri che hanno bloccato la donna mentre frugava nella borsa. E' stato in quel momento che si sono accorti del coltello. E la Capasso ha sibilato: "Volevo ucciderla!". Tutto per una denuncia, che al pm era stata assegnata il 29 aprile riguardo presunte irregolarità nell'assegnazione di un posto a scuola. "Una vicenda dagli aspetti amministrativi - ha spiegato la stessa Menegazzo - che forse non aveva rilievi penali, e per questo è stata trattata con una procedura ordinaria, non urgente ma, comunque, con attenzione". Quella denuncia, però, per la Capasso era diventata un cruccio, tanto che nei giorni scorsi la donna, che ha dei problemi psichici, aveva tempestato di telefonate l'ufficio della Procura. Poi la decisione di partire da Nola verso Lodi, l'aggressione e l'arresto per resistenza, lesioni aggravate dalla premeditazione, porto abusivo d'arma e danneggiamento. A Lodi si svolgerà la convalida dell' arresto, poi gli atti, come già e successo per Giardiello, saranno trasmessi alla Procura di Brescia, competente a indagare su vicende che riguardano i magistrati milanesi. Rimane la scia di polemiche sullo scanner accanto al metal detector in panne da sei mesi: "Siamo indignati e amareggiati per quello che è successo. Continuiamo a fare il nostro lavoro con l'impegno di sempre - ha detto il procuratore di Lodi, Vincenzo Russo - Vorremo che altri nel loro ambito ci mettessero lo stesso impegno". Ha sentito il ministro della Giustizia? "No - ha risposto il procuratore -, ci hanno telefonato il presidente della Corte d'appello di Milano e il procuratore generale per testimoniarci la loro solidarietà".
Rosa Maria Capasso aveva fatto domanda per un posto in segreteria in una scuola di Codogno ed era stata esclusa - Ingiustamente, secondo lei. Esposto ai carabinieri di Marignano, fascicolo aperto a Lodi il 24 aprile 2015, assegnato cinque giorni dopo al pm Alessia Menegazzo, a cui voleva fare la pelle…, scrive Massimo Pisa su "La Repubblica". «Si è affacciata a quella porta senza presentarsi. Una sola domanda: dov’è la Menegazzo? Ho chiesto: chi è lei? Ma intanto quella donna aveva fatto il giro della scrivania. Ha cominciato a tirarmi i capelli, a darmi pugni, schiaffi, calci, a graffiarmi». Maria Pia Sciortino si tiene il braccio destro, la spalla slogata, i segni della mattinata di follia sulla pelle. Segretaria del pubblico ministero Alessia Menegazzo al Tribunale di Lodi, 52 anni, bionda e adesso ancora più fragile nella sua magrezza, non ha ancora avuto il tempo di raccogliere i fascicoli dal pavimento del suo minuscolo ufficio, che fa angolo con quello del pm — che a quell’ora del mattino non era ancora arrivata, il suo turno di reperibilità sarebbe cominciato più tardi — in fondo a un breve corridoio. A devastarglielo è la furia di una donna ancora più minuta di lei, di certo più disperata. Nel passato di Rosa Maria Capasso, 37enne precaria di Nola con una residenza a Codogno, Bassa lodigiana, ci sono tracce di problemi psichici e trattamenti sanitari. Nella sua borsa c’era un coltello da cucina a doppia punta, lama da una ventina di centimetri, non letale ma pronta a far male, di sicuro non rilevata dal metal detector — che funziona — né dallo scanner, rotto da mesi. Nella sua mente, un obiettivo. Che non scaccia nemmeno quando viene bloccata da Massimiliano Luzi, ufficiale giudiziario e marito della donna (il Tribunale, tutto in famiglia), e poi dagli agenti di pg e dai carabinieri. Sono le 9.26 di ieri mattina quando viene chiamata l’ambulanza per la signora Sciortino. «Non ci fosse stato mio marito — continua — mi avrebbe fatto ancora più male. Quasi non riuscivano a tenerla, tirava calci e sputi». Nemmeno lì si placa la follia di Rosa Maria Capasso. Che appare calma, quasi indifferente, quando il procuratore capo Vincenzo Russo le chiede il motivo del gesto, e il perché di quel coltello appena scoperto in borsa. Ma si riaccende quando negli uffici di polizia giudiziaria entra il pm Menegazzo. «Quando ho saputo volevo andare a calmarla — racconta ancora spaventata — io la signora la conoscevo solo di nome, l’avevo sentita al telefono. Appena mi ha visto mi è saltata addosso, mi ha tirato due pugni sulla spalla prima che la prendessero. Lì ho capito che voleva ammazzarmi». Dalle urla, che riempiono tutta la palazzina in cemento armato, mentre carabinieri e una seconda ambulanza, chiamata alle 10.14, la portano all’ospedale in stato di arresto per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e porto abusivo d’arma: «Voglio ammazzarla! Devo ammazzare la Menegazzo!». La signora Capasso aveva fatto domanda per un posto in segreteria in una scuola di Codogno ed era stata esclusa. Ingiustamente, secondo lei. Esposto ai carabinieri di Marignano, fascicolo aperto a Lodi il 24 aprile, assegnato cinque giorni dopo al pm Menegazzo. Le telefonate quotidiane non le erano bastate. Ieri mattina le guardie giurate incaricate di aprire il Tribunale, una bruttezza architettonica in cemento costruita nel 1990 sull’alveo del fiume Adda, la trovano sulle scale alle 7.10. Entra, passa sotto al metal detector, non è chiaro se con la borsa a tracolla o poggiata sul tavolino dei metronotte, che comunque non avrebbero potuto perquisirla — non sono ufficiali di pg — ma solo chiederle di aprirla. Lo scanner, il macchinario che taglierebbe la testa al toro, è fuori uso da settembre. Lo spettro della strage di un mese e mezzo al tribunale di Milano, quando Claudio Giardiello stecchì ex socio, ex avvocato e un magistrato a colpi di pistola, non si materializza solo per casualità. «È rimasta lì, su quella seggiola, per oltre due ore — indica Vanni Lusuardi, segretario del tribunale — sempre tranquilla prima di andare a chiedere del pm. Diceva di volere un appuntamento, che l’avrebbe aspettata. Nulla di strano, a parte una frase: quando le hanno detto di tornare un altro giorno, lei ha risposto che non aveva dove dormire». Sospira, Lusuardi. È reduce da un’assemblea di sfoghi: «Siamo esasperati, rischiamo la vita per 1200 euro al mese lavorando gratis al sabato. Qui entra di tutto, ci prendiamo ogni giorno insulti e sputi in faccia». Toccherebbe, tocca per legge, al Comune gestire la sicurezza. Ma il sindaco Simone Uggetti para e risponde, carte alla mano: «C’è una disposizione scritta del procuratore, leggete — sventola nel suo ufficio di piazza Broletto — è datata 13 aprile: dice che per entrare si deve utilizzare esclusivamente il varco col metal detector, e di non far passare nessuno se si accende l’allarme. Se si fosse messa in atto, la signora non sarebbe entrata, non è giusto ribaltare su altri le proprie inefficienze. Ancora: ecco la determina per la riparazione dello scanner, datata 5 maggio e pubblicata sull’albo pretorio, abbiamo incaricato la ditta fornitrice di Bovisio Masciago impegnandoci per 13mila euro, forse la prossima settimana arriveranno i pezzi mancanti. E questi, perché si sappia, sono i crediti che vantiamo dal Ministero di Grazia e Giustizia: 6 milioni 402mila euro dal 2011. Bacchette magiche non ne abbiamo, se qualcuno la trova ce lo dica».
Non le avrebbero accettato un figlio in una scuola lodigiana. Ecco perché Rosa Maria Capasso, una donna di Nola, avrebbe sporto querela e poi, non avendo ricevuto risposta dalla Giustizia nei tempi brevissimi in cui l’avrebbe voluta, sarebbe arrivata ieri mattina in tribunale per cercare di uccidere la pm che se ne stava occupando. Lo spiegano conoscenti della donna, scrive “Il Fatto Vesuviano”.
Era una prof rimasta senza posto la donna che voleva uccidere la pm. La 38enne aveva dovuto lasciare il posto dopo una supplenza e non era stata presa nemmeno come bidella. Da quel momento aveva dato segni di squilibrio, scrive Francesco Gastaldi su "Il Corriere della Sera”, dando un'altra versione dei fatti. Era un docente precaria, infuriata con la scuola e il provveditorato agli studi che a suo dire le avevano attribuito una graduatoria troppo bassa. E con la pm che, a suo giudizio, non si dava da fare abbastanza per lei. Queste le motivazioni con cui Rosa Maria Capasso, 38 anni, martedì mattina ha mandato in tilt i già scarsi sistemi di sicurezza del tribunale di Lodi entrando negli uffici con un coltello e aggredendo un cancelliere e un pm. Ha detto che voleva uccidere il magistrato che si occupava del suo caso, Alessia Menegazzo, perché la sua indagine andava avanti troppo lentamente. La Capasso, laureata in scienze motorie e originaria di Marigliano (Napoli), aveva ottenuto una supplenza in educazione fisica all’inizio dell’anno scolastico al liceo Novello di Codogno. Dopo poco più di un mese, a graduatorie aggiornate, aveva dovuto cedere il posto, ma nel frattempo aveva presentato richiesta nella stessa scuola lodigiana per una supplenza come bidella. Il liceo le aveva però attribuito un punteggio inferiore rispetto ai titoli che lei riteneva di avere. Di qui la rabbia, seguita da un ricorso e infine una denuncia nei confronti sia del liceo che degli uffici scolastici regionale e provinciale di Lodi. A quanto ricordano dall’istituto, «la signora sembrava assolutamente normale durante la supplenza», ma avrebbe cominciato a dare segni di squilibrio dopo la vicenda delle graduatorie. Telefonate, fax, email quasi tutti i giorni. Lamentava anche dei ritardi nei pagamenti cui aveva diritto per la supplenza effettuata. Una volta che l’ufficio di Lodi ha preso in carico la sua denuncia, il 29 aprile scorso, la Capasso è riuscita a scoprire il nome del magistrato che se ne occupava, Alessia Menegazzo, e quel punto ha cominciato a tempestare la procura con telefonate e richieste di appuntamenti dall’ospedale di Nola, dove nel frattempo era stata ricoverata per problemi psichiatrici. Dopo un po’ si è resa conto che le sue chiamate venivano «rimbalzate», e a quel punto è uscita dall’ospedale ed è arrivata a Lodi per uccidere. Il giorno dopo l’aggressione il procuratore capo Vincenzo Russo è tornato a parlare del problema della mancanza di sicurezza, rivelando che oltre allo scanner fuori uso da sei mesi, anche il metal detector non funziona a dovere, a differenza di quanto sosteneva il sindaco Uggetti. «Sia io che il presidente del tribunale abbiamo effettuato dei tentativi proprio con il coltello introdotto dalla Capasso in tribunale: non si è mai acceso. Abbiamo provato anche con una pistola in dotazione alle guardie giurate, senza risultati. Il sindaco ha detto una cosa non vera».
Intanto sono eclatanti gli sviluppi sulla strage al Tribunale di Milano: l'assassino è passato sotto il metal detector ma lo hanno fatto passare, scrive "Libero Quotidiano". "Quando ho superato il varco ho pensato: se mi fanno passare con la pistola, lo faccio...". Questa la frase sussurrata da Claudio Giardiello, il 57enne autore della strage del 9 aprile nel Palazzo di Giustizia di Milano, ai carabinieri nel momento dell'arresto sembrava la farneticazione di un pazzo che aveva appena ammazzato tre persone. Invece, a un mese di distanza da quella tragica giornata, quelle parole acquisiscono un senso. Un senso spiazzante: Giardiello non sarebbe entrato entrato in Tribunale dall'unico varco non presidiato da un metal detector, come sinora si era creduto, ma da uno degli ingressi normali, passando e superando indenne proprio i controlli di un metal detector nonostante la macchina avesse suonato l'allarme. Il nuovo elemento, raccontano Luigi Ferrarella e Andrea Galli sul Corriere, viene dalle telecamere che hanno ripreso Giardiello mentre arriva in via San Barnaba e parcheggia lo scooter vicino ad uno dei sei ingressi in Tribunale, quello retrostante rispetto al principale di Porta Vittoria. Si tratta di un varco "misto": i cittadini comuni devono passare i controlli al metal detector, avvocati e magistrati passano invece a lato esibendo un documento di riconoscimento o (più spesso) venendo riconosciuti a vista dai vigilantes. E' entrato così - Secondo la ricostruzione a cui stanno lavorando gli inquirenti, quel tragico 9 aprile, Giardiello si sarebbe messo in fila per entrare in Tribunale con la pistola nascosta sotto la giacca. Quando passa il visitatore prima di lui il metal detector suona. Si attivano i dispositivi di controllo: i vigilantes controllano la persona con lo scanner manuale prima di lasciarlo passare. Poi tocca a Giardiello: l'assassino mette sul nastro trasportatore la borsa che viene passata ai raggi x e poi entra sotto il metal detector. Ovviamente anche nel suo caso si accedono gli allarmi del metal detector ma, a differenza che nel precedente, le guardie sembrano far cenno a Giardiello di passare, senza sottoporlo a scanner manuale. Segue una terza persona, anche qui si accende il metal detector, e le guardie lo controllano con lo scanner manuale. Voleva essere fermato? - Se l'interpretazione dei fotogrammi di scarsa qualità dovesse essere confermata, fa notare il Corriere, non solo cambierebbero le persone potenzialmente chiamate in causa (non più le guardie che a quell'ora di quel giorno lavoravano in via Manara, ma quelle che erano di servizio in via San Barnaba), ma anche il profilo psicologico di Giardiello. Passando sotto il metal detector armato, forse voleva essere scoperto e fermato. Ma per una catena di coincidenze e fatalità così non è stato. "Quando ho superato il varco ho pensato: se mi fanno passare con la pistola, lo faccio..."., aveva detto ai carabinieri.
Tribunali: molto gravi le falle della sicurezza. A sostenerlo un Procuratore capo, un presidente di Tribunale e un poliziotto che dopo la strage puntano il dito contro i carenti sistemi di sicurezza, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". Qualche minuto di ritardo per dei problemi legati a un processo per direttissima, altrimenti per il sostituto procuratore di Lodi Alessia Menegazzo poteva finire molto peggio rispetto a quel pugno arrivatole alle spalle. Nella città lombarda, infatti, poteva verificarsi qualcosa di simile a quanto accadde lo scorso 9 aprile 2015 a Milano dove Claudio Giardiello, imprenditore imputato per bancarotta ha ucciso tre persone tra cui un giudice, ferendone altre, a colpi di pistola. Perché Maria Rosa Capasso, 38 anni, lavoratrice nella scuola, lo avrebbe detto dopo l'arresto a un agente della Polizia Giudiziaria: "Io volevo ucciderla!". Per questo, era giunta da Nola, in provincia di Napoli, a Lodi, di prima mattina. A causa della rottura dello scanner del metal detector all'entrata del Tribunale - e su questo infuria la polemica - la donna aveva introdotto un coltello da cucina lungo 32 centimetri che teneva nella borsa. È arrivata presto ed è stata fatta entrare nell'androne del tribunale in attesa che aprisse la segreteria del pm Menegazzo. Aveva un aspetto ordinario e fino alle 9 ha attesto pazientemente l'arrivo del magistrato. Ha detto solo una frase, nell'attesa, che ha lasciato un poco perplessi gli addetti alla sicurezza: "Io non so dove dormire questa notte". Le è stato risposto che, per questo, il sostituto Menegazzo non poteva fare nulla. Poi si è diretta verso l'ufficio, chiedendo insistentemente di essere ricevuta. L'assistente del pm ha cercato prima di dissuaderla ma la Capasso l'ha aggredita a calci e pungi; è sopraggiunta Alessia Menegazzo e anche lei ha ricevuto un pugno. Sono intervenuti gli agenti della Polizia giudiziaria e i carabinieri che hanno bloccato la donna mentre frugava nella borsa. È stato in quel momento che si sono accorti del coltello. E la Capasso ha sibilato: "Volevo ucciderla!". Tutto per una denuncia, che al pm era stata assegnata il 29 aprile riguardo presunte irregolarità nell'assegnazione di un posto a scuola. Sulla sicurezza nei tribunali avevamo scritto questo, dopo l'episodio di Milano: "No, non abbiamo paura di svolgere il nostro lavoro anche se gli uffici non sono sorvegliati". Sono le parole del Procuratore capo di Livorno, Francesco De Leo che intervistato da Panorama.it, ha descritto la situazione "sicurezza" della sua procura. Le parole del procuratore capo suonano come macigni nel giorno del triplice omicidio al Tribunale di Milano, dove un imputato è entrato con una pistola in tasca, ha ucciso tre persone (tra cui un giudice e un avvocato) ferendone gravemente altre due. Il tema della sicurezza nei palazzi di giustizia torna dunque di grande attualità. E fa scandalo."Sono arrivato a Livorno nel 2007 e ho chiesto immediatamente di implementare il servizio di sicurezza per i nostri uffici ma ad oggi abbiamo solamente un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio e una guardia giurata alla porta di ingresso" spiega ancora De Leo. Un unico sorvegliante che deve monitorare tutti coloro che hanno accesso agli uffici della Procura: dai semplici cittadini agli avvocati, dai militari agli addetti alle pulizie. Un via vai di persone che in alcuni orari della giornata, in particolare nelle ore della mattinata, è ben difficile da controllare. "Solamente durante gli anni del terrorismo, in Italia si poteva parlare di Procure e Tribunali sorvegliati e controllati - continua De Leo – oggi purtroppo, gli uffici e ovviamente i magistrati non sono assolutamente protetti e vivono in una situazione di costante e potenziale pericolo". Ad eccezione dei magistrati per i quali è stata prevista la scorta o una misura minima di sorveglianza, per tutti gli altri non esistono forme di protezione. A Pisa, la situazione non è affatto diversa da quella livornese dove non esiste nessun controllo. "L’accesso al Tribunale? È come entrare in un supermercato: attraverso una porta scorrevole" spiega il Presidente del Tribunale della città Salvatore Laganà "non esiste un metal detector o un’altra forma di controllo ma dobbiamo contare sulla buona volontà di una singola guardia giurata”. E anche il Presidente Laganà, proprio come il Procuratore De Leo, ha chiesto più volte l’installazione di un metal detector presso l’ingresso principale. "Sono cinque anni che chiedo la sua istallazione ma la risposta è stata sempre negativa. Così, la guardia giurata deve sorvegliare sull’afflusso impressionante dei soggetti che ogni mattina devono presenziare alle udienze. Ad oggi possiamo contare sulla presenza di un carabiniere durante le udienze penali. Ma che cosa può fare una singola persona davanti ad una situazione come quella che si è presentata a Milano? Assolutamente niente. Quindi, con un carabiniere, non possiamo certamente sostenere che i nostri uffici o le nostre aule siano al sicuro". Ma la preoccupazione del Presidente Laganà non è solamente per le udienze penali ma soprattutto per quelle civili. "Quello che è accaduto a Milano può accadere in qualsiasi Procura e Tribunale italiano ma, ormai da tempo, io sono seriamente preoccupato che questo possa verificarsi in particolar modo durante le udienze civili ovvero nel corso di separazioni o udienze di divorzio. Non di rado assistiamo a scatti di follia o manifestazioni di violenza che vengono arginate come possiamo ma che potrebbero trasformarsi in eventi di sangue proprio come è accaduto oggi nel tribunale milanese". Concorda il Procuratore De Leo: "Ciò che è accaduto a Milano è lo specchio di un malessere diffuso e un fatto del genere può accadere ovunque e in qualsiasi momento. A maggior ragione in Palazzi di Giustizia privi di qualsiasi forma di protezione e sicurezza". Anche il Coisp, sindacato della Polizia di Stato conferma l’inadeguatezza delle forme di protezione dei magistrati e dei locali nei quali sono obbligati a lavorare. "In nome del risparmio i militari non solo sono stati tolti dagli accessi principali di questi edifici, rendendoli di conseguenza vulnerabili, ma persino all’interno degli uffici di polizia giudiziaria - precisa Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp - oggi infatti, i poliziotti fanno da assistenti ai magistrati. Non indagano, non proteggono ma sono diventati dei meri segretari". Maccari denuncia l’assoluta mancanza di sicurezza di Procure e Tribunali ma anche una difficoltà di condurre indagini giudiziarie. "Le guardie giurate non controllano chi entra o esce dai vari uffici perché sono pochi rispetto al flusso di persone ma anche perché spesso non sono adeguatamente preparati. Personalmente sono entrato nel tribunale di Milano senza che nessuno mi controllasse il tesserino di riconoscimento della Polizia di Stato. E se fossi stato un terrorista? Forse sarebbe opportuno che il Governo valutasse seriamente l’impiego massiccio dei militari dell’esercito oltre che nelle strade della città anche ai varchi di accesso proprio di procure e tribunali. Con loro si potrebbe raggiungere un maggior livello di sicurezza per i nostri giudici e magistrati".
È la bestia nera delle banche. "Errori nei conteggi e usura". Giovanni Battista Frescura: "Ho visto fallire bellissime aziende per insolvenze inesistenti. Le Procure archiviano le denunce perché colluse con il potere finanziario: è un cancro", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. «Tutti i conti delle banche sono sbagliati. Le prime a saperlo sono le banche stesse». Con tale premessa, s'intuisce perché Giovanni Battista Frescura, consulente tecnico nei processi sul contenzioso bancario, sia diventato la bestia nera degli istituti di credito. Quando lo denunciò, una decina d'anni fa, gli italiani disposti ad assumersi l'onere di un'affermazione così temeraria si contavano sulle dita della mano sinistra di Capitan Uncino. In pratica, lui solo. E subito ne aggiunse un'altra: «Tutte le banche hanno praticato o praticano l'usura». Era più scusabile, all'epoca, una bestemmia in duomo. A sconsacrare le chiese laiche dove la religione dei soldi celebra i suoi riti è stato Frescura, che in questo momento sta seguendo circa 200 casi di clienti presi per il collo da Bolzano a Messina. Lo ha fatto dapprima con il libro Usura e anatocismo nelle operazioni di credito finanziario e poi con un secondo tomo di 698 pagine, L'usura nei prestiti di banche e finanziarie, che nel sottotitolo in latino riprende la definizione attribuita a Carlo Magno nel capitolare di Nimega dell'anno 806, Usura est ubi amplius requiritur quam datur, si ha usura quando si richiede più di quanto si dà. Quasi 2 connazionali su 10 hanno qualche problema con le banche. La stima è di un banchiere, Dino Crivellari, amministratore delegato di Uccmb, gruppo Unicredit, che si occupa di crediti deteriorati. Per l'esattezza il contenzioso coinvolge 10 milioni di cittadini su 60. Frescura, 61 anni, residente a Valdagno (Vicenza), sposato, tre figli ormai adulti, è uno di questi. «Nel 1995 comprai una casa con un mutuo di Unicredit, poi rimborsato in 15 anni. Per ristrutturarla, chiesi un finanziamento quinquennale di 40 milioni di lire ad Antonveneta. Ebbi qualche difficoltà a pagare le rate. Dopo tre anni il debito era salito a 60 milioni. Avete sbagliato i conti, protestai, e ne restituii 40. Invece, secondo loro, l'anatocismo, cioè il calcolo degli interessi sugli interessi, pesava solo per 1 milione di lire. Per cui mi fecero un decreto ingiuntivo di 19 milioni. Con le spese legali, la somma da restituire superava addirittura i 20 che, a loro dire, ancora gli dovevo. Mi rifeci da solo i conteggi. Alla mia minaccia di denunciarli per usura, reagirono con violenza: "La quereliamo per diffamazione". Querela mai arrivata. In compenso, per un contenzioso da 10.000 euro, mi hanno venduto all'asta la casa, che ne vale 350.000. Ho denunciato per usura ed estorsione la banca, l'avvocato dell'ingiunzione, il notaio che ha gestito l'asta e anche l'acquirente. Per il momento abito ancora dentro la mia abitazione, in attesa che il tribunale di Vicenza decida chi ha torto e chi ha ragione». A differenza dei giudici, quasi tutti usciti dal liceo classico e quindi impermeabili alle formule matematiche, Frescura sa far di conto, avendo frequentato lo scientifico: «Non è un vantaggio da poco, mi creda». All'abilità contabile unisce una solida preparazione giuridica: si è laureato in giurisprudenza quando all'Università di Padova ancora insegnava Giuseppe Bettiol, docente di diritto penale che attirava l'attenzione degli studenti picchiando il bastone da passeggio sulla cattedra. Concluso un master al Politecnico di Torino, è diventato perito e consulente tecnico del tribunale di Vicenza. Si occupava di immobili messi all'asta dagli uffici giudiziari, argomento sul quale ha scritto un libro per le edizioni del Sole 24 Ore. Poi la crociata contro le banche. «Nonostante in Italia siano in corso innumerevoli inchieste penali - 300 solo nel Veneto - a carico degli istituti di credito, con centinaia di amministratori, dirigenti e funzionari coinvolti, finora le condanne pronunciate sono state appena quattro».
Cane non mangia cane, è questo che mi sta dicendo?
«Sì. Le Procure di solito archiviano con la motivazione che l'usura c'è stata però non si può dimostrare il dolo da parte della banca. Siamo arrivati all'assurdo per cui a Vicenza un caso di usura su un mutuo casa, già sanzionato in sede civile, non approda alla sentenza penale perché il Pm non sa a chi affibbiare l'imputazione. Ma come? È così difficile sapere il nome del presidente di una banca? E guardi che l'usura è un reato gravissimo».
Non lo metto in dubbio.
«Non mi riferisco all'aspetto etico. Gravissimo per le conseguenze sul reo: da 2 a 10 anni di reclusione. E nel caso delle banche sono contemplate tre aggravanti specifiche che possono portare a una condanna fino a 20 anni».
Ma le condanne scarseggiano.
«Già. A parte il caso Parmalat, in cui quattro funzionari dell'Ubs hanno patteggiato e il presidente della Banca di Roma è stato assolto in Cassazione per prescrizione. Il rappresentante italiano di Bank of America è ancora sotto processo a Parma. Nel frattempo la Svizzera, dove costui ha subìto una condanna per reati finanziari, l'ha fatto estradare dalla Slovenia e l'ha sbattuto in galera. Giusto per darle un'idea delle differenze tra la giustizia elvetica e quella italiana».
Il suo mestiere precisamente qual è?
«Aiuto i clienti ad accertare se i calcoli degli interessi presentati dalle banche sono esatti oppure no. Vado a caccia di tassi usurari e costi occulti. All'inizio lo facevo per passione civile, una forma di volontariato che è diventata un mestiere».
Lei sostiene che le banche sbagliano i conti intenzionalmente.
«È così. Vuole un piccolo esempio? Il conteggio degli interessi sui mutui va fatto con divisore 365. Invece alcune banche arrotondano a 360. È illegale. Un anno ha 365 giorni, non 360. Pensi che mostruose cifre complessive genera quest'arbitraria decurtazione».
Sarà perché tre dei miei quattro fratelli ci lavoravano, ma ho sempre pensato le banche fossero infallibili con la calcolatrice.
«Fino agli anni Novanta lo pensavano tutti, perché gli imbrogli venivano compensati dall'inflazione alta. Con l'avvento dell'euro, la gente s'è messa a leggere gli estratti conto con più attenzione e sono venuti alla luce gli imbrogli».
Che genere di imbrogli?
«L'uso piazza, l'anatocismo e l'usura. Tralascio la commissione massimo scoperto, che pure incide parecchio».
Parla ostrogoto. Andiamo per ordine. L'uso piazza che cos'è?
«Pochi sanno che tutti i contratti per i conti correnti aperti prima del 1992 erano standard. L'articolo 7 rinviava a un inesistente tasso "uso piazza" per il calcolo degli interessi a debito e a credito. Però la magistratura non l'ha mai contestato. Nel 1992 una legge ha stabilito che o nel contratto viene fissato un tasso preciso oppure va applicato il tasso legale. Questo significa che i conteggi a partire da allora, su tutti i contratti stipulati prima di 23 anni fa, vanno rifatti. Crede che le banche abbiano avvisato la clientela? All'epoca il tasso legale era del 5 per cento, mentre loro applicavano sui passivi un'aliquota dal 15 al 20 per cento».
Uno sbilancio pazzesco.
«Le dico solo questo: il mio elettrauto è andato in pensione e le tre banche con cui lavorava pretendevano da lui la restituzione di debiti per 100.000 euro. Rifatti i conteggi solo sull'ultimo decennio, perché le carte precedenti le aveva buttate via, è andato a credito. Devono dargli indietro parecchi soldi».
Veniamo all'anatocismo.
«Era ritenuto lecito nei conti correnti, ma nel 1999 la magistratura ha precisato che è vietato. Le banche lo calcolavano ogni tre mesi sugli interessi a debito e una volta l'anno su quelli a credito, quindi a svantaggio del cliente. Una legge ha stabilito che l'anatocismo è valido solo se applicato paritariamente. Per i contratti antecedenti al 2000 i conteggi sono tutti da rifare. Solo che gli istituti di credito si rifiutano di pagare anche quando perdono le cause».
Be', esiste il pignoramento.
«Lo sa come sfuggono quando il cliente lo chiede? Si fanno pignorare un assegno circolare con l'importo che dovrebbero versargli. Ma, anziché a suo favore, lo intestano alla cancelleria del tribunale. Quindi, finché non arriva la sentenza della Cassazione, il cliente non vede un euro».
Parliamo dell'usura.
«In Italia fu reintrodotta come reato penale dal codice Rocco del 1930 per punire lo sfruttamento dello stato di bisogno. Dal 1996 la tutela è estesa anche ai soggetti in stato di necessità economica o finanziaria. Ma le banche si sono prontamente autoescluse, sostenendo che la normativa non le riguardava».
Possibile che istituti quotati in Borsa, vigilati dalla Banca d'Italia e dalla Consob, si arrischino a praticare tassi fuori legge? Vuol dire che pensano di poter contare sull'impunità.
«È così. Giustizia e sistema bancario sono collusi, è questo il grande cancro».
Ma i tassi usurari vengono applicati da singoli dipendenti oppure costoro obbediscono a ordini di scuderia?
«Entrambi i casi. Vincenzo Imperatore, un ex funzionario di Unicredit, lo ha confessato in un libro, Io so e ho le prove. Ma si guarda bene dal restituire il maltolto».
Qual è il tasso d'interesse oltre il quale scatta l'usura?
«Magari ce ne fosse uno soltanto. Sono una trentina. Dipendono dall'importo in ballo e dalla categoria del prestito: mutui ipotecari, leasing, prestiti personali, cessioni del quinto, anticipi e via di questo passo. Nel primo trimestre del 2015 il più basso è quello dei mutui ipotecari a tasso variabile: 8,33. Il più alto è quello delle carte di credito revolving: 24,9. L'usura scatta sostanzialmente quando gli interessi applicati da banche e finanziarie superano del 50 per cento il tasso medio rilevato ogni tre mesi».
Rilevato da chi?
«Dovrebbe essere il ministero dell'Economia. Ma, con un abuso, ha delegato a computarlo la Banca d'Italia».
Il carnevale di Viareggio.
«No, è una guerra civile, questa dell'usura. Per non parlare della grande rapina chiamata cessione del quinto».
Di che si tratta?
«Di un prestito che il lavoratore riceve e che è garantito dallo stipendio. Fino al 2005 lo potevano chiedere solo i dipendenti pubblici, con un tasso d'interesse molto basso. Ma ora lo concedono anche al personale delle imprese private e ai pensionati, con un tasso soglia che va dal 18,55 al 19,57. Si sono infilate nel business finanziarie e mediatori senza scrupoli. Bankitalia sarebbe dovuta intervenire, ma fino al 2010 non ha mosso un dito. Nello spingere la povera gente a farsi tosare ci hanno guadagnato tutti, persino i sindacati, che ricevono cospicue provvigioni dalle banche, e l'Inps, che per ogni pratica evasa incassa 10 euro».
Conosce casi di imprenditori portati al fallimento o, peggio, al suicidio?
«Parecchi. Le banche hanno fatto fallire un orafo di Trissino che aveva 50 dipendenti. Una ditta bellissima. Ho rifatto i conteggi e ci siamo accorti che l'insolvenza non esisteva. Ma è molto difficile rimediare: il fallimento è come una sentenza passata in giudicato. Ha quasi perso il lume della ragione, poveretto».
Però anche le banche hanno problemi con la clientela insolvente. In sette anni di crisi le sofferenze hanno raggiunto i 181 miliardi di euro.
«Ma sarà vero credito? I conteggi sono stati fatti tenendo conto degli errori? Perché Unicredit ha messo prudenzialmente a bilancio un passivo di 17 miliardi di euro per cautelarsi da brutte sorprese? È l'unica banca ad averlo fatto».
Come si fa a chiudere questo buco?
«Ci vorranno dieci anni».
Esisterà pure una banca virtuosa.
«No, tutte applicano gli stessi trucchi. Le uniche sarebbero le banche arabe, che non possono compiere operazioni con gli interessi, come prescritto dal Corano, ma in Italia non le lasciano entrare».
E di che campano le banche arabe?
«Invece dei mutui, fanno vendite con patto di riscatto. La banca acquista una casa, me la consegna, per 20 anni pago l'affitto, trascorso il termine diventa mia. Non molto diverso da quanto fece Amintore Fanfani all'epoca del boom, senza bisogno degli arabi».
Il caso più clamoroso di cui s'è occupato?
«Due fratelli di Empoli che hanno dovuto chiudere un'azienda di pelletteria per colpa dell'anatocismo. Si sono ritrovati indebitati per 300.000 euro con la banca e per altri 300.000 con Equitalia. Ho rifatto i calcoli. La prima ha dovuto riconoscere d'aver praticato l'usura. Perciò s'è detta disposta a rinunciare ai 300.000 euro di credito, a versarne al fisco altri 300.000 al posto dei clienti e a offrirne 100.000 a titolo di risarcimento».
Ma lei si fida delle banche?
«Certo. Basta non chiedergli prestiti».
Quindi i nostri soldi depositati nelle banche sono al sicuro.
«Sì, perché il denaro non esiste. È una creazione normativa».
Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».
G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.
«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».
Ha fatto causa alle banche?
«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».
Alla fine le cause le ha vinte?
«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».
E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?
«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».
In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?
«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».
Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?
«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».
E qual è il problema?
«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».
Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.
«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».
Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?
«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».
Adesso cosa farà?
«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».
Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.
I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.
Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un'altra invasione di campo.
Esame di Stato. Come si diventa avvocato? Copiando!
La risposta di un esperto, qual è il Dr Antonio Giangrande, scrittore che sul tema ha scritto “Concorsopoli ed Esamoli” e “L’Esame di Avvocato”.
Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset è entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.
Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.
Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.
Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.
Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).
Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.
Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.
Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari) ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano.
Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.
Quel di cui si parla è all’ordine del giorno, ma tutti fanno finta di niente.
Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta. Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”.
Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.
Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.
Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.
Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;
Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad una o all’altra funzione;
Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico, persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.
Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;
Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.
Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.
Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);
Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);
Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).
Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi, solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.
Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare».
Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”.
Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise".
Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.
Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).
UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO OD UN ESAME DI STATO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO COME ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!
Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Suo figlio è agli arresti, padre si uccide e lascia un messaggio contro i magistrati, scrive “Il Secolo XIX" il 27 aprile 2015. Un tragico, estremo gesto di un padre che nella notte si è tolto la vita gettandosi dal ponte Monumentale, nel centro del capoluogo ligure. Un’inchiesta che ha coinvolto il farmacista Marco Menetto Ballario, figlio del suicida, il pediatra Francesco. E quel messaggio lasciato sull’auto, che ha scatenato reazioni e polemiche: «La magistratura a volte uccide». Una frase che il procuratore di Monza, titolare dell’indagine su un traffico di medicinali in tutta Italia, ha commentato dicendo che «ormai dicono tutti così»; poi a questa affermazione ha fatto seguito quella del viceministro della Giustizia, Costa, che ha parlato di «frase fuori luogo». In serata, intanto, Marco Menetto è stato rimesso in libertà in seguito al suicidio del padre, come ha confermato il suo avvocato, Umberto Pruzzo: «Ho fatto istanza di scarcerazione per i gravi eventi familiari, che è stata accolta. Menetto è rimasto solo: aveva una sorella che è purtroppo deceduta suicida qualche anno fa. Sua madre ha bisogno delle sue cure». In seguito, l’avvocato Pruzzo ha spiegato che «le imputazioni derivano dalle conversazioni telefoniche tra Menetto e un grossista che vende in tutto il Nord e il Centro dell’Italia. Nelle conversazioni si parla di medicinali acquistati dalla Plasmerc Srl, che però non esiste. Il mio assistito non sapeva non esistesse, e che i soldi che lui pagava per i farmaci andassero direttamente al grossista. A riprova di ciò ci sono i bonifici effettuati di due fatture, assolutamente tracciabili e messi in contabilità». Ancora: «Il mio assistito credeva di avere sbagliato a effettuare i bonifici, che gli avrebbero contestato illeciti fiscali, ma assolutamente nulla riferibile ai medicinali, anche perché parliamo di farmaci non ospedalieri, per cui Menetto non aveva licenza di vendita». Comunque, ha concluso l’avvocato, «questa famiglia a Genova è stimata e conosciuta da tutti: parliamo di grandi professionisti senza alcun problema economico e incensurati». Francesco Menetto, 65 anni, noto pediatra, si è gettato nella notte dal Ponte Monumentale, per farla finita. Lasciando nell’auto un biglietto con scritto: «la magistratura miope a volte uccide». Suo figlio, Marco Menetto Ballario, farmacista (socio della Farmacia San Giacomo di via Bixio 9, una delle più note di Carignano) è attualmente agli arresti perché coinvolto con la moglie in un’inchiesta su un traffico di medicinali. Il corpo dell’uomo è stato trovato in via XX Settembre, ormai privo di vita. Nell’auto, con la quale il sessantacinquenne ha raggiunto il ponte monumentale, c’era anche la moglie dell’uomo (e madre del giovane farmacista agli arresti). Sembra che anche la donna avesse il proposito di farla finita, ma sono arrivati in tempo i poliziotti della questura e l’hanno bloccata prima che compisse il tragico gesto. «Ormai dicono tutti così. Non c’è altro da commentare». Questa la dichiarazione del Procuratore Capo della Repubblica di Monza Corrado Carnevali, che ha portato all’intervento del viceministro della Giustizia Enrico Costa: «Di fronte a questo tragico gesto che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal Procuratore, non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo». Il figlio del pediatra che si è ucciso oggi a Genova ha detto alla polizia che i genitori si erano recati da lui, che si trova agli arresti domiciliari su provvedimento della procura di Monza, ieri sera per cena. «Mio padre e mia mamma hanno passato la serata con me - ha detto alla polizia -, abbiamo cenato insieme e abbiamo guardato la televisione. Poi sono andati via dicendo che dovevano fare una visita. Non immaginavo che avessero deciso di togliersi la vita». L’indagine “PharmaConnection” era partita grazie al lavoro degli investigatori di Monza. Complessivamente aveva portato all’arresto di 19 persone (6 in carcere e 13 agli arresti domiciliari), al sequestro di beni mobili, immobili, titoli e conti correnti per circa 23 milioni di euro e a un ingente sequestro di medicinali. A Genova ha toccato, oltre i due farmacisti (Marco Menetto Ballario e la moglie Valentina Drago, 34 anni) anche tre ex dipendenti di un’azienda farmaceutica (estranea alla vicenda). Le accuse contestate alle persone coinvolte vanno dall’associazione per delinquere finalizzata al furto, ricettazione e riciclaggio. Marco Menetto Ballario è indagato dalla procura di Monza perché ritenuto parte di un presunto traffico illecito di farmaci salvavita. Dalle indagini della Procura di Monza e dei carabinieri del Nas di Milano emergerebbe che il farmacista sia responsabile della vendita di farmaci di provenienza illecita e della fornitura ad altri grossisti di documentazioni per operazioni inesistenti.
Gli arrestano il figlio Lui si suicida e accusa, scrive Errico Novi su Il Garantista. 26 aprile 2015. Un ponte nel cuore di Genova. Francesco Menetto ci arriva dopo aver preso la decisione. Ferma, irrevocabile. E non è solo. Con lui c’è sua moglie, pronta a seguire il marito nello stesso destino. Lui si lancia, è l’una di domenica notte, quando arrivano polizia e 118 è troppo tardi: il pediatra 65enne, molto conosciuto nel capoluogo ligure, è deceduto. La donna viene trovata mentre sta suicidarsi anche lei dal “Monumentale”. La salvano per un niente. La disperazione dei due coniugi nasce dall’arresto, risalente allo scorso 2 aprile, del figlio Marco Menetto Ballario, farmacista 36enne accusato dalla Procura di Monza di ricettazione, riciclaggio e altri reati nell’ambito di un presunto giro illecito di farmaci salva-vita. Francesco Menetto lo spiega in ultimo terribile messaggio lasciato sulla macchina prima di gettarsi: «La magistratura miope a volte uccide», c’è scritto. E’ il segno di un dolore profondo, di una lacerazione insanabile, che meriterebbe almeno compassione. Ma il magistrato in questione mostra di averne poca. Si tratta del procuratore della Repubblica di Monza, Corrado Carnevali. Si limita a una dichiarazione, mezza frase. Glaciale, però. «Ormai dicono tutti così. Non c’è altro da commentare». Il biglietto del suicida liquidato come il capriccioso berciare dell’impunito. Difficile aggiungere altro, ha ragione il procuratore Carnevali. Certamente la magistratura milanese è un po’ iperattiva nei confronti di chi l’accusa, in questo periodo. Dopo che Claudio Giardiello ha fatto una strage a Palazzo di Giustizia perché ritenutosi danneggiato da giudice, avvocato e testimone, il riflesso delle toghe, in quel circondario, è evidentemente di rigetto verso chiunque le ritenga colpevoli delle proprie sciagure. C’è una differenza enorme, però: Giardiello ha ucciso tre persone, e tra queste un giudice, appunto, mentre Menetto si è tolto la vita lui. Una differenza che al dottor Carnevali non deve apparire tanto chiara. Marco Menetto, il figlio, conduce un’importante farmacia in zona Carignano, insieme con la moglie Valentina Drago, 34 anni. Poco meno di un mese fa, appunto, viene arrestato su ordine della Procura di Monza. L’inchiesta è materialmente condotta dai Nas di Milano, coordinati dal comandante Paolo Belgi assai noto per aver dato ferocissima caccia al professor Antinori. Alle indagini viene assegnato un nome bello, evocativo: “PharmaConnection”, addirittura. Di che si tratta? Qualcuno avrebbe commissionato il furto di costosissimi medicinali, antitumorali e salva-vita appunto, alcuni da 10mila euro a confezione. Qualcun altro li avrebbe rivenduti, accompagnati da fatture false, in Germania, Olanda, Polonia, Bulgaria e Montenegro. Il farmacista genovese e sua moglie sarebbero uno degli anelli intermedi della catena. Nelle carte che raccolgono il lavoro dei Nas si legge tra l’altro che Menetto Ballario «acquistava farmaci di dubbia provenienza, rivendendoli poi ad altre società quali Pharmazena, con la collaborazione della Drago», cioè della moglie. Dubbia provenienza. L’espressione potrebbe non apparire presupposto sufficiente per un arresto, seppure scontato ai domiciliari. Tanto è vero che la moglie è stata solo denunciata. A Marco invece tocca un provvedimento di custodia cautelare. L’operazione è di dimensioni importanti. Almeno sulla carta. Il danno procurato a 30 milioni di euro. Oltre che per Menetto Ballario, sono scattati provvedimenti restrittivi per altre 18 persone, di cui 6 attualmente detenute in carcere. E si è provveduto a sequestri di beni immobili e mobili (titoli e conti correnti) per 23 milioni di euro, da aggiungersi a un grande quantitativo di questi preziosi medicinali. Sembrerebbe essercene, certo, per quella intestazione così suggestiva, “PharmaConnection”. Un marketing investigativo molto utile, peraltro, in tempi di razionalizzazione delle forze dell’ordine. I Nuclei anti-sofisticazione dei Carabinieri potrebbero non sopravvivere al processo riorganizzativo annunciato da Renzi. Le loro funzioni rischiano di essere assorbite da altri corpi. Chi assorbirà chi, è quesito da sciogliersi anche in base ai numeri: quelli degli arresti, per esempio. Nell’inchiesta monzese, Menetto Ballario e la moglie ci finiscono come detto in quanto presunti intermediari nel commercio illecito di farmaci anti-tumorali. I passaggi sarebbero stati effettuati non con la farmacia di Carignano, tra le più note della zona, ma con una società di vendita all’ingrosso di cui il 36enne è legale rappresentante. Ai committenti sarebbero state anche fornite false documentazioni di copertura. Tutto questo non è ancora provato. Di sicuro determina un ingente sequestro di beni a carico degli indagati. E un pesante colpo alla loro immagine, farmacia compresa. Ci sarà tempo per accertare le responsabilità. Non c’è più tempo invece per rimediare al gesto di Francesco Menetto. Il quale poco prima di togliersi la vita decide di vedere suo figlio per l’ultima vola, insieme con la moglie. E’ lo stesso Marco Menetto a raccontarlo: «Sono stati da me per cena», dice alla polizia. Sono andati a trovarlo in quella casa dove il farmacista è ristretto ai domiciliari: «Mio padre e mia mamma hanno passato la serata qui, dopo aver cenato abbiamo guardato la televisione. Poi sono andati via dicendo che dovevano fare una visita. Non immaginavo che avessero deciso di togliersi la vita». Non immaginava che si sarebbero messi in macchina. E che sulla macchina avrebbero lasciato quel biglietto, con quella frase. Così sgradevole alle orecchie del procuratore Carnevali.
Medico suicida, il figlio esce dal carcere: "Libero, ma a che prezzo?" L'avvocato del farmacista Marco Menetto: "Dovrebbe sentire il senso di colpa chi prende decisioni con tanta fretta" . Il procuratore di Monza ribadisce: non dovremmo indagare?". Il figlio: "Non credo che la magistratura sia responsabile, ma a volte forse si dovrebbe riflettere di più", scrivono Donatella Alfonso, Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. "Adesso sono libero, ma a che prezzo? Ho perso mio padre e stavo per perdere anche mia madre". Lo ha detto il farmacista, figlio del pediatra che si è ucciso ieri dopo aver lasciato un biglietto con la scritta 'La magistratura miope a volte uccide', riferendosi all'inchiesta della procura di Monza su un traffico di farmaci antitumorali che aveva portato all'arresto del figlio e coinvolto la nuora. "Il mio assistito - ha detto il difensore l'avvocato Umberto Pruzzo - non si sente in colpa. Il senso di colpa dovrebbero averlo altri che emettono provvedimenti con tanta fretta". "Vista la grave situazione familiare si revoca la misura degli arresti domiciliari". E' scritto nell'ordinanza emessa ieri dal gip di Monza che ha revocato gli arresti del farmacista. Il gip, come chiesto dagli avvocati Lina Armonia e Umberto Pruzzo, ha sostituito gli arresti domiciliari con obbligo di firma due volte alla settimana. "Saremmo andati oggi a Monza - hanno spiegato i legali - a presentare l'istanza di scarcerazione, ma purtroppo questo tragico evento ha anticipato i tempi".
Il procuratore insiste: "Non dovremmo indagare?". "Dispiace, dispiace... però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo Mani Pulite e i suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati, smettere di indagare su chi commette degli illeciti?". Lo afferma il procuratore capo di Monza, Corrado Carnevali, in una intervista al Secolo XIX a proposito del suicidio del medico genovese suicida che ha lasciato scritto: "La magistratura miope a volte uccide". "Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d'accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un pò di pulizia in questo Paese? O invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato? Il lavoro del Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c'è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l'alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre", dice Carnevali. "Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono tanti soldi in ballo. Quando arriviamo noi e blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca", conclude Carnevali, che si è detto "sorpreso" per le parole del viceministro della Giustizia Enrico Costa, dopo le polemiche scoppiate in seguito alle sue dichiarazioni sul suicidio del pediatra di Genova, il cui figlio risulta indagato dalla Procura di Monza per un presunto traffico internazionale di farmaci. "Ho espresso il mio dispiacere per la scomparsa del medico genovese - ha detto Carnevali - Le mie parole forse sono state travisate perchè si riferivano alla ormai presa di posizione continua contro la magistratura, di cui mi dispiaccio. Il lavoro dei magistrati è quello di fare indagini, sono i giudici poi a decidere i provvedimenti di custodia". "Comprendiamo - ha aggiunto - che una vicenda giudiziaria possa sconvolgere una famiglia, ma sono rimasto sorpreso delle parole del Viceministro. Se ci fossimo sentiti, avrei avuto modo di spiegarglielo".
Il figlio: "provvedimenti colpiscono incensurati". L’ultima cena prima di buttarsi dal Ponte Monumentale, Francesco Menetto, noto pediatra genovese, l’ha fatta col figlio ancora agli arresti domiciliari. A tavola hanno parlato del 4 aprile, quando la Procura di Monza aveva notificato il mandato per traffico illecito di farmaci. «Questa vicenda ha pesato sull’onore della nostra famiglia - ripete Marco Ballario Menetto, agli arresti domiciliari fino a ieri mattina, quando il gip ha accettato la richiesta dei legali di liberarlo, dopo la morte del padre - ognuno di noi ha una sensibilità diversa, c’è chi rimane razionale e chi no, chi reagisce drammaticamente». Il papà, di 65 anni, sarebbe rimasto sconvolto da quella vicenda, tanto da togliersi la vita e lasciare un biglietto, in cui ha scritto: “La magistratura miope talvolta uccide”. Un’accusa pesante contro i giudici. Domenica sera, intorno alle 20, dopo aver cenato in famiglia, il pediatra ha lasciato la sua villa di via Piaggio, a Castelletto. Ha detto a Marco ed alla nuora, Valentina Drago, che andava a fare un giro con la moglie. La coppia ha preso la Smart, probabilmente hanno girovagato per la città, hanno parlato di quell’inchiesta e quegli arresti che gli avevano sconvolto la vita. Un irreparabile disonore. Anche se non basta tutto questo a spiegare un gesto così estremo. «Sono problematiche che hanno bisogno di uno psichiatra», ammette il figlio. D’altra parte, l’equilibrio della famiglia nel 2013 era stato incrinato da un altro grande lutto: ancora il suicidio dell’altra figlia, avvenuto in Spagna dove la giovane conviveva da tempo con uno del posto. Prima della mezzanotte Francesco Menetto, molto conosciuto a Genova come puericultore (un medico che si occupa di bambini appena nati) ha chiamato il figlio, dicendogli che avrebbe rincasato più tardi, trattenuto da una visita urgente. Intorno all’una della notte, i due coniugi sono stati visti posteggiare la loro auto in via Podestà, a Carignano. Poi il pediatra è salito sul muraglione e l’ha fatta finita. La moglie probabilmente avrebbe dovuto seguirlo, ma gli agenti delle Volanti, chiamati da alcuni passanti, l’hanno trovata in procinto di farlo, in stato confusionale. La polizia l’avrebbe trattenuta mentre era già sul ponte. Anche se gli avvocati di famiglia, Umberto Pruzzo e la moglie Lina Armonia, precisano che probabilmente la donna ha cercato di far desistere il marito, senza riuscirci, e che poi abbia vagato in stato di shock. Alla moglie è stato applicato un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) ed è stata ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Galliera. Un suicidio però programmato da giorni. Dentro l’auto il medico ha lasciato il biglietto e prima di lasciarsi cadere ha mandato un sms al figlio, all’una. Con il quale gli dice: “Apri il cassetto del mobile... lì c’è una busta, è importante...”. Dentro la quale è stata trovata una lettera di scuse, una sorta di testamento e dei soldi in contanti. Marco Ballario Menetto (di 38 anni), però, a quell’ora dormiva, non ha visto il messaggino ed è stato svegliato dalla polizia poco prima delle quattro. Non immaginava che il papà e la mamma avessero in mente un progetto così tragico. «Non potevo immaginare una cosa del genere- ripete - era sconvolto per queste accuse che mi erano piovute addosso». Il farmacista di via Nino Bixio e la moglie, anche lei farmacista, erano finiti agli arresti su mandato della Procura di Monza nell’ambito dell’inchiesta sul traffico illecito di medicinali. Secondo la magistratura avrebbero importato dall’estero farmaci non autorizzati. Stando invece a quanto spiegano i loro legali, si tratterebbe di importazione parallela di prodotti non di marca: “Un’inchiesta destinata a ridimensionarsi”. Comunque, i due coniugi sono stati messi ai domiciliari. Una vicenda che avrebbe sconvolto la famiglia, ma soprattutto il pediatra «Non voglio dare la colpa alla magistratura - ripete Marco Menetto - ma la vicenda è emblematica di come certi provvedimenti dovrebbero essere soppesati, perché colpiscono le persone incensurate che non hanno mai avuto a che fare con la giustizia». Negli scorsi giorni Valentina Drago era stata scarcerata dal Tribunale del Riesame, e secondo quanto spiega l’avvocato Pruzzo i giudici avrebbero ritenuto inconsistenti gli elementi di colpevolezza per giustificare la misura cautelare. Il marito, però, è rimasto agli arresti domiciliari fino a ieri mattina, quando i difensori dopo il suicidio del padre hanno chiesto ed ottenuto dal gip di Monza la revoca del provvedimento.
Pediatra suicida, il pg: «Che dovremmo fare, smettere di indagare?» dall’inviato Marco Menduni del “Il Secolo XIX" «Dispiace, dispiace… però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo di Mani Pulite, dei suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati? Smettere di indagare su chi commette degli illeciti?»: Corrado Carnevali sta seduto nel suo ufficio al secondo piano del tribunale dietro a una scrivania sepolta dai fascicoli. Da 47 anni è in magistratura, da cinque alla guida della procura brianzola. Non recede di un passo dalla stringata dichiarazione del mattino, appena informato della tragedia di Genova e del biglietto trovato nell’auto del medico suicida: «Ormai dicono tutti così, non c’è altro da dichiarare». Il viceministro della Giustizia Enrico Costa reagisce subito: «Di fronte a questo tragico gesto, che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal procuratore non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo». Carnevali allarga le braccia: «Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d’accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un po’ di pulizia in questo Paese? O invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato?». Carnevali sfoglia il fascicolo dell’inchiesta. La commenta: «Il lavoro dei Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c’è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l’alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre». Attacca ancora, il procuratore capo: «Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono soldi, tanti soldi in ballo. Poi, quando arriviamo noi, quando blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca: mi hanno rovinato i magistrati!». Non parla, Carnevali, solo del suicidio di Genova. La collega dell’inchiesta sul traffico di farmaci, Franca Macchia, è la stessa pm che nelle ultime settimane ha avuto tra le mani il caso di Claudio Giardiello, l’autore della strage nel palazzo di giustizia di Milano. L’inchiesta è toccata a lei, di un altro distretto giudiziario, come le norme impongono quando è coinvolto un magistrato. Coinvolgimento che, stavolta, è significato la morte del giudice Ferdinando Ciampi, ucciso dalle pallottole del killer. Chi la conosce bene, sa quanto per lei è duro dover fare il suo lavoro, quello del pm, quando la vittima è un collega e un amico. Nelle ultime settimane era visibilmente turbata. Ieri mattina la notizia del suicidio di Francesco Menetto l’ha lasciata per qualche minuto senza parole. Dopo, un commento a mezza voce: «Ho saputo, mi hanno informato. E’ un momento terribile di un periodo terribile». Poi chiusa nel suo ufficio, insieme al procuratore capo, infine in macchina verso Milano, per una riunione. Nel chiostro del bel tribunale di Monza tutti la considerano un magistrato di grande esperienza. Sua, insieme al collega Walter Mapelli, l’inchiesta sulla “tangentopoli rossa” che ha travolto l’ex dirigente del Pd Filippo Penati. Ma anche una iper garantista: «Fa sempre tutto con scrupolo fin eccessivo, prima di chiedere una custodia cautelare ci pensa non una ma dieci volte. Dispiace sia capitato a lei». Le dà man forte anche il capitano Paolo Belgi, comandante dei Nas di Milano: «Se c’è un’inchiesta lineare, dove tutte le responsabilità sono state sistemate al loro posto, è questa. La nostra impostazione è stata recepita da un pm di grandissima esperienza e confermata dal gip. Certo, di fronte a queste tragedie c’è tutta la possibile partecipazione umana. Ma noi abbiamo lavorato con scrupolo certosino e non abbiamo commesso errori».
Signor Pm, non dica più queste idiozie, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista”. E’ sempre ingiusto accusare qualcuno per il suicidio di un’altra persona. Il suicidio è una scelta personale, drammatica, coraggiosa e imperscrutabile, che appartiene per intero e intimamente a chi sceglie di togliersi la vita. Il suicidio è un atto senza colpe, anche se evidentemente, per provocare un suicidio, servono un insieme di colpe, errori, incomprensioni, scelte, che in parte sono del protagonista del suicidio, in parte delle persone che interagiscono con lui. E’ assurdo però commentare un suicidio per accusare qualcuno. Anche se il suicida lascia un biglietto nel quale accusa. Tuttavia, al dottor Carnevali, e cioè al Pm che ha ordinato l’arresto del figlio del medico, e che ieri ha commentato la notizia del suicidio con una frase agghiacciante (”tanto ormai dicono tutti così, che è colpa dei magistrati…”) vorremmo consigliare due cose. Primo, di non considerare la morte un incidente del mestiere. Secondo di riflettere sul suo ruolo di un Pm e sull’enorme potere che esercita quando ordina un arresto, o quando incrimina. Sarà un ottimo investigatore, non discuto. Ma immagino che chiunque, da oggi, si augurerà di non incontrarlo mai sulla sua strada, una persona così.
La magistratura: arresti e condanne scontate…
Bossetti a processo. Prove zero, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Massimo Bossetti sarà processato in Corte d’assise il prossimo 3 luglio. Lo ha deciso in un’ora un giudice che ha letto sessantamila pagine in pochi giorni e che ha rifiutato di ripetere in contraddittorio l’esame del dna trovato sul corpo di Yara con il nobile motivo che potrebbero scadere i termini di custodia cautelare dell’imputato. Quel che conta, dunque, più che l’accertamento della verità, è tenere il “mostro” in gabbia. Del resto a che cosa sarebbe servita la porcata di diffondere, alla vigilia dell’udienza, le immagini dell’arresto di Bossetti sul cantiere, con i piedi imprigionati dalla calce, mentre i carabinieri impazziti urlano “prendilo, prendilo! Sta scappando, prendilo!”, se non a dipingere l’immagine della bestia? La prima udienza davanti al Gup inizia sempre con scaramucce procedurali tra difesa e accusa, e quella di ieri mattina al tribunale di Bergamo non ha fatto eccezione. Ma fuori dall’ordinario è stato il fatto che un giudice abbia rifiutato alla difesa lo strumento dell’incidente probatorio per ripetere quell’esame del Dna i cui risultati hanno seminato tanti dubbi tra gli stessi periti del Pubblico ministero. Dovrebbe essere lo stesso magistrato dell’accusa (che tra l’altro, lo prescrive il codice, dovrebbe cercare anche gli elementi a favore dell’indagato ) ad avere interesse a “cristallizzare”, attraverso l’incidente probatorio, la prova di colpevolezza. Ma il fatto stesso che la Procura non abbia mai proposto il rito immediato, dimostra che certezze granitiche in questo processo non ce ne sono e che ci si prepara, dopo un passaggio dal Gup che ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, è pura formalità, a uno scontro in aula nell’ennesimo processo indiziario. Dopo Garlasco e Perugia, ecco Bergamo: è fin troppo facile la previsione di una vera roulette russa cui sarà sottoposto il carpentiere di Mapello, in cui la difesa cercherà “un giudice a Berlino” e l’accusa cercherà di sciorinare elementi di prova complementari (alcuni dei quali già caduti, come la ricerca in computer sulla sessualità delle tredicenni) per supportare la debolezza della “prova regina”, che in realtà è solo indiziaria. C’è una prima questione, che riguarda i diritti dell’indagato. Tutti gli atti preliminari, per tre anni e mezzo, sono stati compiuti “contro ignoti”, quindi senza contraddittorio delle parti. Tra questi anche la perizia fondamentale, quella sul dna, proprio quella che ha portato all’individuazione di Massimo Bossetti e al suo arresto. Messo questo punto fermo, si è passati alla costruzione del contesto: dalle ricerche sul computer alle lampade abbronzanti per poi passare, nel solito crescendo rossiniano del circo mediatico-giudiziario, al furgone e a improbabili testimonianze di signore con la memoria ritardata. Fino alla scandalosa morbosa e spasmodica ricerca nelle lenzuola di famiglia e nelle abitudini sessuali dei coniugi Bossetti. Ah, il contesto! Noi osservatori attenti e non abituati a fare gli zerbini dei Pm ci domandavamo due cose: primo, perché, davanti a una prova granitica come quella del dna, ci si affannasse tanto a perdere tempo con le abbronzature e gli eventuali adulteri, che nulla c’entravano con quel che è successo a una bambina di 13 anni, rapita, spogliata, tagliuzzata, rivestita e lasciata morire di freddo ( forse ) in un prato. Secondo: perché la pubblica accusa con la sua prova certa del dna non adiva subito al rito immediato per arrivare in tempi rapidi a una sentenza di condanna? La risposta è arrivata quando i difensori di Bossetti hanno potuto cominciare a leggere le carte e i risultati delle perizie, e hanno appurato, anche con l’aiuto di una serie di esperti genetisti internazionali, che in quei rilievi c’è stato sicuramente un errore. O forse più di uno, perché non c’è coincidenza tra il dna nucleare e il dna mitocondriale. L’esempio più facile per capire è quello dell’uovo: il tuorlo e l’albume devono avere la stessa origine, non possono essere fratelli separati in culla. Ecco perché quegli esami andrebbero ripetuti, anche se nei fatti questo è impossibile perché il materiale è stato consumato tutto, ed era comunque già deteriorato dalla lunga esposizione del corpo di Yara alle intemperie. Forse, perché anche il luogo e i tempi della morte non sono certi. Sarà un altro dei tanti processi impossibili, quello che verrà celebrato il 3 luglio. Anche per questo Massimo Bossetti non dovrebbe neppure stare in carcere. Comunque andranno le cose, è sicuro che Yara Gambirasio non avrà mai giustizia.
Ma non è sempre così…
L’ex procuratore capo della Repubblica di Genova, Francesco Lalla, con il garbo del magistrato di una volta ma la fermezza di chi sa di essere una persona perbene, si è dimesso da difensore civico della Regione Liguria e ha detto quello che pensa sulle indiscrezioni giudiziarie che lo riguardano, scrive Blitz Quotidiano”. L’inchiesta è in mano alla Procura della Repubblica di Torino, competente per i magistrati della Liguria e è stata promossa dalla Procura di Genova, dove Lalla è stato capo fino al 2010. Non è vero, sostiene Francesco Lalla, che abbia mai chiesto l’assunzione della nuora all’allora presidente della banca Carige poi finito in carcere. Era stata selezionata e lui si limitò a confermare che era stata una buona scelta. La nuora, che già lavorava altrove, fece poi un’altra scelta di lavoro. La riprova è nel fatto che, almeno finora, i magistrati che conducono l’inchiesta sulle malefatte di Berneschi non hanno visto nella conversazione estremi di possibile reato. Tant’è, basta una indiscrezione a fare scoppiare lo scandalo. Sul Secolo XIX di martedì 17 marzo 2015 Marco Grasso ha riportato così le parole che Francesco Lalla, in conferenza stampa, dice di avere detto a Giovanni Berneschi: “Ricordo che in uno dei rari incontri con l’allora presidente Berneschi commentai favorevolmente il fatto che Banca Carige aveva contattato mia nuora che in quel periodo, come adesso, aveva un incarico dirigenziale in una società. Mi sono permesso di dire che Carige aveva fatto una buona scelta, commento inopportuno forse ma umanamente comprensibile. Tra l’altro mia nuora non ha accolto la richiesta di Carige. Preciso di non essere indagato”. Completa Marco Grasso: “Il nome dell’ex capo dei pm genovesi compare in un appunto dell’agenda trovata nell’appartamento di Amelia Tignonsini, ex segretaria personale di Berneschi, del 27 luglio 2009: “Lalla per assunzione Mariani”. «Non ho mai conosciuto la segretaria di Berneschi». Quanto al fatto che negli anni scorsi inchieste-fotocopia a quella che ha portato all’arresto del padre-padrone della banca fossero state archiviate, Lalla ha precisato che «nel periodo in cui è avvenuto quel colloquio Berneschi non aveva alcun accertamento giudiziario in corso per l’ufficio del pubblico ministero». Nel corso dell’incontro, riferisce Marco Grasso, Lalla ha attaccato uno degli autori dell’articolo pubblicato dal Secolo XIX. L’articolo era a firma di Marco Grasso e Matteo Indice. Ha detto Lalla: “A mio parere il giornalista doveva astenersi poiché c’erano interessi personali”. Spiega Marco Grasso: “Il riferimento indiretto è a una querela presentata nel 2010 contro Matteo Indice, che si è conclusa con una condanna in primo grado e ora è in attesa di definizione presso la Corte d’Appello di Torino. La replica di Matteo Indice è stata: “Visto che il riferimento mi tocca personalmente, rispondo che così è comodo. In base a un principio del genere, basterebbe una querela di parte per disinnescare un giornalista scomodo e nessuno potrebbe più scrivere di niente”. Sabato 14 marzo 2015, Marco Grasso e Matteo Indice avevano scritto sul Secolo XIX: “L’archivio di Giovanni Berneschi non spaventa solo la politica. Dal calderone dello scandalo Carige salta fuori un’agendina piena di nomi di alti magistrati e una segretaria che conosce, giustamente, molti segreti. Gli atti sono in un’inchiesta parallela, aperta dalla Procura di Torino, in cui ci sono fra gli altri i nomi dell’ex procuratore capo di Genova Francesco Lalla (novità assoluta), che a Berneschi avrebbe «chiesto l’assunzione per una nipote»; e quello di Roberto Fucigna, che «in veste di presidente di una squadra di volley» (sponsorizzata dalla banca stessa) incontrava l’ex leader dell’istituto in modo «assiduo». Negli stessi anni, rilevano gli investigatori, da giudice per le indagini preliminari archiviò i primi fascicoli su Carige. Fra il 2002 e il 2003 le Fiamme Gialle focalizzarono un giro di false fatture e fondi neri e varie truffe sulle compravendite immobiliari del gruppo creditizio. Episodi molto simili a quelli emersi quando alla Procura di Genova è approdato il nuovo capo Michele Di Lecce. Non solo. Nelle vecchie indagini condotte ai tempi di Lalla e Fucigna, vennero archiviati molti dei personaggi arrestati l’anno scorso su (nuova) richiesta dei pubblici ministeri Nicola Piacente e Silvio Franz”. Queste le repliche di Francesco Lalla e Roberto Fucigna, raccolte dal Secolo XIX: “I discorsi su quell’assunzione? Li ricordo, certo, ma non si trattò d’una richiesta di favori, anzi. Mia nipote alla fine rinunciò volontariamente all’ingresso in Carige, perché aveva altre opportunità. Non pretesi alcuna spintarella” ha detto Lalla. E Fucigna ha spiegato: “Chiedevo solo se era disponibile a sponsorizzare la pallavolo, nient’altro. L’archiviazione dei vecchi rilievi su Carige? La Procura in primis sosteneva non ci fossero elementi per insistere. Oggi con lo sport ho smesso, vado solo allo stadio…”.
Liguria, da Carige al carbone. Le indagini dimenticate e i magistrati nei guai, scrive di Ferruccio Sansa su "Il Fatto Quotidiano". Indagini poche, condanne pochissime. Il sistema di potere indisturbato. Magistrati e Anm in silenzio. Poi arrivano loro: Michele Di Lecce e Nicola Piacente a Genova, Francantonio Granero a Savona, Roberto Cavallone a Sanremo. Con i nuovi inquirenti la Liguria si è scoperta malata: l’inchiesta Carige ha messo in ginocchio la banca dove sedeva mezza famiglia Scajola; l’indagine sulle spese pazze nella Regione guidata dal centrosinistra ha portato in manette due vicepresidenti della giunta e investito mezzo consiglio. Poi l’arresto di Gino Mamone per appalti da 10 milioni. Quel Mamone indicato in un’informativa della Finanza come possibile contatto tra politica e ’ndrangheta in Liguria (mai però indagato per questo); l’uomo che finanziava l’associazione Maestrale di Claudio Burlando e che i pm sospettano ricattasse il governatore. E ancora, le inchieste di ’ndrangheta che il pm Cavallone ha avviato nel Ponente ligure, dove ogni anno bruciavano duecento locali. Autocombustione? O per finire: l’inchiesta sulla centrale a carbone di Vado Ligure. I periti dell’accusa parlano di 440 morti. Ci sono decine di indagati tra cui Burlando (l’accusa è concorso in disastro ambientale doloso): le ciminiere sputavano veleno da decenni, ma bisognava attendere Granero e i suoi pm. Ha dichiarato Granero alla Commissione Parlamentare per i Rifiuti: “Sono stato soggetto a pressioni, ricatti e pedinamenti… Ero stato in Liguria negli anni 80, quando ho fatto il processo Teardo. Sono tornato dopo trent’anni e ho trovato la stessa situazione, una struttura di poteri trasversali, priva di colore partitico, composta da poche persone, che domina l’attività economica e finanziaria del territorio”. Ecco la magistratura in Liguria: le inchieste che si fanno oggi. E i dubbi su quelle che non si sono fatte ieri. A cominciare dalla Carige. Nel 2002 la Finanza aveva prodotto migliaia di documenti. Scrive oggi il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. In Tribunale c’è chi ricorda che la società assicuratrice della Carige era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna è in pensione, indagato a Torino per le sponsorizzazioni. Le carte Carige di oggi tirano in ballo altri magistrati : “Il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova, braccio destro di Giovanni Berneschi, boss della banca per decenni. Pare riferirsi, secondo gli investigatori, al procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico (non indagato) che respinge l’addebito: “Mai frequentato quella gente”. Il gip Adriana Petri così motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (marito del magistrato Pasqualina Fortunato, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. A Torino, competente per gli atti relativi ai magistrati liguri, si stanno valutando le intercettazioni che parlano dell’ex procuratore aggiunto di La Spezia Maurizio Caporuscio, di Fortunato e perfino di Granero (la sua posizione, però, pare già chiarita). A Torino si sta studiando la posizione di Fucigna e di Francesco Lalla (non indagato), ex procuratore di Genova, che – secondo la segretaria di Berneschi – avrebbe chiesto l’assunzione di una nipote. Una cosa è certa. Nelle intercettazioni Carige si parlava di assunzioni di parenti di magistrati. Che dire poi del caso Festival, il più clamoroso crac della marineria italiana? Centinaia di persone a spasso, un buco di 273 milioni. Tra i consiglieri di Festival, Roberto De Santis, che definiva Massimo D’Alema “suo fratello maggiore” e Raffaele Bozzano, nominato da Burlando nel cda dell’ospedale Gaslini. Tra i pezzi grossi del gruppo, Umberto Ferraro e Marina Acconci, vicini alla sinistra genovese. Tanti di loro erano nei cda di società di brokeraggio in affari con Festival: Italbrokers, società che fa capo a Franco Lazzarini, amico di D’Alema. La collegata Interconsult faceva riferimento a Gianni Pisani, finanziatore di Italiani Europei e scelto dalla Regione per guidare Sviluppo Genova che gestisce miliardi di appalti pubblici. L’inchiesta Festival si è chiusa tra prescrizione e immunità: l’armatore Giorgio Poulides era ambasciatore di Cipro in Vaticano. Il legame tra magistratura e mondo degli affari di centrosinistra a Genova pareva normale: all’epoca il procuratore, i responsabili della Corte d’appello e dell’Ufficio gip vantavano frequentazioni con quel gruppo di potere. Molti giocavano a calcetto insieme. Stima, certo: appena andato in pensione il procuratore Francesco Lalla è stato nominato difensore civico dalla Regione (ieri si è dimesso). Troppe inchieste mai aperte o chiuse negli scaffali. Come quella su un prestito di 50 mila euro. Al centro Fouzi Hadj, imprenditore siriano con affari in Guinea Conakry: in un dossier dell’ong Human Rights Watch fatto proprio dall’Onu, viene indicato come trafficante d’armi. Fouzi a Genova aveva amici nelle istituzioni. Da un fascicolo della Procura di Montecarlo passato poi a Genova emerge che Fouzi intrattiene rapporti con poliziotti. Uno è Oscar Fioriolli, all’epoca questore di Genova, poi di Napoli. Fioriolli ha ricevuto dal siriano 50 mila euro. “Un prestito”, tagliò corto l’alto dirigente. Nelle carte dell’inchiesta si trovano nomi del G8 del 2001, come Spartaco Mortola, all’epoca capo della Digos di Genova. C’è poi Marcellino Melis, capo degli artificieri di Genova, che passò alle cronache per aver perso una prova decisiva nell’inchiesta del G8: la famosa molotov. Melis si occupa per Fouzi di affari tipo la blindatura di un’auto destinata al dittatore della Guinea, Lansana Conté. Ma anche questo fascicolo è finito in prescrizione.
Quei file audio del giudice Fucigna, trema il ramo fallimentare. Consigli poco ortodossi nei colloqui registrati e depositati ai pm di Savona - nell'ambito del caso Berneschi - che li hanno inoltrati ai colleghi piemontesi, scrive Marco Preve su “La Repubblica”. UNA serie di colloqui, registrati di nascosto, con l’ex capo dei gip genovesi Roberto Fucigna, consegnati alla procura di Savona e da questa ai colleghi di Torino, rischiano di aprire un nuovo, clamoroso filone d’indagine sulla giustizia genovese e in particolare sulla gestione di alcune procedure fallimentari. E’ l’ultimo retroscena, dal potenziale esplosivo, che investe il tribunale del capoluogo ligure e che va a sovrapporsi e intersecarsi con la tranche della maxi inchiesta su Banca Carige che riguarda le “relazioni pericolose” tra l’ex presidente Giovanni Berneschi e alcuni magistrati. Tra questi, lo stesso Fucigna, ma anche l’ex procuratore capo Francesco Lalla (ne parliamo in questa stessa pagina) e l’ex reggente della procura di La Spezia Maurizio Caporuscio. Una serie di appunti di Berneschi e della sua segretaria, sequestrati nei giorni del suo arresto, e contenenti riferimenti a toghe, imprenditori e società erano stati subito mandati a Torino per competenza. I pm Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio avevano interrogato prima la proprietaria dell’agendina con i nomi e in alcuni casi delle cifre appuntate, ovvero la segretaria di Berneschi, Amelia Tignonsini e in seguito lo stesso ex presidente della banca. Che aveva fornito spiegazioni non solo sui suoi rapporti con Lalla e Fucigna (quest’ultimo assiduo frequentatore del banchiere per ottenere finanziamenti per la squadra di volley di cui era presidente onorario) ma anche su altri nomi e società. Ad esempio la Penelope società legata al petroliere Antonio Desiata (sponsor di Igovolley) che rilevò un capannone dal fallimento della Ga, Genova Archivi, società creata da Desiata con Andrea Pesce (manager corteggiato dalla politica fino a quando è servito e poi abbandonato al fallimento del Savona Calcio e di Transitalia) e che curava l’archiviazione dei documenti della Cassa di Risparmio. A Berneschi è stato chiesto anche di Michele Tecchia, titolare di un’azienda la Emark che stampava pubblicazioni e filigrane per Carige, fallita lo scorso anno. Tecchia, parente di una cancelliera del tribunale, fu anche lui presidente dell’Igovolley sponsorizzato da Carige. Pesce, del quale la segretaria di Berneschi si ricorda appena, a differenza della martellante presenza negli uffici della banca dell’ex giudice, è finito nei guai a Savona per il crack della società di calcio. E proprio in questa procura sono stati consegnati file audio registrati durante delle conversazioni nelle quali Fucigna fornirebbe una serie di indicazioni tecniche, con tanto di nominativi di professionisti ai quali rivolgersi, per cercare di attenuare posizioni debitorie di società in liquidazione e con procedure concordatarie o fallimentari avviate. Uno squarcio su un mondo tanto esclusivo quanto riservato, che dagli avvocati specializzati, attraverso commercialisti, consulenti e parcelle sostanziose, arriva fino alle aule dei tribunali. Le registrazioni sono ora al vaglio dei pm di Torino. Che su Fucigna avevano già un fascicolo aperto riguardante le sue eventuali responsabilità nelle false sponsorizzazioni del volley (due ex presidenti sono a processo per reati fiscali). Ma anche Genova si sta muovendo sul fronte di quelli che sono ormai colleghi in pensione. Il pm Silvio Franz, già sette mesi fa, aveva delegato i finanzieri del nucleo di polizia tributaria ad acquisire «presso le società del Gruppo Carige informazioni in merito ai rapporti di cui... nella agenda nella disponibilità di Amelia Tignonsini segretaria di Berneschi». E gli accertamenti sono quasi conclusi.
Toghe nel mirino: la magistratura tra diritto e politica, scrive Alessandra Di Giuseppe su “Blitz Quotidiano”. Sono passati ventitre anni da quel lontano 1992, l’anno dell’inchiesta “Mani Pulite”, l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, l’anno del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. A Milano, un pool di magistrati guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, tra i quali oltre a Di Pietro figurano Gherardo Colombo e Ilda Boccassini, portano alla luce vicende di corruzione che toccano le più alte sfere del potere politico italiano. La magistratura raggiunge l’apice del consenso popolare, dopo anni di isolamento ed attacchi provenienti da esponenti di partiti politici, soprattutto del partito socialista. Tra un processo mediatico e l’altro, quei giudici diventano degli eroi, paladini della legalità e difensori della democrazia. Dopo quella stagione, oggi assistiamo increduli al tramonto, o meglio, alla “ parabola discendente” della magistratura italiana, con una profonda disaffezione popolare nei confronti delle toghe. La riforma della responsabilità civile dei giudici, introdotta con legge 27 febbraio 2015, n. 18, è stata accolta con un’alta percentuale di consenso popolare come quando, nel 1987, gli italiani si espressero a favore del referendum popolare sulla medesima questione. Oggi come allora la magistratura appare delegittimata dagli errori giudiziari, dagli episodi di corruzione e dalle correnti politiche al suo interno. Tante, troppe, le vicende giudiziarie che coinvolgono magistrati.
Luigi Passanisi, presidente del Tar Marche è stato condannato in primo grado a tre anni e sei mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari per aver «venduto» una sentenza del Tar di Reggio Calabria nel 2005, quando ne era presidente.
Nell’ambito dell’inchiesta sul Mose sono indagati magistrati della Corte dei Conti, Vittorio Giuseppone, giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche.
Il magistrato del lavoro di La Spezia Maurizio Caporuscio, il procuratore di Savona Francantonio Granero e il magistrato del lavoro a Spezia Pasqualina Fortunato sono indagati per"rivelazione di segreti d’ufficio" nello scandalo che ha travolto la Banca Carige.
16 giudici tributari, otto tra funzionari e impiegati presso Commissioni tributarie arrestati a Napoli nell'ambito di un blitz anticamorra.
Luigi De Gregori, un giudice della Commissione provinciale tributaria di Roma arrestato in flagrante, mentre intascava una tangente da 6mila euro.
Il giudice Franco Angelo Maria De Bernardi, presidente della II sezione quater, del Tribunale amministrativo regionale del Lazio arrestato per corruzione su ordine della procura di Roma: il magistrato aveva messo su un vero e proprio sistema di corruzione «integrale».
Il pm di Roma Roberto Staffa, titolare di numerosi processi contro la criminalità organizzata, arrestato dai carabinieri e accusato di corruzione, concussione e rivelazione di segreti d’ufficio in cambio di prestazioni sessuali.
Giancarlo Giusti, ex gip del Tribunale di Palmi, il magistrato arrestato dalla squadra mobile di Reggio Calabria nell'operazione condotta contro la cosca Bellocco, già condannato in precedenza a 4 anni di carcere nell'ambito di una inchiesta della Dda di Milano.
A Taranto, il giudice civile Piero Vella arrestato in flagranza di reato per corruzione in atti giudiziari.
Pietro Volpe, coordinatore dei Giudici di Pace di Udine arrestato nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura della repubblica di Bologna e condotta dalla Polizia stradale di Amaro su falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni ucraini che trasportavano abusivamente merce sulla tratta Venezia-Trieste.
L’ex presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, indagato nell'ambito di una inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari.
I fenomeni corruttivi pare prolifichino nelle sezioni fallimentari dei Tribunali cosicché è stato coniato il neologismo “fallimento poli”: il 12 giugno 2012 Chiara Schettini, giudice de L’Aquila, ex magistrato del tribunale di Roma viene arrestata con l'accusa di aver pilotato i fallimenti per reati gravissimi: peculato, corruzione e minacce; ”Di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi”, parla così nelle telefonate intercettate dagli inquirenti e durante l’interrogatorio avrebbe affermato: “a Roma era una prassi dividere il compenso con il magistrato, 3 su 4 sono corrotti”.
Condannato definitivamente in Cassazione Sebastiano Puliga, ex giudice alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze per bancarotta fraudolenta aggravata, corruzione in atti giudiziari e falso.
L’ex procuratore capo di Pinerolo, in provincia di Torino, Giuseppe Marabotto arrestato e accusato di corruzione. L’indagine condotta a Milano dal sostituto procuratore Fabrizio Romanelli riguarda una serie di consulenze affidate dal magistrato a professionisti “amici”.
Uno spaccato devastante, che rende attuali le parole che Giovanni Falcone pronunciò a Milano il 5 novembre 1988, nel corso di una conferenza pubblica: "occorre rendersi conto che l'indipendenza e l'autonomia della magistratura rischia di essere gravemente compromessa se l'azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato - solo perché ha vinto un concorso di ammissione in carriera - come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una specie di superuomo infallibile ed incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il CSM ed i consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso". Il 13 marzo 1991 Giovanni Falcone varcava le soglie del Ministero della Giustizia su invito del Ministro Claudio Martelli, con l’incarico di Direttore degli Affari penali e proponeva una riforma della giustizia che prevedeva: la separazione delle carriere e la regolamentazione della carriera del pubblico ministero che non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, la razionalizzazione ed il coordinamento dell’attività del pm, l’eliminazione delle correnti politiche, la formazione professionale dei giudici. Le proposte di Falcone di allora sono condivisibili o meno, ma indubbiamente molto attuali, e dopo vent’anni non riprendere quelle idee significa fare un torto non soltanto a lui, ma anche a noi stessi ed ai tanti giudici onesti nel nostro Paese.
Quindi, non è vero, Corrado Carnevali, che «ormai dicono tutti così».
Parliamo della trattativa Stato-Mafia.
Trattativa Stato-mafia: condanna per il maresciallo Masi. È il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo. Ecco la sua storia fino al verdetto della Cassazione, scrive Anna Germoni su Panorama. Saverio Masi, il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato-mafia, e testimone dell'Accusa (è il numero 54 della lista della procura di Palermo) il 24 aprile è stato condannato dalla Cassazione. Dopo una lunga riunione di camera di consiglio, il presidente della Quinta sezione penale del Palazzaccio di Roma ha rigettato in toto il ricorso presentato dall'avvocato dell’ex capo di scorta del dottor Di Matteo, notificando anche il pagamento delle spese processuali. La vicenda risale al 2008 quando Masi lavorava al nucleo investigativo del comando provinciale dell’Arma a Palermo. Con la sua auto privata il militare racconta di eseguire di iniziativa propria un pedinamento. Prende una multa. Per evitare tale contravvenzione scrive che la macchina privata era usata per motivi di servizio. Al comando dei Carabinieri viene chiesta contezza della vicenda e si apre un fascicolo nei confronti del maresciallo dalla procura palermitana. Per i giudici di primo grado, il militare avrebbe falsificato la firma del suo superiore, con le ipotesi di reato di falso materiale, falso ideologico e truffa. Nel 2013 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a sei mesi di reclusione per falso materiale e truffa. L’avvocato del militare aveva annunciato il ricorso in Cassazione che si è celebrato il 24 aprile, chiedendo l’annullamento senza rinvio per entrambi i reati, perché il fatto non sussiste e insistendo sulla figura chiave del suo assistito, in qualità di testimone della procura di Palermo nel processo Stato-mafia. Strategia difensiva che ha suscitato qualche brusìo da parte dei giudici della Cassazione, vista la non pertinenza del caso con il ricorso pervenuto. Il procuratore generale ha invece chiesto l’assoluzione per la truffa e la condanna di 5 mesi e 10 giorni per falso materiale. Il 24 aprile 2015 il verdetto: i giudici hanno rigettato il ricorso del legale, dell’ex capo scorta del pm Di Matteo, con il pagamento delle spese processuali. Condannato. Ora per il militare, si prospetterebbero provvedimenti di Stato tra cui la degradazione, fino all’espulsione dall’Arma. Ma c'è di più. Il 19 gennaio 2015 scorso il maresciallo Saverio Masi, il suo ex collega Salvatore Fiducia e il loro avvocato Giorgio Carta sono stati rinviati a giudizio per diffamazione. Processo che inizierà il 16 maggio del 2016 davanti al tribunale di Roma. A giudizio anche una serie di giornalisti della tv, della carta stampata, tra loro i direttori de "Il Fatto Quotidiano" Antonio Padellaro e di "Servizio Pubblico" Michele Santoro. Nel 2013, durante una conferenza stampa indetta dal legale di Masi, nel suo studio romano, avevano accusato gli ex vertici del nucleo operativo di Palermo di avere di fatto “ostacolato” le indagini che avrebbero potuto portare all'arresto del boss Matteo Messina Denaro e di Bernardo Provenzano. Prontamente i superiori dell’ex capo scorta di Di Matteo, Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca, li avevano denunciati alla procura di Roma per diffamazione. Sulla base di tale esposto, era nato uno scontro tra le due Procure di Roma e di Palermo. I pubblici ministeri del capoluogo siciliano avevano eccepito l’incompetenza a indagare da parte dei colleghi capitolini. Ma la querelle finita davanti alla Cassazione, ha dato ragione alla Procura guidata da Giuseppe Pignatone. Inoltre mentre il fascicolo aperto dai pm palermitani non è ancora concluso dopo querele e contro-denunce tra Masi e gli alti ufficiali dell’Arma, per la mancata cattura di Provenzano, risulta invece che la procura di Bari abbia chiesto già il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti proprio di Masi, accogliendo così favorevolmente l’esposto degli alti ufficiali dell’Arma. Malgrado ciò, il militare continua a girare l’Italia partecipando a convegni di legalità e parlando dei processi in corso.
Trattativa Stato-mafia: il mistero Conso. Una diatriba fra giornalisti. Un ex ministro della Giustizia che nel 1993 revoca il carcere duro per 334 detenuti. E seri dubbi su un intero processo, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da alcuni giorni è scoppiata un'interessante diatriba giuridico-legale tra Massimo Bordin, ex direttore di Radio Radicale (nonché voce di Stampa & regime, la sua rassegna-stampa quotidiana) e Marco Travaglio, condirettore del Fatto quotidiano. Oggetto del contendere è il processo palermitano sulla presunta "trattativa" fra Stato e Cosa nostra, ai tempi delle stragi mafiose del 1992-93, e il ruolo dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. La diatriba è importante. Perché riesce a fare emergere elementi importanti, ma sottaciuti, del processo palermitano. Ma prima serve un antefatto: va riassunta la storia della "trattativa", perché troppo spesso se ne parla ipotizzando una scontata consapevolezza del lettore. Secondo la Procura di Palermo, all'inizio degli anni Novanta fu avviato un negoziato segreto fra alcuni boss mafiosi del peso di Totò Riina e Bernardo Provenzano, e alcuni uomini delle istituzioni: importanti politici e alti ufficiali dei carabinieri. L'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica attiva) e dopo di lui altri magistrati palermitani, a partire da Nino Di Matteo, hanno ipotizzato che oggetto dell'accordo sarebbe stato la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure previste dal 41 bis, l'articolo della norma dell'ordinamento penitenziario che ordina un trattamento particolarmente severo per alcuni detenuti ritenuti pericolosi, come i mafiosi. Il processo è iniziato a Palermo nel maggio 2013 e una decina d'imputati oggi sono a giudizio, accusati chi di attentato a un corpo politico dello Stato, chi di falsa testimonianza. Su questa ipotesi giudiziaria, come del resto quasi su tutto, l'Italia si divide. Bordin è fra quanti guardano con scetticismo le stesse basi logiche e giudiziarie del processo (una piccola schiera cui, per obbligo di trasparenza, sommessamente ci uniamo): a unire costoro è l'idea - forse troppo pragmatica per giustizialisti "puri e duri" - che la politica abbia il compito istituzionale di affrontare anche i più gravi problemi e di risolverli. Del resto, era già stato fatto in passato con "interlocutori" sgradevoli quanto i mafiosi, per esempio con le Brigate rosse. Di più: se la "trattativa" fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto e la mafia ne avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è stato così. Su questo versante, anche celebri giuristi di sinistra come Giovanni Fiandaca sostengono che l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regga: i comportamenti sotto accusa non sono reato e, soprattutto, nessuno ha mai abrogato o alleggerito il 41 bis. Sull'altro versante, Travaglio è tra i più attivi sostenitori del'lipotesi accusatoria, che a Palermo ha riunito sul banco degli imputati una decina di teste male assortite: boss mafiosi, politici, ex ufficiali dei carabinieri. Per chi è convinto senza ombra di dubbio che la "trattativa" ci sia stata, la commistione tra boss mafiosi e servitori dello Stato è un orrido, illecito connubio, certamente da sanzionare a prescindere dai suoi risultati. Questa parte si fa forte anche di una sentenza di primo grado, pronunciata nel 1998 dal Tribunale di Firenze, alla fine del processo sulla strage dei georgofili (1993): in quella sentenza viene scritto esplicitamente che una "trattativa" ci fu, e che le stragi mafiose di oltre 20 anni fa vennero compiute per costringere lo Stato a venire a patti sul 41 bis. Bene. Su che cosa discutono oggi Bordin e Travaglio? Sul ruolo di Conso, già presidente della Corte costituzionale e soprattutto ministro della Giustizia dal febbraio 1993 al maggio 1994 in due governi di centrosinistra (Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi). Perché l'unico atto di quegli anni che possa essere in qualche modo letto come un possibile cedimento alla mafia riguarda proprio Conso: che il 2 novembre 1993 decise di non rinnovare circa 334 provvedimenti di 41 bis in scadenza. E proprio sul nome di Conso, effettivamente, il mistero s'infittisce. Perché l'ex ministro, personalità specchiata e universalmente apprezzata, malgrado il suo ruolo e le sue azioni, non è sul banco degli imputati a Palermo. Sul punto, lo scambio tra Bordin e Travaglio è vivace. Bordin si domanda (lo fa per radio e sul Foglio) perché Conso, indagato per falsa testimonianza, non sia oggi sotto processo nel processo palermitano. Travaglio gli risponde sul Fatto che questo è reso impossibile dal codice penale, che sempre rinvia (art. 371 bis) quel tipo di procedimenti alla fine del processo. Ora, a Travaglio si potrebbe forse obiettare che Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno dei primi anni Novanta, a Palermo è attualmente imputato proprio per una falsa testimonianza resa in quel procedimento. E che nei suoi confronti la Procura non ha atteso la fine del processo. Ma sicuramente il tribunale avrà avuto ottime ragioni per differenziare la sorte giudiziaria di Mancino da quella di Conso. Però, e qui andiamo al mistero Conso, la questione in effetti travalica la falsa testimonianza. Se è vero che a Palermo da un anno è sotto processo il negoziato tra mafia e Stato, la domanda è perché non sia imputato di attentato a un corpo politico dello Stato anche Conso, il politico che con il suo atto sul 41 bis (attenzione: scrivo per ipotesi, esclusivamente in base alla logica della pubblica accusa) potrebbe avere ceduto qualcosa alla presunta controparte mafiosa? È proprio in questa anomalia che si rende più evidente la fragilità stessa dell'impianto accusatorio a Palermo. Ovvio, ci sono ragioni di opportunità processuale che possono avere spinto la Procura a evitare di chiamare Conso sul banco degli imputati: la prima è che, trattandosi di un ipotetico reato compiuto da ministro, a giudicarlo potesse/dovesse essere il Tribunale dei ministri e non la Corte d'assise di Palermo. Potrebbero esserci anche ragioni più "politiche": Conso, come s'è detto, è al di sopra di qualsiasi sospetto. Lui stesso, l'11 novembre 2010 parlando alla commissione Stragi, dichiarò di avere agito in piena spontaneità sul 41 bis: “Da parte mia" spiegò l'ex ministro "non c’è mai stato neppure il barlume di una possibilità di trattativa”. Comunque, l’ex Guardasigilli spiegò che la decisione di non rinnovare il 41 bis per i mafiosi in carcere, “fu il frutto di una mia decisione, decisione solitaria, non comunicata ad alcuno, né ai funzionari del ministero, né al Consiglio dei ministri, né al presidente del Consiglio, né al capo del Ros Mario Mori, e nemmeno al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria". E Conso concluse: "La decisione non era un’offerta di tregua né serviva ad aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze e quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Che cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”.
Parliamo di Giulio Lampada.
Il calabrese di successo odiato dalla Procura, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Giulio Lampada è un imprenditore calabrese, che ha avuto successo a Milano. Ma dopo anni di benessere è stato arrestato con l’accusa di essere un capo mafia. Difficile trovare traccia di reato nelle accuse. Su questo torneremo. Oggi vogliamo denunciare il fatto che da quattro anni è sottoposto al regime di custodia cautelare e che il tribunale milanese, pur di non concedergli i domiciliari, raddoppia le perizie. Forse non molti ricorderanno chi è Giulio Lampada, e allora è bene rinfrescare la memoria in proposito. Giulio Lampada è un giovane imprenditore calabrese che, dopo aver per anni gestito un bar davanti al Tribunale di Reggio Calabria, frequentato giornalmente, come è normale sia, da magistrati ed avvocati, che tutti lo avevano per amico e persona per bene, alla fine degli anni Novanta seppe fare con successo il salto verso Milano. In pochi anni, Lampada riuscì ad organizzare varie imprese redditizie, sia nel campo dei giochi permessi e propiziati dallo Stato, sia dei bar e delle caffetterie. È poi perfino ovvio che, dal momento che era riuscito ad ascendere i gradini sociali, diventasse amico di persone in vista, della Milano “bene” e poi, poco a poco, di politici, gente dello spettacolo, magistrati, dirigenti, manager e via dicendo. Così va il mondo e così è sempre andato, anche se ad alcuni possa dispiacere. Però Lampada aveva contro di sé non uno ma ben due peccati originali dai quali non poteva liberarsi facilmente: per un verso, il fatto di essere calabrese e, per di più, a Milano e, ancor per di più, di successo; per altro verso, il fatto di essere imparentato, per mezzo di un matrimonio del fratello, con altra famiglia calabrese nota agli inquirenti come appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, dopo anni di benessere e di lavoro elargito anche agli altri che con lui collaboravano, Lampada viene inaspettatamente arrestato su richiesta della Procura milanese con l’accusa di essere non solo appartenente a una cosca mafiosa, ma perfino di esserne un capo, un organizzatore, finendo con l’essere coinvolto nelle vicende che hanno interessato il Giudice Giusti, morto suicida poche settimane or sono. Sul merito delle accuse, all’interno delle quali invano si cercherebbero le tracce di un reato – tranne uno, la corruzione di alcuni finanzieri, di cui peraltro egli stesso si è confessato colpevole quale concusso e non quale corruttore – si tornerà fra pochi giorni con più agio. Per ora, occorre evidenziare una vicenda processuale di contorno che però tanto di contorno non è, se si pensa che si riferisce alla sua libertà personale e visto che egli si trova in stato di custodia cautelare da circa quattro anni, protestando sempre la propria innocenza. Infatti, pur dopo numerose e qualificate consulenze disposte d’ufficio dal Tribunale che attestano la sua situazione soggettiva di incompatibilità con il carcere per ragioni gravi di salute di ordine psichico – vere patologie attestate senza ombra di dubbio – il Tribunale di Milano, in sede di riesame, ne ha escogitato una nuova ed inaspettata: disporre una nuova perizia di un altro medico, pochi giorni dopo che il perito d’ufficio nominato dal medesimo Tribunale aveva concluso per la necessità di concedere a Lampada, per oggettive ragioni di salute, gli arresti domiciliari. A mia memoria, una cosa del genere non è mai capitata. È certo successo che un Tribunale chiedesse un approfondimento, un chiarimento sull’esito della perizia, anche per cercare di comprendere meglio la situazione nella sua oggettività. Ma sempre allo stesso perito che abbia effettuato la perizia; mai è invece accaduto che dopo che il perito nominato dal Tribunale concluda nel senso della necessità di concedere la detenzione domiciliare, il Tribunale ne nomini un altro con il medesimo incarico già espletato dal precedente perito. Cosa il Tribunale si aspetta dal nuovo perito? Che forse pensa che possa dire qualcosa di diverso dal collega che l’ha preceduto? E se sì, perché? Ed in che senso? E perché allora non mette in preallarme un terzo perito che si tenga pronto, nel caso in cui decidesse di nominarne ancora un altro? Insomma, un enigma processuale, un rompicapo giudiziario inesplicabile quanto inaspettato che però mette molto in allarme chi abbia a cuore le ragioni del diritto e della giustizia. Infatti, se un Tribunale non si fida del perito da lui stesso nominato al punto da volerne verificare l’attendibilità attraverso la nomina di un altro perito, cosa si potrà salvare dell’operato di entrambi, cosa resterà della credibilità del processo? E ancora? Che dire della legittimità di un tale operato? Cosa della imparzialità del Tribunale? Domande tutte che esigono una risposta. Ciascuno dia la propria.
Il delitto di Ilaria Alpi. Parliamo di Giorgio Comerio.
Tutto è iniziato il 26 aprile 2015 con una email info@ ed il nome del suo sito web. “Buon giorno Dr. Antonio Giangrande. Ho letto alcune sue pubblicazioni ove ho trovato, ancora una volta, le false informazioni che mi riguardano. Gradirei che, da qualche parte, emergesse la semplice constatazione della seguente realtà investigativa: dopo 4 anni di indagini sul mio conto e su quello dei miei collaboratori, la magistratura ha potuto appurare, senza ombra di dubbio, che nei miei comportamenti non vi é stato mai alcun atto illecito o penalmente rilevante”.
Sig. Comerio – rispondo - mi dispiace essermi reso corresponsabile per la pubblicazione di notizie, a suo dire false, che riguardano la sua persona. Io non ho dolo diffamatorio nei suoi riguardi. Io mi limito a far diventare storia la cronaca di tutti i giorni. Proprio perché il tempo è galantuomo e non è ideologizzato, io sono sempre pronto a rettificare od integrare quanto da altri scritto e da me riportato. Nel suo caso mi sono limitato a citare gli articoli di “La Repubblica”, Rai 3, ecc. che a loro volta si avvalgono, come fonte, della relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta. In tal caso mi indichi cosa io devo aggiungere a sua difesa, lasciando a lei l’opportunità di dire la sua, sinteticamente, in aggiunta a quanto da me pubblicato, affinchè abbia più efficacia. Non tralasci numero e data del procedimento penale, con il nome del pm che ha chiesto l’archiviazione e il gup che l’ha confermata. O comunque altro atto giudiziario definitivo che la riguardi.
"Egregio Dr. Giangrande, grazie della sollecita risposta. La magistratura non ha mai ravvisato nessun atto penalmente rilevante e, di conseguenza, non si é mai avuto nessun procedimento nei miei riguardi oppure di qualsiasi dei miei collaboratori. Nel mio sito web trova ogni dettaglio, inclusa la copia del mio certificato penale. Non é quindi necessaria alcuna difesa non essendoci mai stata alcuna accusa. Piuttosto sarebbe interessante che Lei riuscisse a pubblicare gli atti relativi alle false e gravissime dichiarazioni del Dott. N. e del Maresciallo S.. Dichiarazioni rilasciate alla commissione di inchiesta ed alla stampa solo per crearsi pubblicità personale. Oppure come mai documenti archiviati presso il tribunale di Reggio Calabria siano stati rubati da ignote mani e poi, giunti misteriosamente nella redazione di “Repubblica”, non siano stati resi al legittimo proprietario (il Tribunale di Reggio) al fine di arrestare i ladri, ma pubblicati con commenti artatamente falsificati per creare dubbi e discredito. Un cordiale saluto".
Sono andato se suo sito web ed ho letto: Busto Arsizio - Varese - 3 Febbraio 1945 - Lavora e vive ovunque sia necessario. E quindi ormai é necessario che ognuno di noi si organizzi le sue difese mediatiche. Sul web non esiste un elenco dei cittadini assolti, oppure di quelli semplicemente indagati e che si sono dimostrati innocenti. Giornalisti alla sola ricerca dello scoop considerano un indagato poco più di un fantasma al quale non dare ascolto. E poi di solito, già che ci sono, lo condannano in partenza. La presunzione di innocenza non esiste né sulla stampa e neppure sul web. Sul mio conto é facile trovare illazioni senza alcun fondamento, notizie riportate e modificate, informazioni del tutto inventate. Dopo anni di indagini condotte da diverse procure non é stato trovato alcun atto penalmente rilevante nel mio comportamento in tutta la mia vita ed in quella dei miei collaboratori tecnici. Per questo motivo potete scaricare il mio certificato "carichi pendenti" che conferma l'assenza di ogni e qualsiasi procedimento in corso - Agosto 2013 - Sul web troverete anche diversi file artatamente modificati e video-montaggi realizzati da G. "Tino" S., un truffatore abituale attualmente sotto processo in Tunisia per gravi minacce.
La macchina del fango si realizza con la correlazione fra due fatti (o quasi fatti) del tutto scollegati fra di loro. Viene realizzata da giornalisti senza nessuna professionalità, veri e propri " faccendieri" della disinformazione. La notizia di partenza é spesso attribuita a "pentiti" ( conclamati delinquenti a caccia di uno sconto di pena ) oppure a "informazioni dalla procura di responsabili che desiderano restare dell'anonimato". Ovvero gli stessi giornalisti cialtroni e spocchiosi buffoni che si inventano gli informatori anonimi. Esempio: Trovata sulla nave "Jolly Rosso" una carta nautica "ODM" con segnate la posizioni delle navi affondate. Da chi: dal Comandante Natale de Grazia morto il 12 Dicembre 1995. Le informazioni manipolate: Ma la società ODM é nata.. due anni dopo. E via di seguito. Cartina, ovviamente sparita dagli atti ma disponibile, in file .pdf, da "il Manifesto". Inviatami, con esemplare correttezza, da Andrea Palladino. Miracoli dell'elettronica. Visto che la cartina, in realtà, nessuno l'ha mai vista. Che esista solo come file .pdf? Ma quando è che andrà in galera chi la guida, questa "macchina del fango"?
1 - Carta in bianco e nero dell'ammiragliato inglese (diciture in inglese e non in Italiano);
2 - Carta molto datata: tutte le carte nautiche utilizzate, anni dopo, dall'ODM erano a colori e non in bianco e nero;
3 - Profondità in Pathom (braccia inglesi) e non in metri;
4 - Altezze in feet e non in metri;
5 - La calligrafia che ha scritto sul lato sinistro " CARTINA ODM" in stampatello sembra essere la stessa che ha scritto il nome delle navi ipoteticamente affondate nelle aree indicate. Comerio non avrebbe certo avuto la necessità di scrivere, su una sua carta, "cartina ODM" ... oltre che piuttosto illogico segnare comunque delle aree e tenere a bordo della Jolly Rosso la carta stessa...Piuttosto potrebbe essere la stessa calligrafia del De Grazia.. o di altri.. Sono elencati i nomi e descritti i fatti che hanno dato modo al procuratore Francesco Neri, a seguito di una denuncia del dott. Ferrigno di Greenpeace, di avviare una colossale inchiesta che mi ha coinvolto pesantemente rovinando un decennio della mia vita. Basta leggere con attenzione i documenti della Commissione Bicamerale.
Eppure la Stampa di sinistra ha una certa idea del personaggio.
Comerio, l’ingegnere dei rifiuti e il certificato di morte di Ilaria Alpi, scrive Antonella Beccaria. Nato nel 1945 a Busto Arsizio, in provincia di Varese, su Giorgio Comerio, ingegnere e imprenditore di professione, alcune informazioni le forniscono i carabinieri che hanno a lungo indagato su di lui. E queste informazioni raccontano che «è persona di intelligenza spiccata, sicuramente massone, appartenente ai servizi segreti argentini e legato ai più grossi finanzieri mondiali, e in particolare europei [...]. Sarebbe stato espulso dal Principato di Monaco il 24 marzo 1983 e avrebbe avuto problemi con la giustizia belga per truffa e altro [oltre a essere stato] arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri». Di lui, però, si parlerà molto poco fino a un certo punto: progetterà e promuoverà sistemi per lo smaltimento di rifiuti in mare aperto nel sostanziale anonimato, al di fuori del circuito degli addetti ai lavori. Il suo nome però finisce sulle pagine dei giornali nel 1995 (e vi rimarrà fino a oggi), quando un pubblico ministero di Reggio Calabria, Francesco Neri (oggi sostituto procuratore generale), dispone una perquisizione a San Bovio di Garlasco, in provincia di Pavia, a casa di Comerio. Qui viene trovata un’agenda del 1987 che, nel giorno dell’affondamento della Rigel, una delle navi dei veleni, riporta un’annotazione, “lost ship” (“nave perduta”, anche se l’ingegnere sosterrà che si deve leggere come “nave affondata”). Inoltre furono rinvenute anche due cartellette. In una di esse, su cui era stata scritta la parola “Somalia”, ci sarebbe stato il certificato di morte di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Il clamore del ritrovamento fu notevole e fu letto come una conferma della pista su cui l’inviata della Rai stava indagando: smaltimento illegale di rifiuti nel Corno d’Africa. E a far pensare che l’ingegnere lombardo fosse coinvolto nei traffici di scorie (non solo in Somalia) ci sarebbero stati altri documenti, tra cui alcune mappe, oltre l’agenda che ricordava l’affondamento della Rigel. Giorgio Comerio, a fine 2009, ha diffuso un memoriale per dare la sua versione a proposito delle ipotesi investigative che in questi anni lo hanno chiamato in causa. Secondo lui sono “fantasie” dei pubblici ministeri e, come riportato da Repubblica l’8 dicembre scorso, «l’unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera». Mai avuto a che fare, insomma, con alcun traffico illecito e, anzi, parlando di sé alla terza persona singolare, aggiunge ancora: «Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e [...] alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All’epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano [...]. La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell’ambiente e mai contro». Eppure, quella legge – che scrive con l’iniziale maiuscola – di lui racconta un’altra storia. Seguendo il percorso intrapreso dal pubblico ministero Neri, questa storia inizia a Ispra, sul lago Maggiore, al Ccr, il Centro Comune di Ricerca. Che dal 1977 al 1988 riceve supporto da dodici nazioni – Italia, Francia, Stati Uniti, Belgio, Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, Svezia, Germania Ovest, Olanda e Svizzera – per cimentarsi con una serie di piani, tra cui uno chiamato Dodos, altro acronimo che sta per Deep Ocean Data Operating. Per usare una terminologia meno scientifica ma più esplicita, l’obiettivo era «lo stoccaggio di scorie radioattive in ambiente naturale terrestre o marino». A pronunciare queste parole fu il responsabile del Ccr, Charles Nicholas Murray, quando nel 1995 raccontò alla magistratura la sostanza della storia: si intendeva ricorrere a missili penetratori dentro cui venivano stipati i rifiuti da infossare nei fondali marini. In questo progetto, il ruolo di Comerio sarebbe stato nello specifico quello di progettare una boa che consentisse di controllare i siluri via satellite. Ma poi non se ne fa più nulla perché – ufficialmente – sarebbero emerse varie difficoltà, tra cui un ipotetico rischio di attentati terroristici. Solo che a un certo punto, dal centro di Ispra, scomparve un componente elettronico della boa e gli inquirenti di Reggio Calabria sospettarono che dietro a quella sparizione ci fosse l’imprenditore di Garlasco. Inoltre, secondo la loro ricostruzione, sarebbe stato coinvolto anche lo stesso Murray. Per quanto nel suo memoriale Comerio sostenga che tutti i test siano stati fatti in pieno oceano, sempre a Reggio Calabria sono custoditi i video – resi pubblici dell’Espresso nel 2008 – che sembrano dimostrare che qualche esperimento sia stato condotto anche nel Mar Ligure, almeno per quanto riguarda la boa. Anche se poi – secondo un’informativa dei carabinieri datata 1995 – i missili sarebbero stati lanciati in mare non per provare la tecnologia, ma per vere e proprie attività di smaltimento in quarantacinque nazioni che comprendono, tra gli altri Paesi, Iraq, Egitto, ex Jugoslavia, Kenya, Sudan, Sierra Leone, America centrale e l’arcipelago delle Filippine. Fin qua arriviamo all’inizio degli anni Novanta. Il pezzo successivo della storia – una storia complicatissima, fatta di intercettazioni, testimoni, ritrattazioni e accuse incrociate – racconta di una trattativa giunta a compimento nel settembre 1994, sei mesi dopo l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, tra la Odm [Oceanic Disposal Management, società fondata da Giorgio Comerio] e Ali Mahdi, il presidente ad interim somalo imparentato per via della cugina, Fatima, moglie di Giancarlo Marocchino, di cui si è parlato in un precedente pezzo. Ali Mahdi però smentisce l’esistenza della trattativa e se la prende con il pubblico ministero Neri, che viene querelato (ma la faccenda finirà per essere archiviata). A proposito però del presunto accordo, scrive ancora L’Espresso nel 2005, prendendo come fonte sempre un’informativa dell’Arma: «Le condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia [parlano] di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno. Il Comerio”, continuano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte [di] Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera” [...]. Un accordo verso cui [...] Ali Mahdi mostra grande attenzione, come dimostra il fax in lingua inglese che il 17 giugno 1994 invia su carta intestata della Repubblica somala al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. All’interno, spiegano i carabinieri, “il presidente gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Da quel momento, si legge nell’informativa, partirà un lavorìo di fax e incontri, proposte e iniziative. Fino all’accordo conclusivo e il passaggio alla fase due: quella operativa». Mentre oggi si prospetta la possibilità che il caso Alpi-Hrovatin venga riaperto dopo il rifiuto di archiviare l’indagine a carico Ali Rage Ahmed, soprannominato “Gelle”, il principale accusatore dell’unico condannato per il duplice delitto di Mogadisco perché ritenuto non più affidabile, ci sono altri fatti poco rassicuranti che emergono in questa vicenda. Oltre ai documenti (compreso il certificato della morte della giornalista rinvenuto a casa di Comerio) trasmessi dalla procura di Reggio Calabria a quella di Roma e mai arrivati – gli stessi documenti che la commissione Taormina non ha trovato -, le vicende degli smaltimenti illegali e delle navi dei veleni hanno compreso vicende come l’episodio del 3 giugno 2008 raccontato a Riccardo Bocca da Lorenzo Gatto, l’avvocato di Francesco Neri, ai tempi della querela di Ali Mahdi contro il magistrato calabrese. «Sono andato in Procura a Reggio per cercare ancora il certificato di Alpi e ho notato un’altra anomalia: lo scatolone numero nove, quello che contiene il primo e il secondo volume di informazioni del Sismi, era aperto sul lato destro. L’ho segnalato al pm di turno e al cancelliere capo, i quali hanno riconosciuto che era staccato l’adesivo. Il cancelliere capo, allora, mi ha invitato a verificare se riuscissi a sfilare documenti, e l’ho fatto senza difficoltà: ho estratto sei fogli, chiedendo che la questione venisse messa a verbale». Ma ci sono anche altre vittime che vanno ricordate. Tra queste, c’è la morte di Natale De Grazia, il capitano di corvetta che faceva parte del pool calabrese che indagava sui rifiuti, morto il 12 dicembre 1995 senza che si capisse esattamente cosa gli accadde. Arresto cardiaco, disse l’autopsia, ma la moglie dell’ufficiale, stroncato mentre andava a La Spezia per alcuni accertamenti, fin dall’inizio si batté facendo rilevare tutte le incongruenze intorno al decesso di suo marito. Poi però giunse l’archiviazione delle indagini sui presunti stoccaggi abusivi e la trasmissione – per errore – di alcuni fascicoli alla procura di Lamezia Terme, dove le carte giudiziarie stanziarono per tre anni senza ragione. Dal palazzo di giustizia di Paola, un anno fa, si è ripartiti, pur concentrandosi soprattutto sullo spiaggiamento della motonave Rosso (ex Jolly Rosso), arenatasi sulla spiaggia di Formiciche, nei pressi di Amantea, in provincia di Cosenza. Ma il quadro che si va ricostruendo, pur con una focale differente, riporta in auge quando già emerso nelle inchieste precedenti, sia a livelli di nomi che di fatti. Non a caso dunque sembra giungere una notizia: Francesco Neri – è stato annunciato il mese scorso-– l’estate prossima riceverà il premio CalabriAmbiente perché – ha dichiarato Beatrice Barillaro, presidentessa del Wwf Calabria – si vuole tributare «un riconoscimento doveroso per chi, come Neri, si batte quotidianamente e a rischio della propria incolumità per affermare le ragioni della legalità e della difesa dell’ambiente e della salute dei cittadini». Una notizia che giunge proprio mentre la prima commissione del Csm ha deciso di procedere contro il magistrato per “incompatibilità ambientale” chiedendone il trasferimento d’ufficio.
Navi dei veleni, atti desecretati: da traffico di scorie a costruzione di gommoni per i migranti: ecco chi è Giorgio Comerio, scrive invece Andrea Tornago su “Il Fatto Quotidiano”. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, ora è in Tunisia. E se negli anni '90 si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, il suo nome torna, dieci anni dopo, legato alla fornitura di imbarcazioni destinate all'immigrazione clandestina dal Nord Africa. Negli anni ’90 progettava di affondare le scorie radioattive sui fondali marini. Ora è in Tunisia, dov’è fuggito dopo una condanna passata in giudicato per tentata estorsione. Si fa chiamare De Angeli. E il servizio segreto rivela, nei documenti desecretati sui traffici di rifiuti, quale sarebbe la sua reale attività nel paese nordafricano. Giorgio Comerio è la figura chiave di tanti misteri sui traffici di armi e veleni. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, fino a progettare una missione in Tunisia, annullata poi per problemi di sicurezza. Finora della sua nuova vita si sapeva poco: solo la zona in cui operava, quella di Bizerte, nel nord del Paese, e i suoi interessi nella società Avionav, che produrrebbe velivoli leggeri. Ma una nota dell’Aisi, ex Sisde (il servizio segreto civile) declassificata dal 23 maggio, riferisce di averlo trovato impegnato in ben altre occupazioni: contatti con trafficanti di armi, stupefacenti, e di migranti verso l’Europa. Comerio sarebbe amministratore della ditta Cnt – Costructions navales tunisiennes e disporrebbe “di un cantiere per la costruzione di barche e gommoni nella località mineraria di Zaribah”. “Nel corso di attività informativa diretta nei confronti di un’organizzazione criminale transnazionale – scrive l’intelligence italiana nel maggio del 2010 – volta a verificare il coinvolgimento di cittadini italiani nella fornitura di imbarcazioni destinate all’immigrazione clandestina dal Nord Africa, è emerso il ruolo di rilievo di un cittadino italiano residente in Tunisia successivamente identificato in Comerio Giorgio, il quale sarebbe stato coinvolto anche in un presunto traffico di stupefacenti e armi”. Le informazioni si riferiscono al periodo tra gennaio 2007 e aprile 2008 e sarebbero state già allora “riferite alla polizia di Stato e al comando generale dell’arma dei Carabinieri”. Comerio, però, è risultato sempre “irreperibile” tanto che nel gennaio 2012 il giudice dell’esecuzione del tribunale di Bolzano è stato costretto a dichiarare estinta la pena a 4 anni di reclusione – ridotta a un anno dall’indulto – per decorso del tempo. La difficoltà della autorità italiane nel catturare Comerio appare però singolare alla luce dei contatti da lui avuti con i servizi segreti. Rapporti che sono sempre stati negati dai vertici delle agenzie, ma che emergono nei documenti declassificati. Almeno due incontri ravvicinati tra Comerio e l’intelligence militare hanno contorni poco chiari. Il direttore del Sismi, nel 2005, riferiva alla Commissione Alpi-Hrovatin: “Su iniziativa promossa dal II reparto della guardia di finanza, il predetto Comerio è stato attenzionato nel mese di luglio 2001 dalla scrivente Divisione, risultando tuttavia assolutamente inadeguato a divenire fonte, o a qualsiasi titolo collaboratore, della Divisione stessa”. Un interessamento che aveva suscitato la curiosità del presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti, Gaetano Pecorella, che nel 2011 ne aveva chiesto ragione al direttore del servizio. Ma i rapporti dell’imprenditore di Busto Arsizio con il Sismi sono anche più antichi. Comerio, considerato dal Sisde in un appunto del 2003 “sedicente appartenente ai servizi segreti, noto faccendiere italiano presumibilmente legato alla vicenda delle cosiddette “navi a perdere” e al centro di una serie di vicende legate alla Somalia”, è stato in contatto fin dalla fine degli anni ’80 con una fonte della Prima divisione del servizio militare, che all’epoca aveva rapporti di lavoro con Comerio. Comerio e la Oceanic disposal management (Odm), una delle sue società, sono stati al centro delle indagini del nucleo investigativo del corpo forestale dello Stato nel ’95 sull’affondamento delle “navi a perdere” nel Mediterraneo. I contatti della Odm, che si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, arrivavano fino ai Paesi dell’Est Europa. Secondo una nota desecretata del Sismi, inviata alla Ottava divisione nel febbraio del ’95, i titolari dell’azienda sarebbero stati “in procinto di andare a Mosca per sottoscrivere un contratto con i russi, i quali sono molto interessati all’eliminazione clandestina delle scorie radioattive”. Il nome di Comerio emerge anche in relazione all’affondameto di navi considerate coinvolte in traffico di materiale bellico e radioattivo (anche se l’inchiesta è stata archiviata): la motonave Rigel, affondata il 21 settembre 1987 al largo delle coste calabresi (sull’agenda di Comerio di quell’anno, sequestrato nel maggio ’95 dal gruppo di investigatori di cui faceva parte il capitano Natale De Grazia, venne trovato l’appunto “Lost the Ship” – “Persa la nave”) e la motonave Rosso spiaggiata ad Amantea nel dicembre del ’90, su cui si concentra, in molti dei documenti desecretati, l’interesse dei servizi.
20 marzo 1994: come muore una giornalista italiana. Senza perché, continua Gianni Cirone. Il presidente della Commissione parlamentare, l’avvocato Carlo Taormina, ora privilegia la tesi dell’assassinio eseguito da terroristi islamici. L’indagine viene così dirottata dalla pista del traffico illegale di residui radioattivi. Fu uccisa il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Con lei perse la vita anche l’operatore, Miran Hrovatin. Il suo nome era Ilaria Alpi, inviata per il Tg3 in Somalia. Da allora, molti altri giornalisti sono stati eliminati, rapiti, soppressi in zone di guerra o, come si dice oggi, in aree soggette a “missioni di pace”. Troppi nomi, tanti. Una tendenza che andata consolidandosi nell’ultimo decennio. Ormai una consuetudine che deve far riflettere. Nel caso di Ilaria Alpi, però, ciò che colpisce è l’ingannevole quadro che per anni si è andato ricomponendo intorno alla sua morte. Uno scenario tuttora in movimento, a ben 11 anni di distanza dall’evento. Ricostruire la vicenda, adesso, significa rivolgere l’attenzione verso una così ampia mole di documentazione che appare improbo riproporre in questa sede: una Commissione parlamentare di inchiesta è stata costituita per fare luce sui mandanti dell’agguato. Al tempo stesso, comunque, il filo della matassa può essere ripreso da recenti articoli, pubblicati su alcuni settimanali, prova del fatto che il “caso Alpi” resta all’ordine del giorno soprattutto grazie al lavoro di altri giornalisti. In questo senso, è prezioso il contributo che Riccardo Bocca ha sostanziato con un’inchiesta corposa su l’Espresso. Nello scorso mese di gennaio, alcuni suoi articoli danno un colpo al già traballante dispositivo, di silenzio e omissioni, scattato immediatamente dopo l’esecuzione della giornalista e del suo operatore. Cosa indica, in sé, questo scossone? Un accostamento, anzi un nesso, ed è interessante ripercorrerlo riga per riga. Il nesso dovrebbe unire le indagini sull’omicidio dei due giornalisti del Tg3 alle indagini svolte su un ingegnere italiano, Giorgio Comerio. Secondo attività investigativa, questo professionista sarebbe stato al centro di un vasto traffico di rifiuti radioattivi, con altri faccendieri, malavitosi, trafficanti d’armi. La vicenda proviene da Reggio Calabria ma, incredibilmente, sembra coinvolgere numerosi governi, europei e non, con l’ausilio di apparati dello Stato obbedienti a logiche estranee alle istituzioni. E’ stata la Procura di Reggio Calabria a indagare su tale intreccio, negli anni ’90, e l’archiviazione ha rappresentato l’esito conclusivo delle indagini. I magistrati volevano dimostrare che numerose navi, caricate di scorie radioattive, venivano fatte affondare volutamente in mare. I rifiuti speciali erano trasportati dall’Europa all’Africa. In più, si usufruiva del Odm (Oceanic disposal management), un sistema che utilizzava siluri carichi di scorie da far perdere nei fondali. Al termine dell’inchiesta nessuna incriminazione ma, nelle informative riservate della Procura di Reggio Calabria, il segno dello stretto nesso coi fatti somali. Ebbene, non appena è riemersa la portata della suddetta inchiesta, la Commissione parlamentare d’inchiesta viene scossa. Improvvisamente, e con un precisione madornale, sono apparse da nulla foto satellitari che mostrerebbero lo scenario dell’agguato. Immagini che giungono, solo adesso, dalla profondità di quel 1994. Ma c’è di più e Domenico D’Amati, avvocato della famiglia Alpi, dice la sua: “Fornire falsi indizi su soggetti sospetti, per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. La riprova che gli interessi in ballo sono enormi, e ancora oggi c’è chi teme che vengano svelati”. Ma è possibile ritenere la pista calabrese lo snodo della morte di Ilaria Alpi? Settembre 1999. Francesco Gangemi, per poche settimane sindaco di Reggio Calabria nel 1992, cugino dell’omonimo Francesco condannato a 10 anni per camorra, direttore del mensile calabrese Il dibattito, mensile attualmente sequestrato con conseguente arresto del direttore, accusato di pressioni su magistrati dell’Antimafia di Reggio Calabria per conto di una lobby di potere che voleva influenzare inchieste su politici e mafiosi locali. Sei anni fa questa rivista pubblica un’inchiesta a puntate, intitolata “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?”. La premessa è di Gangemi, che scrive: “Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ’ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’ufficio e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura”. In realtà Gangemi pubblica non pochi documenti segreti dell’inchiesta reggina: notizie, rivelazioni, illeciti, che indicano il sistema occulto volto allo smaltimento delle scorie nucleari, e ancora indizi sull’intera vicenda Alpi. Si vedano le dichiarazioni, del luglio 1995, del teste denominato Alfa-Alfa (Aldo Anghessa, ndr) che al sostituto procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, e al capitano di corvetta, Natale De Grazia, consulente deceduto dopo in circostanze sospette, dice: “A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e (...) materiali strategici nucleari (…). Si ha certezza che lo smaltimento può avvenire con tre distinte modalità: l’interramento in località del sud Italia in vecchie cave o di scariche, l’affondamento di navi normalmente in zone extraterritoriali o lo smaltimento presso paesi del Terzo mondo come (...) il Libano, la Somalia fino al 1992, la Nigeria e il Sahara ex spagnolo (...)”. In merito ai traffici, secondo Anghessa, “sono sicuramente gestiti a livello di vertice da soggetti iscritti a logge massoniche italiane ed estere (…). E’ opportuno far rilevare (…) che nell’occasione del sequestro di 29,5 chili di uranio effettuato a Zurigo furono fermati dalla polizia elvetica otto individui tra i quali due italiani. Uno di questi è Pietro Tanca, il quale ha affermato: ‘Io sono qui non per ritirare denaro (se ricordo bene 18 milioni di dollari), ma per verificare l’esistenza del denaro di competenza della parte politica italiana che copre l’operazione’. I nostri tentativi per capire quale fosse la parte politica cui si riferiva sono stati vani, anche per la proterva azione della Polizia elvetica, che anziché collaborare ha scientificamente ostacolato le indagini”. Su Tanca, Anghessa aggiunge che “appena rilasciato dalla Polizia elvetica e rientrato in Italia è stato arrestato su ordine di custodia cautelare emesso dal gip Felice Casson”. Chi è Aldo Anghessa? E’ personaggio discusso. Ammette di essere protagonista di azioni di intelligence e, in quel momento, agli arresti domiciliari, è indagato per traffico di armi e materiale nucleare. Anghessa dà nomi, particolari, indirizzi, e fa balenare l’operatività di una rete di coperture istituzionali a livello internazionale. A riguardo cita Guido Garelli, arrestato in un’inchiesta sui traffici nocivi, spesso citato nell’inchiesta Alpi. Garelli, per Anghessa è “riconducibile a un organo di informazione dello Stato (…) era uso chiamare numeri telefonici di basi militari italiane e aveva pass Nato per entrare e uscire in basi militari italiane”. Secondo Alfa-Alfa, ci sarebbe poi Elio Sacchetto, “tessera P2, arrestato nel 1988 assieme al Garelli”, e dunque Giorgio Comerio, titolare del sistema di affondamento delle scorie con missili, ma anche protagonista di indagini delicate come quella sul naufragio della nave Rigel o sullo spiaggiamento della motonave Rosso, dove la Capitaneria di porto trova copia del suo progetto Odm. Sul mensile che dirige, il profilo di Comerio viene così presentato da Gangemi: “La Procura di Reggio Calabria ha accertato l’esistenza di un brutto affare collegato allo scarico dei rifiuti in Somalia, proprio dove la giornalista Ilaria Alpi si era recata per cercare la verità che altri hanno insabbiato, uccidendola per la seconda volta. La ‘cosa’ girava sotto gli occhi consapevoli del governo somalo allora in carica, e a farla girare ci pensava il faccendiere Giorgio Comerio, considerato nell’ambiente della raffinata criminalità collegata ai servizi segreti e ai governi europei, e non solo europei, la mente eccelsa a disposizione dei primi ministri che avessero avuto interessi particolari nel traffico illecito a livello interplanetario”. Affermazioni molto pesanti, anche se l’analisi che emerge dai carabinieri di Reggio Calabria non è certo una passeggiata. Secondo l’Arma “Comerio è al centro (...) di un’organizzazione mondiale dedita allo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi nell’ambito di uno scenario inquietante, ove si muovono soggetti senza scrupoli, compresi uomini di governo di tutte le latitudini che pur di trarne vantaggi economici non stanno esitando a mettere in pericolo l’incolumità dell’intera popolazione mondiale”. “Nella sua abitazione – affermano gli investigatori – è stata sequestrata una cartella gialla, tra le altre, contraddistinta dal numero 31 ed intestata alla ‘Somalia’. All’interno vi era custodita documentazione inerente al progetto Odm relativo ai siti marini somali. In particolare le cartine indicano due ampie zone di mare, di cui una a nord e l’altra al centro della suddetta nazione. La prima zona è indicata con sei punti di affondamento” il primo dei quali è situato “leggermente a sud rispetto allo specchio d’acqua antistante la città di Tohin”. Rilevamento chiave, che si somma alle dichiarazioni, del novembre scorso, da parte del maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, davanti la Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: “Comerio era l’unico a inabissare lì rifiuti radioattivi”. Esiste agli atti un fax di un membro dell’Autorità del servizio mondiale per i diritti umani di Bosso, Ali Islam Haji Yusuf, che si rivolge al dipartimento del nord-est somalo dell’Onu denunciando che “al largo della città di Tohin, del distretto di Alula, nella regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei container dal contenuto sconosciuto”. Per i carabinieri, questo lavoro “stava creando tensione fra la popolazione locale, che è ostile al seppellimento in mare di rifiuti tossici e radioattivi”. Da qui la richiesta di aiuto di Haji Yusuf, richiesta di cui sono rimasti sconosciuti gli sviluppi. Per l’Arma, però, è sicuro che il primo sito di affondamento indicato nella mappa di Comerio è “in prossimità della zona segnalata lo scorso novembre da Haji Yusuf (...). Evidentemente, Comerio è già operativo in dette acque. (…) Non deve meravigliare il fatto che al posto dei penetratori il Comerio stia utilizzando le trivelle, in quanto quest’ultima soluzione è stata sempre l’alternativa alla prima nell’ambito del progetto Odm”. A casa di Comerio i magistrati trovano una cartella targata ‘Somalia’: comunicazioni fra il possessore e le autorità somale. Tra queste, una lettera inviata al mediatore Pietro Pagliariccio, alias Giampiero, in cui, su carta intestata dell’Odm, Comerio “lo informa – affermano gli inquirenti – che la sua società è disponibile a pagare 10 mila marchi tedeschi ad ogni lancio (di missili-penetratori, ndr) quale importo extra” rispetto “alle condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia, che è di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno”. Comerio, affermano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte del presidente ad interim Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera”. L’accordo c’è. Un accordo a cui tiene molto il presidente ad interim, Ali Mahdi che il 17 giugno 1994 invia un fax, in lingua inglese e su carta intestata della Repubblica somala, al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. “Il presidente – dicono i carabinieri – gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Dall’accordo si deve passare solo alla fase operativa. Ilaria Alpi si era avvicinata a tutto questo? Se non del tutto vero, estremamente verosimile. Come ricorda Gangemi, riferendosi agli atti della magistratura di Reggio Calabria, “il fascicolo 18 con gli atti relativi alla Somalia contiene pure il certificato di morte della Alpi”. Inoltre, Fadouma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, il 16 giugno del ’99 dichiara a verbale: “Ilaria mi aveva dichiarato che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa (...) di cui non dovevo parlare con nessuno (...). Si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste della Somalia, che venivano scaricate sulle nostre coste, sul mare dei rifiuti tossici”. Inutile ricordare, a questo punto, che del materiale della giornalista del Tg3 è rimasto solo la parte meno interessante. Spariscono gli appunti (mancano ben tre block notes), spariscono fogli contenenti numeri telefonici. Cosa accade nella Commissione parlamentare d’indagine a seguito di tali rivelazioni? La deposizione del pm Neri “smentisce nettamente ipotesi di collegamento fra inchiesta su traffico di rifiuti e omicidio della giornalista”. Accade questo. Accade cioè che, in una nota, Enzo Fragalà, membro della Commissione, smentisce seccamente il nesso. “La commissione – afferma Fragalà – non consentirà ad alcuno di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità con teoremi astrusi. Ai colleghi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sta sicuramente a cuore la ricerca della verità sull’omicidio dei due colleghi. La deposizione del pm della Procura di Palmi, dottor Francesco Neri, ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, fa definitivamente chiarezza sui tentativi di depistaggio attuati nei confronti della Commissione stessa e smentisce, oltre ogni ragionevole dubbio, l’ipotesi avanzata attraverso alcune inchieste giornalistiche, non supportate da prove, su presunte relazioni fra l’omicidio della giornalista del Tg3 e l’inchiesta, condotta a Palmi, sul traffico di rifiuti. Le nette parole del pm Neri a questo proposito debbono essere di monito a chi pensa di poter condizionare il lavoro della Commissione parlamentare utilizzandolo per fini propri o per supportare astrusi teoremi preconcetti. La Commissione andrà avanti, come sempre senza perdere di vista l’obiettivo finale che è quello di far luce sull’omicidio dei due operatori dell’informazione e non permetterà a chicchessia di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità”. Dunque, tutto falso. Falso quanto scritto da Riccardo Bocca su l’Espresso, e qui in parte riportato, falso quanto sostenuto dall’inchiesta della procura calabrese nelle sue parti di congiunzione con il nome di Ilaria Alpi. Avverranno altre cose. Ad esempio la perquisizione subita da alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Torrealta, collega del Tg3 di Ilaria Alpi, stabilita nell’ambito di accertamenti dalla Commissione parlamentare. Anche qui, il membro Fragalà ricorda, a chi ha protestato per l’iniziativa, che “assolutamente ineccepibili” sono da ritenere metodo e merito delle perquisizioni, decise “unanimemente” dall’ufficio di presidenza della Commissione. E mentre si parla di innumerevoli tentativi di depistaggio, si è in attesa di conoscere dove porterà la “al qaedizzazione” dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore. Il presidente della Commissione, Carlo Taormina, sente di aver fiutato un’ottima pista. Per adesso, dunque, non resta che ricordare quel 20 marzo 1994. Colpi a bruciapelo sulle teste pensanti dei due reporter. I loro corpi flosci come sacchi, in fondo ad un vano bagagli di un auto privata che, in un attimo, li conduce via da quel loro ultimo luogo terreno. Senza perché.
Omicidio Alpi-Hrovatin: Giorgio Comerio, baluardo sulla strada della verità, scrive Claudio Cordova su “Strill”– Gaetano Pecorella è, almeno a parole, chiarissimo e assai deciso: “Per capire se la morte della giornalista Ilaria Alpi sia collegabile ai traffici di rifiuti radioattivi bisogna trovare e ascoltare Giorgio Comerio”. Pecorella, presidente della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei rifiuti, ha, negli scorsi giorni, annunciato il proposito dell’organismo bicamerale di riaprire le indagini sulla morte della giornalista della Rai, giustiziata a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo del 1994, insieme al proprio operatore, Miran Hrovatin. Questo il primo lancio dell’agenzia Ansa, del 20 marzo 1994: “La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite. Lo ha reso noto Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano che vive a Mogadiscio da dieci anni”. Un agguato condotto da sette sicari. Da lì a pochi giorni Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero tornati in Italia, dato che proprio in quel periodo era previsto il rientro in Patria del contingente italiano impegnato nella missione di pace “Restore Hope” in Somalia, costata al Paese 1400 miliardi di lire. Ilaria Alpi è inviata in Somalia, per conto del Tg3, come corrispondente di guerra. Ma non si limita al “compitino”, a registrare, pedissequamente, i bollettini del comando militare, ma si mette a indagare su presunti traffici di armi e, soprattutto, di scorie radioattive. Ascolta le testimonianze della gente, visita i luoghi sospetti, si avvicina anche ai tanti signori della guerra che, in quegli anni, ma non solo, regnano in Somalia. Fa la giornalista. Da anni vi è il sospetto che il movente dell’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sia stato proprio quanto i due reporter avrebbero scoperto in Africa. Sospetti alimentati, nel tempo, nonostante una verità giudiziaria che ha condannato, in via definitiva, un unico uomo, somalo, ritenuto uno dei componenti del commando, che sarebbe stato composto da circa sette uomini. Nessuna verità, nessuna specificazione sulle ragioni che avrebbero portato alla morte dei due reporter del Tg3. Verità (assai presunte) e specificazioni (assai labili) che arrivano, invece, da una Commissione, istituita proprio per far luce sul duplice omicidio, presieduta, negli scorsi anni, dall’avvocato Carlo Taormina, a quel tempo deputato di Forza Italia. La Commissione sul duplice delitto Alpi-Hrovatin arriverà alla conclusione che i reporter sarebbero stati uccisi per errore nel corso di un tentativo di sequestro finito male. Resta più di qualche dubbio sulla relazione finale del presidente Carlo Taormina: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, una donna e un uomo, sono due giornalisti, sono disarmati, vengono assaliti da un commando composto da numerosi uomini armati fino ai denti. Insomma, qualora il vero obiettivo del gruppo di fuoco fosse stato rapire i due giornalisti, non avrebbero fatto fatica ad avere la meglio. Ilaria Alpi, per giunta, viene uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla testa: una modalità che lascerebbe presagire una vera e propria esecuzione. Alcuni deputati di minoranza, tra cui Raffaello De Brasi, Rosi Bindi, Deiana Elettra e Carmen Motta lanciarono contro Taormina un vero e proprio atto d’accusa. Secondo i parlamentari, Taormina avrebbe fatto un uso personale e politico della Commissione, strumentalizzando il lavoro finale per dare addosso alla sinistra, poco prima delle elezioni politiche, addossandole la colpa di un complotto contro la verità. Il padre di Ilaria Alpi, Giorgio, morirà nell’estate del 2010. Senza conoscere, probabilmente, la verità sulla morte della figlia. Oggi, invece, a distanza di ben diciassette anni, un altro avvocato, Gaetano Pecorella, in qualità di presidente della Commissione sulle Ecomafie, afferma di volerci vedere chiaro e indica nell’audizione dell’ingegnere Giorgio Comerio un passaggio chiave per l’accertamento della verità. Ma perché la deposizione di Comerio sarebbe così importante per stabilire se il duplice omicidio Alpi-Hrovatin sia da ricondurre alle vicende del traffico internazionale di scorie radioattive? Comerio, oggi vicino ai settant’anni, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare: si occupa dello smaltimento delle scorie nucleari. Comerio propone agli Stati di mezzo mondo la sua idea: inabissare le scorie in acque dai fondali profondi e soffici le scorie, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori, che, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. I quarantadue Stati a cui Comerio propone la propria idea, ovviamente, rifiutano, ma, secondo molti, l’ingegnere originario di Garlasco avrebbe messo in atto, occultamente, i propri propositi. Secondo Legambiente “Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo”. Personaggio assai particolare, Giorgio Comerio: negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina; iscritto alla Loggia di Montecarlo, ha anche alcuni problemi con la giustizia venendo arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri. Sarebbe un elemento legato ai servizi segreti e, in passato, socio dell’avvocato David Mills, condannato in primo e secondo grado per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza in favore di Silvio Berlusconi e “salvato”, in Cassazione, dalla prescrizione. Ma ecco il dato più inquietante. Negli scorsi anni, su ordine della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, la casa di Comerio viene perquisita. All’interno di un cassetto, il Capitano della Marina Militare, Natale De Grazia, elemento di spicco del pool investigativo, morto in circostanze assai sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”, trova qualcosa. Un’agenda. Alla data 21 settembre 1987 c’è una strana scritta: “lost the ship”. La frase, tradotta, significa “la nave è persa”. Vengono disposti degli accertamenti che svelano un particolare assai interessante, ancorché grave: il 21 settembre 1987 nel mondo affonda una sola nave. La Rigel, fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. Ma nell’abitazione di Comerio, gli investigatori trovano dei fascicoli che, in copertina, hanno nomi di Stati africani. Tra questi vi è anche la Somalia. E all’interno della cartella vi è il certificato di morte di Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio, capitale della Somalia. Viene disposta l’acquisizione del documento che, però, in seguito scomparirà dai faldoni di indagine, venendo probabilmente trafugato. Nessuno ha mai potuto chiedere a Comerio cosa ci facesse, all’interno di un cassetto della sua scrivania, quel documento: non è mai stato possibile ascoltarlo in Commissione. In un’intervista a Riccardo Bocca per L’Espresso, il magistrato Francesco Neri, a quel tempo titolare delle indagini sulle navi dei veleni, afferma: “Il giorno che interrogai Comerio mi disse: questi rifiuti non si possono buttare nell’atmosfera con gli Shuttle perché esplodono. È pericoloso interrarli perché i gas che si sprigionano coi terremoti possono provocare catastrofi ancora peggiori. Quindi l’unico posto è il mare. Ha continuato dicendo che lui li gettava con boe oceaniche di rilevamento e coi satelliti che controllavano il sito. Affermava di aver scelto, tutto sommato, il modo meno criminale di disfarsene. Questa fu la sua difesa…”. Anche per questo sarebbe assai interessante ascoltare, su tali vicende, l’invisibile Giorgio Comerio, da sempre abile a comparire e scomparire a proprio piacimento. Le ultime notizie lo darebbero in Tunisia.
Camera. Commissione Bicamerale d’inchiesta: Ciclo Rifiuti. Seduta del 12/12/2012. Audizione del redattore della rivista on line www.strill.it, Claudio Cordova.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'approfondimento che la Commissione sta portando avanti sulle cosiddette navi a perdere, l'audizione del dottor Claudio Cordova. Avverto il nostro ospite che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che, se lo riterrà opportuno, i lavori della Commissione proseguiranno in seduta segreta, invitandolo comunque a rinviare eventuali interventi di natura riservata alla parte finale della seduta. Cedo la parola al dottor Cordova per avere una valutazione anche sul questo rapporto tramite e-mail con Comerio. Prima che i colleghi della Commissione le pongano alcune domande, le chiedo se, nel frattempo, sa dove si trova Comerio e se ha avuto contratti o relazioni con lui, in modo da avere un quadro rispetto a questo tema.
DANIELA MAZZUCONI. Prima che il dottor Cordova cominci a parlare, posso intervenire? Nel suo articolo lei scrive: «Esclusivo. Giorgio Comerio: "Pronto a collaborare per ricerca verità, ma tra me e Ilaria Alpi link impossibili"». Lei è, dunque, entrato in contatto con Comerio. Sarebbe utile capire come è entrato in contatto con lui e chi è stato l'intermediario. Può aver avuto solo un incontro di carattere informatico, ma qualcuno avrà funto da intermediario. Vorrei sapere se lei sa dove oggi si trova Comerio e, dal momento che mi pare di capire che forse il contatto non è stato diretto, ma solo mediato informaticamente, se lei è certo dell'identità della persona che le ha risposto. Trattandosi di una persona che tutti cercano e che ha compiuto azioni non esattamente positive nella vita, ci chiediamo se siamo di fronte a una mistificazione, oppure se lei ha la prova che dall'altra parte del mondo, non so dove, ci fosse il signor Comerio e che fosse lui a rispondere alle sue domande.
PRESIDENTE. Ringrazio la senatrice Mazzuconi, che ha completato la domanda, e do la parola al dottor Cordova.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Innanzitutto svolgo una premessa per consentirvi di capire le motivazioni da cui nasce questa intervista. Più o meno dal 2009 mi sono interessato alle tematiche delle navi dei veleni, o comunque dello smaltimento illecito di rifiuti in Calabria. Io vivo a Reggio Calabria, ma mi sono occupato anche, per esempio, del caso della Pertusola Sud di Crotone, che tutti conoscerete. Sono temi a me molto cari. La genesi di questa intervista deriva proprio dalle dichiarazioni a mezzo stampa - tenete presente che sono passati quasi due anni, ragion per cui compirò alcune piccole imprecisioni - del presidente della Commissione sul ciclo dei rifiuti, il quale affermava che Comerio avrebbe potuto essere utile all'eventuale riapertura delle indagini sul caso di Ilaria Alpi. Io scrissi un articolo sulla base di quelle dichiarazioni, riportando un buon numero di informazioni in mio possesso. Ho scritto un libro sul tema delle ecomafie, sulle navi dei veleni e anche su altri temi. Ho, dunque, una buona dimestichezza con l'argomento. La questione molto singolare - l'articolo è, se non ricordo male, del 6 febbraio 2011 - è che, quasi nell'immediatezza, all'indirizzo della redazione del sito per il quale lavoravo allora, ma per il quale ora non lavoro più, www.strill.it, arrivò, da un indirizzo che eventualmente potrò fornire, se la Commissione riterrà opportuno acquisire il dato, un'e-mail di smentita a firma di Giorgio Comerio. Mi confrontai ovviamente con il mio direttore del tempo e decidemmo di pubblicare integralmente la smentita. Mi lasciò molto perplesso la tempistica, nel senso che fu veramente un'e-mail pressoché immediata. Il fatto che il sito internet per il quale lavoravo avesse un taglio regionale e si occupasse di fatto di questioni calabresi su tutto il territorio regionale lo rendeva difficile da comprendere. Abbiamo elaborato tante ipotesi, alcune veramente grottesche. A un dato punto arrivammo anche a pensare, dal punto di vista tecnico, che questo signore potesse avere un programma che, ogniqualvolta veniva inserito un documento su internet in cui veniva nominato, gli arrivasse una notifica. Come ripeto, fu una risposta molto immediata. Pubblicammo, dunque, la replica di Comerio e poi, dal punto di vista giornalistico, confrontandomi con il direttore, stabilimmo di vedere se, al di là di questa scarna smentita, intendesse aggiungere di più. Lo contattai, questa volta dalla mia e-mail personale e non da quella della redazione, e questa persona rispose, sostenendo in parte quanto ha poi ripetuto anche nell'intervista, ovverosia che quelle a suo carico erano tutte macchinazioni. Ricordo che in un passaggio precedente all'e-mail che poi io mandai con l'elenco delle domande, lui mi allegò un memoriale, un testo, che aveva spedito e che era stato pubblicato sul Financial Times. Dopodiché, io elaborai un elenco di domande e lo mandai all'indirizzo che avevo. Anche in questo caso ho atteso non moltissimo e alcuni giorni dopo l'articolo originario, quello che ha dato il via a tutto il confronto epistolare, pubblicammo questa intervista. Come è possibile verificare, anche per evitare che questa persona potesse nuovamente strumentalizzare la questione, l'assemblai effettuando un vero copia e incolla. Probabilmente troverete anche alcuni errori grammaticali. Non avevo corretto nulla. Questo è quanto. Ricordo che successivamente l'ultimo scambio di e-mail fu quando io mandai il link, una volta pubblicata l'intervista, e lui mi ringraziò, facendomi notare che non c'era stato alcun tipo di alterazione dei propri convincimenti.
DORINA BIANCHI. Essendo io calabrese di Crotone, conosco benissimo la testata. Da quanto lei riferisce, lei non ha mai avuto contatti vocali...
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, né, tantomeno, personali, ovviamente. Dubito che si trovi in Italia.
DORINA BIANCHI. Tutto è avvenuto tramite e-mail, dunque. Al di là dell'immediatezza della risposta iniziale, a distanza di quanto tempo avete avuto l'intervista?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Tre o quattro giorni dopo. Credo che l'articolo originario fosse dei primi giorni di febbraio e l'intervista - correggetemi, se sbaglio - del 6 febbraio. Comunque erano i primi dieci giorni di febbraio.
DORINA BIANCHI. Voi avete avuto la percezione che comunque fosse realmente lui?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. La persona che ha scritto, al di là dell'indirizzo, che ha un dominio straniero, che già potrebbe rappresentare un'indicazione, ha fornito una serie di informazioni e di passaggi, dal suo punto di vista, per carità, piuttosto dettagliati. D'altra parte, abbiamo avuto alcuni dubbi, ovviamente. Poi, però, abbiamo considerato che per fornire una risposta tanto immediata qualcuno si sarebbe dovuto spacciare per una persona che, come ricordava la senatrice, ha notevoli problemi. Io non mi metterei nei panni di una persona con tutti questi problemi. Credo che sia verosimile che dall'altra parte del computer ci fosse Comerio in persona o comunque qualcuno incaricato per conto di Comerio.
DORINA BIANCHI. Come lei ha riferito, strill ha una redazione prettamente calabrese, presente in Calabria. Avete avuto nel tempo altri contatti con Comerio?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No. Ci siamo occupati altre volte di questi temi, ma contatti non ne abbiamo più avuti.
DORINA BIANCHI. Non avete avuto altri contatti. È stato un unicum.
DANIELA MAZZUCONI. È verosimile pensare, però, che qualcuno in Calabria abbia compulsato il materiale che voi, di volta in volta, mettevate nel sito e abbia agito da ponte oppure, secondo lei, l'accesso al sito della vostra redazione è stato diretto dal corrispondente remoto? È una curiosità. Sarebbe interessante capirlo, perché una testata diffusa solo in Calabria normalmente non viene consultata neanche nelle altre regioni italiane. Potrebbe anche essere che qualcuno abbia visto e poi abbia agito da tramite. Ciò sarebbe inquietante, perché significherebbe che qualcuno nel sito conosce e ha contatti con Comerio.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. All'interno del sito no. Se si intende un calabrese, come accennavo prima, la velocità con cui è arrivata la smentita - non posso essere precisissimo, perché è passato un po' di tempo, ma siamo nell'ordine di poche ore - ci lasciò intendere, ma è una mia illazione, anche perché non ho competenze informatiche così approfondite, che questo personaggio potesse avere un sorta di programma che, ogniqualvolta lui venisse nominato, gli segnalava gli aggiornamenti. È un'ipotesi che abbiamo formulato noi, perché ci ha veramente sorpreso la velocità della risposta. Abbiamo svolto lo stesso ragionamento. Noi ci occupiamo di Calabria ed è capitato più volte che ci occupassimo anche di questi temi, che abbracciano ambiti molto più ampi, ma non al punto da dover avere Comerio come abituale lettore.
PRESIDENTE. Le vorrei chiedere di comunicarci l'indirizzo e-mail di Comerio. Nell'intervista, verso la fine, attraverso le domande che voi avete rivolto a Comerio, cui lui ha risposto, alla fine si chiede: «Lei pensa di apparire o di scomparire di nuovo?». Comerio ha risposto: «Io non debbo né apparire, né scomparire». Secondo un suo rapporto avuto tramite e-mail - visto che non ha avuto la possibilità di parlargli - che impressione, che valutazione si è creato rispetto al personaggio? Se non ha problemi di scomparire o di apparire, perché si pone in questa condizione?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Io credo che la Commissione conosca anche meglio di me - io ne ho scritto nel mio libro - i tipi di coinvolgimenti, cointeressenze e appoggi di cui, secondo atti di indagine, può aver goduto in passato, e non so se anche oggi, Comerio. Sicuramente la mia opinione è che sia un personaggio degno di attenzione. Lui sostiene di essere di fatto una persona libera, cioè di non avere alcun mandato che lo obblighi a dover comparire di fronte a qualsiasi Autorità. Io non ho elementi per smentire o confermare questa notizia, ma sicuramente, per quanto è a mia conoscenza e che ho messo anche per iscritto, è un personaggio che quantomeno in passato ha goduto di diverse cointeressenze.
PRESIDENTE. Ha avuto anche una condanna.
DORINA BIANCHI. Alla domanda che ha richiamato il presidente, cioè «scomparirà un'altra volta?», Comerio risponde: «Non dipende da me, ma da voi». A quanto pare, però, è scomparso comunque. Non si è fatto più risentire.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, non si è fatto più risentire. Ora vado più a intuito. Non ho memoria di un articolo specifico. Come strill, anche io, con il sito di cui ora sono direttore, mi sono occupato di questa tematica, proprio perché, come accennavo in apertura, è una tematica che mi sta molto a cuore. Se la sua apparizione è stato un unicum, di Comerio si è continuato a trattare anche da parte mia. Ne parleremo anche nei prossimi giorni, perché proprio domani, per inciso, cade l'anniversario della morte di un altro personaggio, Natale De Grazia, il capitano che indagava sulle navi dei veleni. Cerchiamo spesso di approfondire o di ricordare quello è avvenuto con riferimento a queste tematiche. Con riferimento, invece, all'indirizzo e-mail, ve lo fornirò, ma forse è il caso di segretare questo passaggio. Valutate voi.
PRESIDENTE. Dispongo la disattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta).
PRESIDENTE. Dispongo la riattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta pubblica).
DORINA BIANCHI. Non so se possiamo riferire quanto ci è stato comunicato stamattina sulla morte di De Grazia. Noi oggi abbiamo ricevuto una relazione sulla presunta causa di morte di De Grazia, dalla quale pare che non ci sia stato un problema di tipo cardiaco, ma di tipo tossico. Lo cito per riallacciarmi al tema.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Anche gli ambientalisti e i familiari hanno sostenuto che le motivazioni stesse per le quali De Grazie fu insignito della medaglia dal Presidente della Repubblica era che si lasciavano intendere, purtroppo, storie molto oscure. Io ovviamente non sapevo di questo passaggio.
PRESIDENTE. La ringraziamo. Se ha nell'immediato ulteriori contatti con Comerio, ce lo faccia sapere.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Sicuramente. Grazie.
PRESIDENTE. Ringraziando il nostro ospite, dichiaro conclusa l'audizione.
La relazione della Commissione Ecomafie: il ruolo oscuro dei Servizi, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" - Il dato numerico più esplicativo per corroborare le conclusioni cui arriva la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti è il 500. Sono ben 500 i milioni di lire che il Sismi (i Servizi Segreti militari) spenderà, solo nel 1994, per i servizi d'intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Con la relazione sulle "navi dei veleni", la Commissione di Gaetano Pecorella mette un punto fermo sul ruolo che gli 007 italiani avrebbero potuto svolgere nelle oscure vicende che riguardano lo smaltimento di scorie. 308 pagine quelle redatte da Pecorella e da Alessandro Bratti che mettono nero su bianco alcuni dei sospetti più inquietanti che le associazioni ambientaliste (su tutte Legambiente) sollevano da molti anni. Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell'associazione ambientalista alla magistratura reggina sull'interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal Capitano di Corvetta, Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti. Contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività non era stata riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo: "Questo dato – è scritto nella relazione - è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria". Il tema, dunque, è quello delle "navi a perdere", in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall'ingegner Giorgio Comerio che, con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi. L'abitazione di Comerio verrà anche perquisita proprio da Natale De Grazia, che ritroverà un serie molto lunga di dati: "Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (...) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l'autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell'affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell'Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l'operazione «Sierra Leone» (...) Al riguardo il console onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l'affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (...)»". Proprio con riferimento alla figura di Comerio arrivano i passaggi più interessanti, allorquando si parlerà dei presunti rapporti che Giorgio Comerio avrebbe avuto con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie. Dal racconto di uno dei funzionari: "Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l'Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (...) Addirittura nella strategia dell'ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell'ente. Il Comerio infatti ha offerto all'ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi". L'Enea peraltro sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: "Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell'ambito dell'Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici". La relazione di Pecorella e Bratti, però, punta l'attenzione anche sulla sospetta morte di Natale De Grazia, proprio mentre si recava a La Spezia (uno dei porti-chiave dei traffici) per svolgere delle indagini non meglio identificate: "Deve sin d'ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso. La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell'indagine". Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili. A parte l'audizione di una fonte anonima, infatti, non troverà conferme la circostanza secondo cui De Grazia stesse andando a La Spezia per indagare sul conto di una nave, la Latvia, diversa dalle più famose Rigel e Rosso, su cui, finora, si è puntata l'attenzione. Dal racconto della fonte: "(...) sulla nave di Capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un'altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell'area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (...) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (...) È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (...) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando Nato dell'Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell'area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (...). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l'ispettore Tassi del Corpo forestale". Ma una delle peculiarità dell'indagine condotta dal dottor Neri sarà certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Sui rapporti con il Sismi riferirà anche il maresciallo Moschitta, uno dei compagni dell'ultimo viaggio di Natale De Grazia: "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". Ma la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all'indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Dalle dichiarazioni del Colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato: "In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent'anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo". Gli inquirenti si accorgeranno di essere spesso, spessissimo, osservati o pedinati. Sospetti condivisi anche dal maresciallo Moschitta: "Il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l'attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c'era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. [...] Parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava". I Servizi entrano un po' ovunque. Nelle dichiarazioni (giudicate inattendibili) del collaboratore di giustizia Francesco Fonti, ma anche nello spiaggiamento, ad Amantea, della Motonave Rosso. Significative, in tal senso, le contraddittorie dichiarazioni del Comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia Giuseppe Bellantone. Questi sentito all'epoca dai magistrati nel corso dell'inchiesta che gli stessi stavano svolgendo sulle "navi a perdere", dichiarerà testualmente: "Ricordo che destò la mia curiosità la circostanza riferitami di un continuo andirivieni di persone e di mezzi in particolare nelle ore notturne. Effettivamente mi venne riferito che si erano recati a bordo militari dell'Arma dei carabinieri nonché agenti dei servizi segreti". Proprio al fine di chiarire questi aspetti la Commissione sentirà l'ex comandante Giuseppe Bellantone, che rilascerà dichiarazioni in parte diverse, ridimensionando il significato delle espressioni usate all'epoca della sua escussione da parte dei magistrati di Reggio Calabria: "Io voglio precisare che non ho mai detto che ci fossero agenti dei servizi segreti. Ho detto che ho avuto l'impressione che ci fossero dei rappresentanti dei servizi segreti, a causa del modo di fare che questi soggetti avevano, del loro modo di presentarsi, girare attorno e guardare (...) io avevo il mio personale che andava a bordo, che girava e guardava. Il personale della Guardia di finanza controllava allo stesso modo. Qualcuno mi diede questa notizia, ma io non la approfondii. Ho avuto anch'io l'impressione che ci fosse qualcosa, ma non ho approfondito la questione. Mi sarà stato riferito da qualcuno dei miei uomini, oppure da qualcuno della Guardia di finanza o dei Carabinieri che erano lì sul posto, ma non saprei dirvi con precisione chi mi ha detto quelle cose (...) Qualcuno me lo ha riferito, però se lei mi chiede di chi si trattava, non so risponderle. Non posso ricordarmelo. Se lo avessi ricordato, lo avrei detto anche al magistrato". A parlare dell'interessamento dei Servizi Segreti sarà anche il dottor Alberto Cisterna, magistrato che, dopo la morte di De Grazia e lo sfaldamento del pool, erediterà le indagini di Neri. Secondo quanto riferito dal magistrato i servizi gli chiesero espressamente di proseguire quella collaborazione che già avevano prestato allorquando le indagini erano coordinate dal sostituto procuratore circondariale Francesco Neri: "Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti; questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell'attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione, ma comunque vedo in una nota di una dichiarazione alla stampa del collega Neri confermare il dato che il Sismi avesse collaborato nella prima parte. Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo, fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava, quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D'accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro". E sull'azione dei Servizi non sarà particolarmente utile neanche l'audizione del direttore del Sismi dell'epoca, il generale Sergio Siracusa, attualmente consigliere del Consiglio di Stato: ""Il servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (...) nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c'è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l'attività svolta, vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell'Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia" dirà Siracusa che escluderà inoltre qualsiasi coinvolgimento con Comerio precisando che l'attività svolta dal Sismi con riferimento a Comerio era esclusivamente di carattere informativo, nell'ambito della collaborazione che il Sismi aveva avviato con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Quanto al capitano De Grazia, dichiarerà di avere appreso della vicenda leggendo i resoconti della Commissione. Testualmente: "Non avevo cognizione a quei tempi della morte in quelle circostanze, della sua attività che stava svolgendo insieme ad altri del nucleo di polizia giudiziaria in questo specifico settore". Una circostanza che la stessa Commissione definisce "particolare" e che spinge i relatori Pecorella e Bratti a conclusioni assai dure: "Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l'oggetto sia per l'estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali. Ne è un esempio significativo l'indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull'apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d'azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta "ignoranza ufficiale" dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sè appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite".
"Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, scrivono Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica” l'08 dicembre 2009. La nave "Mare Oceano" che ha condotto le ricerche sulle navi dei veleni. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato".
Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera".
"Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo".
La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata".
Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento".
Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".
BUROCRAZIA E SOLIDARIETA’. LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
L’assessore ex magistrato: “A Roma la burocrazia è più corrotta dei politici”. Parla Alfonso Sabella, entrato in giunta dopo Mafia Capitale: “Da tre mesi annullo gare e invio segnalazioni in Procura”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Va direttamente al cuore del problema, Alfonso Sabella: «Ho trovato un sistema alterato di assegnazione delle commesse pubbliche con profonde e antiche radici». Quando è arrivato a Roma come assessore alla Legalità, il 23 dicembre scorso, il ciclone di Mafia capitale era già passato per il Campidoglio facendo morti e feriti. Grande fiuto investigativo quand’era magistrato negli anni delle stragi mafiose a Palermo, nel palmarès le catture di Luchino Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e la bassa macelleria delle stragi dei Corleonesi, Sabella è stato scelto dal sindaco Marino per un compito delicato.
Assessore, cosa ha trovato al Campidoglio?
«Una macchina amministrativa totalmente fuori controllo. Paradossalmente ai miei tempi a Palermo le carte erano tutte al loro posto, voglio dire veniva garantita una loro regolarità formale. A Roma no. Da tre mesi e passa sto firmando una serie di richieste di annullamento di gare in autotutela. Quando mi sono insediato, ho trovato un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze».
Questo cosa significa?
«Sia chiaro, volendo si può truccare anche la gara pubblica però questo dato dimostra l’esistenza di una patologia e occorre intervenire. La patologia è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla. Aggiungo che anche la politica sana di un’amministrazione come quella Marino ha avuto difficoltà a controllare questa burocrazia».
Se dovesse qualificare questa patologia, insomma analizzare quello che non va, come sintetizzerebbe la situazione?
«La maxitangente Enimont fu un maxi finanziamento illegale della politica. Oggi dobbiamo parlare di microtangenti ai burocrati e di briciole ai politici. E preciso che il ceto politico amministrativo potrebbe anche non essere oliato con le tangenti perché in realtà le sue scelte e decisioni si fermano alla politica di indirizzo. Chi decide tutto sono i burocrati, i dirigenti comunali».
Lei come si sta muovendo?
«Con una direttiva di giunta, ho azzerato la possibilità di attivare le somme urgenze e gli affidamenti diretti. E ho dettato le regole per le procedure negoziate per ridurle all’osso e in ogni caso renderle trasparenti come una casa di vetro».
Lei è arrivato al Campidoglio dopo la retata del procuratore Pignatone su Mafia capitale. Cosa ha trovato, al di là delle macerie?
«Una mafia che come la lama calda di un coltello aveva tagliato in due del burro senza trovare la minima resistenza. Una mafia che, nel periodo della giunta Alemanno, aveva occupato i settori delle politiche sociali e dell’ambiente del Campidoglio, Insomma, rifiuti e immigrazione».
Dunque un cancro circoscritto?
«No. Non è che gli altri settori fossero sani, i fenomeni corruttivi purtroppo sono diffusi. Ho la prova della distorsione della procedura a favore di determinate ditte, non delle mazzette».
Ma girano mazzette al Comune di Roma?
«Spetta alla Procura di Roma accertarlo, per quanto mi riguarda ho già segnalato e continuo quasi ogni giorno a inviare denunce alla Procura su queste “distorsioni” diffuse».
Da palermitano, qual è la differenza tra la mafia siciliana, Cosa nostra, e Mafia capitale?
«Questa romana non usa i kalashnikov come i Corleonesi ma la mazzetta e non controlla il territorio di Roma strada per strada, quartiere per quartiere. Ha occupato alcuni spazi delle istituzioni. Quando sono arrivato in Campidoglio, i mafiosi erano scappati o comunque si erano clandestinizzati. Le fragilità del sistema sono rimaste intatte».
Tutto questo che ricadute ha sulla cittadinanza?
«La corruzione e la distorsione delle procedure hanno un costo in termini di qualità e quantità di servizi garantiti ai cittadini».
I riflettori sui magistrati. Nell'opinione pubblica si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine della magistratura, e l'orientamento dei cittadini verso la politica e i partiti è sempre più disilluso. Ma a differenza di vent'anni fa, non riconoscono più i giudici come moralizzatori, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. Il Presidente Mattarella dopo il massacro avvenuto al palazzo di Giustizia, a Milano, ha lanciato un messaggio esplicito. Contro la campagna di discredito che, da tempo, investe i magistrati. Come, d'altronde, Gherardo Colombo, in passato pm di "Mani pulite", e il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli. D'accordo nel denunciare il clima di rabbia e di veleni, non estraneo all'azione criminale dell'assassino. Il quale, non per caso, ha individuato il "luogo" responsabile del proprio fallimento (in senso letterale) proprio nel palazzo di Giustizia. Dove ha ucciso il giudice Ciampi e altre due persone (tra cui un avvocato). Naturalmente, non è possibile ricondurre a ragioni sociologiche comportamenti criminali, che hanno radici largamente patologiche. Tuttavia, l'idea che esista un clima d'opinione sempre meno favorevole ai magistrati e al sistema giudiziario è sicuramente fondata. E il ri-sentimento verso l'ambiente della giustizia è, anzi, cresciuto negli ultimi tempi. È lontana l'epoca di Tangentopoli, quando, nei primi anni Novanta, gli italiani affidarono a pm e giudici il compito di decapitare (metaforicamente) la classe politica che aveva governato l'Italia repubblicana fino ad allora. Corrotta e delegittimata. Giudici e pm divennero, allora, gli esecutori della "volontà popolare". In quegli anni, la fiducia nei loro confronti si avvicinò al 70%. Senza grandi differenze di schieramento politico. Pochi anni dopo, però, questo atteggiamento divenne più tiepido e sicuramente meno trasversale. Soprattutto perché l'interprete principale della nuova stagione (anti) politica, Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia, venne coinvolto da indagini e inchieste "giudiziarie" compromettenti. E concatenate, come la trama fitta del conflitto di interessi del Cavaliere. Così, la fiducia nei magistrati cominciò a declinare, in modo sensibile, soprattutto a centrodestra. Questa tendenza, in seguito, si è allargata. La fiducia nella magistratura, infatti, è scesa costantemente, fino a oscillare intorno al 35-40%, fra il 2005 e il 2010. In seguito è calata ancora. Fino al 30%, rilevato da Demos alcune settimane fa. Dunque, prima degli omicidi avvenuti al palazzo di Giustizia. Si tratta dell'indice di consenso più basso registrato dal 1994 ad oggi. Il clima di sfiducia denunciato dai magistrati, effettivamente, esiste. E ha diverse ragioni. Alcune delle quali, sicuramente, "politiche". Come dimostra la profonda, differenza di atteggiamenti, in base alla posizione politica e alle scelte di partito. Attualmente, infatti, la quota di elettori che esprime fiducia verso i magistrati è intorno al 41%, nella base del Pd, ma scende al 29% nella base del M5S, al 25%, fra gli elettori di Fi e, infine, al 18% fra quelli della Lega. C'è, dunque, un'evidente "frattura" politica, che marca l'atteggiamento verso i magistrati. Guardati con ostilità da destra, con diffidenza dal M5S. Visti, invece, con maggiore favore a sinistra. Tuttavia, il pregiudizio politico nei confronti dei magistrati è cresciuto in modo generalizzato e trasversale. Anche fra gli elettori di centrosinistra, infatti, il consenso nei loro riguardi è calato, di quasi20 punti negli ultimi 5 anni. La causa di questo mutamento d'opinione è, dunque, in gran parte, "politica". E ha alcune spiegazioni precise. Anzitutto, i magistrati, dagli anni di Tangentopoli in poi, hanno assunto un ruolo "politico". Perché hanno contrastato l'illegalità cresciuta insieme all'intreccio fra partiti e interessi. Sono, dunque, divenuti i controllori di un sistema compromesso e poco credibile. Alessandro Pizzorno ha osservato che si sono trasformati nei "garanti della pubblica virtù". In grado di delegittimare, con un'inchiesta, un leader o un amministratore. In secondo luogo, i magistrati stessi, in alcuni casi, sono divenuti attori politici di rilievo. A partire da Antonio Di Pietro. Fino a Antonio Ingroia. Ma sono molti, oggi, i magistrati in Parlamento, alcuni eletti anche nelle liste di centrodestra. Altri, invece, impegnati come sindaci in città importanti. Emiliano a Bari. De Magistris a Napoli. Mentre Casson è candidato a Venezia. Difficile non venire coinvolti dai (ri) sentimenti politici quando si diviene canale di formazione della classe politica. Perché l'identità del magistrato persiste. E Di Pietro, De Magistris ed Emiliano restano "magistrati" anche se hanno cambiato ruolo e attività. Così, presso l'opinione pubblica, si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine dei magistrati. A percepirli come "attori", oltre che "controllori", della politica. In altri termini, oggi l'orientamento dei cittadini verso la politica, i politici e i partiti è sempre più disilluso. E, a differenza di vent'anni fa, non riconosce più i magistrati come moralizzatori. Nonostante che la "questione morale", sollevata da Enrico Berlinguer all'inizio degli anni Ottanta, sia sempre attuale. E colpisca settori politici e amministrazioni - regionali e comunali - di destra ma anche di sinistra. Non per caso il 48% dei cittadini (Demos, marzo 2015) ritiene che oggi la corruzione politica, in Italia, sia più diffusa che all'epoca di Tangentopoli. Mentre solo l'8% pensa il contrario. Per questo la preoccupazione espressa dal Presidente e dal Csm è fondata. Ma non facilmente risolvibile. Perché lo spazio della magistratura si è allargato nel vuoto della politica. Le sue funzioni di controllo e di intervento si sono moltiplicate parallelamente al riprodursi della corruzione e degli illeciti. Nella realtà politica ma anche nella vita pubblica. Al punto che oggi si assiste a una sorta di "giuridificazione della vita quotidiana". Che accompagna, a fini di controllo, le nostre attività - pubbliche, ma anche private. Praticamente ogni giorno. Per alleggerire le tensioni sulla magistratura, dunque, dovremmo "rassegnarci" al ritorno della politica. E dell'etica: nella vita pubblica e privata. Si tratta di un'impresa difficile, mi rendo conto. Ma, voglio credere, non impossibile.
I riflettori sulla cooperazione. Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd - giura il presidente Matteo Orfini - non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.
I riflettori sui sindacati e le loro protette:Libera di Don Ciotti e Emergency di Gino Strada. La Cisl rinnega Gino Strada e don Ciotti «Stanno con Landini, basta 5 per mille». Una nota dei metalmeccanici Fim vieta di devolvere il 5 per mille a Emergency e Libera, scrive Nadia Muratore su “Il Giornale”. Basta 5X1000 ad Emergency e a Libera. Lo ha deciso la Fim Cisl di Torino e del Canavese che non lascerà più devolvere il contributo dei suoi 12mila e 500 iscritti alle due associazioni, perché, come spiega il segretario torinese della Fim, Claudio Chiarle, in una lettera indirizzata alla presidente di Emergency, Cecilia Strada, e al rappresentante legale di Libera Davide Pati: «Abbiamo sempre lasciato liberi i nostri associati di scegliere a chi devolvere il 5X1000, perché il nostro sindacato ha nel suo dna l'idea che chi aderisce alla Fim sia un uomo o una donna liberi di fare le sue scelte politiche, sociali, religiose senza condizionamenti da parte nostra. Questo si chiama autonomia dai partiti, rispetto del pensiero politico e religioso altrui». Ma adesso le due associazioni sono finite nel libro nero. Quello che non va giù al presidente Chiarle è la loro adesione alla «Coalizione sociale», lanciata dal segretario Fiom Maurizio Landini che, sempre secondo il segretario torinese fa venir «meno lo spirito con cui, in piena autonomia e libertà, avete costruito il progetto della vostra associazione e con cui molti nostri iscritti versavano il 5X1000 a Emergency o Libera. Preso atto di questo vostro cambiamento e come vi dicevo in precedenza, la Fim di Torino e Canavese aderisce e supporta economicamente progetti di solidarietà con Ong territoriali e nazionali a cui, stante la vostra adesione alla Coalizione sociale, d'ora in poi daremo indicazione ai nostri iscritti di versare il 5X1000». Un attacco diretto e una presa di posizione forte, che gli iscritti al sindacato dei metalmeccanici della Cisl, pare abbiano apprezzato e condiviso, facendo così venir meno a Libera ed Emergency, un bel po' di denaro, visto che, sempre per ammissione dello stesso Chiarle, erano numerosi a firmare a favore delle due associazioni umanitarie. Ha apprezzato un po' meno, invece l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, che a stretto giro di posta ha già replicato senza celare il malcontento e così, probabilmente dopo essersi fatta due conti in tasca, è arrivata anche a smentire di aver teso la mano al movimento creato dal leader della Fiom. Il coordinatore nazionale di Libera, Enrico Fontana, ha infatti precisato al «caro segretario Chiarle» di essersi stupito per la decisione presa dal sindacato torinese perché, «come ha ribadito a più riprese in interviste pubblicate da diversi giornali il nostro presidente don Luigi Ciotti - scrive Fontana - e come è stato sottolineato in un documento del nostro ufficio di presidenza, Libera non ha aderito ad alcuna Coalizione sociale. Se questa è la motivazione per cui intendete non segnalare più ai vostri iscritti la nostra associazione come possibile destinataria del 5x1000, è davvero priva di fondamento». E poi, lascia una porta aperta, spiegando che da Libera avrebbero «potuto fornirle tutti i necessari chiarimenti prima che venisse assunta una decisione che ci auguriamo possa essere rivista alla luce di questa risposta». Tutto tace, invece da Emergency ma tanto il segretario Chiarle non pare intenzionato a cambiare idea.
Antimafia e cooperazione. Gasparri: “Coop rosse: 416 bis. Don Ciotti: corruzione coop perché non ne parla”, scrive Blitz quotidiano. Sullo scandalo della coop rossa che pagava mazzette a Ischia, Maurizio Gasparri, vice presidente del Senato chiama in causa un sacerdote icona della sinistra da tv, don Luigi Ciotti e paragona il sistema delle cooperative alla peggio malavita organizzata, invocando l’applicazione del 416 bis. La provocazione è un po’ estrema, perché il mondo degli affari ha le sue regole spietate ma non è malavita e forse sarebbe stato più appropriato invocare il conflitto di interessi: cooperative vs Pd come Mediaset vs Berlusconi. Parallelo arduo ma questi sono i due lacci che impastoiano l’Italia. Le dichiarazioni di Maurizio Gasparri diffuse dalla agenzia Ansa sono urticanti provocazioni: “Don Luigi Ciotti rilascia, a sua discrezione, patenti di pubblica moralità a questo e a quello. Cosa ha da dire sulla lunga scia di fatti di corruzione riguardanti le cooperative rosse aderenti alla Legacoop, visto che il presidente della Lega delle cooperative, Mauro Lusetti, partecipa alle sue iniziative ed ha addirittura letto una parte della lista delle tante vittime massacrate dalla mafia? Potrebbe scegliere lettori migliori. O potrebbe dire qualche parola anche su questo capitolo di corruzione. La sua libertà di espressione si indirizza su tanti obiettivi. Riservi qualche attimo del suo tempo alla Lega delle cooperative per la quale forse bisognerebbe interrogarsi sull’opportunità o meno di applicare il 416 bis”. Il 416 bis alle Coop. “Ancora uno scandalo che coinvolge il mondo delle coop rosse. Corruzione, malaffare, mondo di mezzo. Dall’inchiesta su Filippo Penati alla recente Mafia Capitale, dal viadotto in Sicilia all’Expo e ora l’appalto per la metanizzazione di Ischia. Sempre in prima linea le coop rosse. Le loro mani sulle principali opere pubbliche del nostro Paese. Non è forse il tempo che sia ipotizzata l’applicazione del 416 bis a questa autentica piovra rossa? “Dall’inchiesta di Ischia emergono indiscrezioni sempre più inquietanti. Non solo si ha conferma dell’intreccio affaristico tra coop rosse e pezzi importanti della sinistra e del Pd già emerso in altre indagini. Le casse della Cpl Concordia pare infatti siano state aperte per finanziare Fondazioni, eventi, cene e campagne elettorale di esponenti di primo piano dell’attuale Pd. Da Renzi a D’Alema, da Marino a Zingaretti. Ma risulterebbe anche un legame con la criminalità organizzata. Una circostanza che tra l’altro si sarebbe verificata anche in altre occasioni, come appare nell’inchiesta su Mafia Capitale. Coop rosse, Pd, criminalità. La magistratura chiarirà la liceità dei finanziamenti. Ma il verificarsi ripetuto di certe circostanze dovrebbero far riflettere sull’opportunità di ipotizzare, anche in questa inchiesta, il reato di associazione mafiosa. Le coop rosse meritano un bel 416 bis. Hanno scritto da decenni pagine da non dimenticare. Dall’Emilia al viadotto crollato in Sicilia, da Sesto San Giovanni al finanziamento a tutta la sinistra”.
Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.
CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.
"Corruzione a norma di legge", piaga italiana. Nel libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi la ricostruzione dell'intreccio che tra controllati e controllori, il quadro di un fenomeno che è oggi più grave di quanto non fosse all'epoca di Tangentopoli: allora le norme venivano violate, oggi sono state "aggiustate" per permettere gli abusi, scrive “La Repubblica”. La lobby delle Grandi opere affonda l'Italia, recita il sottotitolo del libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, Corruzione a norma di legge (Rizzoli) dedicato alla palude e al malaffare che per due decenni, con gli scandali del MoSE di Venezia, dell'Expo di Milano o dell'Alta velocità hanno inquinato il Paese durante la Prima e la Seconda Repubblica, allungando i tempi e gonfiando a dismisura i costi di realizzazione. Ed è assai chiaro il messaggio che fa da filo conduttore alla ricostruzione del fitto intreccio che ha legato controllori e controllati lungo il percorso delle Grandi opere. Oggi la corruzione è perfino più grave che in passato e questo avviene perché, se con Tangentopoli gli imprenditori che avevano violato le leggi potevano essere perseguiti, ai nostri giorni punire i responsabili è diventato assai più arduo. Poiché sono le stesse leggi a essere state "aggiustate" a monte per permettere il vantaggio dei privati a discapito dello Stato, chi corrompe non viola norme, ma le usa e sfrutta per il proprio tornaconto. Una desolante realtà di fronte alla quale la giustizia ha le armi spuntate e che potrebbe essere combattuta soltanto dai cittadini e dalla politica. Ma come fare per promuovere e dar corso alle Grandi Opere necessarie al Paese, evitando il sistema corruttivo che ha imperversato negli ultimi vent'anni e cambiato la percezione che i cittadini hanno della politica, mai stata come ora al minimo del gradimento? Innanzi tutto, rispondono Giorgio Barbieri, giornalista, e Francesco Giavazzi, economista, la politica dovrebbe radicalmente cambiare il modo d'intendere il suo ruolo e dunque impedire (e non promuovere) quelle leggi ad hoc che finora hanno permesso i tornaconti privati, a tutto svantaggio dell'interesse pubblico. E qui entrano in gioco i cittadini che, con il loro voto, possono pretendere di sostenere solo chi s'impegna contro la "corruzione delle leggi". Inoltre, suggeriscono gli autori, le imprese dovrebbero potersi assicurare presso una compagnia privata così come le "gole profonde", che denunciano la corruzione, dovrebbero poter contare su una rete di protezione efficiente e reale. Infine, è dovere di chi controlla qualità e costi delle Grandi opere essere finalmente del tutto indipendente dalla politica.
Perché la vicenda del MoSe è emblematica della corruzione diffusa?
«Perché meglio di ogni altra dimostra che la corruzione più grave, cioè quella che più costa ai cittadini, non è quella che avviene tramite violazione delle leggi, di cui per lo più si occupa la stampa, bensì quella che avviene per "corruzione delle leggi". Leggi ad hoc, come la legge del 1984 che creò il concessionario unico, ovvero assegnò buona parte dei lavori di salvaguardia della laguna di Venezia (18 miliardi di euro di oggi) ad un monopolista. Costui, il Consorzio Venezia Nuova, in questi 30 anni ha realizzato lavori per il MoSE per oltre 6 miliardi (in euro di oggi), con un sovrapprezzo per lo Stato, e quindi per i cittadini, che supera i 2,4 miliardi di euro. La "corruzione" della legge è più ambigua della "violazione", perché nel primo caso nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state "corrotte", cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l'interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non ha armi e che può essere combattuta solo dalla politica e dai cittadini».
Tutti gli scandali da Tangentopoli in poi...
«Gli imprenditori sono usciti dall'esperienza di Tangentopoli con danni giudiziari limitati e una lezione: per non cedere tutta la rendita della corruzione ai politici occorre trattare da una posizione di forza, costruendo un'unica impresa monopolista per eliminare la possibilità che il politico tratti con altri. Di qui nasce l'idea del consorzio di imprese che tratta con politici e amministrazioni come fosse un'unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l'imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori. Non a caso nel Consorzio Venezia Nuova si ritrovano gli stessi imprenditori attivi al tempo di Tangentopoli. Trattando da una posizione di forza si può anche fare in modo che i benefici ottenuti non siano sanzionati dalla legge, e così evitare il rischio della prigione. I politici sono quindi pagati per ottenere non solo una parte della rendita, ma anche leggi che la rendano "legale". Durante Tangentopoli politici e imprenditori violavano le leggi, e infatti in molti sono finiti in prigione. Con il MoSE tutto diventa legittimo perché le leggi sono scritte in modo tale che appropriarsi di una parte della rendita destinata alla realizzazione della grande opera diventi legale».
Come uscire dall'ennesima palude che ha coinvolto la Prima e la Seconda repubblica?
«Il libro si chiude con tre proposte concrete. 1: richiedere che, per partecipare a un appalto, le imprese si assicurino con una compagnia privata, come avviene negli Stati Uniti. In Italia una legge in questo senso esiste, ma i decreti attuativi non sono mai stati scritti. 2: la creazione di un'efficiente rete di protezione per le "gole profonde", ossia chi denuncia sospetti episodi di corruzione, ma anche di ogni altra forma di comportamento illegale. 3:. l'indipendenza dalla politica di chi deve controllare qualità e costi. Ma queste misure non risolvono il problema più grave, che è la corruzione delle leggi. Questo è compito esclusivamente della politica. L'amara vicenda che ha travolto il Mose di Venezia può però trasformarsi in un'occasione affinché politica e cittadini, con il proprio voto, trovino l'antidoto affinché simili casi di corruzione delle leggi non si ripetano».
Leggi sbagliate, non solo gli uomini. Nel libro di Barbieri e Giavazzi, l’analisi di due tipi di corruzione: le tangenti e quelle norme scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna. Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole. È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole. Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare». «Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”». Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova». Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario». Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio. L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti». Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa». Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».
In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.
Da Formigoni a Errani, la caduta dei governatori 2010.
Roberto Formigoni è stato a capo della Regione Lombardia per 18 anni. Si è dimesso dopo aver concordato la dissoluzione della giunta e di un consiglio regionale nel quale la Lega Nord aveva chiesto la sua testa, bersagliata in quel momento dalle inchieste giudiziarie. Avrebbe voluto mantenere un piede a Milano, come commissario generale dell’Expo. Ma ha dovuto mollare anche quello. Eletto in Senato con il Popolo della libertà nel 2013, è passato con Ncd e ora è nella maggioranza che sostiene Matteo Renzi. E’ anche presidente della commissione Agricoltura di Palazzo Madama.
Renata Polverini è rimasta con Berlusconi. Ma come Formigoni è caduta in piedi. L’hanno eletta in Parlamento nel 2013, a dispetto di un passaggio meteorico alla presidenza della Regione Lazio. Nel settembre 2012 la sua giunta cola a picco insieme al consiglio regionale affondato dallo scandalo dei fondi milionari dei gruppi politici consiliari, di cui è stato portabandiera Franco Fiorito, il “batman di Anagni”.
Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, se n’è dovuto andare per decisione dei magistrati amministrativi che hanno dato ragione alla sua avversaria Mercedes Bresso circa irregolarità nelle firme per le liste elettorali commesse 3 anni prima.
Vasco Errani. Condannato a un anno per la vicenda Terremerse decide per le dimissioni irrevocabili. Dopo 15 anni ininterrotti alla guida della Regione, e 19 di presenza nella giunta.
Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria, condannato a 6 anni di reclusione per falso e abuso d’ufficio. Accompagnato alla porta dalla legge che porta il nome dell’ex ministro di Giustizia Paola Severino, che stabilisce la decadenza degli amministratori condannati.
Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto. Per lui i giudici hanno chiesto l’arresto, ritenendolo una delle pedine chiave dello scandalo Mose. Sicuro di essere rieletto per un quarto mandato, ha dovuto mollare la presidenza della Regione che occupava da 15 anni. Due volte ministro e ora deputato: presidente della commissione Cultura della Camera.
…E PROTESTANO PURE…..
Politici in piazza. A casa mai? Gli imprenditori che aspettano i rimborsi dallo Stato, le partite Iva perseguitate dal fisco, gli esodati, i pensionati: ecco chi avrebbe diritto ad avere udienze non richieste da Napolitano, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Marciare da parlamentare sulle istituzioni, occupare per protesta i luoghi simbolo dello Stato, diventa improvvisamente lecito. E dire che ancora adesso a Forza Italia si rinfaccia, come un attentato alla Costituzione, il sit in del marzo scorso davanti al Palazzo di giustizia di Milano per protestare contro l'accanimento dei pm nei confronti di Silvio Berlusconi. Senatori grillini, pezzi consistenti della sinistra e leghisti ieri hanno cambiato idea e in corteo hanno raggiunto il Quirinale occupandone il piazzale. Non ci stanno a varare la riforma del Senato, impantanata in aula in un drammatico braccio di ferro: da una parte il governo (sostenuto da Forza Italia) che vuole arrivare al voto per mettere fine alla sciagura del bicameralismo perfetto entro l'8 agosto usando tutti gli strumenti di cui dispone, dall'altra le opposizioni (e pezzi del Pd) che per impedirlo hanno presentato ottomila emendamenti alla legge. Noi restiamo fermi al giudizio espresso all'epoca del sit in anti magistrati politicizzati: ognuno ha il diritto di protestare dove e come meglio crede. Ma oggi siamo anche convinti che chi ieri ha marciato sul Quirinale rappresenta solo la difesa di se stesso. Difende il suo prestigioso posto di lavoro e il relativo lauto compenso, non gli interessi degli italiani. I quali, se il Senato chiudesse domani mattina, non verserebbero una lacrima. Anzi, credo che un applauso si leverebbe dal più profondo del Paese. Se qualcuno ha il diritto di occupare lo spiazzo del Quirinale non sono certo quei privilegiati dei senatori. Gli imprenditori che aspettano i rimborsi dallo Stato, le partite Iva perseguitate dal fisco, gli esodati, i pensionati: ecco chi avrebbe diritto ad avere udienze non richieste da Napolitano. Il futuro e gli stipendi sono temi che non ci appassionano. E il danno che provocano resistenze così violente a una legge di riforma tutto sommato «soft» dimostra una sola cosa: è gente fuori dal tempo. Il Senato è un'istituzione obsoleta, inutile e ora anche dannosa. Prima questa partita si chiude prima si affronteranno, finalmente, le questioni vitali. Se poi Grillo o la sinistra vorranno fare precipitare la situazione, si accomodino. Voglio vederli andare a elezioni anticipate al motto di: «Più Senato per tutti».
Ci avete rotto con questa Costa Concordia! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. E basta! La storia della Costa “Concordia”, nonostante i suoi poveri morti, non riuscirà mai a creare un’epopea, com’è accaduto invece alla sagoma del “Titanic”. Già, iceberg contro scoglio è quasi una metafora, una povera immagine da strapaese. Già, nulla che vada oltre l’immaginario da rotocalco nazionale con tutti gli strilli dei titoli che sappiamo, e con questo ritengo di avere già detto tutto, o comunque molto dello stato delle cose. Basta con la “Concordia”, insomma. Dimenticavo: ancora c’è da mettere in conto la figura dal fulgore rionale di capitan Schettino, cominciando dalla cura che l’uomo metteva nella pettinatura, gel su gel, da vero orgoglioso, fascinoso capitano sul ponte, appunto, di comando, che poi non si rivelò affatto tale. Altrimenti l’unico fermo-fotogramma della nostra vicenda non mostrerebbe l’immagine della nave lì spiaggiata, come ulteriore metafora della balena italiana, come un capitolo significativo dell’autobiografia nazionale. Capitolo chiuso. Basta con la “Concordia”, dai. E poi ecco le parole dell’eroe positivo, l’altro ufficiale, finalmente gentiluomo, che non può mancare in ogni melodramma italico, quel “Torni a bordo, cazzo!” che in pochi giorni, tra nuovi titoli dei giornali e battute da cabaret, da “Bagaglino” redivivo, ha assunto lo stesso peso simbolico del garibaldesco “Nino, domani a Palermo”, e infine i turisti, tutti lì, al Giglio, a fotografare l’intruso, il mostro del mare, l’orca bianca spiaggiata, e ancora tutte le parole spese nella rosea prospettiva di riportare presto il pesce-relitto fuori dallo sguardo per ristabilire la pax turistica, lungamente violata per colpa di quel maledetto “inchino”, capitolo ulteriore del già citato costume da pagliaccio nazionale, salvo poi scoprire che proprio quel relitto era diventato un’attrazione non meno turistica di una basilica di Pompei o di Loreto, una sorta di Torre di Pisa trasfigurata in cadavere di natante, un po’ come l’immagine di King-Kong morto sulla spiaggia di Long Island che il regista Marco Ferreri piazzò in un suo film sul declino del maschio. Maschio italiano o comunque italico, campano, con accompagnatrice esotica, anche Schettino in questa nostra storia accompagnata a sua volta dal fiato sospeso nel tentativo di liberarsi dall’incubo, e dunque ecco arrivare i Pico della Mirandola e gli Archimede in grado di riportare in asse la “Concordia”, e da lì allontanarla verso il suo ultimo viaggio con rotta verso il bacino del disarmo, fra un: “E’ mia!”, e un “No, la voglio io”, e ancora “No, ho detto che è mia”, un po’ come certe liti condominiali tra sfasciacarrozze quando c’è da rottamare, metti, un pezzo meccanico di valore come, che so?, la Porsche 550 Spyder di James Dean, visto che non si sa mai che non possa diventare un cimelio, una reliquia, un ottovolante d’affari. E poi, una volta rimessa dritta, ecco le foto dei saloni risparmiati dalla ruggine, i resti dei bagagli, e allora riecco lo spettro del Titanic con le sue argenterie finite nel fondo del mare, quasi una location perfetta per un reality sulle catastrofi non meno da rotocalco. E basta con la “Concordia”. E i servizi per mostrare che il tempo si è fermato, retorica e ancora retorica asserragliata dietro al pianoforte rimasto intanto, quasi che se arrivasse lì, per puro caso, un Fred Bongusto o perfino un Vinicio Capossela, il pianobar potrebbe ricominciare come se nulla fosse accaduto, e c’è perfino da giurare che lo stesso Schettino lascerebbe la plancia di comando e i fianchi della simpatica Domnica Cemortan, così come il vassoio di ostriche galantemente offerto per senso d’ospitalità, per scendere giù a cantare pure lui perché, come dirà la moglie del eroe negativo in un’intervista a “Oggi”, rotocalco a favore delle alghe dei fondali: “Mio marito non è un mostro”. E allora, anche se così fosse, basta con la “Concordia”. E intanto, mentre la sagoma bianca si allontana dal Giglio, viene voglia di dire davvero che questa storia è insostenibile! Sognando di liberarsi da questo incubo perché, sì, come ha detto proprio Domnica: “Sì, mi ero presa una cotta per il capitano Schettino. Sì, ci siamo baciati. Penso che saremmo finiti a letto, ma poi la nave ha colpito lo scoglio e si è capovolta”. Così parlò la signorina Cemortan, 25 anni, moldava che era a bordo della Costa Concordia la notte del disastro davanti all’isola del Giglio, in un’intervista al domenicale britannico Mail on Sunday. Ora che ci penso, anche Gemma Politi, allo scoccare dei suoi novant’anni, madre del sottoscritto, era il 2010, come testimonia una foto che la vede accanto a un sorridente d’ufficio commissario di bordo, fu ospite della “Concordia”, al momento di rimettere piede a terra però disse soltanto: “Un viaggio da schifo, Fulvio! Ho litigato pure con mio fratello Gino”, e io, prendendola sotto braccio, cercando di liberarla dall’incubo scampato: “E dunque, mamma?” E lei: “Mai più crociere”. Già, mai più “Concordia”, cazzo!
Qual è la vera Italia? L'impresa di Nibali, le lamentele dei commessi alla Camera, il recupero della Concordia la lentezza della politica. Facce della stessa medaglia: il nostro paese, scrive Marco Ventura su “Panorama” Qual è la vera Italia? E' quella di Vincenzo Nibali, la “pulce” diventata “Squalo” che pedala macinando chilometri e dondolando testardo sul sellino fino a trionfare sul Tourmalet al Tour de France? O è quella dei commessi e dipendenti miracolati da decenni di privilegi alla Camera con mega-pensioni e che da semplici centralinisti o documentaristi guadagnano più d’un primario d’ospedale e poi se gli diminuisci lo stipendio fischiano e urlano ai deputati dentro Montecitorio (a dimostrazione che quei soldi non erano meritati, almeno non da tutti)? L’Italia è l’ingegneria italiana, è l’ingegno e l’efficienza degli italiani che hanno rimesso in linea, in “navigazione”, addirittura in anticipo sui tempi, la Costa Concordia dopo che un altro italiano l’aveva portata a schiantarsi sugli scogli, fatta affondare e abbandonata con disonore al suo destino di morte? L’Italia è quella che con abilità si inserisce in una trattativa tra la Sudan e gli Stati Uniti, due Paesi che non dovrebbero neppure guardarsi in faccia per l’embargo che il primo applica al secondo e perché il leader sudanese è sotto accusa all’Aja per crimini contro l’umanità, e tuttavia il nostro viceministro Lapo Pistelli con scatto felin-diplomatico riesce a imbarcare sul volo di Stato tricolore e riportare libera a Roma Meriam, con i piccoli Martin e Maja e il marito somalo-americano, sottraendola alla sorte possibile di 100 frustrate e, peggio, dell’impiccagione nel 2016? L’Italia è quella che persegue il rinnovamento, le riforme, la sobrietà, il merito, mettendo fine a un’ubriacatura di privilegi castali e corporativi, dalla magistratura ai sindacati, dalla politica agli ordini professionali (o almeno ci prova), o è quella che nel pieno del crollo di un sistema si aggrappa miseramente al soldo e mentre i giovani oggi non sanno se avranno mai una pensione decente, anzi sanno perfettamente che mai l’avranno, nelle sembianze di consiglieri regionali lombardi di vari partiti (compresi nomi famosi come la Minetti e il figlio di Bossi) si precipita a chiedere la liquidazione dei contributi già versati, prima che nuove regole insidino il “tesoretto”? Ecco, l’Italia è fatta di slanci generosi e testarda voglia di fare bene il proprio lavoro, ma anche di freni, marce indietro, recidive (im)morali. Forse è sempre stato così. Forse adesso i comportamenti positivi e quelli negativi risaltano di più perché la torta è più piccola e gli squilibri sono più evidenti (e quindi ingiusti). Ma è positivo almeno questo: che sempre di più si diffonda la percezione di un’equità necessaria che consenta all’Italia di rialzare la testa. Anche perché alternativa è una “Concordia nazionale”, nella versione che affonda.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».
Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!
«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.
Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".
La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà la tratterà bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà anche gente che le vorrà bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?
Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.
«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.
"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?
«Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.
«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?
«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?
«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.
«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
A sfottere godiamo: siam settentrionali.
Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.
Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".
A Radio Capital dichiara (14 luglio):
"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".
Ok, e le dimissioni?
"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".
All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):
"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".
Era un "intervento politico più articolato":
"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".
E non accusatelo di razzismo:
"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".
Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.
"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:
"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.
A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":
"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".
Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":
"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".
Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.
Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?
"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".
Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?
"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".
Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?
"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".
Si sente abbandonata anche dal Pd?
"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".
A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.
L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.
Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa. «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.
Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.
ESSERE BAUSCIA.
Baùscia: Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Baüscia è un vocabolo dialettale utilizzato nel XX secolo nella zona della Brianza, in particolar modo a Lissone (città storica del mobile e dell'arredamento) per indicare le persone che aiutavano i forestieri nella ricerca di botteghe e artigiani in cambio di denaro. I baüscia erano soliti disporsi ai confini della città per poter abbordare i turisti e far loro da Cicerone, in alcuni casi accompagnandoli direttamente. È inoltre un vocabolo dialettale, attestato in area lombarda atto a designare una persona che si dà delle arie, uno sbruffone. Letteralmente significa saliva, bavetta; per estensione può significare anche abitante di Milano. Baüscia indica in senso ironico anche una tipologia di piccolo imprenditore poco aperto alle innovazioni, egocentrico, che non ama collaborare o condividere potere e decisioni. Tipicamente è un soggetto che vuole decidere e intervenire anche nelle aree aziendali di cui non ha competenza. La trasformazione in baüscia avviene soprattutto quando la piccola impresa ha una crescita e si industrializza necessitando così di diversificare e diramare i processi. Il vocabolo è particolarmente attestato e utilizzato nel gergo sportivo, con riferimento al club calcistico milanese dell'Inter. Per lunghi decenni del XX secolo, e segnatamente a partire dagli anni venti, i tifosi milanisti furono prevalentemente di estrazione proletaria, spesso immigrati; per questo motivo dagli interisti essi venivano soprannominati casciavit (cacciaviti) allo scopo di indicarne l'origine popolare e operaia. I milanisti chiamavano viceversa baüscia i rivali, essendo allora la tifoseria nerazzurra composta perlopiù dalla medio-alta borghesia di origine prettamente meneghina. In quegli anni il divario tra le due componenti sociali andò consolidandosi anche sul piano dei risultati sportivi, poiché l'Inter conquistò 3 scudetti mentre il Milan non vinse il campionato per molti anni (dal 1907 al 1951). Attorno ai primi anni sessanta il giornalista sportivo Gianni Brera rilanciò la dicotomia tra baüscia e casciavit, vale a dire tra gli interisti borghesi e danarosi e la gente della Milano operaia ritratta in Romanzo popolare con Ugo Tognazzi, la povera gent secondo la celebre formula utilizzata dal commediografo verista, autore teatrale e giornalista Carlo Bertolazzi. Vissuto nella prima metà del Novecento, Bertolazzi utilizzò in alcune sue opere, come El nost Milan (divisa in 2 parti: La povera gent e I sciori), il vocabolo casciavit anche come sinonimo di inetto. Questa classificazione terminologica tra le due tipologie di tifosi andrà spegnendosi durante gli anni ottanta insieme alla riconfigurazione dell'assetto sociale ed economico dell'Italia e della realtà lombarda, sino a essere ormai inutilizzabile se non per ragioni puramente burlesche e di sfottò.
Il credito, il fieno e le armi fu così che nacquero i baüscia. A Palazzo Reale una grande mostra propone l’arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Fu il quel periodo storico che una certa tipologia lombarda mise le sue salde radici, scrive Philippe Daverio su “Il Corriere della Sera”. Ci sono nella storia degli ultimi due millenni almeno quattro momenti che spiegano la genesi dell’animo dei milanesi. Si deve ai santi Ambrogio di Treviri e Agostino di Ippona la naturale inclinazione della città ad essere crocevia fra Europa e Africa, a San Carlo Borromeo l’understatement come stile di vita, e alle passioni politiche degli eroi ottocenteschi la voglia d’essere protagonisti d’Italia e dell’impresa. Manca per definire la milanesità il concetto fondamentale del baüscia, quello che il sommo vate della poetica calcistica Gianni Brera contrapponeva negli Anni 60 al casciavit, dando al primo una accezione di classe dirigente con arie di superiorità e al secondo l’umiltà del lavoratore operoso. Brera si occupava di pallone e non di storia, il che gli evitò di dovere frugare nelle origini di queste simpatiche caratteristiche, le quali invece hanno forse la loro fonte nel momento di massimo fulgore della Lombardia, negli anni del ducato visconteo e poi sforzesco. Se tuttora nel sistema bancario internazionale si usa il termine lombard per definire il tasso di sconto, è perché questa usanza creditizia inventata per ovviare al divieto medievale dell’usura fu l’invenzione dei banchieri milanesi che, nei due secoli prima del primato fiorentino, agivano in tutto il continente. Infatti quando Filippo IV di Francia decise di rimpinguare le sue finanze, fece la festa prima ai Templari, poi agli ebrei e in ultimo ai milanesi, che a Parigi rappresentavano allora tutti i banchieri della nostra penisola. Questa ricchezza dei lombardi era dovuta a due elementi. La formidabile rivoluzione agricola che i monasteri attorno a Chiaravalle avevano generato (inventando grazie alle marcite una raccolta di fieno già due mesi prima di quella naturale) consentiva alle cavallerie viscontee un anticipo di carburante per guerreggiare vittoriose. Poi s’era sviluppata una industria bellica fatta di armorari e spadari (le vie a loro dedicate esistono tutt’ora in città) dove fiorirono i prototipi dei casciavit. Il tutto generava danaro e il danaro generava banche. E nella testa dei Visconti elaborò ineluttabilmente la psicologia del baüscia, la quale portò Gian Galeazzo (1351-1402) all’apice dell’avventura e dell’ambizione politica. Aveva egli iniziato bene sposando nientemeno che Isabelle de Valois, figlia del re di Francia Giovanni II, squattrinato per via della guerra dei Cent’anni allora al suo culmine e talmente felice dell’arrivo di danaro fresco da fare del suo genero il conte di Vertu, il quale sempre col danaro si fece elevare al rango di duca dall’imperatore Venceslao. Arrivò, al momento della sua infausta morte, a controllare un territorio che si estendeva da Belluno ad Asti e da Bellinzona a Pisa, Siena ed Assisi. A lui si deve l’inizio della Fabbrica del Duomo nel 1386 e la Certosa di Pavia dieci anni dopo. Solo l’oratoria potente di Coluccio Salutati lo tenne fuori da Firenze, e il cancelliere della Repubblica gli dedicò un testo storico nel 1400, il noto De tyranno, intuendo la sua volontà d’unire la penisola in un’unica monarchia. Milano fece la sua rivoluzione repubblicana a metà secolo, ma il capitano scelto per difenderla ne divenne poi il primo duca sforzesco, Francesco, genero di Gian Galeazzo. Intanto il Duomo cresceva con manovalanze artistiche da tutto il continente e le biblioteche si arricchivano con codici altrettanto internazionali. Galeazzo Maria Sforza si sposava ad Amboise con Bona di Savoia, cresciuta presso la corte di Francia perché cognata di Luigi XI. E Bernardino Luini ritraeva la duchessa rimasta vedova e reggente dopo l’assassinio del marito, mentre Leonardo veniva a corte a Milano chiamato da Lodovico il Moro e, guardando al Bergognone che guardava i fiamminghi dopo essersi ispirato al bresciano Foppa, inventò lo stile nuovo e il cavallo del Castello, che fu distrutto quando i francesi di Luigi XII conclusero con l’innovativo tiro diritto del cannone la gloriosa stagione milanese nel 1499.
1386: al via il cantiere della modernità. La Fabbrica del Duomo nacque come una delle strategie di espansione politico-economica dei Visconti. Storia di un monumento che in realtà non è mai finito, scrive Roberta Scorranese su “Il Corriere della Sera”. Forse la storia del diavolo che si presentò in sogno a Gian Galeazzo Visconti intimandogli di edificare una «cattedrale piena di simboli del male» (pena: il furto della sua anima) non è vera. Però sta di fatto che nel 1386 il signore di Milano, quasi d’impulso, cominciò a muovere le carte per far costruire una chiesa grandiosa, internazionale. La Fabbrica del Duomo nacque così (anche) da un’ambizione. Nelle intenzioni del Visconti tutto quadrava: avrebbe intessuto stretti rapporti con le altre corti europee, ingaggiato i migliori maestri d’arte, piazzato le persone giuste nei posti giusti e manovrato strategicamente l’usufrutto delle cave di marmo di Candoglia, all’imbocco della val d’Ossola, per non dire della gestione dei balzelli. Insomma, la Fabbrica del Duomo, che verrà chiamata «Veneranda», si è avvinta come un rampicante rigoglioso alle vicende dei Visconti e degli Sforza, e dunque le 3.400 statue, le vetrate, gli angeli e i demoni che nei secoli (lo ricordiamo: la Fabbrica è formalmente un organismo ancora aperto) si sono stratificati nella cattedrale al pari di un infinito romanzo d’appendice, entrano a pieno titolo in questa mostra. «Non si poteva certo spogliare il museo del Duomo e così è stato creato al suo interno un itinerario ad hoc» precisa Marco Rossi, docente alla Cattolica e grande studioso di questo simbolo di Milano. Simbolo che, sin dalle origini, «proiettò immediatamente la città nel panorama delle grandi potenze» continua Rossi. Un cantiere elefantiaco che, per cominciare, determinò un’alleanza strategica tra potere civile e potere religioso. E poi fece scuola: la grandezza della base, la forma, il sistema delle 145 guglie, i doccioni (oltre 100), la cromia di quel marmo prezioso che veniva trasportato per vie acquee. Tutto era oggetto di discussioni artistiche internazionali, da Milano a Budapest passando per Praga e Ulm. Intere famiglie di maestri fabbricini qui si accasarono e si riprodussero. Centrali le figure dei Parler, di Giovannino de’ Grassi e Michelino da Besozzo: in mostra ci saranno il Taccuino di disegni, l’Offiziolo Visconti e il Landau Finaly 22 di de’ Grassi e il Libro d’Ore di Michelino da Avignone. Così il linguaggio tardo-gotico si nutrì a fondo di questa dialettica tra «fabbriche guida» e diverse sensibilità locali. «Da una parte — sottolinea Rossi — si sviluppò la tendenza a confrontarsi con i maestri europei, dall’altra però si consolidò pure un sistema di protezionismo che garantiva visibilità ai tanti artisti del posto». Un momento di splendore per Milano nel quale confluirono nomi italiani e stranieri come Jean d’Arbois, Gentile da Fabriano (del quale è in mostra una tavola da Pavia) e Pisanello. Ogni squadra poi costituiva un’impresa a sé, come delle sotto-fabbriche: un maestro poteva arrivare a controllare 300 dipendenti. Si capisce dunque che tipo di spinta economica e sociale la Fabbrica fu capace di imprimere non solo a Milano ma a tutta la Lombardia: alimentò i trasporti, gli scambi, diede fisionomia alle leggi locali e alle consuetudini. Fece nascere dei modi di dire, come «a ufo», che viene da ad usum fabricae, espressione con la quale alcuni beni venivano esentati dalle tasse perché destinati al Duomo. Sia con i Visconti che con gli Sforza, anche se i signori che vennero dopo si concentrarono su altri tesori — per dire: Ludovico Il Moro era innamorato di Santa Maria delle Grazie. E per la mostra due angeli e un David caleranno dal cielo, «anzi, dai capitelli per far parte dell’esposizione» scherza Marco Rossi. E quella leggenda del demonio che apparve in sogno a Gian Galeazzo? Forse è falsa come si diceva, ma basterebbe una visita alla cattedrale, con una santa Margherita che tiene al guinzaglio un diavolo con ali di pipistrello o con Sant’Erasmo con la pancia tagliata, per sorridere e pensare, anche solo per un attimo, che la leggenda possa avere un fondo di verità.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.
Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato. Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.
Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro - di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.
La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.
La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni, con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.
Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9 cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).
In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.
La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.
In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.
Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività. Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.
In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza". La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.
In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.
"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".
Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?
"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".
Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?
"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".
Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.
"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".
Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?
"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".
Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?
"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".
Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà - ripeteva Carminati a Riccardo Brugia - ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker. "Camorra capitale" non si accontenta delle periferie.
Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro.
'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo. Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.
La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»
Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione. "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.
Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.
Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere.
L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.
L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.
L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.
Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!
L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.
Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?
Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.
I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.
I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.
Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?
"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.
Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.
Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.
«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».
Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.
Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…
La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……
Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.
Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza. Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”. Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”. Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.
Ma questi magistrati non sono coerenti.
L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».
G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.
«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».
Ha fatto causa alle banche?
«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».
Alla fine le cause le ha vinte?
«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».
E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?
«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».
In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?
«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».
Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?
«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».
E qual è il problema?
«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».
Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.
«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».
Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?
«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».
Adesso cosa farà?
«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».
Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.
I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.
Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.
Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.
PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.
LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.
A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.
Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.
La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.
Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.
ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.
«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».
La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.
La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:
1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".
2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".
Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.
FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».
Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali … il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.
A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.
Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.
«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»
LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e, forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»
“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.
PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.
Chi è Giuseppe Masciari?
Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.
Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.
Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.
Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.
Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.
Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.
Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.
Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.
Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.
Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.
L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.
L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città. E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.
COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.
Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato. In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage. Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.
Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».
L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.
Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.
Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi” “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.
LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.
Coppola, a chi si riferisce?
“Allo Stato”.
Cosa chiede allo Stato?
“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.
Ha ricevuto altre minacce?
“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.
Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?
“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.
Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?
“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.
Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.
“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.
Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…
“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.
Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…
“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.
Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei.
“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.
E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?
“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.
Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.
“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.
Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.
“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.
Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.
“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.
Oggi come vive la famiglia Coppola?
“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.
Lei ha due figlie.
“Frequentano il liceo”.
A scuola come vengono trattate?
“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.
L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.
“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.
Esiste lo Stato nei suoi territori?
“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.
L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.
LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.”
Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.
TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».
IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento. Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito, me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.
Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.
Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza, lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero. E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali. Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari. Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.
La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.
Da un fatto ad un al'atro.
Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.
1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.
2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.
La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...
Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....
"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti. "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".
Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.
Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.
Ma non è la prima volta.
Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.
E poi....
Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.
Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...
Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare. Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.
Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.
Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.
«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».
Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.
Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.
Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.
Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”, Lun, 26/09/2011 con Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.
Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.
“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.
Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento. L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".
“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.
Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.
Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.
Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013 produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.
La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.
Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?
«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»
Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…
«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».
Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?
«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»
Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?
«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».
L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?
«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»
Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?
«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».
De Magistris ha fatto cadere Prodi…
«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».
Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?
«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».
Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?
«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».
Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.
«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».
Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?
«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».
Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?
«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».
Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?
«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»
Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?
«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».
Beh, i risultati insegnano…
«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»
In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…
«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».
Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.
«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia. Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
PATRIA, ORDINE. LEGGE.
Patria-ordine-legge: lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
Ogni anno, dopo il Natale, Capodanno e la Befana, si reitera la liturgia pagana dell’osanna all’ordine della Magistratura, con la liturgia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
Il commento del Dr. Antonio Giangrande, esperto di Diritto e di Giustizia, in quanto sul tema ha scritto “Impunitopoli, Legulei ed Impunità” e “Malagiustiziopoli” con “Giustiziopoli”: disfunzioni del sistema che colpiscono la collettività o il singolo. Il quale ritiene i magistrati, unti dal delirio di onnipotenza, gli unici responsabili del degrado sociale, culturale ed economico del nostro paese.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. Eppure la corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato.
LITURGIA APPARISCENTE
Da Wikipedia si legge. L'Anno giudiziario, nell'ordinamento giudiziario italiano, è il periodo di tempo, corrispondente all'anno solare, nel quale è scandito lo svolgimento dell'attività giudiziaria, attraverso la fissazione del cosiddetto calendario giudiziario. Le modalità di svolgimento della cerimonia sono state modificate recentemente: fino al 2005, per ogni anno giudiziario, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione e il Ministro della giustizia pronunciavano davanti al Presidente della Repubblica e alle altre autorità presenti una relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Similmente, i procuratori generali presso ciascuna Corte d’appello comunicavano al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della giustizia la relazione per il proprio distretto. Questo in conformità all’articolo 86 del regio decreto n. 12 del 1941, più volte modificato negli anni. Dal 2006, a seguito di una modifica normativa, il Ministro della giustizia rende direttamente comunicazioni al Parlamento, sull’amministrazione della giustizia nell'anno appena trascorso e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che si intende attuare nell’anno che inizia. Successivamente si riuniscono in forma pubblica e solenne (cioè con la partecipazione di tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato) prima la Corte suprema di cassazione e quindi le corti d'appello per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello; si passa quindi agli interventi (facoltativi) dei Procuratori generali e dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato. L'inizio dell'Anno giudiziario è celebrato con apposite cerimonie solenni (nelle quali i magistrati indossano le toghe cerimoniali di colore rosso e bordate d'ermellino) presso la Corte suprema di cassazione e presso le corti d'appello dei distretti giudiziari italiani. Le cerimonie inaugurali sono occasione di prolusioni dei massimi esponenti dell'ordine giudiziario circa lo stato dell'amministrazione della giustizia nel territorio di competenza. In questo senso assume particolare rilevanza l'inaugurazione dell'Anno giudiziario presso la Corte suprema di cassazione, che precede di un giorno quelle presso i distretti giudiziari, e che si svolge alla presenza del Presidente della Repubblica. Anche i giudici speciali, come la magistratura amministrativa e quella contabile (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti), ovvero la magistratura militare, hanno una propria cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario, che si svolge secondo modalità e con contenuti analoghi a quelli degli organi della magistratura ordinaria.
In queste occasioni si coglie in estrema sintesi la genuflessione dei media all’ordine giudiziario osannandone le virtù artefatte e riportandone le deliranti espressioni. I magistrati, che non vengono da Marte, si sentono e sono essi stessi giudici e legislatori. Il potere in mano al popolo: sia mai.
LITURGIA AUTOREFERENZIALE
In queste manifestazioni pubbliche, spesso, mancano le componenti contraddittorie insite nei processi, ossia l’Ordine degli avvocati. Sovente di leggono delle note, ignorate dai media, come questa: Le Camere penali di Basilicata, di Matera e la Camera penale "Alfredo Marsico" di Lagonegro (Potenza) "hanno deciso di non partecipare alla cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario" in programma domani, 24 gennaio, a Potenza, "raccogliendo l'invito dell'Unione Camere penali italiane di disertare una cerimonia ancora autoritaria e appariscente che non consente un concreto dibattito sui problemi della giustizia".
Il rito stantio delle toghe rossocerimonia, dell'anno giudiziario, è un rito destinato alla liturgica dei monologhi autoreferenziali e dell’elencazione dei problemi della Giustizia da addebitare agli altri.
Excusatio non petita, accusatio manifesta è una locuzione latina di origine medievale. La sua traduzione letterale è "Scusa non richiesta, accusa manifesta", forma proverbiale in italiano insieme all'equivalente "Chi si scusa, si accusa".
Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti. Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono.
E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”.
Per i magistrati il malfunzionamento della Giustizia va ricondotto alla Prescrizione.
LITURGIA AUTORITARIA
C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».
Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.
Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce. Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.
Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano».
Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?
«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».
Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.
«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».
Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado".
PER I MAGISTRATI IL CITTADINO DEVE ASPETTARE I LORO COMODI!!
Eppure, secondo lo studio fatto da Dimitri Buffa su “L’Opinione” i procedimenti prescritti sono dimezzati.
Prescrizioni penali rilevate in un decennio
2004: 219.146
2005: 189.588
2006: 159.703
2007: 164.115
2008: 154.671
2009: 158.335
2010: 141.851
2011: 128.891
2012: 113.057
2013: 123.078
Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati".
«Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura - dice il Premier Matteo Renzi -Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo e mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”. Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati».
Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici».
«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.
Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.
Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate.
I capi della Cassazione sgridano (un po’) i Pm, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi». Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l’inaugurazione dell’anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d’ufficio delle toghe. Dice che «una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole». Certo, dopo di lui, e su bito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici «protagonisti del cambiamento» promette loro una mano un po’ più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: «Il governo si riserva un’ulteriore riflessione sull’applicazione della nuova disciplina» che abbassa a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l’eco delle parole di Ciani a proposito della «magistratura requirente» che «nell’anno appena decorso», in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato «un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell’immagine, della popolarità, e soprattutto della politica ». E qui per giunta arriva un’altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, «è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente». Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l’ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la ”sua” riforma del processo penale. Ma l’altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. «C’è ancora molto da fare», avverte Santacroce, «le misure prese vanno senz’altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l’emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente». Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, «il rispetto della dignità della persona nella fase dell’esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità». Persino qui non mancano critiche alla magistratura: «Il problema dell’eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l’intervento della politica e del legislatore », avverte Santacroce, «è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale». Un passaggio che riscuote il plauso dell’associazione Antigone («Santacroce ha totalmente ragione, anche sull’illegittimità della pena per chi non se l’è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta») e dell’Unione Camere penali. «Siamo d’accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio» e sul «richiamo ad approvare il reato di tortura», dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c’è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po’ di merito, su questo, a Napolitano andrà dato.
«Quella riforma mai». Lo stop dei magistrati, scrive “Il Garantista”. Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce. Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni. Palermo, le scorte e i giudici scoperti. Prevedibile. Ma non privo di incidenti. C’è n’è uno spiacevole a Palermo, dove il procuratore generale facente funzioni Ivan Marino esclama «pausa caffè», s’incammina sul tappeto rosso, inciampa, batte la testa e riprende la cerimonia con un cerottone sul volto. Dopodiché, nella sua relazione, si concede un passaggio destinato ad alimentare polemiche. Alla sala gremita in cui spicca l’assenza dei pm della “Trattativa” (marcano visita tutti, dall’aggiunto Vittorio Teresi ai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) Marino dice: «Non si può sottacere che la indubitabile, contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente», ovvero Di Matteo, «con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti prima, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi». Come a dire: per proteggerne uno, particolarmente in vista, lasciano alla mer-cè di ritorsioni e proiettili noialtri. Obiezioni che ricordano tanto quelle rivolte a Giovanni Falcone venticinque anni fa. E’ proprio d’altronde Marino a dirlo: «Si sta verificando la stessa identica situazione degli anni ’80, allorché la protezione era garantita per lo più, se non esclusivamente, ai magistrati facenti parte dei pool antimafia dell’ufficio Istruzione e della Procura della Repubblica, con indifferenza verso la situazione della giudicante». «Il problema non siamo noi» Si avverte un certo nervosismo, tra le toghe. Contro quelle palermitane arriva la stoccata del presidente della corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, secondo il quale «la dura prova dell’audizione al Quirinale » poteva essere risparmiata «al Capo dello stato, alla magistratura e alla Repubblica» (un ampio estratto della relazione di Canzio è pubblicato nella pagina a fianco, ndr). Ma a dare l’dea della sindrome da accerchiamento di giudici e pm sono soprattutto le polemiche montate dall’Associazione magistrati. Il sindacato delle toghe organizza conferenze stampa per criticare la riforma della Giustizia. A Milano con il segretario Rodolfo Sabelli e a Bari con il presidente Maurizio Carbone, che sbotta: «Respingiamo fortemente questa idea demagogica secondo cui il problema della giustizia siamo noi magistrati e non chi intasca le tangenti». E ancora: «Vediamo riforme banalizzate con slogan, che ci mettono al centro del problema attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». A Milano si registrano anche le critiche durissime dell’avvocato generale Laura Bertolè Viale, indirizzate a Renzi e anche al nemico storico, Silvio Berlusconi: intanto liquida le riforme come un «pacchetto» che è «ben misera cosa rispetto a i progetti elaborati prima: non poche norme peccano di distonia, cioè sono irragionevoli ». Prima fra tutte la cosiddetta salva-Berlusconi che non rispetterebbe «quei criteri di progressività in materia tributaria sanciti dalla stessa Costituzione. Inoltre da questo pacchetto è stato escluso il reato di falso in bilancio». In realtà è stato da poco riproposto al Senato nel ddl Grasso. In sala, il viceministro Costa appare perplesso. Sempre nel Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo si assiste alla sfilata del procuratore capo Bruti Liberati con tutti i suoi aggiunti, escluso Robledo che non si fa vedere. Nel coro di rivendicazioni e critiche ce n’è qualcuna non scontata come quella del pg di Torino Marcello Maddalena, che boccia l’idea di una «nuova Procura nazionale antiterrorismo». Il presidente della Corte d’Appello di Roma Marini accenna a una generica commistione tra malavita e ultras, con il ripescaggio del caso di Genny ’a carogna. Lo dice in un’aula disertata dalla Camera penale: «L’inaugurazione dell’anno giudiziario, ancor più nelle sedi locali, è un rito anacronistico, asimmetrico e vuoto», dice il presidente Francesco Tagliaferri. Vuoto o meno che sia, di sicuro c’è molto nervosismo.
Giustizia, scontro aperto tra Renzi e i magistrati, scrive “La Stampa”. Il pg di Torino Maddalena: vuole farci crepare di fatica. Il premier: «Polemiche ridicole, quelle toghe hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». Scontro rovente tra i magistrati e Matteo Renzi nella settimana già calda del Quirinale. Dimenticati i fasti della Merkel, il premier è stato improvvisamente riportato alle vicende di casa nostra dai molteplici attacchi piovuti dai magistrati durante l’inaugurazione 2015 dell’anno giudiziario. Da Torino è partita la bordata più pesante. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». Parole feroci. Renzi, dopo averle lette, in serata si è rivolto amareggiato ai suoi più stretti collaboratori: «Accusarci di voler far “crepare” i magistrati per una settimana di ferie in meno significa che hanno un disegno o più semplicemente che hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». E oggi su Facebook rincara la dose: «Sono contestazioni ridicole. Non vogliamo far “crepare di lavoro” nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo». «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti», rilancia Renzi. Stop quindi ai magistrati «che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo». «E mi dispiace molto - aggiunge il premier - perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far crepare di lavoro”». Facile prevedere strascichi. Anche perché le critiche piovute dai magistrati durante le cerimonie che si sono svolte in tutta Italia investono svariati aspetti della riforma del governo. A Milano, Laura Bertolè Viale, avvocato generale dello Stato, si scaglia contro il decreto fiscale e la clausola di non punibilità: «Chiamata giornalisticamente anche “licenza a delinquere”, introduce una clausola espressa in termini solo percentuali che crea una sostanziale differenza di trattamento tra i contribuenti di minori e maggiori dimensioni». A Bari, Maurizio Carbone, segretario nazionale dell’Anm, è molto critico per la storia delle ferie tagliate: «Respingiamo questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti». A Bologna, il presidente della Corte di Appello, Giuliano Lucentini, parla del pericolo che l’Italia corre se i suoi giudici sono delegittimati: «Pensavo, finito un certo periodo, che le cose potessero cambiare». Il riferimento è ovviamente a Berlusconi. E proprio il sostanziale parallelismo sulla questione giustizia rischia di rinvigorirei critici del premier.
“Quello di Renzi è un attacco alla categoria, piuttosto agisca per limitare le prescrizioni”. Intervista di Andrea Rossi su “La Stampa” al procuratore generale di Torino dopo le polemiche all’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?
«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».
Al di là dei modi, esiste un problema di produttività?
«Le faccio un esempio. La Corte d’Appello di Torino nel 2014 ha esaurito 5735 provvedimenti contro i 4490 del 2013».
Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.
«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».
È questa - la prescrizione - la vera emergenza dunque?
«L’amministrazione della giustizia non può permettersi di lavorare a vuoto, a maggior ragione quando la prescrizione interviene durante l’appello: significa che nelle fasi precedenti giudici, pubblici ministeri, gip, gup e tutto il personale amministrativo hanno lavorato per niente, svolgendo inconsapevolmente il ruolo di Penelope, con la differenza che Penelope lo faceva apposta».
Esistono soluzioni in grado di arginare il problema?
«I rimedi non mancano: assegnare ai procedimenti criteri di priorità, archiviare i casi minimali e soprattutto, ovviamente, modificare la prescrizione».
Come?
«Suggerisco due ipotesi. Far decorrere la prescrizione dal momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, perché è in quel frangente che scatta l’interesse della persona (e dello Stato) a risolvere al più presto la sua posizione. In secondo luogo, interrompere la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado. In questo modo, tra l’altro, si scoraggerebbero molti imputati dal fare ricorso con la sola speranza di dilatare i tempi per arrivare alla prescrizione».
Il rito stantìo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”.
Prescrizioni penali rilevate in un decennio.
2004: 219.146
2005: 189.588
2006: 159.703
2007: 164.115
2008: 154.671
2009: 158.335
2010: 141.851
2011: 128.891
2012: 113.057
2013: 123.078
La magistratura dopo Mani pulite ha iniziato “una parabola discendente”, con la “disaffezione” dei cittadini per le “credenziali mortificanti” che esibisce, come i processi lumaca e il degrado delle carceri, ma a questa crisi di fiducia concorrono anche le “frequenti tensioni e polemiche” soprattutto tra pubblici ministeri con “forme di protagonismo, cadute di stile e improprie esposizioni mediatiche”. Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e umana dimostrazione di come con la Legge Breganze - che fa avanzare automaticamente le carriere dei magistrati - anche un pm che negli anni Settanta non era noto alle cronache per l’iperattivismo giudiziario (fu requirente nello scandalo Italcasse che grosso modo finì tutto a tarallucci e vino, tranne modeste condanne a Giuseppe Arcaini e soci nel 1989) possa arrivare ai vertici della magistratura, ce l’ha messa tutta per colorire la propria relazione di inizio anno giudiziario tenutasi a Roma nella mattinata di ieri nella consueta aula magna del “Palazzaccio”. Ma certo non ha sottolineato quei dati, come quelli sulle prescrizioni forniti un mese fa dal vice ministro Enrico Costa senza dire niente a nessuno nel governo, che dimostrano come la lentezza dei processi penali e il fatto che un milione e mezzo di loro finiscano in vacca ogni dieci anni è al 74 per cento imputabile al non lavoro dei pm e dei gip, non certo alla “melina” degli avvocati. Così come Santacroce non ha di certo rievocato i dati scoperti dal sito errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi che parlano mai smentiti di un dossier nascosto sugli errori giudiziari in Italia dal 1989 al 2013: 50mila in 25 anni, pari a duemila l’anno. Una percentuale da Terzo Mondo. Sempre ascrivibile agli errori di pm e gip che aprono inchieste su qualsiasi cosa si muova sulla terra ma spesso con risultati disastrosi. Certo, è difficile chiedere all’“oste” di smentire la qualità del vino. E i magistrati ormai sono definiti persino nei saggi dei giornalisti de “L’Espresso” come Stefano Livadiotti come l’“ultra casta”. Ma oramai che il re in toga sia nudo è sotto gli occhi di tutti. I dati di Costa ad esempio sono disarmanti: “Su poco più di un milione e mezzo di casi in dieci anni... i numeri indicano che nell’ultimo decennio i decreti di archiviazione per prescrizione emessi dai gip sono stati 1.134.259: il 73 per cento del totale. A questi si aggiungono le 63.892 sentenze di avvenuta prescrizione emesse dai Gup. La quota restante è spalmata tra Tribunali (209.576), Corti d’appello (131.856), Cassazione (3.293) e Giudici di pace (9.559)”. Se questi dati nelle inaugurazioni degli anni giudiziari vengono tenuti quasi nascosti, o con poco rilievo, ogni dibattito sulla giustizia parte male in termini di onestà intellettuale. Questo grazie anche ai giornalisti che militano nel partito della forca: il convegno in cui Costa distribuì anche la tabella dei dati ministeriali in questione, sebbene trasmesso da Radio radicale, è stato bellamente ignorato dai quotidiani cartacei e anche on-line ha avuto un rilievo pari a zero. Proprio Costa in quell’occasione disse che “oltre il 70% delle prescrizioni si determina in fase di indagini preliminari. Un’anomalia che non può essere ricondotta ad azioni dilatorie della difesa, ma spesso è legata a un dribbling non dichiarato dell’obbligatorietà dell’azione penale che si traduce in una selezione dei casi da prendere in carico”. Parole che ieri non si sono sentite da parte di Santacroce, che ormai aspetta solo di andare in pensione con il massimo dell’anzianità prevista (ex Legge Breganze di cui sopra). Chi oggi vorrebbe abolire l’appello o allungare a dismisura i termini della prescrizione con quale buona fede chiede queste misure e ignora i dati di via Arenula? Va detto che già nel 2007 una ricerca dell’Eurispes commissionata sempre dalle Camere penali allora presiedute da Giuseppe Frigo (la ricerca fu condotta sotto la supervisione di Valerio Spigarelli che poi sarebbe succeduto a Frigo in quella carica) aveva avuto analoghi risultati. Stesso discorso sugli errori giudiziari strettamente legati alla vexata quaestio della mancata responsabilizzazione civile per colpa grave dei magistrati. Sapere che ci sono 2mila errori giudiziari l’anno, che diviso per 365 giorni è come dire che ogni 24 ore sei persone finiscono in carcere innocenti, lascia del tutto indifferenti Anm e quotidiani nazionali che vendono al volgo che i veri problemi dell’Italia sono “la corruzione e l’evasione fiscale”. E che invocano sceriffi e leggi speciali per qualunque cosa e con qualsivoglia pretesto. Con questo dialogo tra sordi che ormai continua da almeno vent’anni quel che è chiaro è che il Paese che ritiene di essere la culla del diritto oggi come oggi rischia di diventarne la bara. E all’estero questo problema viene visto in un’ottica meno moralista e più pragmatica. Cosa che spiega gli investimenti con il contagocce delle imprese straniere in Italia. Più che paura della corruzione c’è il terrore di finire in qualche tritacarne mediatico giudiziario con un pm di provincia in cerca di notorietà per fare carriera. Allora sì che son dolori...
Nuovo anno giudiziario. L'Anm la butta in rissa contro i politici corrotti. IL segretario Anm: "Respingiamo tesi che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". Il ministro Orlando: "La giustizia inefficiente rallenta la crescita", scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Come ogni anno l'inaugurazione dell'anno giudiziario fornisce uno spaccato sullo stato di salute della giustizia in Italia. "La crisi sociale e l’indebolimento della struttura statale - afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando - rende quest’ultima sempre più fragile di fronte agli interessi particolari che la condizionano e ai poteri illegali che la insidiano. In un Paese come il nostro - ha proseguito Orlando - caratterizzato dalla storica presenza di potenti organizzazioni criminali, la prostrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni apre spazi crescenti ai fenomeni criminali in ambito economico, sociale e politico". Orlando ha poi sottolineato che "questi poteri in termini assoluti, non sono più forti di prima, ma piuttosto è più debole l’organismo che attaccano. La criminalità organizzata - ha detto - non ha più le forme tradizionali e la tradizionale collocazione geografica circoscritta ad alcune regioni del sud Italia. Si è espansa, ha cambiato forme e metodi mimetizzandosi nei contesti in cui si sviluppa. Si confonde e si sovrappone alle reti collusive che avvolgono le pubbliche amministrazioni". Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti", ha detto a margine della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario a Bari. In una conferenza stampa convocata nell’ambito della mobilitazione permanente contro la riforma della giustizia che prevede la responsabilità civile dei magistrati, Carbone ha parlato di «riforme banalizzate con slogan che ancora una volta hanno messo al centro del problema noi magistrati, attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». I magistrati esprimono "assoluta insoddisfazione". "Le risposte noi con le sentenze e con le indagini le stiamo dando - ha continuato Carbone - siamo primi in Europa per produttività nel settore nella giustizia penale e secondi per smaltimento di cause civili, ma abbiamo il dovere di dire che alcune riforme non sono all’altezza della situazione". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado". E da Milano il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, rincara la dose: "Siamo i primi a volere le riforme ma ci vuole coerenza, agli annunci devono corrispondere i fatti". Sabelli non esita a sottolineare come "il dibattito sulla giustizia è ancora troppo pieno di pregiudizi". I magistrati "non si chiudono in una forma corporativa e non rifuggono dal principio di responsabilità ma l’approccio del governo non è stato sufficientemente meditato". Se il testo sulla responsabilità civile "è stato purificato da aspetti che avrebbero leso il principio di indipendenza della magistratura", restano ancora degli aspetti di "un approccio non attento", in particolare contro "l’eliminazione del filtro di ammissibilità e l’introduzione della categoria del travisamento del fatto e delle prove". Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". ll procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, Marcello Maddalena, si sofferma sulle misure anti-terrorismo di cui si parla da giorni, dopo gli attentati di Parigi. "Più lo Stato possiede dati certi meglio è. Parlo anche di quelli relativi al Dna e alle impronte digitali". E prosegue: "Se questi dati li posseggo correttamente, non capisco perché non li possa utilizzare. Invocare la privacy mi pare del tutto fuori luogo in generale, invocarla poi in questo momento mi sembra privo di ogni ragionevolezza e di ogni senso dello Stato". Il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, dedica un ampio capitolo del suo intervento alla penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia, sottolineando come vi sia, da parte della mafia una "interazione-occupazione". "La forma di penetrazione e la veloce diffusione del potere della ’ndrangheta all’interno dei diversi gangli della società lombarda - ha detto Canzio - può paragonarsi all’opera distruttiva delle metastasi di un cancro". Quanto all'Expo Canzio osserva che lo Stato è vigile. "Nel distretto milanese e in vista di Expo 2015, lo Stato è presente e contrasta con tutte le istituzioni l’urto sopraffattorio della criminalità mafiosa, garantendo - nonostante la denunciata carenza di risorse nel settore giudiziario - la legalità dell’agire e del vivere civile con coerenza e rigore". Ma l’esercizio della giurisdizione, prosegue Canzio, "non può essere frutto di accelerazioni o improvvisazioni, dettate, di volta in volta, da frammentarie emergenze, senza una chiara visione dei diritti e degli interessi in gioco". Poi denuncia il rischio che "dal pensiero corto alla sentenza tweet o al verdetto immotivato il passo è breve. Ma - si chiede- che ne resterebbe della cultura democratica della giurisdizione?". A margine dell'inaugurazione Canzio commenta la notizia dello smarrimento e danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione (atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma): "Si tratta di un fatto indegno di uno Stato moderno, che non deve succedere". Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, sottolinea che "mentre sul fronte della normativa antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all’opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando così il vincolo di omertà. Neanche l’incessante susseguirsi di scandali nazionali attestante il dilagare irrefrenabile della corruzione - dice - sembra a tutt’oggi sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all’azione repressiva". Nella sua relazione il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Antonio Marini, evidenzia che "i procedimenti di prostituzione minorile sono stati ben 190 a fronte dei 35 iscritti nel precedente anno giudiziario, quindi si deve prendere atto di un incremento nelle nuove notizie di reato del 442%". Violenze sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori (stalking). Nel distretto di Roma e Lazio, nel periodo che va dal primo luglio 2013 al 30 giugno 2014, si è registrato un vero e proprio "boom" di reati contro la libertà sessuale. Per Marini da tempo diversi gruppi criminali hanno scelto Roma e il Lazio per poter mettere in piedi i loro affari, sfruttando così la vastità del territorio, la presenza di tantissimi esercizi commerciali, attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione e immobili. Ed evitano di farsi la guerra per non dare nell’occhio. Nella relazione del procuratore generale c’è un lungo capitolo dedicato ai "gruppi criminali, compresi quelli dediti al narcotraffico», nel mirino dei magistrati della Dda. "Dalle indagini - ha evidenziato Marini - emerge che c’è un patto esplicito per evitare che questi contrasti, che pure ci sono, degenerino in atti criminali eclatanti che rischierebbero di attirare l’attenzione degli inquirenti e dei media. Meglio trovare un compromesso e continuare a fare affari".
Renzi replica ai magistrati: "Italia patria del diritto, non delle ferie". Su Facebook parole dure del premier dopo le inaugurazioni (e le polemiche) dell'anno giudiziario. Risposta a Maddalena: sulle vacanze critiche ridicole, scrive “La Repubblica”. L'Italia "che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far 'crepare di lavoro' nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo". E' dura la replica di Matteo Renzi alle polemiche sollevate ieri durante le inaugurazioni dell'anno giudiziario. In particolare in risposta alle parole del procuratore generale di Torino Maddalena. Sono "ridicole" le "contestazioni" di alcuni magistrati contro il taglio delle ferie, dice Renzi su Facebook. Che poi lancia un altro affondo: "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti". "Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo. E mi dispiace molto perchè penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo, e lo dico, senza giri di parole, che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia il premier ci vuol far crepare di lavoro". "Noi - chiarisce Renzi - vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Un Paese civile deve avere una sistema veloce, giusto, imparziale. Per arrivare rapidamente a sentenza, bisogna semplificare, accelerare, eliminare inutili passaggi burocratici, andare come stiamo facendo noi sul processo telematico, così nessuno perde più i faldoni del procedimento come accaduto anche la settimana scorsa". "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta - torna a dire - allo strapotere delle correnti che oggi - accusa - sono più forti in magistratura che non nei partiti". "A chi mi dice 'ma sei matto a dire questa cose? non hai paura delle vendette?' rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici devono sapere che il Governo, nel rispetto dell'indipendenza della magistratura, è pronto a dare una mano. Noi ci siamo. L'Italia che è la patria del diritto prima che - rimarca - la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far crepare di lavoro nessuno, ma - puntualizza Renzi - vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo".
Renzi: «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Il premier replica alle toghe: «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo», “il Corriere della Sera”. «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Non usa mezzi termini il premier Matteo Renzi e attacca duramente i magistrati che a loro volta, come nel caso di Torino, avevano contestato alcuni presunti provvedimenti del governo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti» spiega Renzi su Facebook. «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo» scrive ancora Renzi sul celebre social network. «E mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”». «Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali», sottolinea Renzi. «L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi», sottolinea ancora il premier. «A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici - aggiunge ancora su Facebook - devono sapere che il Governo (nel rispetto dell’indipendenza della magistratura) è pronto a dare una mano. Noi ci siamo». La replica dell’Associazione nazionale magistrati alle parole di Renzi non si faceva attendere. «Il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l’evasione fiscale fino al 3%» scrive l’Anm in un post pubblicato su Facebook. Per l’associazione: «Le critiche che vengono dai magistrati sono dettate dalla delusione: noi riponevamo e vorremmo riporre fiducia nella volontà di fare le buone riforme, ma chiediamo coerenza tra parole e fatti. Renzi vuole un sistema più veloce e più semplice? Blocchi la prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, introduca sconti di pena ai corrotti che collaborano con la giustizia, estenda alla corruzione gli strumenti della lotta alla mafia: i casi di corruzione clamorosi più recenti e più noti non sono indiscrezioni». L’Anm rileva: «Il Governo trovi le risorse per coprire le oltre 8.000 scoperture nell’organico del personale amministrativo. Accanto alla messa alla prova, alla non punibilità per tenuità del fatto, al processo civile telematico, sono troppe le riforme timide o assenti. Quanto alle correnti, riaffermiamo il valore delle diverse sensibilità che costituiscono una risorsa dell’associazionismo, da sempre respingiamo ogni degenerazione ispirata a logiche di potere. Non si può non trovare di cattivo gusto - conclude il post - il richiamo ai magistrati uccisi. Noi stessi siamo molto cauti nel richiamarci al ricordo dei colleghi caduti per il loro servizio: lo facciamo solo per onorare la loro memoria e il loro sacrificio, non per accreditare la nostra serietà». In serata sul tema è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «Le critiche delle ultime ore al progetto organico di riforma sono ingenerose. Dispiace che l'Anm non colga il passaggio solenne dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per recuperare obiettività».
Napolitano contro i giudici: «Basta protagonismi», scrive Virginia Spada su “Il Garantista”. Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, che ieri è intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici». «Lo Stato di tensione – ha detto – e le contrapposizioni polemiche che per anni hanno caratterizzato i rapporti tra politica e magistratura, determinando un paralizzante conflitto tra maggioranza e opposizione in Parlamento sui temi della giustizia e sulla sua riforma, non hanno giovato né alla qualità della politica, né all’immagine della magistratura». Il capo dello Stato, che per tutto il mandato non ha mai smesso di criticare le esternazioni dei magistrati, ieri si è sentito in dovere di rincarare la dose e le critiche, dopo le proteste dell’Anm contro la legge sulla corruzione (considerata troppo debole) e soprattutto contro la riforma della giustizia. Se a via Arenula, si chiede ai magistrati di occuparsi delle sentenze e non delle scelte del governo, il Quirinale non è da meno: «Ho ripetutamente richiamato l’esigenza che tutti facessero prevalere il senso della misura e della comune responsabilità istituzionale. La credibilità delle istituzioni e la salvezza dei principi democratici si fondano sulla divisione dei poteri e sul pieno e reciproco rispetto delle funzioni di ciascuno». Al capo dello Stato, con le valigie ormai pronte per lasciare il posto al suo successore, premono le riforme. Tra cui quella della giustizia. Non si tratta di una questione per lui secondaria. Più e più volte ha rilanciato la questione dell’indulto e dell’amnistia, ma dal Parlamento le sue parole non sono state accolte. Ora si aspetta che la macchina-giustizia migliori. «È indubbio – ha continuato davanti al Csm – che ciò cui occorre mirare è un recupero di funzionalità, efficienza e trasparenza del sistema della giustizia». Ma per Napolitano questo non può avvenire se i magistrati continuano a sovrapporsi alle scelte che spettano al Parlamento e al governo. L’Associazione nazionale magistrati ha annunciato una mobilitazione in vista dell’inaugurazione anno giudiziario. Ma il messaggio del Quirinale è chiaro e irrevocabile: sono da evitare «i comportamenti impropri e altamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunte nel corso degli anni da alcuni magistrati della pubblica accusa».
Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili. Infatti, mentre la liturgia religiosa si offre quale mediazione necessaria con il divino, quella laica, consumata anche ieri per l’ennesima inaugurazione dell’anno giudiziario, si presenta del tutto priva di senso e perciò completamente autoreferenziale. Prova ne sia un esame anche superficiale delle argomentazioni svolte sia da Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, sia da Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione. Il primo, probabilmente per esigenze legate al ruolo ricoperto, ha svolto argomenti del tutto allineati con le prospettive tipiche delle correnti della magistratura, mettendo in primo piano l’esigenza di tutelare ed accrescere il prestigio della stessa magistratura, oltre che dei singoli magistrati, messa così, la cosa ha dell’incredibile. Ma davvero, per Legnini e per i suoi colleghi del Csm, oltre che naturalmente per i magistrati italiani – o meglio per le loro correnti (in quanto, grazie a Dio, c’è una bella differenza fra le persone concrete che esercitano la giurisdizione e le correnti in cui si organizzano) – ciò che occorre garantire in sommo grado sarebbe il prestigio dei magistrati e della magistratura nel suo complesso? Si trattasse solo di questo, sarebbe facilissimo ottenere lo scopo desiderato: basterebbe – che so? – nominare tutti i magistrati italiani cavalieri della Repubblica o, in alternativa, accademici della Crusca ad honorem. In questo modo, il prestigio sarebbe assicurato una volta per tutte e saremmo tutti contenti. Evidentemente, non passa per la testa di Legnini e dei suoi colleghi che il vero prestigio, anzi l’unico prestigio, lo si conquista sul campo; ed è quello di cui un magistrato giunge a godere dopo aver dato ad avvocati, colleghi e cittadini, ripetuta prova, negli anni, di possedere, equilibrio, buon senso e senso del diritto, coefficienti indispensabili per rendere giustizia. A ben guardare – e bisogna annotarlo con crescente preoccupazione – è proprio questa, la giustizia, ad essere tragicamente assente dalla discussione pubblica di queste liturgie laiche : nessuno se ne interessa, nemmeno per accennarvi, e credo il termine medesimo neppure compaia. La giustizia insomma scompare anche come concetto da pensare, sostituita da altri concetti oggi assai di moda, quali efficienza, tempestività, utilità: semplici sciocchezze, incidenti del pensiero, ma oggi tenuti in gran conto, perché non si capisce che se si fosse in grado di rendere giustizia, lo si farebbe celermente e che invece i deprecabili ritardi son dovuti alla reale incapacità di renderla come si dovrebbe. Accertato dunque ciò che Legnini ed i suoi colleghi non sanno, cioè che il prestigio dei magistrati è solo un traguardo (faticoso ed impegnativo) e non mai un punto di partenza, è il caso di prestare attenzione agli argomenti svolti da Santacroce. Il presidente della Cassazione ha mostrato certo maggior senso della realtà allorché ha invitato i pubblici ministeri a non litigare fra loro (con l’occhio rivolto alle recenti vicende che hanno contrapposto Robledo a Bruti Liberati) e ad evitare sovraesposizioni mediatiche, ma è incappato pure lui in uno scandalo (nel senso evangelico di “inciampo”) del discorso, allorché ha esordito notando che dopo mani pulite la magistratura avrebbe dato inizio ad “una parabola discendente”. Saremmo davvero curiosi di sapere di cosa si tratti e se per caso la parabola attuale – che si dice appunto discendente – possa mai sperare di tornare ad “ascendere”. Forse si vuole alludere al consenso che i magistrati di mani pulite – con Di Pietro in testa – incontravano in quel periodo fra la gente. Meglio si farebbe allora ad affermare che i magistrati non debbono godere di alcun consenso perché non sono politici di professione e che fu invece proprio in forza di quel consenso anche mediatico (ma del tutto sprovvisto di elementari principi di diritto) che una modifica della custodia cautelare, che la vedeva limitata ai soli casi di delitti “di sangue,” naufragò in poche ore: fu sufficiente che Di Pietro arringasse le folle dagli schermi riuniti di Rai e Mediaset per ottenere lo scopo desiderato, tanto che il governo di allora barcollò, per cadere dopo poche settimane. Come volevasi dimostrare: fra due forze politiche, una per natura – il governo – ed una contro- natura – la magistratura – a prevalere fu questa. Non basta. Santacroce si è anche addentrato nel merito di varie proposte di legge in tema di appello, ricorso per cassazione, ed altri simili intenti riformatori: è appena il caso di ricordare che chi è chiamato ad applicare la legge, cioè il giudice, farebbe bene ad evitare di concorrere direttamente o indirettamente alla sua formazione. O no? Se qualcosa è cambiato, che qualcuno me lo dica. La triste verità è che l’unica domanda che varrebbe davvero la pena di porsi – in modo martellante ed ostinatissimo, perché è la domanda dell’intera vita – viene accuratamente taciuta in queste liturgie. La domanda suona: noi tutti giudici italiani, con tutto l’ambaradàn di risorse, personale, organizzazioni e polemiche di vario genere, siamo riusciti, in questo ultimo anno, ad assicurare agli italiani che hanno fatto ricorso alla nostra opera non dico tanto, ma almeno un tasso di giustizia pari al 20% di quello richiesto? E se non ci siamo riusciti, perché ciò è accaduto? E, se è accaduto, cosa fare per rimediare? Invece, nulla: silenzio assoluto. Della giustizia e del tasso di giustizia che ogni sentenza sia in grado di assicurare (o non assicurare) ai nostri simili non importa a nessuno, neppure al vicepresidente del Csm o al presidente della Cassazione. Ma non crediate sia una novità. Si va avanti così da decenni, e non sorprende perciò che le cose vadano di male in peggio: si parla del nulla e si tace l’essenziale. Da qui l’inutilità. Avanzo perciò una irriverente proposta: il prossimo anno, diamo da leggere a presidenti e vicepresidenti una relazione redatta tre, sei, dieci, vent’anni or sono. Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno i giornalisti, tanto essa conterrebbe, più o meno, la medesima litania di geremiadi sulla mancanza di denaro, di personale, di mezzi e così via: come se a saldare il conto della giustizia fossero il denaro, il personale, i mezzi e non il senso di giustizia dei giudici, il loro esercitato equilibrio, il loro essere e mostrarsi esperti d’umanità. Preoccupati, come dev’essere, non solo di sbagliare il meno possibile: ma anche di saper rimediare agli errori commessi. Ma mi rendo conto: di questo è meglio tacere.
CASE POPOLARI A MILANO: DI EROI E DI MAFIOSI.
Gli eroi delle case popolari, scrive “Milano Post”. Gabriella, una inquilina delle case popolari milanesi che recentemente si è distinta per affermare, di fronte alle occupazioni selvagge di appartamenti nel suo quartiere, il diritto alla legalità e al riposo notturno degli inquilini regolari, ha deciso di tenere un diario. Recentemente è stata premiata dal comune di Milano per la sua attività nel quartiere, e insieme a lei hanno avuto il riconoscimento dell’Ambrogino due associazioni di inquilini. Durante la cerimonia al teatro Dal Verme ha conosciuto altri inquilini nelle sue stesse condizioni e con i suoi stessi valori morali. Decide cos di confidarsi con un diario, apre il computer e incomincia a raccontare…Ecco le voci dei tanti inquilini milanesi che lottano per ripristinare la legge nelle case popolari, ormai diventate preda dei numerosi racket mafiosi che organizzano le occupazioni abusive. Gli appartamenti Aler liberi e destinati ad anziani, handicappati , coppie giovani indigenti ( magari in graduatoria da anni ) vengono sempre più spesso “venduti “( dai 300 ai mille euro) a famiglie di disperati senza requisiti che dopo aver pagato si ritrovano, chiavi in mano, dentro gli appartamenti : con le porte blindate sfondate a cura del racket. A queste organizzazioni criminali si affiancano centri sociali violenti e intolleranti che organizzano occupazioni abusive e alimentano una guerra tra poveri. Come reagire? Gabriella racconta tante storie dolenti di donne, inquilini, giovani (residenti regolari) che, lasciati soli dalle istituzioni e dal Comune, desiderano che la legalità torni nelle case popolari, ormai allo sbando e nel completo degrado. Parlano anche le vittime inconsapevoli del racket: famiglie di marocchini e di rom, che hanno pagato il racket per poter entrare in appartamenti lasciati vuoti e che però vorrebbero ora un contratto regolare. Quasi tutti gli occupanti si attaccano abusivamente al contatore del gas e della luce: bollette che pagano gli inquilini regolari e il Comune. Gabriella scopre che molti inquilini in regola con l’affitto ora reagiscono: si stanno organizzando in comitati spontanei; vigilano negli stabili, organizzano gruppi di aiuto psicologico agli anziani spaventati dalle occupazioni , fanno la guardia agli appartamenti sfitti, sventano occupazioni, a volte rischiando aggressioni, ricevendo minacce e danneggiamenti ai propri beni da parte dei racket. E tutti chiedono ai funzionari dell’Aler, che gestisce un notevole patrimonio pubblico immobiliare, di intervenire celermente per l’assegnazione di case, nella loro ristrutturazione una volta rese libere. Il diario si conclude a capodanno, quando qualcuno organizza un vero attentato alla casa di Gabriella : sono dei ragazzi forse di qualche centro sociale, forse bevuti che nella notte di capodanno tirano alcune bombe carta sul davanzale della villetta Aler in viale Romagna, dove Gabriella dorme. Erano le 3 del mattino…Ma la web serie si conclude in un modo più positivo e meno drammatico, quasi felliniano; una orchestrina di rom aspetta, insieme a Gabriella e agli inquilini che hanno raccontato le loro storie, la ex assessore alla casa in Regione, Elena Bulbarelli: Elena ha deciso di fare una visita nelle case popolari di via Bolla, al Gallaratese, dove Gabriella ha raccolto le testimonianze più drammatiche. La Bulbarelli entra nel caseggiato e per omaggiarla le donne del palazzo le offrono un mazzo di fiori, mentre l’orchestrina suona per lei. Una web serie di 14 puntate (da dodici minuti l’una) scritta e diretta da Claudio Bernieri con le musiche originali di Luciano d’Addetta. Oltre tre ore di storie vere, disperate, provocatorie, maledette, registrate in presa diretta in quei quartieri popolari dove la stampa zerbino e i giornalisti “copia – e - incolla” non vanno mai. Quartieri che i politici milanesi, in vista delle prossime elezioni per il sindaco, dovrebbero frequentare di più: le case Aler sono un enorme serbatoio di voti in caduta libera, voti che orienteranno la prossima scelta di un sindaco. Il diario di Gabriella Gabriella tiene un diario sulle case popolari: presenta uno dei tanti quartieri dove centinaia di appartamenti pubblici sono stati assaltati recentemente da abusivi. Principali vittime ,gli anziani che spesso tornando a casa da un ricovero ospedaliero, trovano il loro alloggio occupato da una nuova famiglia….E finiscono all’ospizio. In questo degrado morale e legale, ecco la ricetta provocatoria di un anziana staffetta partigiana: risponderà sparando a chi gli occupa la casa, vista la diffusa illegalità nel quartiere e l’assenza della legge. Milano è allo sbando?
Case popolari, 71 denunciati per la guerriglia contro gli sgomberi, scrive Francesco Loiacono su “Milano Fanpage”. La Digos ha chiuso le indagini sui protagonisti dei violenti disordini del 13 e 18 novembre 2014, avvenuti in diverse zone di Milano per protestare contro gli sgomberi delle case popolari. Settantuno le denunce trasmesse in procura. Quello appena passato è stato sicuramente un novembre caldo sul fronte dell’emergenza abitativa a Milano. Ogni sgombero pianificato dall’Aler è stato accompagnato da tensioni e proteste da parte dei comitati per il diritto alla casa e degli antagonisti, che in alcuni casi sono sfociati in vere e proprie violenze. Il tutto era iniziato la mattina del 13 novembre in via Salomone, zona Mecenate. L’Aler aveva programmato due sgomberi di appartamenti occupati abusivamente, ma in strada si radunò una folla eterogenea composta da abusivi e anarchici del Corvetto. Proprio il Corvetto fu poi teatro di altre violenze pochi giorni dopo, il 18 novembre. Adesso, per le due giornate incriminate sono arrivate le prime denunce: ben 71 le persone coinvolte. Le accuse sono a vario titolo di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, invasione di edifici, lancio pericoloso di oggetti. Il lavoro della Digos è durato settimane e prosegue ancora per individuare i responsabili delle violenze che hanno contraddistinto i giorni seguenti, tra novembre e dicembre. Poi, lentamente, la situazione si è tranquillizzata, almeno in apparenza. Sempre al Corvetto, l’11 novembre, una ventina di incappucciati aveva fatto irruzione all’interno della sede del Partito democratico, in via Mompiani, imbrattando con vernice i muri e devastandone gli arredi. L’indagine sugli autori di quel blitz, probabilmente appartenenti all’area anarchica, è in mano ai carabinieri ed è ancora in corso.
Case popolari, così Milano ha fatto crack. Sprechi clamorosi, scelte dissennate e soprattutto un debito che sfiora il mezzo miliardo di euro. In base ad un report della società di revisione dei conti Bdo rimasto sino ad oggi riservato, sono queste le disastrose condizioni in cui si trova Aler, l'azienda regionale lombarda per l'edilizia popolare. Ben 28.748 unità abitative, si legge nel documento, stanno letteralmente cadendo a pezzi. Un quadro reso ancora più scandaloso in quanto emerge in concomitanza con il dramma degli sfratti e delle occupazioni, scrivono Peter D'Angelo e Maria Scandaliato, con un commento di Giuseppina Piano su “La Repubblica”.
Bocciatura senza appello dai revisori dei conti, di Maria Elena Scandaliato. In Lombardia l'emergenza "casa" è in un vicolo cieco. E non sono gli sfrattati o i comitati degli inquilini a denunciarlo, ma la società di revisione BDO, che nel dicembre 2013 ha presentato alla Regione Lombardia una due diligence di oltre trecento pagine sui disastrati conti di Aler, (Azienda lombarda per l'edilizia residenziale), l'immobiliare pubblica più grande d'Italia e tra le maggiori in Europa. Il documento - rimasto sino ad oggi riservato, ma di cui siamo riusciti a prendere visione - è stato richiesto dalla Commissione regionale d'inchiesta su Aler, i cui lavori saranno resi pubblici a breve. Il quadro emerso è quello di un colosso sull'orlo del fallimento, che necessita di un miliardo e 264 milioni "solo" per mettere a posto il suo patrimonio immobiliare. Una montagna di soldi che difficilmente saranno iniettati nelle sue casse vuote, gravate da un debito che oscilla tra i 345 e i 500 milioni. Eppure l'emergenza "sfratti" nasce soprattutto da lì. Dalle case popolari vuote (e inutilmente riscaldate) perché fatiscenti, prive di manutenzione e non assegnabili. A Milano ce ne sono 10mila: 7mila dell'Aler e 3mila di Edilizia residenziale pubblica (Erp). Su richiesta di BDO, Aler ha classificato i suoi immobili in base al livello di degrado, per valutarne le reali esigenze manutentive. Ebbene, le "unità abitative" con un livello di manutenzione "insufficiente" e "scadente" - dove urgono "interventi straordinari per prevenire stati di pericolo quali distacco e caduta di rivestimenti, folgorazione e intossicazione da monossido di carbonio" - sono ben 28.748 per 709 edifici, in buona parte a Milano. Gli appartamenti in condizioni "mediocri" - dove comunque "non sono da escludere gli eventi indicati per i livelli insufficiente e scadente" - sono 16.214, per 446 edifici, al 44% a Milano. Gli stabili classificati come "buoni", invece, sono solo 35. Un risultato sconfortante, in una città - Milano - dove 13mila sono gli sfratti in fase esecutiva, centinaia le famiglie già in strada e 23mila in lista per un alloggio popolare. Fino al primo dicembre scorso, quando le 28mila case del Comune di Milano sono passate alla gestione di Metropolitana Milanese, Aler amministrava 73mila unità abitative, gran parte delle quali in pessime condizioni. Nel bilancio 2013 l'azienda regionale scrive chiaramente di non poter far fronte alle spese necessarie: "Risulta evidente che gli interventi di manutenzione straordinaria non possano essere finanziati se non tramite entrate straordinarie che derivino dalle vendite, in forte rallentamento; o da risorse da reperire sul mercato del credito, soluzione oggi impraticabile". E qui si apre il capitolo più scottante della recente gestione Aler. Per quale ragione l'Azienda lombarda non può chiedere prestiti alle banche? Perché, come emerge dalla due diligence, di prestiti ne ha chiesti fin troppi, e si è indebitata fino al collo. Al 30 giugno 2013 Aler aveva in essere ben 48 contratti di mutuo, per 255 milioni di euro. Finanziamenti richiesti per le più svariate ragioni: dalla realizzazione di nuove costruzioni fino alla manutenzione straordinaria e - addirittura - allo svolgimento delle attività correnti, ogni anno più dispendiose. Una montagna di soldi, chiesti a Intesa San Paolo (oltre 78 milioni), alla Banca Popolare di Sondrio (72 milioni, e l'istituto è anche tesoriere di Aler), al Monte dei Paschi di Siena (38 milioni), a Bnl (26 milioni), a Dexia Crediop Spa (sempre Bnl, per 17 milioni), alla Banca popolare di Novara (quasi 10 milioni), alla Cassa Depositi e Prestiti (quasi 9 milioni) e alla Popolare di Milano (oltre 4 milioni). Questi contratti di mutuo sono in parte a tasso fisso, in parte variabile, ma ancor più interessante è che ad alcuni finanziamenti a tasso variabile - pari al 17% del totale, ovvero 45 milioni di euro - sono stati collegati dei prodotti derivati. Una scelta davvero incomprensibile, visto che, come scrive BDO, "il ricorso a contratti derivati non fa seguito a una logica uniforme", e che "Aler non dispone di una procedura interna formalizzata relativa al loro utilizzo". Soprattutto, i tre derivati - due con Intesa San Paolo, uno con Monte dei Paschi - si sono rivelati un magro affare: al 30 giugno 2013 avevano già provocato una perdita di quasi 6 milioni di euro; se Aler li volesse estinguere prima della loro scadenza, anche sulla scia dei pessimi risultati, dovrebbe sborsare 8 milioni. Cifra che, secondo BDO, "corrisponde al valore attuale degli oneri che deriveranno in futuro se tali contratti venissero mantenuti attivi". I revisori, quindi, consigliano di pagare le penali e chiudere in fretta, rimettendoci complessivamente "solo" 14 milioni di euro. I problemi, però, non finiscono qui. A garanzia dei prestiti ottenuti Aler ha messo il suo stesso patrimonio immobiliare: al 31 dicembre 2012 risultavano ipoteche sugli alloggi per un valore di 258 milioni di euro. Appartamenti (e terreni) a Milano, Rho, Lainate, Corsico, sul cui destino pende un grosso punto interrogativo. Ecco perché Gian Valerio Lombardi, presidente di Aler, la scorsa settimana ha annunciato la vendita di altri 10mila alloggi popolari: una parte sarà offerta in prelazione agli inquilini che li abitano, i restanti saranno messi all'asta. Una soluzione molto rischiosa e osteggiata, vista la fame crescente di alloggi a canone sociale. Vendere quelli esistenti, soprattutto all'asta, significa toglierli dalla disponibilità di chi ha bisogno. Con la prospettiva di ottenere comunque dei magri ricavi: nient'altro che gocce, nel mare di debiti in cui Aler sta affogando.
La voragine della controllata Asset, di Maria Elena Scandaliato. Come e quando è nata la voragine finanziaria che rischia di inghiottire l'Aler? La risposta è nelle carte della due diligence: il 50% dei mutui è stato stipulato tra il 2006 e il 2007 e i derivati sono agganciati a finanziamenti decorsi tra il 2007 e il 2008. Lo stesso periodo in cui l'azienda intraprende una serie di avventure speculative che oggi pesano sui suoi bilanci come macigni. Basti pensare alle "figlie" di Aler (ora tutte in dismissione), delle quali Asset è la più conosciuta. Asset è una società controllata al 100% da Aler, creata nel 2005 con finalità che vanno dall'acquisto di terreni alla costruzione, vendita e commercializzazione di immobili, compresi alberghi, centri commerciali, turistici, industriali e ricreativi. Ci si potrebbe chiedere cosa abbia a che fare tutto ciò con l'edilizia popolare. Tuttavia, la certezza che le cose non quadrano sta, come sempre, nei numeri. Dall'inizio, proprio per le finalità speculative previste, Asset acquista una serie di immobili e terreni a Milano e in provincia. Una delle principali operazioni è quella di Pieve Emanuele, nel parco Sud di Milano, dove acquista dall'Enpam (Ente nazionale previdenza medici e odontoiatri) diversi stabili per ristrutturare e vendere alloggi di edilizia pubblica. Per farlo stipula mutui con Intesa San Paolo per 32 milioni di euro, accompagnati da 41 milioni di finanziamento regionale. Nel 2009, invece, acquista a Garbagnate Milanese un complesso immobiliare interamente destinato alla vendita; anche qui, Asset chiede un mutuo alla Cassa di risparmio di Parma e di Piacenza per 29 milioni di euro, che verranno seguiti da altri 7 milioni nel 2012, per l'acquisto di terreni sempre a Garbagnate (stavolta chiesti a Bnl, finanziamento cui è collegato un derivato). Tra un'operazione e l'altra, Asset si indebita per 66 milioni. Ebbene, a fronte dell'impegno gravoso, che ne è stato delle operazioni previste? Nulla. Ovvero: a Pieve, l'area acquistata non è stata riqualificata, mentre gli appartamenti di Garbagnate non sono stati venduti a causa della crisi. Non solo: a Pieve, Asset ha dovuto demolire a sue spese (con un prestito da Aler di 1,5 milioni) alcuni degli immobili acquisiti, deteriorati a causa del prolungato abbandono. Dal 2010 a oggi Asset è sempre stata in perdita e Aler ha dovuto ripianarne i buchi con oltre 11 milioni di euro. Tutto perché la controllata è stata utilizzata come una privatissima società immobiliare, i cui investimenti azzardati, però, erano garantiti da soldi pubblici. Nel 2007, addirittura, Asset si è avventurata nella Libia di Gheddafi, in cerca di opportunità speculative; acquisì una partecipazione in Finasset, società che nel paese arabo doveva occuparsi di ristrutturare palazzi ed edifici storici con commesse presidenziali. Anche in quel caso l'operazione è stata un flop con cui Asset ha perso centinaia di migliaia di euro. Senza contare le scelte che la stessa due diligence non riesce a spiegarsi: ad esempio, quella di dare in outsourcing il servizio paghe e contributi di Aler. Nel 2010 l'azienda regionale appalta questa funzione ad Asset, dietro un compenso di un milione di euro annui. Asset, a sua volta, subappalta il servizio alla sua controllata Cispel Lombardia, pagando 558mila euro. Scrive BDO: "Aler sopporta un maggiore onere pari a 442mila euro [...]. Si sottolinea che Asset funge da puro intermediario". Perché buttare 442mila euro annui? Chissà. Acrobazie contabili, queste, che si ritrovano sparse un po' ovunque, tra controllata e controllante. Di fatto, il "gioco" è in forte perdita per Aler, che per Asset ha prestato garanzie pari a 145 milioni di euro, di cui 40 milioni si riferiscono a ipoteche su immobili di Milano.
Pensioni fantasma e sprechi in outsourcing, di Maria Elena Scandaliato. Tra le carte a disposizione della Commissione d'inchiesta regionale spunta poi l'ennesimo mutuo (30 milioni di euro) chiesto a Bnl per il fondo pensione integrativo dei dipendenti Aler. Alla fine degli anni '80 i dipendenti Iacp (Istituto autonomo case popolari, predecessore di Aler) furono chiamati a scegliere se lasciare i contributi presso l'Inps o presso l'Istituto Nazionale previdenza e assistenza dipendenti pubblici. Dato che chi aveva scelto l'Inps rischiava un trattamento svantaggioso, si decise di creare un fondo pensione integrativo, che negli anni, però, fu contabilizzato da Iacp e Aler solo su carta. Nel 2011, invece, l'azienda lombarda fu costretta a versare effettivamente la somma, ricorrendo ai 30 milioni di mutuo concessi da Bnl, messi su un conto vincolato. Ebbene, Iolanda Nanni, consigliera regionale e membro della Commissione di inchiesta sull'Aler, assicura che "il fondo non è ancora stato costituito", mentre i 30 milioni del mutuo costano "500mila euro di interessi passivi ogni anno". Di conseguenza, dal 2011 a oggi si sono pagati e si continuano a pagare interessi a vuoto, senza che i dipendenti abbiano visto maturare le loro pensioni integrative. Per non parlare delle esternalizzazioni. Aler, negli ultimi anni, ha speso ingenti risorse affidando all'esterno - nonostante i 1200 dipendenti - una serie di servizi. Oltre alle paghe e ai contributi sono stati ceduti in outsourcing il servizio di tesoreria (affidato alla Banca Popolare di Sondrio, con cui Aler ha un mutuo da 72 milioni), quello di riscossione crediti e quello di manutenzione del data center (costo 220mila euro alla fine del 2013) e delle postazioni di lavoro dei dipendenti. In particolare, quest'ultimo servizio costa ad Aler 400 euro l'anno a dipendente (quindi 480mila euro annui): una cifra che si potrebbe tranquillamente risparmiare utilizzando l'ufficio informatico interno.
Conti sballati e dirigenti intoccabili, di Maria Elena Scadaliato. Come dimostra il caso Asset, dalla metà degli anni Duemila Aler ha assunto una mentalità speculativa, lanciandosi nella compravendita di aree e immobili. Una scelta che ha sottratto centinaia di milioni al vero core business dell'azienda regionale: offrire affitti popolari a chi non può reggere i prezzi di mercato. Oggi Aler è quasi fallita e l'emergenza abitativa rischia di esplodere in piena Expo. La consigliera regionale del M5S Jolanda Nanni denuncia che "nel 2018 la Lombardia avrà bisogno di 400mila alloggi pubblici e ad oggi Aler ne ha appena 160mila". Una situazione da risolvere urgentemente, anche se non sembra essercene l'intenzione: "Il piano di risanamento di Aler ci sarebbe, ma è fermo in giunta regionale da mesi". Difficile individuare i responsabili: allora (come oggi) Regione Lombardia era governata dal Centrodestra, in particolare dal ventennale governatore Roberto Formigoni, la cui giunta si era spartita le poltrone di Aler come di altri enti. Con Maroni, in carica dal 2013, le cose non sono cambiate. "Aler è sempre stata una cassaforte per la regione, la vicenda di Pieve Emanuele ne è la prova", ci ha confidato un ex manager dell'azienda che vuole rimanere anonimo. Stando alla sua ricostruzione, l'idea di acquistare quei terreni nacque quando la Regione stava costruendo la sua nuova sede (il Pirellone bis). Allora, alcuni uffici regionali pagavano un affitto molto salato all'Empam per un complesso di edifici tra via Pola, via Rosellini e via Taramelli. Si pensò a una sorta di do ut des: la Regione, tramite Aler e Asset, si sarebbe "accollata" le aree di Pieve Emanuele, che Empam non sarebbe mai riuscito a vendere; in cambio, l'ente avrebbe ceduto alla Regione, a un prezzo molto basso, gli immobili dove gli uffici regionali erano in affitto. "Altra operazione esemplare è quella di Arconate", continua l'ex manager. "Nel 2010 Aler acquistò dei terreni proprio in quel comune, per costruire appartamenti di edilizia convenzionata. Accese un mutuo da un milione e duecentomila euro, nonostante avesse già accumulato debiti su debiti", spiega l'amministratore. "Sapete chi era sindaco di Arconate, allora? L'attuale assessore alla sanità lombarda Mario Mantovani, del Pdl. La cessione di quei terreni rappresentò un vero affare per la sua amministrazione, proprio mentre si preparavano le elezioni che l'avrebbero riconfermato sindaco. Per Aler, invece, fu un magro affare: ad oggi degli appartamenti non c'è l'ombra, mentre gli interessi del mutuo continuano a correre". Tra gli amministratori dell'azienda, però, c'è un solo nome che ricorre sempre e ovunque: è quello di Domenico Ippolito, avvocato entrato in Aler nel lontano 1991 per non uscirne più. Lo troviamo prima come responsabile amministrativo, poi come direttore del personale e infine come direttore generale, funzione chiave che riveste dal 1999. Lo scorgiamo, ancora, in Asset dal 2005 come amministratore delegato e in Csi (altra controllata Aler) sempre come amministratore delegato. Si potrebbe pensare a un manager di altissimo livello, considerata la fiducia reiteratagli (e gli stipendi accumulati). In realtà, i risultati dicono altro. Non solo: Aler in questi anni è stata scossa da numerose inchieste, tra cui quella del 2012 sui voti che l'ex assessore regionale alla Casa Domenico Zambetti avrebbe comprato dalla 'ndrangheta, promettendo ad esponenti delle cosche appartamenti e posti di lavoro in Aler. Teresa Costantino, figlia del presunto boss Eugenio Costantino, nel 2011 venne contattata personalmente dalla segretaria di Ippolito, Monica Goi, e assunta dall'azienda proprio presso la Direzione Generale. Nelle intercettazioni citate dal pm Giuseppe D'Amico, Teresa raccontava al padre: "... Probabilmente mi mettono alla Direzione Generale...[la segretaria, ndr] ha detto che domani ne parla con il direttore generale [...] e poi mi fa scegliere dove andare". In merito, Ippolito ebbe a giustificarsi davanti alla commissione antimafia di Milano dicendo che non esistono aziende pubbliche o private in cui non ci siano "referenzialità", ovvero segnalazioni "particolari". Nonostante questo e altri nubifragi piovuti su Aler, che hanno portato al commissariamento dell'azienda, Ippolito, che inizialmente era stato rimosso, lo scorso marzo è tornato in pista come direttore degli Affari generali.
Quei 5 miliardi per l'edilizia sociale mai usati, di Peter D'Angelo. L'emergenza abitativa è fuori controllo. Le case perse e messe all'asta: un bollettino di guerra. Tutto questo è ancor più paradossale se si è di fronte ad un mole antonelliana di fondi disponibili, oltre 5 miliardi in tutto. Sì, i soldi ci sono. Eppure non vengono usati. Esistono varie tipologie di fondi vincolati all'Edilizia popolare, alcuni noti a pochi altri solo agli addetti ai lavori. Iniziamo da quello a disposizione delle Regioni: il Fondo "Ex-Gescal", rimpinguato dalle tasche dei lavoratori fino al 1996. Questo fondo risulta vivo sul C/c 20128 della Cassa depositi e prestiti e dalle ultime ricognizioni del 2014 ha ancora a disposizione, tra giacenze (965 milioni di euro) e competenze, ovvero soldi assegnati ma non ancora spesi, (1.537 milioni di euro), circa 2,5 miliardi di euro. Soldi totalmente destinati all'edilizia agevolata. Alcune Regioni li hanno usati, altre invece questi soldi li hanno lasciati fermi da oltre 14 anni. "Questi soldi sono fermi dal 1996, sul conto corrente della Cdp". Non ci gira intorno Angelo Fascetti, dell'associazione inquilini Asia-USb. "Se non vengono usati - spiega - è per non fare concorrenza all'edilizia privata". Le regioni meno virtuose sono la Puglia con 333 milioni da spendere e altri 360 milioni assegnati ma non ancora utilizzati. Segue la Sicilia con 254 milioni tutti da spendere, e altri 259 pianificati ma non spesi. E non mancano tra le altre il Lazio con 191 milioni, la Campania con 131 milioni dove l'emergenza abitativa azzanna la tenuta del tessuto sociale. A queste somme ingenti vanno poi aggiunte quelle di un altro fondo sottoutilizzato, il Fondo Investimenti per l'Abitare, istituito da CDP Investimenti Sgr a fine 2009. L'obiettivo del Fia è quello di investire nel settore dell'edilizia privata sociale per incrementare sul territorio italiano l'offerta di alloggi per la locazione a canone calmierato e la vendita a prezzi convenzionati. Le risorse a disposizione sono pari a 2 miliardi e 28 milioni di euro, di cui 1 miliardo sottoscritto da Cassa depositi e prestiti, 140 milioni dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata. Sul sito istituzionale, CDP Investimenti Sgr informa che, per conto del Fia, ha assunto delibere definitive d'investimento per 1,18 miliardi di euro, mentre sono inutilizzati 1 miliardo e 10 milioni di euro. Altro capitolo dei soldi per risolvere la crisi degli alloggi mai utilizzati è quello targato Bruxelles. Nell'ambito dei programmi dei fondi strutturali europei 2014-2020, secondo le stime dell'Associazione Nazionale Costruttori Edili, realizzate sulla base dei documenti sottoscritti tra governo e Ue a ottobre 2014, le risorse destinate ad interventi di riduzione del numero di famiglie con particolari fragilità sociali ed economiche in condizioni di disagio abitativo ammontano a circa 768 milioni di euro. A queste risorse, derivanti dai programmi dei fondi strutturali europei, si potrebbero aggiungere ulteriori risorse prelevabili dai 39 miliardi di euro del Fondo nazionale per lo sviluppo e la coesione. Grazie ai fondi strutturali europei Varsavia ha cambiato faccia, una rivoluzione copernicana che attraverso l'edilizia ad alta inclusione sociale ha permesso di arginare l'emergenza abitativa. Ma l'Italia, con la quota di edilizia pubblica più bassa d'Europa (siamo al 3,5% degli alloggi) farebbe bene a prendere esempio anche dalla Germania, dove con difficoltà riescono a capire il significato della parola "sfratto". "Secondo la legge, i comuni sono obbligati a prevenire i senzatetto mettendo a disposizione gli alloggi", spiega Ulrich Ropertz dell'Associazione inquilini tedeschi. Con il risultato che in Germania, così come in Francia e in Olanda, la percentuale di edilizia pubblica è superiore al 20%. Dal ministero delle Infrastrutture chiariscono che "dall'agosto 2013 ad oggi sono stati approvati 19 provvedimenti che riguardano la casa per uno intervento globale tra stanziamenti e defiscalizzazioni di circa 2 miliardi e 600 milioni di euro". Entrando nel dettaglio si vede che di questa somma, ben 2 miliardi di euro sono stati messi a disposizione dalla Cassa depositi e prestiti per tutelare le banche nella concessione dei mutui agevolati, compresi quelli dedicati alle giovani coppie sotto i 35 anni e alle famiglie numerose. Possibilità di finanziamento che le banche hanno sponsorizzato con il mal di pancia. "Con la fame di casa che c'è in molti grandi centri urbani a partire dalla Capitale, questi fondi giacciono inoperosi tra freni burocratici e disinteresse delle banche - denuncia Furio Truzzi di Assoutenti - Qualcuno di voi ha visto spot a sostegno? Una campagna di comunicazione adeguata? Meglio tacere". Stesse critiche mosse da Marco Paccagnella, presidente di Federcontribuenti. "Le banche - afferma - pur avendone il compito non hanno pubblicizzato ai clienti la possibilità di usufruire di questi mutui agevolati, preferendo spingere mutui ad alto guadagno per le banche stesse". Critiche su cui abbiamo chiesto invano di conoscere la versione dell'Associazione banche italiane.
I colpevoli vanno cercati al Pirellone, scrive Giuseppina Piano. Un ex presidente già fedelissimo di Craxi, il socialista Loris Zaffra, rispuntato dalle nebbie della Milano da bere in casa Forza Italia e chiamato nel 2008 da Formigoni alla guida del colosso dell'edilizia pubblica. Manager equamente divisi, ed ecco tra i tanti con il cuore a destra Marco Osnato, genero di Romano La Russa, fratello del sempre presente Ignazio. Un cattolicissimo ex democristiano come Domenico Zambetti, anche lui arrivato nel Pdl, che da assessore regionale alla Casa finì in guai tanto seri da innescare la valanga che portò alla fine del regno ventennale di Formigoni. Ci sono le tante anime della famiglia centrodestra, nell'album delle foto simbolo del carrozzone Aler. Una storia che oggi finisce nel disastro, con il colosso che gestisce 80mila case popolari tra Milano e hinterland in profondo rosso. Solo il denaro iniettato dalla Regione Lombardia l'anno scorso l'ha salvato dal fallimento, permettendo di pagare fornitori e stipendi, perché un'azienda pubblica come questa non può dichiarare bancarotta. Ma ora il governatore Maroni deve fare il miracolo: far decollare il piano di salvataggio, con soldi pubblici da una parte e una robusta vendita di quasi 10mila alloggi agli inquilini e al mercato. Un'asta sulle case che "rappresenta il primo passo che consentirà il concreto avvio del risanamento aziendale", ha spiegato il presidente del collegio commissariale Gian Valerio Lombardi. "Aler - ha aggiunto - percepirà risorse da reimpiegare nelle attività di manutenzione, alleggerirà i costi di gestione attraverso l'estinzione dei condomini misti e, infine, offrirà l'occasione di diventare proprietari a condizioni particolarmente agevolate". L'azienda dipende dal Pirellone, ed è lì che bisogna guardare per ricostruire la storia recente. A quella Regione governata dal 1995 al 2013 dal centrodestra di Formigoni detto il Celeste. L'Aler è sempre stata terreno di pascolo della politica, tra spartizioni e clientele, safari elettorali e amnesie, tra i 1.200 dipendenti e i sei milioni di euro in consulenze bruciati tra il 2009 e il 2013. Toccava alla Regione scegliere i vertici, e toccava alla Regione dare strategia e far funzionare i controlli. Ma nell'ultimo decennio molto non deve avere funzionato, se i conti di oggi inchiodano all'impietoso crack. Ai 4mila appartamenti occupati abusivamente, tra case di proprietà dell'Aler e case del Comune che l'azienda gestiva fino a due mesi fa quando il sindaco Pisapia, convinto che l'avvilente situazione dei palazzoni popolari non potesse andare oltre, ha deciso di riprendersele. Un divorzio perché "gravi problemi di gestione e manutenzione rimangono irrisolti", ha detto il sindaco succeduto al centrodestra di Letizia Moratti. Crack economico, abusivi, ma anche 9mila alloggi vuoti tra Erp e demanio comunale perché così malmessi da non poter essere affittati. E 23mila famiglie in lista d'attesa per una casa popolare. I numeri del caso Milano sono questi. E dicono che negli anni il carrozzone Aler è finito fuori strada, mentre la politica distrattamente o colpevolmente non ha fermato il declino. Era da poco arrivato nell'ufficio nobile di Palazzo Lombardia, Roberto Maroni, quando fece suonare l'allarme rosso: l'Aler rischia il fallimento. Un'operazione verità non rinviabile, insieme al benservito a Zaffra sostituito dal commissario plenipotenziario Gian Valerio Lombardi, già prefetto di Milano. Ma forse anche un sapiente gioco d'anticipo nel nome della "discontinuità", per cercare di far uscire la sua Lega da quell'album di famiglia.
Il rapporto. Lombardia, il disastro delle case popolari Aler. Serve più di un miliardo per rimetterle a posto. La società della regione possiede 28 mila appartamenti, molti dei quali cadono a pezzi. Per risanarli serve una cifra monstre che l’ente, sommerso dai debiti, non possiede. E l'emergenza abitativa continua ad aggravarsi, scrive Maria Elena Scandaliato su “L’Espresso”. Un miliardo e 264 milioni di euro. È questa la cifra monstre di cui necessita Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale) per mettere a posto il suo patrimonio immobiliare, uno dei più vasti d’Europa. Una montagna di soldi cui si aggiunge un debito che ufficialmente ammonta a 345 milioni, ma che potrebbe rivelarsi molto più grande, considerati i buchi delle società partecipate. Da questi numeri all’emergenza abitativa il passo è breve: Milano, oggi, vede 13mila sfratti in fase esecutiva e 23mila famiglie in lista per un alloggio popolare; una fame di case trasformata in rabbia dai 10mila appartamenti vuoti perché fatiscenti e privi di manutenzione. Quindi, non assegnabili. «Serve una cura shock», ha sentenziato il governatore lombardo, Roberto Maroni. Eppure, Aler languisce da anni in uno stato di fallimento non dichiarato. Nel dicembre 2013 la Bdo, una società di revisione contabile, consegnò alla Regione Lombardia una due diligence di trecento pagine sui conti dell’azienda, mai divulgata perché utilizzata dalla Commissione regionale d’inchiesta su Aler. Oggi la commissione ha chiuso i lavori, e “l’Espresso” è riuscito a leggere il dossier. Il dato più allarmante riguarda le condizioni del patrimonio immobiliare: le “unità abitative” con un livello di manutenzione “insufficiente” e “scadente” - dove urgono «interventi straordinari per prevenire stati di pericolo quali caduta di rivestimenti, folgorazione e intossicazione da monossido di carbonio», così scrive la stessa Aler - sono ben 28.748, per 709 edifici, in buona parte a Milano. Gli appartamenti in condizioni “mediocri” - dove «non sono da escludere gli eventi indicati per i livelli insufficiente e scadente» - sono 16.214 (446 edifici), mentre gli stabili classificati come “buoni” sono appena 35. Il patrimonio, in sostanza, cade a pezzi. E Aler, che negli ultimi anni non sembra essersene occupata, ora non ha più le risorse per intervenire. Nel bilancio 2013 gli amministratori scrivono: «Risulta evidente che gli interventi di manutenzione straordinaria non possano essere finanziati se non tramite entrate straordinarie che derivino dalle vendite, in forte rallentamento; o da risorse da reperire sul mercato del credito, soluzione oggi impraticabile». Ed ecco il vero buco nero scoperto dalla due diligence. Aler, infatti, non può ricorrere al credito perché di prestiti ne ha chiesti troppi. E sta annegando in un fiume di mutui, derivati e ipoteche. Al 30 giugno 2013 l’azienda aveva in essere ben 48 contratti di mutuo, per un valore di 255 milioni. Finanziamenti richiesti per le più svariate ragioni: dalle semplici attività correnti (sempre più fuori controllo), fino alla realizzazione di progetti speculativi e alla manutenzione straordinaria. Alcuni contratti prevedono un tasso fisso, altri variabile ma ad alcuni finanziamenti - pari a 45 milioni - sono stati collegati dei prodotti derivati. Una scelta misteriosa, visto che «il ricorso a contratti derivati non fa seguito a una logica uniforme», e che «Aler non dispone di una procedura interna per il loro utilizzo», scrivono i revisori. I tre derivati (due con Intesa, uno con Mps) al 30 giugno 2013 avevano già fatto perdere sei milioni e se Aler li volesse estinguere prima della loro scadenza - scelta caldeggiata dai revisori - dovrebbe sborsare altri otto milioni. Derivati a parte, il vero incubo di Aler restano i mutui. A garanzia dei prestiti, infatti, l’azienda ha messo il suo stesso patrimonio, ipotecando immobili per 258 milioni. «Vogliamo salvare Aler e vogliamo continuare a investire nell’edilizia residenziale pubblica», ha assicurato Maroni. Per ora, l’unica certezza sono i 10mila alloggi che Aler conta di vendere di qui al 2017, e che hanno sollevato le proteste degli inquilini e dei sindacati, considerati i magri risultati delle dismissioni precedenti. Da anni, ormai, Aler cerca di tamponare i suoi buchi cedendo pezzi di patrimonio; non solo a chi ci abita ma a chiunque, mettendoli all’asta a prezzi stracciati. La beffa è che con i proventi, poi, si dovrebbe procedere al recupero degli appartamenti deteriorati; cosa che, finora, non è avvenuta. Ma dove nasce la voragine che sta inghiottendo Aler? La metà dei mutui - che Bdo consiglia di “rinegoziare” - è stata stipulata tra il 2006 e il 2007, mentre i derivati sono agganciati a finanziamenti del 2007-2008. Sarebbero questi, quindi, gli “anni ruggenti” del Pirellone di Roberto Formigoni in cui Aler si è lanciata in avventure ad alto rischio, rivelatesi dei pessimi affari. Tra queste, Asset è sen’altro la più famosa. È una società controllata totalmente da Aler, creata nel 2005 con finalità che vanno dall’acquisto di terreni alla costruzione e commercializzazione di immobili, compresi alberghi e centri commerciali. Ambizioni che spingono Asset a uno shopping sfrenato. L’operazione più importante è quella di Pieve Emanuele dove acquista dall’Enpam (Ente nazionale previdenza medici e odontoiatri) una vasta area e diversi stabili, per realizzare e vendere alloggi, oltre a uno shopping center. Per finanziare l’iniziativa, Asset stipula mutui con Intesa per 32 milioni, cui se ne sarebbero aggiunti 41 di finanziamento regionale. Nel 2009, poi, a Garbagnate Milanese acquista un complesso da destinare alla vendita; anche qui, Asset chiede un mutuo di 29 milioni, seguito da 7 milioni nel 2012 per rilevare di altri terreni. Alla fine, Asset si indebita per 66 milioni ma i progetti svaniscono nella nebbia. A Pieve non è stato riqualificato nulla (anzi: l’area sprofonda nel degrado), mentre la crisi ha bloccato la vendita degli appartamenti di Garbagnate. Non solo: a Pieve, Asset ha dovuto demolire (con un prestito da Aler di 1,5 milioni) alcuni degli immobili acquisiti, ormai sul punto di crollare. Dal 2010 a oggi Asset è stata sempre in perdita: un buco nero che ha risucchiato alla controllante oltre 11 milioni. Senza dimenticare l’avventura tripolina: nel 2007 Asset acquisì una partecipazione in Finasset, società che avrebbe dovuto ricevere da Gheddafi commesse per ristrutturare palazzi ed edifici storici in Libia. Anche qui l’affare si rivelò un costoso flop. E poi c’è il capitolo degli sprechi: spese che gli stessi revisori non riescono a spiegare. Su tutte, quella per dare in outsourcing il servizio paghe e contributi di Aler. Nel 2010 l’azienda appalta questa funzione ad Asset per un milione l’anno. Asset, a sua volta, la subappalta alla sua controllata Cispel, al prezzo di 558mila euro. «Aler sopporta un maggiore onere pari a 442mila euro. Si sottolinea che Asset funge da puro intermediario», scrive Bdo nella due diligence. Perché buttare 442mila euro annui? Ma le esternalizzazioni non finiscono qui. Aler, negli ultimi anni, ha speso fiumi di denaro per affidare servizi all’esterno, nonostante abbia 1200 dipendenti. Sono stati appaltati la tesoreria, la riscossione crediti e la manutenzione del Data center e delle postazioni di lavoro. In particolare, quest’ultimo servizio costa 400 euro l’anno a dipendente: una cifra che si potrebbe risparmiare utilizzando l’ufficio informatico interno, come sottolineano i revisori.
"JE SUIS CRAXI”. LA MORALE CHE AVANZA. CRAXI, PISAPIA, ROBLEDO E GLI ALTRI. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.
Stefania Craxi: "Con mio padre oggi l'Italia starebbe meglio". La figlia di Bettino Craxi difende il padre e attacca la sinistra: "È guidata da un democristiano", scrive Francesco Curridori su “Il Giornale”. "Je suis Craxi” è la scritta, volutamente polemica, che compare su una foto che la figlia Stefania ha postato sul suo profilo Facebook per ricordare i quindici anni dalla scomparsa del padre Bettino. Intervistata dal Messaggero, lei attacca la sinistra italiana per aver “perso l’ennesima occasione per fare i conti con Craxi” a differenza della “stragrande maggioranza dei cittadini italiani” che “è disposta a riconoscere i meriti di mio padre, perché fa un confronto fra un'Italia che cresceva prospera e la nazione miserrima di oggi, la sinistra non ne è capace”. “Trovo vergognosa – continua Stefania Craxi - l’incapacità della sinistra, che si dichiara a mezza bocca socialista, di confrontarsi con la storia”, e che ha subito una "grande sconfitta storica" essendo guidata da “un giovane democristiano, che li ha portati proprio nel Partito socialista europeo, di cui uno dei fondatori è proprio mio padre”. Per quanto riguarda l’ex sottosegretario agli Esteri suo padre “non ha mai corrotto nessuno” e Tangentopoli, fatta eccezione per qualche ladro, riguardava perlopiù il “finanziamento illegale ai partiti a cui tutti partecipavano, non ruberie personali”. “Era – aggiunge - una debolezza del sistema nata con l'avvento della Repubblica, durante la Guerra Fredda” e suo padre, con quel famoso discorso alla Camera, chiedeva solo “di dare una morte politica alla Prima Repubblica” perché “quel reato andava giudicato non dalla magistratura, ma alla luce della storia”. L’ex deputata definisce, poi, la scena delle monetine lanciate fuori dall’Hotel Raphael “una scena vergognosa e infame”, compiuta da italiani che “cercano sempre un capro espiatorio, ma subito dopo vogliono l'uomo della provvidenza che li tiri fuori dai guai, lavandosene le mani e non assumendosi le proprie responsabilità”. Infine, sulla candidatura di Amato al Quirinale la figlia Stefania si chiede: “Com’è possibile che il vice di mio padre diventi Capo dello Stato mentre lui, considerato dalla sinistra un delinquente, è morto in esilio?”. Alla fine si dice convinta che se suo padre oggi fosse alla guida del Paese “l’Italia non sarebbe in queste condizioni”.
Hammamet, i socialisti con la maglietta "Je suis Craxi" per ricordare il leader del Psi, scrive Paolo Corallo, dell’Ansa su huffingtonpost. Il capanno non è più lì, sulla spiaggia di Salloum, a pochi chilometri da Hammamet. Una mareggiata l'ha spazzato via. Ma Stefania Craxi ha comunque voluto iniziare in quel posto le commemorazioni del padre a quindici anni dalla morte (la ricorrenza esatta sarà lunedì prossimo) insieme al centinaio di vecchi socialisti che hanno accolto l'invito della Fondazione Craxi e sono venuti in Tunisia per ricordare il loro leader. Nel luogo dove Craxi si ritirava per giornate intere a leggere e a scrivere all'ombra del capanno che aveva costruito lui stesso con l'aiuto di Nicola Mansi, l'uomo che è stato sempre al suo fianco e che sarebbe ingiusto definire solo autista. Pochi i volti noti tra gli italiani giunti ad Hammamet per la ricorrenza. Qualche ex deputato, come Saverio Zavettieri, e chi, come Lucio Barani, parlamentare lo è diventato nella Seconda Repubblica, eletto nelle liste di Forza Italia. Barani, noto per portare sempre un garofano rosso al bavero della giacca, questa volta si è presentato con una maglietta nera con su ricamata la frase "Je suis Craxi" e l'immancabile garofano. Ne ha fatte fare una decina che ha distribuito per fare delle foto di gruppo. Ad Hammamet è venuta anche l'eurodeputata azzurra Elisabetta Gardini, che non ha un passato socialista, ma che è qui per la vecchia amicizia che la lega a Stefania Craxi. E c'è l'ex sottosegretario nel governo Monti Gianfranco Polillo, anche lui da tempo esponente del partito di Berlusconi. Assenti invece i principali dirigenti del Psi craxiano. Era previsto Fabrizio Cicchitto, che però ha dovuto rinunciare a causa di un'influenza che lo ha colto alla vigilia della partenza. Stesso motivo che sembra abbia bloccato a Roma l'altro figlio di Bettino Craxi, Bobo, che pure aveva annunciato di voler essere presente. Completamente assenti i massimi dirigenti del partito socialista dell'era craxiana. Ma i commenti acidi sono riservati solo ad uno, Giuliano Amato, forse perchè sui giornali lo si dà per favorito nella corsa al Quirinale. Certo è che tutti tengono a ricordare che Amato non è mai venuto ad Hammamet, nè prima nè dopo la morte di Craxi. "Brava!" è il commento generale che accoglie la lettura ad alta voce da parte di Stefania di una sua intervista fresca di giornata al "Fatto Quotidiano", in cui le frecciatine ad Amato abbondano. "Mi fa piacere se viene eletto - dice Stefania - ma poi qualcuno mi dovrà spiegare perchè mio padre è morto in esilio ed il suo vice va ora al Quirinale". E così Amato viene accomunato ai comunisti, da sempre accusati di non aver mosso un dito per Craxi, ma di aver anzi pensato di poter avere un vantaggio dalla sua rovina politica e giudiziaria. Di questo si è parlato per tutto il tempo trascorso dove prima c'era il capanno, mangiando nella casa dei pescatori tunisini, ricavata da un vecchio bunker della Seconda Guerra Mondiale. Stefania ha organizzato una grigliata nel patio della povera abitazione dove spesso Craxi si fermava a pranzo. La padrona di casa conserva ancora le foto, belle incorniciate, di quando Bettino Craxi si presentava con la spesa fatta e stava delle ore in loro compagnia. "Vengo qui ogni anno il giorno della sua morte - spiega Stefania con un sorriso triste - è la mia messa laica". Per la prima volta ha voluto portare un gruppo di vecchi socialisti nel luogo dove il padre scriveva le sua verità che poi mandava via fax ai giornalisti che lo avevano seguito quando era uno dei più influenti uomini politici del paese. E da quella spiaggia scrutava il mare, puntando verso la Sicilia, l'Italia, che è poco distante, appena oltre la linea dell'orizzonte. Forse ricordando quando nella casa di Giuseppe Garibaldi a Caprera, dove si recava ogni 2 giugno per l'anniversario della morte, si fermava sempre davanti ad una finestra e spiegava che l'eroe risorgimentale si sedeva spesso lì a guardare verso l'Italia. Questo quando Garibaldi era un esule, così come anche Craxi, si considerava, costretto alla lontananza da una patria ingrata.
“Je suis Craxi”, Barani: un messaggio, una parabola che racchiude il senso politico di un programma, scrive Monica Gasbarri su “Il Clandestino web”. In occasione della ricorrenza dei 15 anni dalla morte di Bettino Craxi, il senatore del gruppo Grandi Autonomie e Libertà, eletto nelle file di Forza Italia, Lucio Barani, si è recato ad Hammamet per commemorare questo anniversario con un’iniziativa che lui stesso ha raccontato: “Sono sbarcato ad Hammamet per commemorare il quindicesimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi con indosso la polo nera e la scritta “Je suis Craxi” con accanto un garofano”. Barani, intervistato da Data24News, ha spiegato come è nata questa idea e qual è il significato profondo di una frase che ha fatto immediatamente presa.
Senatore, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Bettino Craxi, lei si è recato ad Hammamet per partecipare alla commemorazione. Che significato ha la vicenda Craxi nella storia politica italiana?
«E’ una vicenda ancora attuale a 15 anni dalla morte di Craxi, e, soprattutto, a oltre 20 anni dal golpe mediatico-giudiziario ordito nei confronti dell’Italia e degli italiani per cancellare alcuni partiti politici (come i Socialisti, i Socialdemocratici, i Liberali, i Repubblicani e la Democrazia Cristiana più riformista) per portare al potere il Partito comunista e i catto-comunisti. Un golpe ordito dai poteri forti per impadronirsi, insieme ai giudici e a certa stampa, del potere in Italia ed essere congeniali al gioco internazionale di vendita e invasione dei mercati italiani. Come ci insegna Gian Battista Vico, anche questa situazione è un esempio dei tanti “corsi e ricorsi storici”: una volta le invasioni si facevano con i mercenari e gli eserciti, oggi con l’economia».
Qual è invece la genesi della frase “Je suis Craxi” di cui lei si è fatto promotore?
«Si tratta di uno slogan inventato da me, come segretario del nuovo PSI e come socialista, ma non ha un tono nostalgico; perché sono convinto che non ci sarebbe stato bisogno del Je suis Charlie nell’Europa di Craxi, di Mitterand, Kohl, della Thatcher, di Aznar: erano politici, conoscevano l’arte del dialogo. Un politico non si inventa, non si prende dalla società civile. “Je suis Craxi” è un messaggio, una parabola, il senso politico di un programma di sviluppo. Ha tutto in sé, passato presente e futuro».
Questa frase, quindi, è anche una proposta…
«Perciò questa frase è la storia di quello che è stato e di quello che non sarebbe stato se ci fossero stati degli statisti, dei riformisti. Craxi era l’uomo del dialogo, della tolleranza e della solidarietà internazionale, come ha ricordato il vescovo ad Hammamet. Se si fosse tenuta questa linea saremmo stati una grande Italia».
Oggi, si può tornare indietro a quell’Italia?
«Per la situazione che stiamo vivendo ora le responsabilità ci sono e vanno ricercate nell’incapacità del Partito Comunista di governare, negli abusi delle cooperative rosse. In questo senso sono convinto dell’attualità di Craxi: c’è bisogno che tornino dei riformisti veri e non dei dilettanti. Serve qualcuno che torni a fare la politica, e questo vale anche per il Presidente della Repubblica».
Ci può tracciare un identikit del suo Presidente ideale?
«Deve assolutamente essere un politico come Pertini. La diagnosi per la cura di una malattia è facile: se hai un’infezione ci vuole un antibiotico, ma il tuo organismo non deve essergli resistente. Quindi non può essere un comunista. Ci vuole qualcuno che combatta e che lo sappia fare e che abbia dimostrato scientificamente che è bravo, che è capace».
Se dovesse fare un nome?
«Non vorrei fare nomi, per non bruciare nessuno, ma Craxi aveva un figlio politico che lo ha seguito in tutto il suo percorso: Giuliano Amato. Nonostante io possa avere dei risentimenti nei suoi confronti… ma non possiamo vivere di sentimenti e risentimenti, perché da politici deve prevalere l’interesse nazionale».
Tornando a Craxi, un suo ricordo personale…
«Senza dubbio quando gli ho portato la cittadinanza onoraria con fascia tricolore e gonfalone. E lui ha pianto dicendomi: “hai avuto un coraggio che nessuno ha avuto, ora che sono in disgrazia. Questo gesto mi conforta”. Nel suo discorso di ringraziamento si è dovuto interrompere sette volte per la commozione. Questo è il “mio” Craxi. L’altro ricordo che ho fortissimo in mento è il momento in cui ho dato la prima palata di terra a nome di tutti i socialisti nel cimitero di Hammamet dove io ero l’unico con la fascia tricolore».
Chiudiamo, invece, con un ricordo politico…
«Quando ha fatto circondare l’aereo americano a Sigonella. In quel momento è venuto fuori l’orgoglio italiano. Ne eravamo tutti fieri. E questo è un ricordo molto attuale: perché se lui ci fosse stato, gli indiani i marò non li avrebbero mai presi, e se lo avessero fatto, lui sarebbe andato lì a riprendersi i suoi ragazzi».
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ad Hammamet tutti dicono "Je suis Bettino". Chi ha rubato la memoria di Craxi? La scritta “Je suis Craxi” risalta sulla maglietta a sfondo nero. Ecco, questa non l’avevo ancora vista. Per il resto, io ne ho viste cose che voi renziani non potete immaginarvi. Erano tutti qui, a Tunisi, esattamente quindici anni fa, durante i funerali di Bettino Craxi nella cattedrale di Place de l’Independence: seicento posti a sedere, oltre mille persone in piedi, voli dall’Italia raddoppiati più tre charter da Roma e Milano e Reggio Calabria. Berlusconi che venne col suo volo privato e ospitò Francesco Cossiga. Il premier - che nel 2000 era D’Alema - aveva offerto i funerali di Stato e funerali di Stato furono: ma dello stato tunisino. Le divise del picchetto d’onore erano berbere. Le litanie erano in arabo. D’Alema spedì un po’ di sottosegretari e dintorni - Minniti, Dini, Angius - che entrarono nella cattedrale qualche minuto dopo, ma finirono nel ciclone lo stesso. Li presero a monetine, all’uscita, com’era capitato a Craxi sotto il Raphael sette anni prima. Chi le tirò, a Tunisi? Difficile dirlo, perché non c’erano solo reduci, fedelissimi, famigli, ex indagati, ex assessori e amministratori e boiardi, e poi tanti giornalisti, tanti amici: c’era anche tanta gente cosiddetta comune, oltre a tanti, troppi voltagabbana e forcaioli che avevano tradito Craxi nel momento di massima debolezza: ma che erano lì, sfrontati e impuniti, a spiare il vento, sedicenti “socialisti” che erano tornati a invocare riabilitazioni tardive, postume, fuori tempo massimo. Piccoli e grandi uomini al cospetto della bara di Bettino Craxi, uomo di stato italiano, 1934-2000. Ma qui in Tunisia lui è sempre stato “Monsieur le president”, c’è la sua casa con la sua moglie che risiede e paga le tasse qui, c’è la sua tomba, c’è una via dedicata a lui, ci sono ristoranti come il mitico Achour che espongono ancora il suo ritratto: quello che non c’è è il problema della sua “riabilitazione”, della sua eredità politica, tutto il discorso del dividere il grano dal loglio, lo statista da Tangentopoli. Craxi, qui, è sempre rimasto Craxi. Non dovranno passare cent’anni, qui, perché un popolo intero se ne ricordi una volta per tutte. Quello che c’è, pure, qui, è un pellegrinaggio continuo alla sua tomba. E poi le commemorazioni, come questa che è stata organizzata dalla Fondazione Craxi e cioè da Stefania. Sarebbe interessante chiedersi quante altre tombe di politici italiani, a parte Mussolini a Predappio, vivano una situazione del genere: in terra straniera, poi. Io ne ho viste cose che non voglio ripensare, la verità è questa. Io sono già stato qui. Il cimitero dov’è sepolto, Craxi, me lo mostrò quand’era ancora vivo, nel luglio 1999. Sono già stato anche alla capanna sul mare a Salloum, dove Bettino andava a scrivere e a pensare. E anche a dormire: i suoi amici pescatori mostrano il suo letto e le fotografie con lui. È quasi una visita guidata, qualche decina di craxiani ha sborsato 400 euro per tre giorni in camera doppia (cinque stelle: vabbeh, lasciamo stare) e volo da Milano e Roma. Piccole visite, la proiezione del film “Esilio”, una messa in francese, una commemorazione al cimitero vicino alla medina. E c’è un sacco di gente, vecchie glorie, vecchio sottobosco ma anche ragazzini, politici giovani con moglie, parlamentari, ex parlamentari, europarlamentari. Il vulcanico Lucio Barani ha portato le magliette con ricamato “Je suis Craxi”. Barani è l’ex sindaco di Aulla e Villafranca che concesse la cittadinanza onoraria a Craxi e gli fece erigere un monumento da latitante; ai funerali del 2000 fu l’unico sindaco d’Italia presente con la fascia tricolore. Ecco: qui è pieno di tanto come lui, in perfetto equilibrio tra l’integrità politica e la scampagnata. La parte della nostalgica un po’ mesta, che le viene bene, se la prende Stefania Craxi: è lei che ha organizzato tutto, ovviamente. Su Facebook ha ricevuto 37mila messaggi. Mentre nessun residuale partitino socialista, in Italia, ha organizzato niente. Ma niente proprio: la grande rimozione continua. Anche se, intanto, l’immagine di Craxi è sempre più ingombrante e quella dei socialisti italiani è inesistente. Il sole sta calando e la messa per Craxi sta per cominciare. Poi domattina tutti al cimitero cristiano, accanto alla medina, prima di ripartire.
BETTINO PER SEMPRE - QUANDO CRAXI SPIEGÒ IL SOCIALISMO: “CHE CAZZO SIA, NON L’HA ANCORA CAPITO NESSUNO” - BERLUSCONI: ‘’LA MORTE IN ESILIO PAGINA VERGOGNOSA” - E IL SENATORE BARANI IN AULA MOSTRA LA MAGLIETTA “JE SUIS CRAXI”.
Filippo Facci: 15 anni senza Bettino: una messa in francese, una cena in piedi e tanti aneddoti per ricordare l’ex premier - La lettera di Berlusconi a Stefania Craxi e l’intervento in Aula di Barani: “Una volta nessuno si sarebbe permesso di rapire delle volontarie italiane, di imprigionare dei militari italiani. Con Craxi l’Italia era rispettata nel mondo”...scrive “Dagospia”.
Filippo Facci per “Libero Quotidiano”. Ci sono un po’ di cose che disorientano. La messa per Craxi, alle 18, è in francese, e la chiesa (presunta) ha l’illuminazione di uno studio televisivo: è difficile trovare un po’ di nostalgico raccoglimento. Disorienta la capanna sul mare a Salloum, dove Bettino andava a scrivere e a pensare: perché non c’è alcuna capanna, d’inverno tolgono il cannicciato e restano quattro pali, c’è solo una spiaggia bella e sporca, qualche mucca, un dromedario disinvolto - pare - e uno scenario da Cinico tv; la casa dei pescatori tunisini, dove Craxi arrivata con le buste della spesa, è ricavata da un vecchio bunker della Seconda Guerra Mondiale. Stefania ha organizzato una grigliata. In serata, poi, disorienta un po’ meno il docufilm «Esilio» proiettato in una sala dell’hotel: molti l’hanno già visto, ma almeno si vede Craxi dopo tre giorni passati a parlare di Craxi. Quando passa l’immagine di Giuliano Amato i fischi sono inevitabili. La saletta è piccola ma strapiena, si vede quell’omone che parla con tanti personaggi che sono morti anche loro: Mitterrand, Reagan, la Thatcher, Arafat, un incredibile quantità di politici o ex politici nostrani, amici come Lucio Dalla, Luciano Pavarotti. E allora viene da pensare che un’epoca sarebbe morta comunque, anche se Craxi non fosse morto prematuramente e in quella maniera ingiusta e irrisolta. Lo capisci anche perché a questa commemorazione mancano amici storici - il formidabile autista Nicola Mansi, le segretarie Serenella Carloni ed Enza Tomaselli - che intanto sono morti anche loro. Lo capisci perché ci sono un sacco di vecchi che parlano di vecchiaia, è tutto un amarcord anche se alcuni erano nessuno e ora, però, ti sommergono di aneddoti. Ci sono personaggi straordinari, belli, dignitosissimi, soprattutto dal sud e dall’Umbria. Mentre da Milano, patria del riformismo e del craxismo, nessuno. In compenso ci sono giovani in numero sorprendente. Nel registro del cimitero è pieno di «Non ti ho mai conosciuto, ma». Facciamo qualche nome: gli ex parlamentari Saverio Zavettieri e Angelo Cresco, il penalista Roberto Ruggiero che difendeva Ferdinando Mach di Palmstein e Maurizio Costanzo, gli ex segretari Gianfranco Polillo (ora collaboratore di Brunetta: coraggio) e Costantino Dell’Osso, l’assessore Stefano Maullu della giunta Formigoni, e naturalmente il senatore Lucio Barani che è in formissima: è lui ad aver portato le magliette «Je suis Craxi». C’era anche tanto sottobosco romano e qualcuno che ha disertato la messa perché si è infilato in camera con una squillo ventenne, mentre alla cerimonia ha mandato la moglie. Disorientano molte cose, si diceva: ma d’un tratto, sabato sera, si sono ricomposte tutte. È successo a route El Fawara, nella mitica villa di Craxi dove Anna - la moglie, che vive e risiede lì - accoglie una minoranza di fedelissimi. E per chi manca da una quindicina d’anni, ecco: forse quello è l’unico momento davvero commovente, duro da affrontare benché annegato in una cena in piedi semplicemente fantastica (soprattutto perché il cibo tunisino, fuori di lì, è da suicidio) dove tutto pareva come prima, col dettaglio che manca Craxi. È cambiato il televisore, la tappezzeria dei divani, qualche dettaglio: ma la mitica stanza dei fax è identica, il tavolone rotondo che era ingombro di libri e giornali è sempre lo stesso. La piscina è vuota, logico. Ecco, la piscina. L’ultima volta che vidi Craxi, nel luglio 1999, lo vidi alzarsi faticosamente dalla sdraio e - malato com’era - saltellare su un piede solo per poi tuffarsi nell’acqua di testa. Era un pazzo, Craxi. Tre anni prima, nel 1996, ero ancora lì a casa sua, nella famosa villa che nel 1969 costava 40 dinari al mq: qualcosa che - compreso un giardino di circa 400 mq - si poteva comprare per l’equivalente di 7500-10mila euro di oggi; ero in quella villa con Luca Josi, comunque, e verso le tre del mattino ricordo Craxi che stava ammaliando un bivacco di attenti ragazzotti (da ore) spaziando da incredibili retroscena sul terrorismo a improbabili affreschi sulla guerra d’Africa; si parlava del socialismo, ovviamente: il socialismo di qua, il socialismo di là, perché il socialismo, del resto il socialismo. «Che poi il socialismo», scandì Bettino, e ci mise in mezzo un pausa delle sue, lunga, lunghissima, «che cazzo sia, non l’ha ancora capito nessuno». Risate timide dei ragazzotti. Poi isteriche. Poi a un certo punto stramazzarono dal ridere, e Bettino li guardava come se gli stessero facendo un affronto, ma poi sorrise, cominciò a ridere anche lui, forte, ma un po’ di lato, perché si vergognava. Qualche tempo dopo Lucio Barani, sindaco in provincia di Massa, gli portò la cittadinanza onoraria con la fascia tricolore e il gonfalone. Craxi pianse. Poi il 19 gennaio 2000 morì, e tutto quel che accadde quel giorno lo racconteremo un’altra volta. L’Ansa diede la notizia alle 17.46, mentre la Camera discuteva di una possibile commissione d’inchiesta su Tangentopoli che non si farà mai, e che Craxi chiedeva già il 24 gennaio 1993. Al Senato, dopo che Nicola Mancino diede la notizia della morte, ci fu un silenzio di quattro minuti. Poi ancora l’Ansa: «Da Palazzo Chigi si fa sapere che si è pronti ai funerali di Stato». I familiari li rifiuteranno. Bettino fu vestito in grigio come nelle grandi occasioni, cravatta rossa, garofano all’occhiello, un ramoscello coi fiori del giardino di Hammamet, tra le mani un rosario inviato dal Papa. Fu trasportato su un furgone Transit fin dentro una fossa (nel casino generale un fotografo ci cadde dentro, lo tirarono fuori i colleghi a braccia) ma la bara era troppo piccola: dovettero togliere il rivestimento di zinco per poterla chiudere. La bara veniva dall’Italia, ultimo coerente omaggio del suo Paese: nei paesi musulmani i morti si avvolgono in un lenzuolo. C’erano vicino - ci sono ancora - alcune tombe di nobili francesi dell’altro secolo, e poi quella della madre di Anna Craxi, Giuseppina, più uno spazio vuoto che Anna ha riservato per sé, vicino a Bettino. I due lo decisero insieme nel 1967. Silvio Berlusconi non venne al funerale, venne direttamente al cimitero e pianse insieme a Francesco Cossiga. Domenica ha diffuso una lettera indirizzata a Stefania Craxi: ha celebrato l’amico che «colse e anticipò i temi ancora attuali della politica italiana» e la cui morte resta «tra le pagine più vergognose della nostra storia recente». Il senatore Lucio Barani, invece, ieri è intervenuto in aula con la polo «Je suis Craxi». Ha detto questo: «Una volta nessuno si sarebbe permesso di rapire delle volontarie italiane, di imprigionare dei militari italiani. Nessuno si sarebbe permesso di buttare bombe nella redazione di un giornale satirico. Un tempo esisteva la politica, arte della mediazione e del dialogo. Craxi sapeva dialogare con varie ideologie nel contesto internazionale, e per questo l’Italia era rispettata in Europa e nel mondo intero». Qualcosa da aggiungere?
Il Cav ricorda Craxi: "La morte in esilio pagina vergognosa". "Bettino seppe cogliere e anticipare i temi ancora oggi attuali della politica italiana", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi scrive a Stefania Craxi per ricordare Bettino, "un amico leale e sincero, un uomo più avanti del suo tempo". Nella lettera per il quindicennale della scomparsa del leader socialista che la Fondazione Craxi ha organizzato ad Hammamet, l'ex premier sottolinea che la capacità di Bettino Craxi di "cogliere e anticipare i temi ancora oggi attuali della politica italiana lo rendono tuttora protagonista a pieno titolo delle vicende di questi giorni". "Il tuo papà è stato per me un amico leale e sincero al quale mi univa un affetto profondo - scrive Berlusconi a Stefania Craxi - è stato un uomo più avanti del suo tempo. Le sue idee, la sua capacità di cogliere e di anticipare con lucidità i temi ancora oggi attuali della politica italiana lo tendono tuttora protagonista a pieno titolo delle vicende dei nostri giorni". Il Cavaliere ricorda come Craxi seppe cogliere, "quando nessuno ne era consapevole, la necessità di riformare in nostro assetto istituzionale, per mettere il nostro Paese in condizione di essere governabile e di poter competere con le altre nazioni", dando così vita a "una sinistra moderna, democratica, europea". La sua morte in esilio è per Berlusconi "tra le pagine più vergognose della nostra storia recente". Dopo aver manifestato la propria amarezza per non essere presente ad Hammamet, Berlusconi ha fatto notare che adesso Craxi riposa in una terra che amava. "Una terra che, in questi anni turbolenti, ha dimostrato di saper scegliere la strada della democrazia, della tolleranza e della laicità dello stato - ha scritto l'ex premier - una strada che lui stesso avrebbe indicato e favorito, se fosse stato ancora presente. Speriamo che la scelta della Tunisia possa essere di esempio alle molte situazioni difficili e tormentate del mondo arabo". Per Berlusconi la strada indicata da Craxi fin dagli anni Ottanta si è rivelata quella giusta. "La sinistra comunista è morta, anche se le sopravvivono molti dei suoi protagonisti e dei suoi metodi - ha spiegato il leader di Forza Italia - il socialismo liberale e riformatore è invece forte e attivo e sarà un protagonista del 21° secolo. Anche le riforme istituzionali, dopo decenni di tentativi infruttuosi, sono finalmente avviate proprio come lui aveva preconizzato". Con questi ricordi e con questi sentimenti Berlusconi ci ha tenuto a manigestare la propria vicinanza a Stefania Craxi. "Il tuo papà è certamente molto orgoglioso di una figlia che gli dimostra tanto amore e che ha dedicato e continua a dedicare la sua vita alla difesa e al ricordo del suo papà Bettino - ha concluso - ti prego di far giungere alla tua mamma, a Bobo e a tutti gli amici che sono lì convenuti per ricordarlo, il mio saluto più partecipe e affettuoso".
Bettino Craxi e le profezie su Berlusconi, Fini, D'Alema e Napolitano, scrive “Libero Quotidiano”. "L’on. Napolitano non poteva non avere un ruolo nel sistema di relazioni politiche tra il Pci, il potere sovietico ed i regimi comunisti dell’est, cui era connesso un sistema articolato di finanziamenti illegali di cui i comunisti italiani erano i primi, tra i partiti comunisti e non del mondo, ad avvantaggiarsene". Parola di Bettino Craxi. Il volume Bettino Craxi. Io parlo, e continuerò a parlare, curato dallo storico Andrea Speri, raccoglie appunti, profezie e commenti sulla politica italiana del leader socialista annotate con cura nei suoi anni ad Hammamet. Craxi parla di tutti, da Napolitano a Berlusconi, da Fini a D'Alema. Su Re Giorgio Craxi è durissimo e lo mette davanti alle sue responsabilità storiche: "Per gli incarichi politici che ha rivestito, per le esperienze e le conoscenze che ha accumulato, e d’altro canto certamente non solo lui, non potrebbe senza dubbio non rendere su tutta la materia una preziosa testimonianza. Ricostruire in modo completo, chiaro ed onesto, i termini reali in cui si svolse la lotta politica in Italia e la lotta per il potere, è diventato sempre più necessario, specie di fronte a tante mistificazioni, a tante censure ed anche a tante ingiustizie". Poi è il turno di Berlusconi. Craxi già prevede l'accanimento giudiziario durato per venti lunghi anni: "C’è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti, ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi. Del resto il trattamento sin qui riservato al gruppo Fininvest attraverso indagini, inchieste, processi e quant’altro, ha un carattere eccezionalissimo che non è stato riservato proprio a nessuno. Gli strateghi della conquista del potere, i teorici della "falsa rivoluzione", e i loro collaboratori ed aiutanti, puntando alla distruzione politica personale di Berlusconi sanno che questa comporterà quasi automaticamente il disfacimento di Forza Italia. Nel frattempo ci si preoccuperà di accentuare l’isolamento e la criminalizzazione di Bossi. la via sarà allora definitivamente aperta a un ventennio almeno di egemonia catto-comunista". Poi Craxi parla di Gianfranco Fini e delle sue mosse politiche mentre il Cav dovrà combattere negli anni la sua battaglia contro l'assedio giudiziario: "Fini invece, se sarà risparmiato dall’attacco dei più sfegatati, verrà affidato il compito di dimostrare che la democrazia funziona e che l’opposizione può svolgere il suo ruolo di opposizione senza rompere troppo le scatole. Nel frattempo, in attesa del risultato finale, si svolgono le manovre di accompagnamento che seguono, come in questi casi la storia insegna, tattiche consuete. Una volta è il bastone e la carota, un’altra è il pugno di ferro e il guanto di velluto, un’altra ancora è il giorno delle promesse, delle concessioni, delle generose diplomazie segrete". A questo punto Craxi parla di D'Alema e delle sue manovre a sinistra dopo la caduta dei socialisti sotto i colpi di Tangentopoli: "D’Alema vuole ridare la vita ai socialisti facendoli rinascere dalle "macerie" del Socialismo craxiano. E chi é? Mai questo eroico condottiero che i socialisti dovrebbero accogliere come il loro liberatore? Purtroppo non è altro che uno dei tanti che hanno concorso o hanno assistito cinicamente al massacro socialista ed alla distruzione di uno dei grandi edifici della democrazia italiana". Poi l'accusa a Baffino: "L’aggressione politica antisocialista, che era scuola, cultura ed anima della nuova generazione comunista, visti i tempi, non sarebbe di certo bastata. Per ridurre il psi in un cumulo di rovine è stata necessaria un’aggressione politica-giudiziaria di portata impressionante e dall’altro lato il concorso pusillanime di una classe dirigente socialista che, almeno per la sua gran parte, ha dato prova di opportunismo e di viltà". Infine già a fine anni 90, Craxi prevede un futuro nero per l'Italia in Europa: “C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre. Non sarà così. alle condizioni attuali, dal quadro dei vincoli così come sono stati definiti, ad aspettare l’Italia non c’è affatto un paradiso terrestre. Senza una nuova trattativa e senza una definizione di nuove condizioni, l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno”.
Giuliano Amato al Quirinale? Craxi disse: è quello che si è comportato peggio. Giancarlo Perna ha ricostruito la storia politica di Giuliano Amato, dal legame con Bettino Craxi alla Corte Costituzionale. Ritratto spietato di un personaggio eminente di cui si parla come possibile Presidente della Repubblica, scrive Blitz quotidiano. “Giuliano Amato al Quirinale” scatena il pungiglione di Giancarlo Perna su Libero. Quello di Giuliano Amato, avverte Giancarlo Perna, è”un nome che spunta sempre quando è vacante una poltrona. Non è mai il primo a essere fatto, ma è immancabile. Amato era già stato in lizza nel 1999 e nel 2006. A volerlo al posto di Carlo Azeglio Ciampi era nientemeno che Papa Wojtyla. Sette anni dopo, fu Berlusconi a candidarlo per il centrodestra nel tentativo di bloccare Giorgio Napolitano. In entrambi i casi, Amato fu sconfitto senza fare una piega e continuò a navigare”. Rinunciando a analizzare “le sue tecniche di sopravvivenza” Giancarlo Perna ne tenta una casistica: “Pur restando a sinistra, ha strizzato l’occhio ai cattolici, si è mostrato comprensivo con Berlusconi, ha dato una mano alla destra collaborando con Gianni Alemanno sindaco di Roma. Di qui, le simpatie sparse che si è conquistato. Compensate dalle diffuse diffidenze per questo volteggiare tra gli opposti. Amato ha avuto un cursus impareggiabile. A volte è in auge, altre in ombra ma sempre in possesso di una poltrona, grande o piccola che sia. L’importante per lui è sedere su qualcosa. [...] È l’uomo delle emergenze, il commissario straordinario che si chiama al capezzale di un organismo in coma. È stato premier (due volte, 1992 e 2000), ministro del Tesoro e dell’Interno, vicepresidente della Convenzione che ha varato la Costituzione Ue, giudice della Coorte costituzionale dal 2013. Va aggiunto che, salito prestissimo alla cattedra di Diritto Pubblico, Giuliano è stato, per unanime riconoscimento, il costituzionalista principe della sua generazione. [...]Come ex parlamentare (cinque legislature) riceve novemila euro mensili, più altri ventiduemila tra vitalizio di ex docente e l’indennità di ex presidente dell’Antitrust (è stato anche questo, me ne ero dimenticato!). Un totale di 31mila euro lordi al mese, più di mille al giorno, l’ideale per suscitare l’ira popolare. Stufo di essere preso di mira, Amato ha precisato di tenere per sé solo i ventiduemila euro - che netti sono la metà - e di dare ai poveri i novemila di ex parlamentare (…) “All’origine dei suoi successi non ci sono solo le capacità” tuona Perna: “La sua strada è costellata anche di inquietanti bugie e odiosi voltafaccia. Ripercorriamoli. Quando fu premier la prima volta dichiarò: «Con questo concludo la mia carriera politica. Non pretendo di essere il protagonista di molte stagioni». Oggi, ventitre anni e cinquanta incarichi dopo, stiamo ancora parlando di lui. Poi si mise all’opera e ci scippò nottetempo i soldi dai conti correnti bancari il 10 luglio 1992. Una randellata sul rapporto di fiducia tra cittadino e stato. Più indicativa la sua storia con Craxi. Prima che Bettino diventasse segretario nel ’76, lo osteggiò da sinistra (Giuliano militò anche nel Psiup). Quando poi i craxiani vinsero, scrisse ai suoi amici Stefano Rodotà e Franco Bassanini: «Piuttosto che fare politica con questi cravattari sarebbe meglio ritirarsi a vita privata. Noi invece non ci ritireremo». Infatti, dopo un anno era già prostrato ai piedi di Bettino di cui fu per un quindicennio il caudatario, condividendone le tresche al governo e nel Psi. Quando Craxi fu soprannominato Ghino di Tacco, Amato fu detto Ghino del taschino per sottolinearne la soggezione. Il nomignolo si aggiunse a quello di Dottor Sottile che si era guadagnato per l’abilità manovriera e l’acume spaccacapello di cui era dotato. Quando poi, con Tangentopoli, voltò le spalle a Craxi con la frase «non immaginavo tanto marciume» (lui che sapeva tutto), fu detto il Cobra (…)
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: vi racconto il giorno delle monetine a Craxi, quando nacque l'antipolitica. Vent'anni fa: la folla livorosa davanti all'Hotel Raphael, l'ascolto tv impazzito, il discorso alla Camera, tra polizia e telecamere, moriva il craxismo e si chiudeva la Prima Repubblica. L’episodio delle monetine contro Craxi all'Hotel Raphael (30 aprile 1993, vent’anni ieri) viene evocato e ritrasmesso di continuo perché resta il principale simbolo di un decennio, l’iconografia del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: eppure le vere ricostruzioni storiche, al di là di raffazzonati copia/incolla giornalistici, latitano. Persino il discorso alla Camera pronunciato il giorno prima in un silenzio tombale (discorso citatissimo e poco letto) viene ancor oggi confuso con un altro del luglio precedente, e questo per la semplice ragione che Craxi, il 29 aprile 1993, lo riprese testualmente. Furono i giorni dell’assedio all'Hotel Raphael e del linciaggio come estetica rivoluzionaria, forse la nascita ufficiale dell’antipolitica. Craxi scrisse il suo discorso a Monte Mario, a casa di un’amica. Il discorso pareva funzionare, ma il calcolo dei voti pro e contro non lasciava scampo. Antichi favori andavano nella direzione di un appoggio segreto dei Radicali e della parte di Rifondazione comunista legata ad Armando Cossutta e al Manifesto, ma non bastava. Mancavano almeno 58 voti. Il 29 aprile Craxi si affacciò nell'Emiciclo vestito di blu e con una cartellina rosa sotto braccio. Dopo il suo discorso, il voto fu una scheggia: la voce del presidente della Camera Giorgio Napolitano scandì la concessione di sole due autorizzazioni a procedere su sei, fatto che viene sempre trascurato: sì alle indagini per corruzione a Roma e per finanziamento illecito a Milano, no per corruzione «in luogo non accertato» e per il reato di ricettazione. C'era una logica, non era «un’assoluzione» come si è sempre detto. Ma lo spettacolo stava per cominciare: striscioni, mazzi di volantini gettati tra i banchi, un deputato leghista che incrociò le braccia simbolizzando le manette, pugni battuti sui banchi, e grida, «Ladri di regime», «Mafiosi», il presidente della Camera che ordinò di sgomberare le tribune, e tafferugli, risse tra parlamentari. Tutti i volantini e i cartelli di protesta erano già stati preparati, dunque preventivati. Il democristiano Francesco D’Onofrio fece capire che i voti a favore di Craxi erano giocoforza venuti anche dall’opposizione, e Gianfranco Fini perse la calma: «Se dici queste cose sei un mascalzone, siete dei ladri che avete difeso altri ladri». Più tardi annuncerà una lettera al procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli in cui esprimerà «solidarietà e sincero apprezzamento», e soprattutto auspicherà che sia superato «l’inammissibile scudo dell’immunità parlamentare». In quelle ore, del resto, lo chiesero un po’ tutti. La sinistra ritirò il sostegno al governo Ciampi alle 20 e 22: il nuovo Consiglio dei ministri non si era neppure insediato. Il verde Francesco Rutelli era stato ministro dell’Ambiente per poche ore, tanto che il premier Carlo Azeglio Ciampi sarà costretto a un rimpasto prima ancora di aver ricevuto la fiducia dalle Camere. Presto il voto segreto per le autorizzazioni a procedere verrà abolito, e i lavoratori, il 1° maggio, l’unica festa vorranno farla a Craxi. Dirà Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del senato: «Noi della sinistra consentimmo che venisse cancellato l’istituto dell’autorizzazione a procedere, strumento a tutela dell’autonomia del potere politico rispetto al potere giudiziario. E si aprì la strada alla mattanza di partiti di governo. Avevamo una sponda al Quirinale, e l’ansia di raccogliere i frutti sul piano elettorale era tale che facemmo in modo che quel Parlamento venisse sciolto anticipatamente». Eppure, quel 29 aprile, Bettino Craxi ancora non sapeva che cosa l’avrebbe atteso l’indomani. Cenò all’hotel Raphael, tranquillamente, con pochi fedelissimi e con la donna che amava. Sembrava tutto normale. Più volte raccontato o più spesso mostrato, il racconto del giorno successivo riposa anche sui ricordi della giornalista che raccolse quelle immagini ormai celebri, la giornalista Rai Valeria Coiante: «Eravamo a Piazza Navona, c’era la manifestazione del Pds, facevo le mie interviste di routine. Arriva la notizia: negata autorizzazione a procedere per Craxi. Si avvicina il collega Fabrizio Falconi del Tg4: «Andiamo al Raphael, si sta radunando un sacco di gente». C’eravamo solo noi, quel giorno, io col mio operatore e lui col suo. A un certo punto il cordone dei poliziotti mi allontana dall’operatore, io comincio a dargli istruzioni col microfono, lui era in cuffia, era l’unico modo per comunicare con lui in quel casino: «Rimani sempre acceso, prendi tutto, fammi quelli coi cartelli e con le mille lire... ». La folla urlava sempre di più, un mare di persone si riversava nel vicolo stretto, la polizia infilava i caschi e parava gli scudi. Craxi esce dal portone, esplode un boato, «Eccolo eccolo» urlo nel microfono, mi abbasso e supero il cordone di polizia, corro verso la macchina di Craxi. Vengo investita da una tonnellata di metallo vario in tondini, monete, «stanno tirando di tutto! Pezzi di vetro, monete, tirano di tutto!»...La sera, in montaggio, mentre ero lì che assemblavo il pezzo e pulivo la pista audio, entra in sala Gianni Minoli (allora creatore del celeberrimo Mixer e direttore di Raidue) . «Fammi vedere», dice. «Aspetta, sto levando l’audio e sto mettendo gli effetti». «No, fammelo vedere così». Va be’, penso io, la voce la levo dopo. «Ok, è incredibile. Perfetto. Va bene così, non toccare niente». «Ma sembro ‘na pazza... fammi levare almeno dove sfondo i livelli». «Non se ne parla, va in onda così». Quel filmato fece sette milioni di telespettatori al primo passaggio». Largo Febo, cioè la piazzola davanti al Raphael, in realtà è un buco che le immagini di repertorio restituiscono ogni volta molto più grande: non è che ci stia tutta questa folla, tra auto e polizia e telecamere. Eppure, oggi, a sentir le testimonianze, erano tutti lì. C’erano quelli del Msi, della Lega, c’erano i reduci di un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, passarono di lì anche molti studenti del Liceo Mamiani che erano in corteo: nell'insieme fu più che sufficiente per far scrivere a tutti che quella era «l’Italia». Il che, tutto sommato, era drammaticamente vero.
Il sindaco Pisapia indagato: sì, no, forse? La Procura indaga sulle trascrizioni delle unioni gay. Il primo cittadino si autoaccusa. I pm negano: inchiesta contro ignoti. Ma lui insiste. A ragione, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sabato 17 gennaio 2015, durante un convegno del Pd, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia aveva pubblicamente annunciato di essere indagato dalla Procura di Milano: l'accusa? L'omissione in atti d’ufficio, per avere trascritto alcuni matrimoni gay contratti all’estero, contravvenendo alla richiesta del prefetto Francesco Paolo Tronca, che in ottobre gli aveva ordinato di cancellare tutte le trascrizioni in materia basandosi a sua volta su una circolare del ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Il problema è che ieri, lunedì 19 gennaio, il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il pubblico ministero Letizia Mannella hanno comunicato ufficialmente che non è vero: insomma, c'è sì un’inchiesta a carico di ignoti, però Pisapia non è affatto indagato. E (sotto, sotto) i due pubblici ministeri hanno anche fatto capire che l'indagine probabilmente finirà in nulla, con una richiesta di archiviazione. La Procura di Milano, a quanto pare, non ha alcun desiderio d'ipotizzare un reato per il sindaco. Ma, da buon penalista, Pisapia insiste: com'è possibile che la Procura apra un’inchiesta sulle trascrizioni dei matrimoni gay, e che il reato venga lasciato "a carico di ignoti" quando è palese che il presunto colpevole è solo lui? “Quegli ignoti, in realtà, sono noti" dichiara Pisapia, rivendicando con responsabilità e onestà intellettuale il suo diritto a essere indagato, e sottolineando correttamente come il problema non dovesse rimanere chiuso nei cassetti della procura. "Le trascrizioni le ho fatte io perché le ritenevo legittime" ha aggiunto il sindaco. "Io non so se cercassero ignoti tra soggetti che, invece, ignoti non lo erano. Era comunque giusto che mi assumessi le responsabilità di quello che ho fatto”. Parole che gli fanno onore.
Procura di Milano, alla fine per lo scontro pagherà solo Robledo. La Procura generale della Cassazione chiede al Csm di rimuovere il procuratore aggiunto: contro di lui le intercettazioni con l'avvocato della Lega Nord, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Poteva finire con un nulla di fatto, con entrambi i contendenti lasciati in qualche modo al loro posto; poteva finire con la cacciata di entrambi i contendenti, e con l'azzeramento di fatto del gruppo dirigente della Procura; e invece con un colpo di scena la faida interna al palazzo di giustizia milanese sembra avviata a risolversi con la sconfitta piena solo di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che con il suo esposto al Consiglio superiore della magistratura aveva sollevato nel marzo dello scorso anno il caso delle presunte irregolarità nella gestione da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati praticamente di tutte le inchieste più delicate. Nei confronti di Robledo, il procuratore generale della Cassazione ha fatto partire nei giorni scorsi una richiesta eccezionale: trasferimento immediato in via cautelare, di fatto l'allontanamento dall'ufficio e il trasferimento a un altro incarico. Tecnicamente, le accuse che potrebbero portare al defenestramento di Robledo non sono collegate ai temi sollevati nel suo esposto, e di cui si è molto discusso in questi mesi. La richiesta di rimozione del magistrato viene motivata dal pg con una serie di intercettazioni che arrivano dall'altro capo d'Italia, ovvero dalla indagine che la procura di Reggio Calabria sta svolgendo sui contatti tra alcuni esponenti della Lega Nord e il mondo della criminalità organizzata: è l'indagine che ha portato all'incriminazione dell'ex tesoriere del Carroccio, Belsito, accusato di avere utilizzato canali contigui alla 'ndrangheta per spostare e investire all'estero parte dei fondi del partito. Nell'ambito di quella inchiesta è stato intercettato anche l'avvocato di fiducia dei vertici leghisti, Domenico Aiello, e così la Dia ha registrato una serie di contatti telefonici tra il legale e Robledo, all'epoca titolare delle indagini sui finanziamenti pubblici al partito di Bossi. Contatti che indicano una certa confidenza tra i due, e nei quali Robledo sembra garantire a Aiello che l'inchiesta sarebbe stata condotta anche a carico di esponenti di altri partiti. Ma è evidente che le notizie provenienti da Reggio Calabria hanno finito col fare parte a pieno titolo dello scontro senza precedenti in corso alla Procura di Milano, dove Robledo accusava Bruti di avere forzato la mano per affidare tutte le inchieste con risvolti politici (dal San Raffaele a Ruby alla Serravalle a Expo) solo a pm di sua fiducia, aggirando le norme interne all'ufficio e le competenze dei diversi dipartimenti. Lo stesso consiglio giudiziario di Milano, l'organismo locale di autogoverno della magistratura, ha stigmatizzato questo comportamento di Bruti. Ma sia il procuratore capo che Robledo (accusato da Bruti di interferenze e comportamenti irregolari) erano usciti incolumi dalle azioni disciplinari avviate dal Csm. E la settimana scorsa aveva preso quota la ipotesi di una soluzione ponte, con Robledo parcheggiato in un'altra procura in attesa del pensionamento di Bruti. Invece stamane a sorpresa dal Csm arriva la notizia della richiesta di rimozione immediata di Robledo avanzat dal pg della Cassazione, Ciani. Una richiesta che verrà esaminata dal Csm in tempi brevissimi, e che se dovesse venire accolta segnerebbe una vittoria per ko di Bruti e del suo schieramento nello scontro con Robledo.
Milano, altri guai per il pm Alfredo Robledo: "Ha favorito l'avvocato della Lega Nord". Il pg della Cassazione contro l'aggiunto di Milano, già al centro di uno scontro con il procuratore capo Bruti Liberati. Il motivo sono le intercettazioni di un'inchiesta antimafia rivelate da l'Espresso. Secondo l'accusa il legale girava a Roberto Maroni e Matteo Salvini le notizie ottenute dal magistrato che indagava su Belsito, scrive Paolo Biondani “L’Espresso”. Alfredo Robledo Il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, rischia il posto per i suoi rapporti telefonici con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello. Un caso giudiziario nato da una serie di intercettazioni della procura antimafia di Reggio Calabria e rivelato per la prima volta il 25 ottobre scorso da un articolo de “l'Espresso” . Robledo è il magistrato che da mesi è protagonista di uno scontro senza precedenti con il suo procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati. Oggi il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare, ha depositato al Csm una richiesta di trasferimento d'ufficio a carico di Robledo, chiedendo che venga decisa d'urgenza, come misura cautelare. Secondo l'accusa, Robledo dovrebbe non solo cambiare città, ma addirittura perdere le funzioni di pubblico ministero. Il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha già fissato un'apposita udienza della sezione disciplinare, che è chiamata a pronunciarsi il 5 febbraio. Il trasferimento forzato di Robledo consacrerebbe la vittoria di Bruti Liberati nella scontro con il suo aggiunto, che è già stato rimosso dall'incarico di coordinatore delle indagini milanesi sui reati collegati alla corruzione. Il Csm e lo stesso pg della Cassazione, però, devono ancora pronunciarsi sugli altri capitoli ancora aperti della disfida tra toghe che ha spaccato la procura di Milano. A Robledo vengono contestati i rapporti amichevoli con Domenico Aiello, il penalista di fiducia di Roberto Maroni, diventato l'avvocato della Lega dopo lo scandalo dei finanziamenti pubblici sottratti dall'ex tesoriere Belsito, che ha coinvolto anche Umberto Bossi favorendo il cambio della guardia al vertice del partito. Quell'inchiesta era diretta proprio da Robledo. Tra il 2012 e il 2013, mentre era ancora in corso l'indagine milanese sui soldi della Lega, la procura reggina ha intercettato l'avvocato Aiello per tutt'altri motivi: il professionista, che è di origine calabrese, risultava in contatto con imprenditori sospettati di collusioni con la 'ndrangheta. Quella procura antimafia ha così intercettato anche Robledo, ma solo indirettamente, perché era in contatto con l'avvocato Aiello. Anche i parlamentari leghisti sono stati intercettati solo indirettamente: sotto controllo c'era solo il telefonino Aiello. Nella primavera del 2013 la procura di Reggio Calabria ha trasmesso un faldone di intercettazioni ai pm di Brescia, competenti a indagare sui magistrati di Milano, ipotizzando che Robledo avesse rivelato all'avvocato della Lega notizie riservate sulle proprie indagini. Dopo un anno di accertamenti, i pm bresciani Fabio Salamone e Paolo Savio hanno chiesto l'archiviazione di tutte le accuse a carico di Robledo. Secondo i due magistrati competenti, quelle comunicazioni tra Robledo e Aiello non hanno rilevanza penale: non ci sono i presupposti per accusare il pm milanese, in particolare, di ipotetiche violazioni del segreto istruttorio. Nelle motivazioni della loro richiesta, gli stessi pm bresciani precisano però che l'archiviazione riguarda solo la vicenda penale, «al di là di ogni valutazione sull'opportunità di frequenti contatti» tra magistrato e avvocato «per ragioni non sempre strettamente correlate con le rispettive qualità». Ora il pg della Cassazione, che invece rappresenta l'accusa nei procedimenti disciplinari e può occuparsi anche di vicende personali che non costituiscono reato, ha riletto gli stessi atti dell'indagine bresciana ipotizzando, come precisa l'agenzia Ansa, uno «scambio di favori»: un comportamento penalmente irrilevante, ma considerato inopportuno per un magistrato. Sotto accusa, in particolare, ci sono alcuni sms inviati da Robledo ad Aiello, e da quest'ultimo a parlamentari della Lega come Maroni, Salvini e Speroni, mentre era ancora in corso l'inchiesta milanese sul caso Belsito. Il 28 dicembre 2012, ad esempio, Aiello manda a Maroni un sms che allude a una riunione dei pm milanesi: «Finita riunione in Procura con capo e agg. Domani sera mi daranno altri nominativi ns consiglieri indagati. Hanno intercettazioni gravi contro Pdl, mentre su di noi pare ci sia una impiegata gola profonda». Nello stesso periodo l'avvocato Aiello telefona anche all'attuale leader leghista Matteo Salvini, sostenendo che Robledo gli avrebbe promesso di spedire, prima delle elezioni del 2013, «gli stessi avvisi a Pd, Idv e Pensionati. (…) Mi ha detto: “Domenico, te lo garantisco, ci puoi spendere la tua credibilità”». Quando l'inchiesta milanese sui rimborsi-truffa coinvolge effettivamente anche gli altri partiti, l'avvocato della Lega scrive un sms di ringraziamento al pm milanese: «Uomo di parola! Poi grande magistrato!». E Robledo gli risponde con una citazione in latino che sembra confermare una promessa: «Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio!». Esaminate tutte le intercettazioni, i magistrati bresciani hanno concluso che va giudicato «assolutamente comprensibile» che l'avvocato della Lega si preoccupi di informarsi sulla posizione degli indagati della proprio parte politica. Quanto alle notizie sugli altri partiti, Robledo si sarebbe limitato a fornirgli una «generica informazione che l'indagine avrebbe riguardato in tempi brevi anche l'opposizione», senza però rivelargli segreti investigativi. Ora però il pg della Cassazione rilancia l'accusa, sostenendo che Robledo, il 18 dicembre 2012, avrebbe anticipato ad Aiello almeno una notizia molto precisa, e cioè che la sua inchiesta stava per coinvolgere altri 7-8 consiglieri regionali. Cosa effettivamente successa il giorno dopo. Sotto accusa, sempre sul piano disciplinare, c'è anche una serie di telefonate in cui Robledo avrebbe suggerito ad Aiello di chiedere copia di una consulenza tecnica a carico della Lega, che era stata anticipata nel febbraio 2013 da “l'Espresso”. Quando poi Aiello si vide negare quei documenti integrali, Robledo, sempre secondo il pg della Cassazione, avrebbe scaricato la colpa sul procuratore capo, Bruti Liberati. Da altre telefonate, sempre secondo la ricostruzione dei pm bresciani, risulta «evidente che Robledo si sia avvalso dell'aiuto del legale per intervenire nella procedura dinanzi la Commissione europea» che lo vedeva contrapposto all'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, mentre quest'ultimo si era candidato alle regionali in Lombardia contro Maroni. Nei mesi precedenti, Albertini aveva accusato il pm milanese di aver condotto indagini illegali sui derivati finanziari acquistati dal Comune di Milano. Contro-denunciato da Robledo, l'ex sindaco, che rivestiva la carica di europarlamentare di Forza Italia, aveva chiesto l'immunità politica, che però gli è stata negata. Di questo caso si era occupata la stessa procura di Brescia, che alla fine ha chiesto di processare proprio Albertini per calunnia ai danni di Robledo. In quel contesto, nelle sue conversazioni con l'avvocato Aiello, Robledo chiedeva «solo che la mia lettera vada alla Commissione, che prenda atto che questo ha detto balle totali». Ora però il pg della Cassazione sostiene che Robledo, per poter preparare la sua lettera, avrebbe ricevuto dall'avvocato Aiello una serie di documenti, presentati da Albertini al Parlamento europeo per ottenere l'immunità, che andrebbero considerati «non pubblici». Aiello glieli avrebbe fatti arrivare per email. Nell'indagine bresciana erano finite anche alcune intercettazioni, registrate sempre dai pm antimafia calabresi, delle telefonate tra Aiello e il pm milanese Eugenio Fusco, titolare di un'inchiesta sul gruppo Finmeccanica che sembrava poter coinvolgere anche la Lega. Ma i magistrati bresciani hanno concluso che queste conversazioni, oltre a essere penalmente irrilevanti, «rientrano nella prassi comune dei contatti tra pm e difensori». Sull'archiviazione dell'inchiesta penale su Robledo, l'ultima parola spetterà ai giudici bresciani. Ma ora il procuratore aggiunto rischia di essere allontanato da Milano con un trasferimento disciplinare che potrebbe segnare la fine della lunga stagione dei veleni in procura.
Quel filo segreto tra la Lega e Robledo. Il pm di Milano intercettato al telefono con l’avvocato di Maroni. L’antimafia lo denuncia. E l’indagine finisce a Brescia, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Da una parte c’è il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, che in quei giorni sta indagando sui presunti ladroni del cerchio magico di Umberto Bossi. All’altro capo del telefono c’è l’avvocato Domenico Aiello, che dopo aver difeso Roberto Maroni sta diventando, proprio per effetto di quel terremoto giudiziario, il penalista di fiducia dell’intero partito padano. E in mezzo, ad ascoltare tutto, ci sono i carabinieri di una procura antimafia del Sud Italia. Che non si aspettavano certo di dover registrare dei colloqui riservati tra il pm anti-Lega e l’avvocato della Lega. Su questo strano cortocircuito tra giustizia e politica sta indagando da circa un anno la Procura di Brescia. Un’inchiesta riservatissima, che per il pm Robledo era iniziata molto male. L’alto magistrato, almeno fino a pochi giorni fa, risultava ancora indagato, a quanto pare per un’ipotetica violazione del segreto istruttorio. Ma in questi mesi i pubblici ministeri bresciani hanno ormai approfondito il caso, che sembra essersi ridimensionato. E ora a Brescia, dove nel frattempo il nuovo procuratore Tommaso Buonanno ha scalzato lo storico pm Fabio Salamone, i magistrati sarebbero orientati a chiedere l’archiviazione. Il verdetto finale comunque spetterà ai giudici delle indagini e fino ad allora Robledo resterà, suo malgrado, formalmente inquisito. Proprio come il suo grande nemico, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, a sua volta sospettato di omissione di atti d’ufficio, per un’inchiesta sulla Sea dimenticata in cassaforte e rivendicata da Robledo dopo un articolo de “l’Espresso”. La nuova indagine bresciana non c’entra nulla con il feroce scontro tra Robledo e Bruti: è invece uno spezzone di un’istruttoria altrui, molto più ampia e ancora segreta. Si sa soltanto che una procura antimafia, per ricostruire le trame di un colletto bianco, ha intercettato (come sempre) tutti i suoi interlocutori, imbattendosi per caso in Aiello. E così, tra il 2012 e il 2013, per qualche tempo finisce sotto controllo pure il telefonino dell’avvocato. Che, a sorpresa, si sente più volte con Robledo. I carabinieri annotano. E nella primavera 2013 la loro procura manda a Brescia due denunce di reato. Il tenore delle intercettazioni ha convinto quella procura antimafia che il pm Robledo e l’avvocato Aiello stiano orchestrando manovre per colpire l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Che è un rivale politico: proprio in quei mesi si è candidato contro Maroni in Lombardia. Altre telefonate fanno temere che il magistrato possa avere anticipato all’avvocato qualche notizia riservata della sua inchiesta sui presunti rimborsi-truffa incassati da altri partiti. Di qui la trasmissione al Nord delle intercettazioni. A Brescia però, per fortuna di Robledo, i pm sono in grado di ricostruire un quadro più completo. Albertini, infatti, è già indagato (e oggi rischia il processo) con l’accusa di calunnia proprio ai danni del magistrato milanese: era lui che tentava di screditarlo. Denunciato da Robledo, l’ex sindaco cercava di avere l’immunità dal parlamento europeo, che poi lo ha bocciato. In quelle telefonate Robledo non nasconde l’antipatia per Albertini, ma cerca solo di d’informarsi se la Lega a Bruxelles voterà a suo favore. Mentre per i rimborsi, all’avvocato che gli contesta di perseguitare solo la Lega, il pm ribatte che indagherà su tutti i partiti, come poi succederà, ma senza fornirgli particolari segreti. In attesa che i giudici bresciani tirino le somme, certo è che il pm e l’avvocato non parlavano di altre indagini che avrebbero potuto interessare entrambi. Nel 2010, quando è diventato il difensore di Maroni, Aiello guidava il ramo penale dello studio internazionale “Dla Piper”, dove a gestire il settore degli appalti era l’avvocata Giorgia Romitelli. Che nel marzo 2014, su richiesta di Robledo, è finita agli arresti domiciliari nell’inchiesta che ha decapitato Infrastrutture Lombarde, la centrale regionale delle grandi opere.
Quei vertici in Procura svelati da Robledo ad Aiello, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 novembre 2016 su "Il Dubbio". «Domani purtroppo indagano altri sette-otto dei nostri». Così l'avvocato della Lega avvertiva il partito di Bossi sull'evoluzione delle indagini dopo averne parlato con il magistrato. È stata depositata la settimana scorsa la sentenza, relatore il togato Luca Palamara, relativa al procedimento disciplinare nei confronti dell'ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo. La sezione disciplinare del Consiglio superiore ha disposto per il magistrato la sanzione della perdita di anzianità di sei mesi e il trasferimento alla Procura di Torno con funzioni di aggiunto. Quattro erano le incolpazioni. La prima: di aver, "venendo meno ai dovere di imparzialità e riserbo, conversando con l'avvocato della Lega Nord Domenico Aiello, rivelato atti di un procedimento penale a carico di esponenti politici regionali". La seconda: di aver utilizzato "la propria qualità di magistrato per conseguire vantaggi ingiusti chiedendo all'avvocato Aiello atti riservati relativi allo status giuridico di Gabriele Albertini (all'epoca europarlamentare, nda), indagato in un procedimento penale dove (Robledo, nda) era persona offesa". La terza: "Di aver arrecato - venendo meno ai suoi doveri di imparzialità e correttezza - un indebito vantaggio all'avvocato Aiello", il quale domandava informazioni su una consulenza tecnica relativa all'indagine per i rimborsi ai consiglieri regionali. Ed infine, "di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di altri colleghi d'ufficio (i sostituti Pellicano e Filippini, contitolari del procedimento e del procuratore Bruti Liberati)". Va subito chiarito che per le ultime due incolpazioni Robledo è stato assolto in quanto, rispettivamente, non risulta "il necessario elemento della fattispecie illecita costituita dell'indebito vantaggio che avrebbe dovuto conseguire il difensore" e, nell'ultima, perché il comportamento non ha leso "le prerogative assegnate dal codice al singolo pubblico ministero". La vicenda, come si ricorderà, nasce da un procedimento penale della Dda di Reggio Calabria riguardante alcuni appartenenti alla 'ndrangheta. Nell'ambito del procedimento, dove era intercettato l'avvocato Aiello, emergevano una serie di ripetuti contatti fra questi e Robledo. In particolare, la rivelazione di atti del procedimento penale per i rimborsi ai consiglieri regionali lombardi. Gli atti erano trasmessi, quindi, dalla Procura di Reggio Calabria a quella di Brescia (competente per i reati commessi dai magistrati milanesi) la quale iscriveva Robledo per il reato di rivelazioni di segreto d'ufficio. Il Gip di Brescia individuava con certezza in Robledo "il propalotore" delle notizie riservate. Disponendone però l'archiviazione, "perché le prove maturate nell'ambito del procedimento della Dda erano inutilizzabili in ragione del diverso titolo di reato per il quale era stato promosso il procedimento nell'ambito del quale erano state acquisite". Sotto il profilo disciplinare, però, l'esame delle comunicazioni fra Aiello e Robledo, scrive il Csm, "consente di ravvisare non solo un rapporto di complice confidenza, ma anche il senso di una utilità corrispettiva da entrambi ricercata, concretizzatasi nello scambio di informazioni". È pacifico che "l'avvocato Aiello, difensore dei consiglieri regionali della Lega Nord, era a conoscenza degli esiti delle riunioni riservate fra i magistrati della Procura, degli elementi indiziari nei confronti degli indagati, del fatto che altri consiglieri regionali sarebbero stati indagati". Ciò emerge dagli sms inviati fra il dicembre 2012 e il gennaio 2013 da Aiello ai vertici della Lega. Ad esempio al presidente della Regione Roberto Maroni, "finito ora riunione in Procura con capo e agg. Domani mi danno altri nominativi ns. consiglieri indagati. Hanno intercettazioni gravi contro Pdl". Oppure a Stefano Galli, capogruppo Lega Nord: "Domani purtroppo altri sette-otto dei nostri". Ed anche a Matteo Salvini, "domani sera so i nomi in via riservata. Su Pdl c'è la prova provata che c'è una associazione finalizzata al finanziamento dei singoli consiglieri... siccome è una persona che ha un rapporto con me stretto e di fiducia mi ha detto: Domenico te lo garantisco, su questo ci puoi spendere la tua credibilità". Il tenore degli sms e i colloqui tra Aiello e i vertici della Lega dimostrano che aveva "disponibilità di una fonte informativa privilegiata all'interno della Procura milanese in grado di fornirgli informazioni riservate, sviluppi di indagini non ancora a conoscenza degli indagati, atti pacificamente coperti dal segreto". Per quanto riguarda la vicenda Albertini, Robledo vuole conoscere "in che termini ha chiesto la procedura di immunità". Aiello si interessa presso il Parlamento europeo. In particolar modo presso l'Europarlamentare della Lega Nord Speroni. Non solo per richiedere documenti che "non avrebbe potuto agevolmente conseguire" ma anche per il "perseguimento di un interesse personale consistente nell'intenzione di ostacolare l'accoglimento dell'istanza di immunità avanzata da Albertini in relazione ad un procedimento penale che vedeva il magistrato assumere la veste di parte offesa". Robledo, nella sue memorie difensive, scrive "di avere intrattenuto con l'avvocato Aiello normali rapporti di ufficio con qualche telefonata". Ma solo dal 29 gennaio 2013 al 21 febbraio successivo, i due entrano in contatto ben undici volte. "Il quadro descritto è indicativo della violazione dei fondamentali doveri del magistrato, tra i quali l'imparzialità, la correttezza, il riserbo e l'equilibrio, che impongono al pubblico ministero di non intrattenere rapporti non trasparenti con i difensori, tanto meno avvalendosi di canali privilegiati".
Robledo, Albertini e Davigo. Secondo voi l'arroganza dov'è? Scrive Piero Sansonetti il 17 novembre 2016 su "Il Dubbio". Storia di un giudice (diciamo così: "chiacchierato... ") che vuole togliere il diritto di parola a un parlamentare. E dei molti tifosi che mantiene tra colleghi, politici e giornalisti. I magistrati hanno varie possibilità per arrotondare lo stipendio. Per esempio possono scrivere dei libri, specie se sono magistrati famosi (perché vendono bene). Oppure hanno la possibilità di querelare o fare causa civile ai politici o ai giornalisti che criticano le loro sentenze o che criticano alcuni loro comportamenti. Al primo gruppo appartengono sia Piercamillo Davigo, presidente dell'Anm (Associazione nazionale magistrati) sia Nicola Gratteri (Procuratore di Catanzaro). Al secondo gruppo appartiene Alfredo Robledo, che oggi fa il Pm a Torino (ma sicuramente anche molti altri suoi colleghi). D'istinto a noi stanno più simpatici quelli che scrivono libri (anche se non si direbbe, a giudicare dal numero di articoli polemici nei confronti di Davigo e Gratteri pubblicati su questo giornale nei suoi primi sei mesi di vita...) Voi direte: ma cosa c'entrano i libri di Davigo con le querele di Robledo? Qualcosa c'entrano, ora provo a spiegarlo. Partiamo dalla vicenda Robledo. Tra il 2011 e il 2012 era procuratore aggiunto a Milano. Svolgeva varie indagini. All'epoca Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, era parlamentare europeo (oggi è senatore della Repubblica italiana). Albertini si lamentò, in alcune interviste, del modo nel quale Robledo indagava sul Comune di Milano e sulla Provincia di Milano. Secondo Albertini, Robledo mostrava accanimento quando indagava sul Comune e invece mostrava molta indulgenza quando indagava sulla Provincia. Aveva ragione Albertini? Ai fini del nostro ragionamento che avesse ragione o torto cambia poco. Noi qui non vogliamo giudicare né Albertini né Robledo, ma elencare dei fatti e poi trarre delle conclusioni. Dunque succede che Alfredo Robledo denuncia Albertini sia in sede penale che in sede civile. Albertini, che nel frattempo - come dicevamo - è diventato senatore, non chiede di utilizzare la norma che prevede l'insindacabilità delle opinioni dei parlamentari (articolo 68 della Costituzione) per il processo civile. E - come accade quasi sempre quando chi pretende il risarcimento è un magistrato - Robledo vince e ottiene un risarcimento di 35 mila euro (probabilmente superiore a quanto Davigo guadagnerà col suo ultimo libro, che però gli è costato molte giornate di lavoro...). Quando si arriva al processo penale - che è in corso - Albertini invece chiede di ricorrere all'articolo 68 della Costituzione. La giunta per le autorizzazioni gli dà ragione, ma ora serve il voto in aula, al Senato, e per ora il voto è stato rinviato a data da destinarsi. Intanto il processo va avanti, e probabilmente si concluderà in gennaio (l'accusa è pesante: calunnia aggravata, un reato che prevede fino a 10 anni di carcere). Contro il riconoscimento dell'articolo 68 della Costituzione a favore di Albertini si è levata una protesta piuttosto ampia, che raduna magistrati, opinionisti, settori politici dello stesso Parlamento, e che naturalmente ha, alla sua guida, il quotidiano "Il Fatto". Lo stesso Robledo, recentemente, ha inviato un Sms a centinaia di opinion leader e magistrati per chiedere che si schierino compatti a sua difesa e contro Albertini. Qual è l'argomento per non concedere ad Albertini l'Insindacabilità? Il fatto che al momento del presunto reato non era senatore ma parlamentare europeo. Ma anche come parlamentare europeo aveva diritto all'insindacabilità. Dunque non esiste nessuna ragione plausibile per negare ad Albertini la tutela dell'articolo 68 della Costituzione (Costituzione che a molti piace solo a giorni alterni...). Casomai bisognerebbe capire perché Albertini è stato condannato in sede civile. E quindi bisognerebbe capire se un esponente politico, o un giornalista, o un comune cittadino, ha diritto di criticare il potere politico, il potere economico, la burocrazia, la Chiesa, la scuola e magari anche le divinità delle varie religioni, ma non ha invece il diritto di criticare la magistratura, perché in questo caso scatta la lesa maestà. C'è qualcuno che è in grado di sostenere con qualche argomento che questa situazione sia ragionevole? E che sia ragionevole che di fronte all'onorabilità di un magistrato anche la Costituzione diventi una pezza da piedi? Attualmente è così. Ma chi è questo Robledo? È un magistrato che recentemente ha subito un giudizio non dal senatore Albertini ma dalla sezione disciplinare del Csm. Ne trascriviamo appena qualche brevissimo stralcio: è «provato un rapporto di contiguità tra il dott. Robledo e l'avvocato Aiello», che difendeva gli interessi della Lega Nord, «improntato allo scambio di favori». Così come è «inequivoca» la «propalazione» da parte di Robledo al legale della Lega Nord «di atti coperti dal segreto» dell'inchiesta sui rimborsi ai consiglieri della Lombardia. Sulla base di questo giudizio (contro il quale Robledo ha fatto ricorso) è stato deciso il trasferimento di Robledo prima alla magistratura giudicante di Torino (cioè il dott Robledo è stato mandato a emettere sentenze a un centinaio di chilometri di distanza da una città dove si era stabilito che ci fosse, per lui, "incompatibilità ambientale") e poi gli è stato conferito (come punizione) l'incarico di Procuratore aggiunto nella stessa città. E adesso entra in ballo il dottor Davigo. Il quale in questo famoso libro che ha scritto, e del quale ieri "Il Fatto" ha pubblicato un'anticipazione, sostiene che il problema dei politici è che, per eliminare chi ruba o si comporta male, aspettano la sentenza della magistratura, mentre, al primo sospetto, dovrebbero cacciar via, e in questo modo eviterebbero che i processi della magistratura assumano un valore politico. Ragionamento che non ha molto a che fare con lo Stato di diritto o col garantismo, ma che, per un momento, per assurdo, vorremmo prendere per buono. Ma se un assessore sospettato di favorire chissacchì deve essere cacciato via al primo sospetto (e poi magari è innocente) cosa si deve fare con un giudice che è sospettato (anzi, condannato dal Csm) per avere avuto uno scambio di favori con gli imputati? In fondo l'assessore non ha molti poteri, non può fare grandi danni, mentre il magistrato mandato a giudicare o a indagare in un'altra città ha il potere di spedire la gente in galera, e noi non sapremo mai se lo ha fatto perché è giusto così o perché, magari, gli conveniva. Non vi pare? Così, tanto per sapere: cosa pensa Davigo del caso Robledo-Abertini?
Robledo chiede alla Finanza di aiutarlo a incastrare Bruti. Caos a Milano, l'aggiunto scrive al Csm e controaccusa il suo capo: "Su Expo dice il falso, ho le prove". E allega una relazione della GdF, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Alfredo Robledo non ci sta. Reagisce con durezza alle controaccuse del procuratore di Milano, Bruti Liberati, e scrive una nota al Csm, accusandolo di aver detto il «falso» e chiedendo di essere ascoltato per replicare. «Sono radicalmente inventate e prive di qualunque fondamento - tuona - le affermazioni su Expo». E da Magistratura indipendente arriva l'appello al Guardasigilli Andrea Orlando: si mandino gli ispettori alla Procura di Milano. Raccontano che l'aggiunto abbia dato in escandescenze martedì, quando ha saputo che nella lettera mandata al Csm il suo capo denunciasse l'episodio, definito «surreale», del doppio pedinamento di un indagato, che l'aggiunto avrebbe disposto rischiando di far saltare le indagini sull'Expo 2015. No, Robledo non ci sta e ha richiesto urgentemente alla Guardia di finanza una dettagliata relazione, allegata alla nota di due pagine inviata al Csm, per confutare la ricostruzione del suo capo. Una ricostruzione che tenta di presentare lui, il grande accusatore di irregolarità e violazioni nel Palazzo di giustizia milanese, come il colpevole di iniziative che hanno portato «grave intralcio» ad importanti inchieste. Ma Robledo fa una smentita a tutto campo. E con toni durissimi: «Le inveritiere affermazioni del procuratore» di Milano Edmondo Bruti Liberati - scrive - sul presunto "doppio pedinamento" (nelle indagini su Expo, ndr) appaiono altamente lesive della dignità della funzione di procuratore aggiunto, coordinatore del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione che attualmente svolgo, e turba «il regolare svolgimento della funzione». Uno scontro senza precedenti. Nella sua lettera al Csm, resa nota martedì, Bruti contesta il fatto che l'aggiunto (il quale polemicamente non ha firmato le 7 richieste d'arresto per l'inchiesta Expo, sostenendo che gli sarebbe stato impedito di valutare compiutamente i fatti, «in violazione della normativa») non sia stato tenuto al corrente delle indagini. Nate, secondo il capo, nella Direzione antimafia guidata da Ilda Boccassini e coassegnate al Dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, di cui Robledo è responsabile. Come esempio dei danni che l'aggiunto avrebbe causato, mettendosi di traverso alla sua gestione della procura, il capo parla della vicenda del doppio pedinamento. Contro il suo aggiunto ribelle Bruti denuncia molto altro, sostenendo di non aver potuto dire tutto nell'audizione a Roma del 15 aprile, perché allora l'indagine sull'Expo era ancora coperta dal segreto. Il procuratore sostiene infatti che, inviando il mese scorso al Csm copie di atti di questo procedimento, ancora «in delicatissima fase di indagine», Robledo «ha posto a grave rischio il segreto delle indagini». Ma l'aggiunto controbatte, su tutta la linea. Palazzo de' Marescialli deve ora valutare la fondatezza delle accuse di Robledo e delle controaccuse di Bruti Liberati. Per il primo, il procuratore avrebbe affidato troppe inchieste politicamente delicate (a cominciare da quella Ruby) a pm come la Boccassini e Francesco Greco, non per competenza ma perché li riteneva più fidati. Da notare, che Bruti Liberati è uno degli storici esponenti della corrente di sinistra Magistratura democratica, mentre Robledo è vicino a Magistratura indipendente. E proprio da Magistratura indipendente è arrivata la richiesta di un'ispezione. A farla il togato Antonello Racanelli, nel corso del plenum del Csm alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando. Il ministro ha replicato dicendo di attendere le decisioni del Csm per decidere. «Il quadro ormai è chiaro - racconta un consigliere di una delle commissioni interessate, la prima (incompatibilità ambientale e funzionale) e la settima (organizzazione degli uffici) - non ci dovrebbero essere altre audizioni». Il procuratore capo Bruti, che a luglio termina il suo incarico, dopo questo scontro clamoroso difficilmente potrà essere confermato alla guida dell'ufficio di Milano. Ma per lui, anche se la vicenda al Csm si chiude senza conseguenze, potrebbe profilarsi un'indagine disciplinare. In particolare, sulla vicenda del fascicolo Sea-Gamberale, dimenticato dal procuratore in cassaforte, come lui stesso ha ammesso. Ma anche per il suo vice Robledo potrebbero esserci conseguenze, perché anche se il suo comportamento fosse ritenuto «incolpevole», ci potrebbe essere all'orizzonte un trasferimento per incompatibilità con i colleghi dell'ufficio.
Ed ancora. «Incompatibilità ambientale» Via da Milano il pm Esposito, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Stop come pm e via dalla Procura di Milano: la sezione disciplinare del Csm ha deciso in via cautelare il trasferimento a Torino di F. Esposito per «incompatibilità ambientale» (con la sede giudiziaria di Milano) e «funzionale» (con il ruolo inquirente) del pm della Procura di Milano, nipote dell?ex procuratore generale della Cassazione (Vitaliano) e figlio del magistrato (Antonio) che in Cassazione nell?estate 2013 presiedette il collegio di 5 giudici che condannarono Silvio Berlusconi per frode fiscale Mediaset. Tra i capi di «incolpazione» disciplinare (per cui ora proseguirà il procedimento di merito) c?erano la disponibilità per quasi 4 anni di un attico per il quale circa 150.000 euro di affitto furono saldati dalla società di un manager e da un banchiere all?epoca inquisito dalla Procura di Milano; i rapporti con l?avvocato ed ex amico Michele Morenghi, per i quali il pm è al momento indagato a Brescia; prestiti di denaro da più persone, tra le quali un consulente proposto a un collega pm; e la storia del bigliettino dato durante le indagini a questo collega pm per chiedergli «inventiamoci qualcosa?è una cazzata ma è importante che le versioni coincidano». Esposito impugnerà il trasferimento cautelare disciplinare alle Sezioni Unite civili della Cassazione.
CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.
Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.
Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?
SONO PROCURE O NIDI DI VIPERE?
Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. È successo proprio ieri al sindaco di Salerno, De Luca, che ora rischia di essere tagliato fuori dalle primarie del Pd per la candidatura a governatore della Campania. Un magistrato indagato per abuso d’ufficio passa sotto silenzio. Eppure i danni che può provocare l’abuso di un magistrato, dato l’enorme potere che esercita sulle singole persone, sulle loro vite, sono molto maggiori di quelli che può provocare un sindaco. Se per caso succedesse che un uomo politico fosse accusato di avere usato violenza su un testimone per costringerlo ad accusare ingiustamente un suo nemico, verrebbe giù il mondo. Giusto che sia così. Ci sono diversi magistrati, anche prestigiosissimi, che sono stati accusati di aver costretto i testimoni a mentire, ma la cosa non scuote nessuna coscienza. Eppure nessuno si aspetta equanimità da un politico, mentre da un magistrato magari potrebbe anche pretenderla… Usciamo dalle affermazioni generiche, andiamo al concreto. Tre casi in un giorno solo. A Milano, clamorosamente, si scopre che il testimone-chiave contro Filippo Penati (ex presidente della Provincia ed ex dirigente di primissimo piano del Pd ai tempi di Bersani) aveva mentito, e aveva mentito – dice lui stesso – perché indotto alla menzogna dalla Procura con il ricatto del carcere. In poche parole, era stato costretto ad accusare ingiustamente Penati. In un paese civile una cosa del genere sarebbe uno scandalo devastante, raderebbe al suolo il prestigio dell’intera magistratura e farebbe saltare molte teste. Da noi no. Alzata di spalle. Contemporaneamente, sempre dalle parti di Milano, si riaccende lo scontro di potere del quale fin qui ha fatto le spese il dottor Robledo, inviso al potente Procuratore Bruti Liberati (anche perché spesso critico verso Bruti in modo un po’ troppo circostanziato). E lo stesso Robledo ora rischia un procedimento disciplinare per una vicenda che nasce da una discutibilissima intercettazione telefonica. Robledo avrebbe scambiato alcuni messaggi con un avvocato. Niente di rilevante penalmente, ha detto la stessa magistratura, ma ora deciderà il Csm se meritevole di una sanzione. Ci sono varie domande inquietanti a questo proposito. Una è questa: perché qualcuno intercettava il telefono del dottor Robledo, indagato di nulla, e di un avvocato (non andrebbero mai intercettati i telefoni degli avvocati, che devono difendere il segreto professionale)? Era legittima l’intercettazione o abusiva? Quante volte le intercettazioni telefoniche sono abusive? Sarà il caso di limitare le intercettazioni riportandole a livelli europei? (Ho detto, una domanda ma me ne sono venute di più…). Poi c’è un terzo episodio. La Procura di Catanzaro ha rinviato a Roma la decisione se incriminare o meno un Pm molto noto in Calabria, la dottoressa Ronchi, ex braccio destro di Pignatone, per abuso di ufficio, falso ideologico e altra robina così. La dottoressa è sospettata di aver cercato di incastrare, ingiustamente, un suo collega molto prestigioso, Alberto Cisterna, che all’epoca era il numero due dell’antimafia nazionale e che era candidato a diventare Procuratore a Reggio. Sembra che una parte della magistratura reggina non gradisse Cisterna, e c’è il sospetto che per eliminarlo dalla corsa si sia inventata accuse varie, anche forzando le deposizioni dei pentiti. Ma dove siamo? In Italia o nell’America Latina degli anni Settanta? Tre casi così clamorosi in una sola giornata non sono casuali. È chiaro che c’è un pezzo grandissimo di magistratura (così come c’è un pezzo grandissimo di politica) serissimo, incorruttibile, impegnato nel suo lavoro e nella difesa del diritto. Poi però è chiaro anche che c’è un altro pezzo, interessato solo alle lotte di potere, dentro la magistratura e tra magistratura e politica, e che nello svolgimento di queste lotte usa i mezzi peggiori, abusa, esercita violenza. Filippo Penati ha avuto la sua carriera politica annientata. Ora vagli a spiegare che il testimone lo accusava perché sennò qualche pm lo teneva in prigione! La Procura di Milano è quella che ha modificato profondamente la struttura della lotta politica in Italia, eliminando dalla scena uno dei suoi personaggi più importanti, e cioè Berlusconi, e riducendo quello che era il primo partito politico in Italia alla terza o alla quarta posizione. È legittimo pensare che in altre occasioni abbia usato mezzi illegali come quelli usati contro Penati? Noi chiediamo solo questo: è il caso di permettere che le cose continuino così? Possibile che la politica non trovi al suo interno le forze che hanno il coraggio di reagire? Se l’architetto Sarno confermerà di avere accusato Penati perché sennò i magistrati non lo facevano uscire di cella, chiunque sarà autorizzato a dire che in Italia esiste una forma legalizzata di tortura, e sarà acclarato che il carcere preventivo non è una misura cautelare ma uno strumento (medievale) di indagine. Vogliamo continuare a dire che non è questo il problema principale, e occupiamoci prima dell’Italicum, e del Senato e roba così? Facciamoci pure del male, come diceva Moretti, sapendo che stiamo andando verso la costruzione di uno Stato di non- diritto. Illegale e corrotto, fondato sulla sopraffazione.
Costa: Il Cav è assolto? Colpa del giudice…, scrive “Il Secolo D’Italia”. «Il Corriere della sera dell’11 luglio riporta la notizia che due missive, vergate dal procuratore generale di Milano, Manlio Minale, sarebbero state indirizzate al presidente della Corte d’Appello, Giovanni Canzio, segnalando ingiustificati ritardi nella gestione delle fasi del processo Mills/Berlusconi», conclusosi, come sappiamo, con la prescrizione. Inizia così l’interrogazione al ministro della Giustizia, Paola Severino, depositata ieri dal Pdl, a firma, tra gli altri, del capogruppo in commissione Giustizia, Enrico Costa. Il procuratore, detto in termini spicci, avrebbe contestato al presidente della Corte d’Appello, Giovanni Canzio, di aver “perso tempo” prezioso, risultato determinante ai fini dell’istanza di prescrizione. Quindi, ben due “bacchettate” sarebbero partite per “punizione”…
Onorevole Costa, siamo di nuovo al tiro al bersaglio contro Berlusconi? Siamo addirittura alla “censura” dell’operato di un giudice?
«Spero anzitutto che non sia vero quanto letto sul “Corriere della Sera”. Noi, semplicemente, chiediamo al ministro Severino di accertare se sia vero o no quel che abbiamo letto mercoledì. Poi trarremo le conclusioni politiche».
Se fosse vero?
«Saremmo in presenza di una situazione atipica, a dir poco singolare».
Per usare un eufemismo…
«Beh, certo, un procuratore che, a fronte di una sentenza, non la impugna, ma preferisce prendere carta e penna e far partire due lettere dal sapore vagamente di pressione, come lo vogliamo definire?»
Me lo dica lei. Noi in gergo professionale le definiamo “lettere di richiamo”: può andare come definizione?
«Direi “doglianze” nei confronti del Tribunale di Milano che avrebbe perso tempo. Si parla di «ingiustificati ritardi nella gestione delle fasi del processo»».
È vero?
«Macché. Il discorso è un altro: bastava leggere la motivazione della sentenza del processo Mills per essere a conoscenza che non sussisteva la responsabilità dell’imputato e che si era in presenza di un’assoluzione. E il procuratore non può non averla letta».
Ma sarebbe cambiato qualcosa se si fossero accelerati i tempi?
«No, anche se si fosse seguito un calendario diverso, si sarebbe arrivati comunque alla prescrizione. Non è un risparmio di poche settimane che avrebbe mutato la sostanza. Lo stesso procuratore generale si è occupato di millimetrare le scelte altrui con un percorso atipico, senza peraltro nemmeno impugnare la sentenza che ha affermato «l’assenza di responsabilità» di Berlusconi. Dunque, il processo, in ogni caso, si sarebbe prescritto in appello».
Quindi?
«Quindi tale atteggiamento si configura come un’ingerenza non consentita nella gestione dell’ufficio giudiziario. Per questo abbiamo chiesto al guardasigilli di inviare ispettori a Milano per verificare quanto riportato ieri dal “Corsera”. Mi piacerebbe sapere in quanti casi di processi caduti in prescrizione il procuratore abbia preso carta e penna e inviato due lettere al giudice, o se sia stato fatto solo in questa occasione».
Mettiamo il caso che si tratti di un trattamento riservato solo al Cavaliere….
«Allora saremmo in presenza di un messaggio, di un non consentito monito, se non di una pressione, nei confronti di tutti i magistrati che si occupano e si occuperanno in seguito dei processi a Silvio Berlusconi: a procedere, cioè, con corsia assolutamente preferenziale e non assumere decisioni sfavorevoli alla Procura, pena il rischio di vedersi procedimenti disciplinari “contro”».
Della questione pensate sia opportuno coinvolgere anche altri soggetti, come il Csm, ad esempio?
«Noi abbiamo l’esecutivo come punto di riferimento. Per ora abbiamo chiesto al ministro di accertare queste procedure: se questo sia accaduto in altri processi estinti per prescrizione e le modalità attraverso cui è stata resa pubblica la notizia dell’opinione dissenziente di uno dei giudici su un’ordinanza processuale. Le abbiamo chiesto di assumere, conseguentemente, i provvedimenti necessari a ristabilire il massimo grado di rispetto dei principi di terzietà e di equidistanza. Dopodiché sarà lei a fare le sue valutazioni, a trarre le sue conclusioni e ad attivare altri soggetti».
Sembra un automatismo: si riparla di un ritorno possibile di Berlusconi e il clima comincia a surriscaldarsi, non trova?
«La scorciatoia giudiziaria per indebolire Berlusconi è sempre in agguato e ora non stupisce che, sentendo riparlare di una sua candidatura, si siano risvegliate queste tentazioni. Ma lui ci ha fatto il callo ormai…»
Caso Ruby, anche il presidente della Corte d’appello contro il dimissionario Tranfa: «Calpestate tutte le regole», scrive “Il secolo D’Italia”. «Un gesto clamoroso e inedito». Che se dettato «da un personale dissenso» non appare coerente «con le regole ordinamentali e deontologiche» della magistratura che «impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche» della Camera di consiglio. Nella polemica per le dimissioni del giudice Enrico Tranfa che avrebbe lasciato in polemica con gli altri due colleghi poiché non condivideva l’assoluzione di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, ora scende in campo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio che ha deciso di intervenire ufficialmente, attraverso una nota consegnata all’agenzia Ansa. Per Canzio le dimissioni di Tranfa «se dettate dal motivo – non esplicitato direttamente dall’interessato ma riferito dai vari organi di stampa – di segnare il personale dissenso dal presidente del collegio rispetto alla sentenza assolutoria di appello nel procedimento a carico di Silvio Berlusconi, non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche, le quali – sottolinea nella nota il presidente della Corte d’Appello di Milano – impongono l’assoluto riserbo dei giudici sulle dinamiche, fisiologiche, della formazione della decisione nella camera di consiglio dell’organo collegiale». Canzio ha aggiunto che «ciò vale, a maggiore ragione, quando il processo sia stato celebrato, come nel caso concreto, in un clima di esemplare correttezza». E poichè un paio di settimane fa ha dato le dimissioni anche Flavio Lapertosa, l’altro presidente di sezione, Canzio ha tenuto a rimarcare che «è stata, per altro, già avviata la procedura per l’immediata assegnazione di un presidente alla guida della seconda sezione penale della Corte d’appello, al fine di assicurare la necessaria continuità nell’ordinario svolgimento dell’attività giudiziaria». Il gesto di Tranfa, peraltro, ha sollevato parecchie polemiche in Parlamento dove viene fortemente stigmatizzato. «Enrico Tranfa, presidente del collegio della Corte d’Appello di Milano nel processo, si è dimesso dalla magistratura in dissenso con la decisione maturata dal suo collegio di assolvere l’ex-presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dalle imputazioni di concussione e prostituzione. Un fatto clamoroso, che si verifica, ancora una volta, in una sede giudiziaria, quella di Milano, da tempo oggetto di conflitti interni», sottolinea Gianfranco Chiarelli, capogruppo Forza Italia in Commissione Giustizia della Camera. Chiarelli aggiunge che si tratta di «una situazione che andrebbe valutata con maggior attenzione da parte del governo, atteso che sembrerebbe che le dimissioni del magistrato sarebbero motivate anche da una serie di altre situazioni conflittuali. Di fatto – osserva – Tranfa non ha mai nascosto il suo disappunto per l’assoluzione in secondo grado di Berlusconi. C’è da chiedersi a questo punto se ancora sia valido il principio che le sentenze non si commentano ma si accettano. O forse il principio si adatta di volta in volta in base al gradimento della sentenza e del soggetto interessato?». L’esponente di Fi annota «la pronta solidarietà del vice presidente del PD, la collega Sandra Zampa» che, dice, «conferma ancora la presenza di una doppia morale che riguarda parte della sinistra. Garantisti quando si tratta di difendere propri esponenti, giustizialista nei confronti degli avversari politici».
PALAZZO DI GIUSTIZIA: NON C'E' POSTA PER TE!
Giustizia, non c’è posta per te: i portalettere perdono pure le carte dei processi, scrive Paolo Lami su “Il secolo D’Italia”. «Si tratta di un fatto indegno di uno stato moderno, che non deve succedere». E’ furibondo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, alla notizia che dal Tribunale di Milano sono spariti diversi fascicoli, inghiotti dalla mala giustizia e dalla disorganizzazione. A margine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, lo smarrimento o il danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione, arriva come uno schiaffo in pieno volto. Atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma. In seguito al disservizio postale, Canzio ha sporto denuncia alla Procura di Milano e sta perfezionando una convenzione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la consegna a mano dei fascicoli destinati alla Cassazione. Perduti e poi ritrovati molti fascicoli, alcuni hanno subito danneggiamenti. E le Poste finiscono pesantemente sotto accusa. Nel mirino ci sono le nuove procedure relative alle spedizioni assicurate che pesano più di due chili. All’origine della vicenda sembra vi sia una decisione, comunicata dalle Poste agli uffici giudiziari alla fine del 2014, di cambiare il metodo di spedizione dei ricorsi e i relativi atti in Cassazione con «assicurata»: quel metodo funzionava perfettamente ma aveva un costo notevole per le casse dello Stato, circa 100.000 euro l’anno. Il problema inizia quando le Poste decidono di non garantire più quel tipo di servizio, cosiddetto «spedizione per assicurata» per quei plichi che pesino più di 2 chili complessivi. In pratica la maggior parte dei faldoni processuali. L’opzione che gli uffici giudiziari identificano è quella di ricorrere al corriere Sda, l’azienda che fa parte del gruppo Poste per spedire i faldoni come posta ordinaria. E qui iniziano i problemi. Il servizio parte, ufficialmente, verso la fine del 2014, a metà dicembre. Un mese dopo, l’inferno. Le cancellerie dell’Appello, che sono convinte che i faldoni siano stati regolarmente consegnati, scoprono con raccapriccio il metodo di consegna di Sda: sacchi di plastica trasparente, scatoloni semiaperti e danneggiati. Il tutto con dentro gli atti infilati a casaccio, fogli ammassati come spazzatura, materiale impossibile da ricomporre e capire a chi appartenga o a quale procedimento sia legato. Di che si tratta? Semplice. Sono i fascicoli spediti dalla Corte d’Appello alla Cassazione che tornano al mittente perché sulle etichette è stato scambiato il Palazzaccio dove ha sede la Corte di Cassazione di Roma. Ma c’è, evidentemente, anche qualche altro problema perché tornano al mittente anche scatoloni con l’etichetta scritta correttamente. Un disastro. Ma non il solo. Si scopre anche che lo stesso disservizio colpisce anche i faldoni che viaggiano dalla periferia al centro, ma verso Milano. In pratica dagli uffici periferici alla Corte di Appello di Milano. E, come se non bastasse, l’ultimo schiaffo arriva quando si scopre che molti faldoni sono finiti in un vicolo cieco, al centro di smistamento di Salerno. Una volta scoperto l’arcano di quei faldoni spariti e ritrovati nel sud Italia basterebbe una telefonata. Ma ogni telefonata è inutile. Perché va a sbattere contro la burocrazia di Sda e, in particolare, contro un call center che non ne sa nulla di questa storia. La replica delle Poste che cerca di difendersi dalla figuraccia colossale tira in ballo la sua società controllata, la Sda: «Poste Italiane ha avviato una approfondita ispezione su quanto accaduto» dicono dalla società di Francesco Caio ribadendo la determinazione dell’azienda «a marcare una discontinuità dal passato e ad assumere le necessarie iniziative qualora emergano gravi responsabilità interne». Ma il problema è di vecchia data. E migliaia di cittadini sono costretti a confrontarcisi ogni giorno. Senza avere santi in Paradiso ai quali rivolgersi.
I faldoni di 30 processi milanesi che il corriere non ha recapitato. Perduti (e ritrovati) anche atti del caso Ruby. Il disservizio da quando non sono più accettate spedizioni «assicurate» che pesano oltre 2 chili, scrive Luigi Ferrarella “Il Corriere della Sera”. Tranquilli: dovesse arrivarvi a casa, sbrindellato, qualche ammasso di atti sfusi del processo Ruby destinati alla Cassazione per l’ultimo grado del processo a Silvio Berlusconi assolto in appello a Milano, non vi preoccupate, è soltanto il riverbero più surreale di una questione invece gravemente seria: la dispersione, il danneggiamento, e in alcuni casi addirittura lo smarrimento dei faldoni degli atti di almeno trenta processi che la Corte d’appello di Milano ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione, ma che a Roma non sono mai arrivati, talvolta girovagando per mezza Italia, talaltra tornando alla base milanese di partenza tutti aperti e mescolati e forse pure manomessi, oppure «desaparecidos» non si sa più dove. Le possibili conseguenze di questo disservizio postale sono pericolosissime: scadenza dei termini di custodia cautelare dei processi «perduti» che abbiano imputati detenuti, problemi di validità dei ricorsi, caos sulle notifiche che a un ricontrollo degli atti dovessero risultare mancanti, calendari di udienza sconvolti, rischi di prescrizione. E il peggio è che non si sa quanto le dimensioni numeriche del disservizio postale possano crescere, perché c’è una ampia finestra temporale nella quale la Cassazione non ha ancora modo di accorgersi che dal distretto milanese non le stiano arrivando i processi o gli interi atti dei processi che le dovrebbero arrivare, e la Corte d’appello di Milano (che comprende anche i tribunali di Monza, Busto Arsizio, Pavia, Como, Lecco, Lodi, Varese e Sondrio) non ha ancora modo di sapere che quanto sta spedendo in realtà non stia affatto arrivando a destinazione. Ecco perché per dare un immediato stop, e fermare almeno l’ingranaggio infernale che sta fagocitando un numero imprecisato di impugnazioni, il presidente della Corte d’appello milanese, Gianni Canzio, ha sporto denuncia alla Procura di Edmondo Bruti Liberati, e intanto sta perfezionando a razzo una convenzione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), in modo che a giorni fissi durante la settimana il personale e i mezzi del Dap passino a raccogliere i processi da inviare in Cassazione e ve li portino a mano. Alla base di questo incredibile corto circuito c’è la comunicazione che al termine del 2014 le Poste danno agli uffici giudiziari abituati a spedire i ricorsi e i relativi atti in Cassazione con «assicurata»: il metodo costava un po’ alla Corte (circa 100 mila euro all’anno), ma funzionava. Solo che alla fine dell’anno scorso le Poste informano che non forniranno più il servizio di «spedizione per assicurata» di pacchi del peso superiore ai due chilogrammi. Ovviamente quasi tutti i processi constano di molti faldoni che pesano appunto più di due chili. Quindi gli uffici giudiziari si rassegnano all’unica alternativa offerta: consegna al corriere Sda Express (sempre del gruppo Poste Italiane) per la spedizione come pacchi ordinari. Si comincia a metà dicembre. Ma in questo fine gennaio le funzionarie dell’apposita cancelleria in Appello iniziano a mettersi le mani nei capelli: all’ingresso del palazzo di giustizia, infatti, ogni giorno cominciano a essere scaricati scatoloni generici con dentro ammassi di fogli provenienti da alcuni dei processi inviati in Cassazione, oppure ex confezioni di spedizioni Sda ma tutte aperte e lesionate con gli atti alla rinfusa, o persino sacchi di plastica trasparente contenenti documenti mescolati che è un rompicapo identificare. Tornano indietro (ed è già una fortuna, come per i tre faldoni infine recuperati del processo Ruby) perché spesso l’etichetta del corriere Sda, quando ancora c’è, rivela che erano stati scambiati mittente (Corte d’appello Milano) e destinatario (Cassazione Roma); ma in alcuni casi tornano indietro (tutti aperti e mischiati o amputati) anche sacchi e scatole con etichette che sembrano scritte correttamente. Poco a poco la cancelleria comprende che il disservizio postale colpisce non solo le spedizioni dalla Corte d’appello verso la Cassazione, ma anche le spedizioni dagli altri uffici giudiziari lombardi del distretto verso la sede centrale milanese della Corte d’appello: lo si verifica quando in uno degli scatoloni vaganti spunta un nugolo di fascicoli di liquidazione delle spese per intercettazioni ambientali. E ci vuole parecchio lavoro per ricostruire che quel mucchio di carte faceva parte in realtà di un processo di ben cinque faldoni di cui si sono perse le tracce postali tra il Tribunale di Busto Arsizio e l’Appello di Milano. Di altri processi smarriti si viene invece a sapere soltanto perché, trattati come giacenze che nessuno reclama, finiscono nel centro di Salerno, dove qualcuno si rende conto dell’alieno pacco ricevuto, e telefona alla Corte milanese. Che cerca poi di ricontattarlo senza riuscirci: perché l’unica utenza disponibile pare quella di un call center dislocato altrove.
MAFIA E MAFIOSITA' IN LOMBARDIA.
“La mafia è stata corrotta dalla finanza. Prima aveva una sua morale, chiamiamola così”. Beppe Grillo a Palermo il 26 ottobre 2014 per lo “Sfiducia day” contro il governatore della Sicilia Rosario Crocetta ha parlato così davanti al Parlamento regionale, scrive "Il Fatto Quotidiano". “Tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza”, ha detto Grillo. “Il primo sa che è fuori legge, l’altro si assolve perché è dentro il sistema”. E ancora: “Se il Giappone mette la prostituzione e la droga nel Pil, allora io voglio che la mafia si quoti in borsa”. Parole provocatorie duramente criticate da più parti. Il primo è stato lo stesso Crocetta: “E’ uno xenofobo, omofobo e filomafioso che cerca i voti di Cosa nostra e che vuole consegnare la Sicilia ai vecchi gruppi di potere”. Ma a condannare la presa di posizione anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino (“Stia più attento con le parole”) e Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone (“Insulto a tutte le vittime). Nel dibattito sono intervenuti anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: (“Parole prive di fondamento e di cultura del fenomeno”) e il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci (“Mafia e moralità sono un ossimoro”). “Che cos’è la mafia?”, ha detto Grillo dal palco di Palermo. “E l’onestà? E’ un tic nervoso. A me non fa paura la disonestà commerciale ed economica. Non mi scandalizza più di tanto chi ruba. Mi fa paura chi è disonesto intellettualmente. E’ la disonestà culturale di questo Paese che è in ginocchio. Io dico queste cose da 20 anni”. Il leader del Movimento 5 stelle ha attaccato poi politica e finanza: “La mafia è stata corrotta dalla finanza. Non metteva bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. La mafia aveva una sua morale, chiamiamola "una sua morale". Ora non c’è più niente. E’ stata corrotta da dentro dalla finanza, dai soldi, dalle multinazionali, dagli affari. Cos’è oggi un’associazione a delinquere? Da chi è formata? Ve lo dico io: da un uomo d’affari. E tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza. L’unica differenza è che il mafioso sa che è fuori legge, mentre l’imprenditore si assolve perché è dentro il sistema che gli permette quelle cose lì”. La colpa secondo Grillo è di chi si crede assolto perché è dentro il sistema: “Chi c’è dietro? Un uomo d’affari, un politico, un banchiere, un commercialista, un notaio, un poliziotto e un magistrato. A volte non c’è nemmeno un delinquente dentro l’associazione a delinquere. Quando sei dentro non te ne accorgi più, sei dentro un sistema. In Parlamento si ritengono galantuomini quelli che non rubano. Ce ne sono. Ma sono dentro un sistema che accettano ed è peggio quel galantuomo lì di quello che ruba”. E qui una nuova provocazione: “La mafia bisognerebbe quotarla in borsa come hanno fatto in Giappone. Visto che loro nel Pil ci mettono droga e prostituzione, io voglio che la mafia si quoti in borsa. E vuoi vedere che se investi guadagni anche? Vedrete i titoli di domani dei giornali: "Grillo a favore della mafia. Bisogna investire sulla mafia”. Il fenomeno mafioso secondo Grillo è cambiato nel tempo: “Il concetto di mafia è cambiato molto. Qui in Sicilia è rimasto poco: qualche pizzo, qualche sparatoria. Ma adesso la grande mafia è a fare i grandi lavori con i soldi dati dall’Unione europea destinati al mezzogiorno invece vengono usati da imprese e lavoro solo nel settentrione e nel centro Italia. Il leader M5s è tornato poi ad attaccare Giorgio Napolitano: “Avremmo vinto se non avessimo avuto questo presidente della Repubblica. Adesso hanno impedito a Riina e Bagarella di andarci vicino. Ma per proteggerli, perché dopo il 41 bis trovarsi un Napolitano bis…”.Non sono mancati gli attacchi politici alle parole di Grillo, dal presidente dell’Udc, Giampiero D’Alia fino al vicepresidente del Pd, Claudio Martini. “Le sue”, ha commentato D’Alia, “sono dichiarazioni deliranti che si commentano da sole. Ma non è che per caso sta chiedendo con modo antico i voti a Cosa Nostra?”. Duro anche Martini: “Basta offendere le istituzioni, Grillo vaneggia”. I 5 stelle invece, ribadiscono che il discorso del leader è stato manipolato: “Ancora una volta”, dice il capogruppo al Senato Alberto Airola, “la disinformazione di regime manipola un intervento di Beppe Grillo, storpiando il senso delle sue parole sulla mafia e sulla lotta alla mafia. Ancora una volta una pletora di ipocriti, politici e cortigiani, si straccia le vesti e simula indignazione. Dov’erano i professionisti dell’indignazione, così scandalizzati da una frase di Beppe Grillo che non hanno nemmeno capito, quando si abbassavano le pene per il reato di voto di scambio?”. Dura le reazione del governatore Rosario Crocetta: “La mafia non ha mai avuto una condotta morale. Cosa nostra ha sterminato bambini anche nel passato e la novità degli intrecci con gli affari è solo una stupidità storica di chi non conosce la mafia. Invece di parlare della mafia Grillo torni a fare i suoi show. Non si avventuri su questo terreno. Quando uno parla della mafia con la disinvoltura con cui lo fa Grillo, dicendo che bisogna quotarla in borsa, questi affari se li vada a fare a Genova”. Sulle dichiarazioni del leader del Movimento 5 stelle si è espressa anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino ed ex europarlamentare: “Beppe Grillo dovrebbe stare un po’ più attento con le parole, sapendo che fa opinione e che le sue parole hanno un peso specifico nell’opinione pubblica. Gli chiedo di documentarsi meglio prima di sparare giudizi come battute da un palco. Non mi piace essere classificata come categoria io non sono solo sorella di una vittima di mafia ma una cittadina, una palermitana che ha vissuto quei terribili anni delle stragi. La sua battuta è dovuta all’ignoranza, nel senso di ignorare, alcuni fatti accaduti nella nostra terra”. Un’opinione condivisa anche da Maria Falcone, sorella del giudice assassinato da Cosa Nostra nella strage di Capaci: “E’ un insulto a tutte le vittime di Cosa Nostra. Il signor Grillo mostra di non conoscere il significato della parola mafia. Tratta con leggerezza un argomento che ha creato tanto dolore e tanti morti, dimentica il sacrificio di Giovanni Falcone e delle altre vittime di Cosa nostra”. A criticare Grillo anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: “Chi afferma che la mafia aveva una sua morale non ha mai capito cosa è la mafia. Cosa nostra ha sempre ammazzato vittime innocenti. Ricordo a Grillo che tra le vittime dei boss ci sono stati, tanti anni fa, anche sindacalisti. Uno su tutti, Placido Rizzotto. Sono affermazioni prive di ogni fondamento e di cultura del fenomeno….”. Così anche il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci: “Le parole mafia e moralità sono un ossimoro, sono due concetti in radicale contrasto che non possono essere accostate. Su questo c’è davvero poco da aggiungere… Rimane il discorso che vale per tutti i politici cioè, che a combattere la mafia a parole e ad applicare patenti di mafiosità e antimafiosità sono tutti bravi, poi vanno messi alla prova. E vale pure per il M5S”.
Ma come dargli torto?
La Lombardia invasa dai rifiuti tossici. Scorie da Australia e Europa dell’Est. Le grandi discariche cambiano il paesaggio: la Pianura Padana diventa collinare, scrive Amalia De Simone “Il Corriere della Sera” Rifiuti tossici dall’Australia, dalla Slovenia e dagli altri paesi dell’Est, finiti tutti in Lombardia. Arrivano in container ma anche su rotaie, quelle delle linee semi dismesse dei distretti industriali. I rifiuti dall’Australia arrivavano in container trasportati con delle navi attraverso l’Oceano Indiano e il canale di Suez. Si tratta prevalentemente di carichi di ceneri e scarti di demolizione con concentrazioni di cianuri, fluoruri e bauxite. Un carico arrivato a Porto Marghera e finito nel bresciano fu individuato e sequestrato ma si indaga su altri possibili carichi e rotte. Lo rivela il procuratore generale di Brescia Pier Luigi Maria Dell’Osso che aggiunge: «Viaggiano in cargo o di notte sui vagoni. Il distretto bresciano e quello contiguo milanese sono il punto di riferimento di tutto il traffico di rifiuti di ogni tipo e di ogni genere che si è spostato da Sud a Nord». Le associazioni ambientaliste parlano di oltre 30 milioni di tonnellate di scorie accumulate sul territorio bresciano dal dopoguerra ad oggi. «Secondo i nostri studi – spiega lo storico ambientalista bresciano Marino Ruzzenenti - a pieno regime da queste parti si producono anche fino ad un milione di tonnellate di scorie all’anno».
La nuova Terra dei Fuochi. La pattumiera d’Europa e non solo, si è spostata dalla Terra dei Fuochi al Nord. Anzi, i veleni industriali arrivati nel casertano e nel napoletano venivano già dagli anni ‘70,’80 e ‘90, sversati anche nei distretti settentrionali, in un area che parte dal milanese, attraversa Bergamo, si spinge fino a Brescia e finisce fino in Emilia Romagna. Quella che pubblichiamo è la prima di tre puntate di una videoinchiesta che cerca di analizzare il fenomeno dello smaltimento illecito dei rifiuti tra la Lombardia e l’Emilia Romagna. Il procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia Pier Luigi Maria Dell’Osso che fino all’anno scorso era il procuratore nazionale antimafia aggiunto, ha voluto che un pool di magistrati si occupasse dei reati connessi allo smaltimento illegale dei rifiuti. Le inchieste aperte che riguardano prevalentemente la zona di Montichiari sono ormai decine e attualmente sono in corso una serie di approfondimenti investigativi affidati al corpo forestale dello Stato, su alcune aziende che gestiscono discariche nella zona. «Il 50% della metallurgia nazionale da rottame, cosiddetta metallurgia secondaria è concentrata in questa provincia. - spiega Ruzzenenti - Lo smaltimento di queste scorie, fino agli anni Ottanta non era assolutamente regolamentato si entrava con un camion nella fabbrica, si prendevano i fanghi e le scorie e poi la prima buca che si incontrava li si buttava lì. La verità è che non si sapeva dove metterle e allora un po’ sono finite dai nostri amici campani e molto altro è finito qui sul territorio. Qui è cambiato il paesaggio. Questa era una zona pianeggiante è diventata una zona collinare: le colline sono determinate da queste enormi discariche. Quelle conosciute sono 12».
Il pericolo straniero. Il pericolo arriva anche dall’estero: una serie di indagini hanno portato gli inquirenti ad individuare un traffico di rifiuti dall’Australia, dalla Slovenia e dai Paesi dell’Est diretto nel distretto bresciano. Un traffico che avveniva attraverso una serie di triangolazioni societarie, cartiere e un giro di false fatturazioni. «Questo avviene perché chiaramente il problema dei rifiuti è un problema per tutti i paesi – spiega Dell’Osso - il fatto che il territorio bresciano abbia una grossa esperienza di cui faremo volentieri a meno, ed una articolazione territoriale di discariche lecite e illecite, fa sì che diventi un territorio particolarmente appetibile. Infatti può essere competitivo dal punto di vista dei costi perché è una realtà di grandissima estensione ed evidentemente ha anche una organizzazione che rende più sicure le consorterie criminali mafiose che operano in questo settore. Un settore che è un vero business e su cui anche la nuova ‘ndrangheta, quella di ultima generazione capace di infiltrarsi nel mondo economico e finanziario, vuole mettere le mani». Il procuratore svela inoltre che per il trasporto dei rifiuti tossici in Lombardia si preferiscono i treni essendoci una rete ferroviaria molto fitta che attraversa il distretto industriale: «Vengono utilizzate le linee poco usate ma ancora attive. I controlli sono poco efficaci perché possono avvenire solo in entrata o in uscita dalle stazioni e di notte c’è un via vai di vagoni carichi di rifiuti tossici». L’area delle discariche di Montichiari è impressionante: un paese fatto di crateri e colline di scorie. Tutto intorno ci sono campi coltivati, esattamente come nella terra dei fuochi. «Negli anni Novanta i liquami industriali venivano spacciati addirittura per ammendanti agricoli – spiega il comandante del corpo forestale di Bergamo Rinaldo Mangili - Le autobotti, approfittando della pioggia aprivano i bocchettoni lungo le strade e spargevano via i liquami che finivano nei campi coltivati».
I rischi per la salute. Anche in questa zona l’incidenza dei tumori è molto alta anche se (come in Campania fino a poco tempo fa) non è stata mai fatta una indagine epidemiologica specifica sul territorio. «Noi avevamo chiesto proprio questo alle istituzioni sanitarie pubbliche – chiarisce Ruzzenenti - un’indagine epidemiologica e anche un’indagine dell’Arpa per vedere in che stato è la falda acquifera perché siamo in una zona in cui è molto alta e sopratutto è molto fragile. Abbiamo fatto questa richiesta anche perché l’Azienda sanitaria locale e l’Arpa di Mantova hanno fatto un’indagine sul territorio immediatamente a valle di Montichiari». Anche il procuratore Dell’Osso si sofferma sui rischi per la salute dei cittadini: «Senza voler fare inutili allarmismi è chiaro che se un territorio è inquinato c’è un rischio per la salute della gente. Basta pensare ai dati che riguardano la città di Brescia dove sono stati individuati ben sette siti critici per scorie radioattive. Ci sono inoltre delle rilevazioni di cromo esavalente che sappiamo essere nocivo per la salute».
Nei quartieri dove si esce con la paura di ritrovare l’appartamento occupato. Salvini all’attacco: «In quei caseggiati ci vuole l’esercito». L’azienda che gestisce gli alloggi non ha soldi per ristrutturare e le assegnazioni ritardano, scrive Andrea Galli e Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Un pezzo di cemento caduto sul pavimento, fenditure nere si allungano fino a terra nell’intonaco rosa, la scatola della presa elettrica penzola appesa a un filo. La porta resisteva. E così hanno spaccato il muro. Via Ricciarelli, quartiere San Siro, sabato 25 ottobre, ore 15: tre ragazze rom stanno sedute sul bordo dell’aiuola nel cortile, la madre tiene in mano due sacchetti, il poliziotto restituisce i documenti. Sgomberate «in flagranza». Avevano occupato nella notte. Questa però non è un’occupazione, nella denuncia il reato verrà classificato come «violazione di domicilio». Perché quell’alloggio popolare, a poche centinaia di metri dallo stadio «Meazza» di Milano, era abitato. Assegnato a un uomo ricoverato in ospedale per problemi psichiatrici. Le denunce del genere, nell’ultimo anno, sono più di 50. È la frontiera estrema della battaglia per la casa che si combatte ogni giorno nelle periferie di Milano. Basta spostare di poco lo sguardo dai cantieri dell’Expo per vedere l’altra città, quella delle periferie. Che sta affondando in un conflitto sociale vicino al punto di rottura. Ecco, stiamo a quel sabato pomeriggio: da San Siro l’ispettore dell’Aler, azienda milanese delle case popolari, viene chiamato per un’occupazione in via Etruschi. Quartiere Calvairate. Porta sfondata. Dentro, un rifugiato politico georgiano, con la moglie e un figlio. Rifiuta di uscire. Denunciato. Passa un’ora. Quando l’ispettore esce, in cortile si avvicina la custode: «Guarda che hanno occupato anche nell’altra scala». Quarto piano: la porta era stata già sfondata in passato, l’ingresso blindato con una lastra d’acciaio. Questa è una nuova occupazione. Ragazza rom. Si rifiuta di uscire. Ha tre bambini. Non può essere allontanata con la forza. Così le case popolari di Milano scivolano nell’illegalità. Per avere un’idea: solo nella settimana tra il 20 e il 26 ottobre, gli ispettori dell’Aler che lavorano 24 ore su 24 sono intervenuti su 39 tentativi di occupazione abusiva; 16 sono invece le occupazioni «riuscite». Più di due al giorno. Ed è così da due anni: 1.400 case occupate dall’inizio del 2013; più 870 sgomberi «in flagranza» (quando gli ispettori riescono a liberare l’alloggio quasi «in diretta», o gli abusivi scappano prima che qualcuno chiami il 112). Per avere un termine di paragone: nel 2011 le nuove occupazioni erano «appena» 99, gli sgomberi «in flagranza» 557. Eccolo, il disastro della Milano popolare. È un disastro che ha spiegazioni abbastanza chiare. L’Aler, azienda pubblica della Regione Lombardia, ha chiuso il 2013 con un buco di 60 milioni in cassa e 90 milioni di arretrati con i fornitori. Vuol dire bloccare le manutenzioni, le ristrutturazioni dei palazzi, e anche quelle interne delle case: per questo molti alloggi non possono essere assegnati a nuovi inquilini (in lista d’attesa ci sono oltre 20 mila famiglie). Così restano vuoti, e diventano «preda» degli abusivi. Il rosso profondo dei bilanci Aler è stato ereditato dalle passate gestioni, quelle che a metà anni 2000 avevano costituito una piccola società partecipata con l’obiettivo di andare a ristrutturare gli stabili storici di Tripoli, negli anni in cui Gheddafi veniva ospitato a Roma con «amazzoni» e tende beduine. L’assessore regionale alla casa, Paola Bulbarelli, ha sbloccato i fondi per ristrutturare 400 case, più 30 milioni freschi per le casse Aler. Il nuovo presidente, l’ex prefetto Gian Valerio Lombardi, ha studiato un piano di risanamento che prevede la vendita di 6.700 alloggi. Ma c’è il rischio che tutto questo non basterà. Un inquilino su tre, nelle case popolari, non paga né l’affitto, né le spese per riscaldamento e pulizie. L’Aler gestisce le 40 mila case popolari di sua proprietà, più le 29 mila del Comune. Una città nella città. Il totale degli arretrati che l’azienda dovrebbe riscuotere ha raggiunto la cifra stratosferica di 306 milioni, due terzi dei quali sono ormai dati per «irrecuperabili», anche se solo nel 2013 l’azienda ha inviato 160 mila solleciti di pagamento. La commissione d’inchiesta istituita dal presidente della Lombardia, Roberto Maroni, potrebbe chiarire cosa sia accaduto in passato. Il futuro invece è precario, come la struttura del palazzo di via Lorenteggio, storico quartiere operaio, che era stato occupato per intero da un gruppo di rom: l’estate scorsa è crollato un balcone. E solo per un caso non c’era nessuno in cortile. Il sindaco Giuliano Pisapia l’ha ripetuto spesso nelle riunioni con la sua giunta: «Sulla casa non va bene, bisogna fare di più». Si sono separati: dopo la rottura della convenzione con l’Aler, il Comune ha deciso di gestire «in proprio» le sue 29 mila case popolari. Obiettivo: migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Anche perché le prossime elezioni si decideranno in quei quartieri, dove gli abusivi bruciano le porte di casa agli inquilini che protestano. Così la Lega ha lanciato una campagna con la frase del segretario, Matteo Salvini: «Nei caseggiati popolari ci vuole l’esercito, per sgomberare gli occupanti porta a porta». Proposta buona, forse, per toccare la pancia degli inquilini (elettori) esasperati. Come l’anziana che vive tra abusivi e spacciatori in un alloggio del Giambellino, e dice: «Non crescono più neppure i fiori in cortile. Ormai ci odia anche la natura».
L'antimafia intercetta la storica portavoce di Roberto Maroni. Da otto anni Isabella Votino è l'ombra del presidente della Lombardia, che ha seguito nel percorso dalla Lega al Viminale fino ai piani alti del Pirellone. Ma la trentacinquenne campana è stata intercettata mentre chiedeva notizie delle inchieste relative al partito lumbard. In contatto, forse a sua insaputa, con personaggi legati ai clan, scrivono Lirio Abbate e Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Isabella Votino con Roberto Maroni E' stata definita la donna più potente nella storia del Viminale dopo Rosa Russo Iervolino. Ma la sola cosa in comune con l’unica “ministra” dell’Interno è l’origine campana. Perché Isabella Votino, nata a Benevento 35 anni fa, di professione fa la portavoce. Da otto anni è “l’ombra” di Roberto Maroni, che accompagna quasi ovunque, gestendone l’immagine: prima come capogruppo della Lega, poi come titolare dell’Interno, quindi come segretario del partito e infine al piano più alto della Regione Lombardia. Un fascino meridionale che ha colpito, tra i tanti, anche Silvio Berlusconi, ospite d’onore del suo compleanno nel 2007 e poi pronto a ingaggiarla per alcuni mesi come responsabile delle relazioni istituzionali del Milan. Una giovane vulcanica, con anni d’esperienza nel Palazzo, abile a districarsi tra politica, soldi e potere; capace di tessere rapporti fra leader della politica, imprenditori di successo, personalità dello spettacolo e del mondo dell’informazione. E adesso si scopre pure in contatto - forse a sua insaputa - con personaggi legati alla ’ndrangheta e al riciclaggio. Per questo motivo dalla Lombardia alla Calabria il passo è breve per Isabella Votino. Lady Pirellone, infatti, è finita dentro un’inchiesta sui collegamenti della ’ndrangheta con la politica e le tangenti. Un’indagine che parte da Reggio Calabria e arriva a Milano, nell’ambito della quale Isabella Votino è stata intercettata per quasi un anno a partire dalla fine del 2012. L’istruttoria è quella che scava nel lato più oscuro del movimento padano, una costola dello scandalo che ha detronizzato Umberto Bossi, portando proprio Maroni alla successione: con tanto di ramazza per la pulizia etica del partito impugnata come simbolo. Indagando su un giro di denaro sporco, i pm di Reggio Calabria sono arrivati a individuare un trentenne reggino, Bruno Mafrici: al telefono il giovane dottore in giurisprudenza mostra entrature profonde nella politica calabrese, incluso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e una fiorente attività anche in società estere. E qui che gli inquirenti trovano la pista che li porta a uno studio di commercialisti nel centro di Milano e a Francesco Belsito che si definiva «il tesoriere della Lega più pazzo del mondo». Il legame tra Belsito e Mafrici è stretto, tanto che quest’ultimo è stato ingaggiato come consulente personale dal leghista quando era sottosegretario del ministro Roberto Calderoli. Le intercettazioni effettuate dalla Dia di Reggio Calabria hanno permesso di ricostruire una lunga catena di affari in cui venivano investiti i fondi della Lega Nord. La strategia finanziaria, però, era partorita nello studio di commercialisti milanesi in cui è socio Pasquale Guaglianone, altro calabrese trapiantato a Nord con una storia personale tutta a destra: in gioventù è stato un membro dei Nuclei armati rivoluzionari, Nar, e ha gestito la cassa della formazione di Giusva Fioravanti e Massimo Carminati (dal casellario giudiziario risulta una condanna per banda armata e associazione sovversiva). In un ufficio a 500 metri dal Duomo di Milano, si sedevano attorno a una scrivania professionisti calabresi che decidevano dove spostare pacchi di milioni. Tra loro un tesserato della Lega, il collaboratore di un ministro padano, l’iscritto a una loggia massonica, un ex estremista di destra: tutti a vario titolo collegati alla ’ndrangheta . Il problema è che i rivoli di denaro provenienti dai forzieri leghisti si sono contaminati con soldi molto più sporchi: il tesoro del clan De Stefano, la famiglia di ’ndrangheta che domina da oltre un ventennio la città dello Stretto. Lo stesso canale di riciclaggio avrebbe ripulito i capitali della cosca e i finanziamenti del partito, trasferendoli all’estero o investendoli in immobili. I personaggi coinvolti non sono picciotti armati fino ai denti, ma professionisti sospettati di fare parte di un’associazione segreta, paramassonica, con contatti nella ’ndrangheta che conta e ben inseriti nei salotti della politica nazionale. Con uno snodo nello studio milanese dall’anima doppiamente nera. Quando nelle conversazioni intercettate emerge Isabella Votino, i pm mettono sotto controllo anche il telefono della portavoce di Maroni che, uscito dal Viminale, era in quel periodo segretario federale della Lega Nord, pronto sulla pista di lancio per candidarsi alla presidenza della Regione Lombardia. È un momento teso. Le inchieste su politica e mafia vanno avanti, coinvolgendo anche esponenti della Lega e imprenditori vicini a Maroni. Alla fine del 2012, quando i pm di Milano e Reggio Calabria stanno coordinando indagini riservate su questo filone giudiziario, secondo le registrazioni Isabella Votino aggancia investigatori nel capoluogo lombardo per tentare di acquisire notizie su eventuali attività giudiziarie in corso sul gruppo vicino a Maroni. Chiede informazioni, sollecita risposte e tenta di comprendere quali siano gli obiettivi dei magistrati. La donna per quasi un anno è stata ascoltata dagli 007 dell’antimafia mentre discute alleanze tra partiti in vista delle elezioni lombarde con alcuni leader del Pdl. Il profilo che emerge dalle conversazioni non è quello di un portavoce, ma di un vero consigliere politico di Maroni. Una figura che lo ha accompagnato in tutta la scalata al potere, tra impegni pubblici e frequentazioni private. Celebre la festa che venne organizzata nel 2009 per il suo trentesimo compleanno nel Cavalli Just Cafè, tra cariche istituzionali, direttori di tg e star dello spettacolo: da Simona Ventura a Maria Grazia Cucinotta, da dj Francesco a Renato Pozzetto. Al ministero dell’Interno ricordano ancora le spese fatte con la carta di credito del dicastero: migliaia di euro al mese per soggiorni in alberghi di lusso. L’uso troppo disinvolto della carta di credito, che le venne ritirata, e la disponibilità di un’auto blu con poliziotti alla guida aveva allarmato perfino il responsabile della ragioneria del Gabinetto del ministero. Ma lei ha detto di avere chiarito tutto, almeno per questo aspetto economico. Oggi però Isabella non è l’unica esponente del cerchio magico di Bobo a essere finita nella lente dell’inchiesta antimafia: seguendo la stessa pista sull’asse Milano-Reggio Calabria, gli inquirenti si sono imbattuti pure in Domenico Aiello, avvocato di fiducia del governatore. Le intercettazioni hanno radiografato i contatti tra il legale e i pm di diversi palazzi di giustizia, incluso il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, come rivelato da “l’Espresso” nello scorso numero. Rapporti non strettamente professionali, stando al giudizio dei detective che hanno redatto un dossier in cui si evidenziano le relazioni di Aiello con esponenti della magistratura e dell’imprenditoria. Aiello è sposato con Anna Tavano, 42 anni, nominata lo scorso anno da Maroni alla direzione generale infrastrutture della regione Lombardia: una poltrona chiave nella gestione degli appalti. Qualcosa però non è andata come avevano previsto la manager e il suo amico Maroni, tanto che lo scorso settembre la donna ha lasciato l’incarico regionale ed è tornata nei ranghi aziendali di Citigroup. In precedenza Tavano era stata responsabile dei fondi europei alla Regione Calabria, lanciata dall’ex governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti. Ma lo sbarco a Milano, dove la coppia Tavano-Aiello ha casa in pieno centro a pochi passi dal Castello Sforzesco, è avvenuto grazie a uno sponsor sempre più influente nel mondo lumbard: Isabella Votino, appunto.
LA LOMBARDIA E L’ESERCITO DEI CONSULENTI INUTILI.
Lombardia, ecco l'esercito dei consulenti. Tanti, inutili e a spese del contribuente. Ex animatrici per bambini, pizzaioli, ex dipendenti di Forza Italia, licenze da terza media e perfino il mandante dei manifesti "fuori le BR dalle procure". Gli assessorati sono ridotti a una guerra tra correnti per accaparrarsi il resto dei budget a disposizione. Mentre il lavoro, quello vero, lo fanno i dipendenti regionali, scrivono Marzio Brusini e Ersilio Mattioni su “L’Espresso”. Di tutto e di più negli staff degli assessori regionali lombardi. A scorrere l'elenco dei consulenti a supporto degli organi di indirizzo politico c'è da rimanere sconcertati. Maestre d'asilo, camerieri di pizzerie, animatrici di miniclub, consiglieri e assessori comunali in cerca di doppio stipendio, laureati a pieni voti, professionisti affermati. Tutti insieme appassionatamente alla voce «rapporto fiduciario» che regola questi contratti di collaborazioni coordinate e continuative con stipendi oscillanti tra i 15mila e i 40mila euro l'anno. Collaborazioni che di fatto nessuno verifica né è in grado di considerare realmente utili o meno all'attività degli assessori. Sfugge come possa un'assistente alle insegnanti di un asilo di Viadana, in provincia di Mantova, essere la persona più adatta per occuparsi di relazioni esterne «connesse sia alle pari opportunità che agli eventi sismici del maggio 2012 nel mantovano». Oppure come possa un amministratore di condominio essere il più adatto a gestire il «monitoraggio dei mercati agricoli e lo studio delle risorse finanziarie europee». O ancora un cameriere di una pizzeria in un piccolo paese nella bergamasca chiamato al compito di coordinare i rapporti con il consiglio regionale. E che dire infine di una laureanda in lettere moderne, con un recente stage presso una scuola di inglese a New York, chiamata a monitorare gli indirizzi strategici di Regione Lombardia? Ci sono, anche, professionisti e tecnici ma perfettamente miscelati a giovani inesperti e figure spesso prive dei più elementare requisiti curriculari. Il caso più clamoroso, sollevato da L’Espresso settimana scorsa, è quello dell’ autista tuttofare di Mario Mantovani, vicepresidente e assessore alla Sanità: per il ragazzo di bottega, 21 anni e un diploma al liceo di Arconate, piccolo centro dell’hinterland milanese, un contratto da 16 mila euro per occuparsi di “analisi dei costi della spesa farmaceutica territoriale e ospedaliera”. Peraltro, non è affatto chiaro come possano certe segretarie essere retribuite di più di laureati e iscritti agli ordini professionali in una sorta di piramide rovesciata rispetto ai contratti nazionali delle regioni e delle autonomie locali. Un autentico mistero. Il lettore può consultare da sé gli elenchi e i curricula dei consulenti degli assessori. E’ semplice, basta cliccare sulla home page il link amministrazione trasparente, scegliendo prima l’opzione consulenti e collaboratori e poi incarichi di collaborazione a supporto degli organi politici. Tutti "assunti" grazie all’articolo 23 della legge regionale 20 del 2008. La normativa, per la verità, stabilisce il numero massimo dei componenti delle segreterie dei membri della giunta (dieci per il governatore, otto per il suo vice e sei per ogni assessori) da scegliere fra il personale già in servizio al Pirellone. Se occorre una competenza specifica e se tale competenza è irreperibile all’interno della Regione, si ricorre a personale esterno. L’impressione è che gli assessori interpretino la legge in maniera molto liberale e anzi quasi anarchica, spesso scegliendo non in base a curricula ed esperienza, bensì amicizia, parentela e vicinanza politica. Solo Alberto Cavalli, assessore alle infrastrutture e alla mobilità, ha rinunciato a farsi una segreteria sul modello dei suoi colleghi di giunta: due segreterie prese in prestito dalla struttura dei dipendenti regionali. Tipico malcostume italiano è invece quello dei politici che una volta non rieletti pensano bene di farsi reclutare come consulenti dai colleghi di partito. A mò di esempio basta citare Mario Labolani che risulta collaboratore dell'assessore al territorio Viviana Beccalossi. Labolani, che si occupa di «rapporti con i rappresentanti istituzionali, enti e associazioni che a vario titolo sono coinvolte nella redazione delle proposte di leggi regionali sul consumo e difesa del suolo», si è seduto in giunta a Brescia dal 2008 al 2012 in qualità di assessore al verde pubblico in quota Fratelli d'Italia. Di contro l'ex assessore provinciale milanese, il leghista Stefano Bolognini, ha rifiutato l'offerta del suo partito di essere parcheggiato provvisoriamente come collaboratore presso l'assessore alla cultura Cristina Cappellini. Non così Roberto Valenti, ex vicesindaco di Marcallo con Casone, un comune di 5 mila abitanti vicino a Magenta, dove per dieci anni è stato sindaco con un monocolore del Carroccio Massimo Garavaglia, oggi assessore al Bilancio nella giunta Maroni. Valenti, travolto dalle polemiche per le bollette troppo alte del suo cellulare di servizio, fu messo in disparte dalla Lega alle elezioni dello scorso maggio. Fuori dalla lista e fuori dai giochi. Ma con uno stipendio extra. Valenti oggi guadagna 28 mila e 500 euro “per attività di comunicazione, gestione rapporti con i giornalisti, stesura testi”. Poi ci sono quelli che lo stipendio lo ricercano esclusivamente negli enti pubblici. Un fulgido esempio lo fornisce il consigliere comunale milanese di Forza Italia Pietro Tatarella che vanta un curriculum ineguagliabile: consulente dell'assessore alla casa e all'housing sociale, membro del comitato tecnico-scientifico del Fondo provinciale per la Cooperazione Internazionale, consigliere di amministrazione dell'Ente Fiera di Castelbarco. Praticamente un tuttologo se non fosse che il suo curriculum è privo di qualsiasi competenze in ciascuno di questi ambiti. C'è poi il modello a conduzione familiare come quello dell'assessore alla casa, housing sociale e pari opportunità Paola Bulbarelli. Non la sua di famiglia ma quella di Daniela Santanché. La «pitonessa» è riuscita a piazzare l'avvocatessa Valeria Valido, che è stata a lungo tempo la sua più stretta collaboratrice nonché amica del faccendiere della P4 Luigi Bisignani, a caposegreteria dell'assessore. A seguire contratti per un ex dipendente della sua società, Visibilia, e per l'ex assistente della nipote Silvia Garnero già assessore della Provincia di Milano. In ultimo tra i collaboratori degli assessori lombardi non poteva mancare una figura più che imbarazzante, il mandante dei manifesti «Via le BR dalle Procure» affissi nell'aprile 2011 lungo le strade di Milano in occasione delle elezioni comunali. Giacomo Di Capua, caposegreteria del vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla sanità Mario Mantovani, finì condannato per vilipendio dell'ordinamento giudiziario dopo che inizialmente venne accusato un altro esponente pidiellino, Roberto Lassini, che fu costretto coram populo a rinunciare alla candidatura nella lista a sostegno di Letizia Moratti. I Pm milanesi nel 2012 ottennero l'archiviazione per Lassini e la condanna di Di Capua «ritenuto l'ideatore del contenuto dei manifesti diffamatori e sostanzialmente il committente delle affissioni». Caduto in disgrazia il primo, per il secondo la poltrona è garantita. Voce del capitolo rapporto fiduciario, con uno stipendio che tutti indicano come molto elevato. Piccolo dettaglio: regione Lombardia non lo rende noto. Giorni e giorni di ricerca sono stati inutili, il compenso del pupillo di Mantovani resta un oggetto misterioso. E’ la politica, ancora una volta, a dare il cattivo esempio. Scarsa trasparenza e parametri alquanto discutibili per assegnare incarichi remunerativi dimenticandosi il concetto di «merito». E soprattutto una domanda resta senza risposta: qual è il valore aggiunto che questo variegato esercito di consulenti esterni chiamato a occuparsi dello scibile umano, dalle spese dei farmaci all’Expo, porta ai cittadini della regione più ricca d’Italia?
PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?
I pm indagano Maroni su Expo per incastrarlo su Finmeccanica. Il governatore della Lombardia accusato di concussione per delle raccomandazioni. Ma il vero obiettivo delle toghe sono le presunte mazzette incassate dal Carroccio, scrivono Luca Fazzo ed Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Domanda che fa tremare il Palazzo: cos'hanno in comune due semisconosciute consulenti della Regione Lombardia e l'ex amministratore delegato di Finmeccanica, la più grande azienda di Stato con interessi che vanno dalla sicurezza all'aerospaziale? Risposta: due cose. La prima, l'ex ministro dell'Interno, leader della Lega Nord e attuale governatore lombardo Roberto Maroni. La seconda, un numero: 3856/12. È il numero di fascicolo con cui la Procura di Busto Arsizio ha messo sotto inchiesta Maroni e il suo braccio destro Giacomo Ciriello, accusati di concussione per induzione per aver fatto assumere senza particolari ragioni di curriculum due vecchie conoscenze del Viminale in un paio di società partecipate dal Pirellone. Una storiaccia assai italiana di donne, potere e raccomandazioni, all'apparenza robetta da quattro soldi se non fosse che dalla «visita» fatta ieri dai carabinieri negli uffici delle due consulenti emerge un dettaglio tutt'altro che irrilevante. E cioè che il numero stampato sul decreto di perquisizione - 3856/12 - è lo stesso del fascicolo con cui i pm hanno dato la caccia alle tangenti che Finmeccanica avrebbe versato per piazzare 12 elicotteri in India. Inchiesta chiusa da tempo, processo alle battute finali e sentenza attesa per il 3 ottobre. L'imputato principale è Giuseppe Orsi, ex numero uno di Finmeccanica. Lo stesso che al telefono confidava: «Se non c'era Maroni col cavolo che ero qua». Sullo sfondo, una maxi tangente da 12 milioni da destinare alla Lega, e che Orsi avrebbe girato in cambio dell'appoggio alla sua nomina nella holding di Stato. Quell'ipotesi investigativa, però, sembrava estinta. Fino a ieri. La mossa della Procura, infatti, dice che la pista delle mazzette alla Lega non si è affatto raffreddata, e che la storiella della due raccomandate tiene le braci accese sotto i piedi del bersaglio grosso: Roberto Maroni. Il commissario anticorruzione Raffaele Cantone, di fronte alla notizia sulle due assunzioni, annuncia subito che «siamo in una fase che non ha nessuna incidenza sulla vicenda Expo». Ma è indubbio che per il tormentato cammino dell'esposizione universale è una nuova botta. Chi sono le due fortunate? Mara Carluccio e Mariagrazia Paturzo, entrambe con un passato al Viminale sotto la gestione Maroni (la prima «consigliera della Segreteria del Ministro per le politiche comunitarie», la seconda «Responsabile relazioni esterne dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati»), attualmente in forza a due società partecipate dal Pirellone, entrambe con ufficio in via del Gesù, sede romana della Regione Lombardia. Carluccio ha un contratto a termine con «Eupolis spa» - istituto di ricerca, statistica e formazione - a 29.500 euro annui, «somma dalla stessa fissata per proprie esigenze fiscali», annotano in pm. Paturzo, invece, è stata assunta per 2 anni - ma con contratto di sei mesi rinnovabile - in Expo spa, a 5.417 euro al mese. Tutte e due, secondo il pm Eugenio Fusco, avrebbero ottenuto il posto su mandato di Maroni e grazie alle pressioni materiali fatte dal suo capo di segreteria Ciriello. Ma questo è il fumo. L'arrosto, quello vero, si trova a Londra. Dall'avvocato Christian James Michel. Nello stesso giorno in cui i carabinieri del Noe bussano al fantasmagorico ufficio di Maroni al trentacinquesimo piano di Palazzo Lombardia, e l'avviso di garanzia rivela al mondo la faccenda delle due giovani donne assunte su chiamata dall'alto, entrano in circolazione altri due documenti. Stessa Procura, stessa inchiesta. Ma questi sono due mandati di cattura. Uno è per l'avvocato indiano Gautam Khaitan, l'altro per il suo collega inglese Michel. Entrambi sono da sempre indagati per la vendita degli elicotteri italiani al governo di New Delhi, ma erano rimasti a piede libero. Invece ieri si scopre che nel febbraio scorso Fusco ha ottenuto che venisse ordinato il loro arresto, per ora non eseguito. Perché ora, a processo finito? Khaitan potrebbe essere il gancio per incastrare definitivamente la famiglia di Sashi Tyagi, il capo di stato maggiore indiano considerato il terminale delle tangenti. Invece Michel entra in scena per collaborare alla operazione di lobbying o corruzione in India. Ma c'è un dettaglio: è Michel che a un certo punto rende noto agli altri mediatori che bisogna restituire a Orsi dodici milioni già incassati. Segue litigio furibondo a Dubai. A cosa servono quei soldi? Gli altri mediatori se lo confideranno incautamente in macchina: «Sono per la Lega Nord». Da Michel, insomma, per i pm si arriva al Carroccio. No, non sono le due ragazze assunte a tempo determinato il guaio più grosso per Maroni.
Expo, indagato Maroni. I pm: "Fece pressioni per far assumere due conoscenti". Contratti a termine in Expo2015 spa e in Eupolis. Una era sua collaboratrice al Viminale. La Procura di Busto Arsizio indaga anche il capo di gabinetto. Il governatore: "Sereno, ma sorpreso", scrive “La Repubblica”. Roberto Maroni è indagato dalla Procura di Busto Arsizio per "induzione indebita a dare o promettere utilità" per due contratti stipulati dalla società Expo2015 spa e dall'Ente della Regione Lombardia per la ricerca, la statistica e la formazione (Eupolis). Il governatore lombardo e il suo capo di gabinetto, Giacomo Ciriello - ai quali è stato notificato l'avviso di garanzia dai carabinieri del Noe a Palazzo Lombardia - avrebbero esercitato "pressioni" per far ottenere indebitamente contratti a tempo determinato a due persone ritenute a vicine a Maroni, Mara Carluccio, in passato sua collaboratrice al ministero dell'Interno, e Maria Grazia Paturzo. Il contratto siglato da Eupolis avrebbe avuto il "fine esclusivo di garantire alla Carluccio una indebita utilità economica pari a 29.500 euro annui (somma dalla stessa fissata per proprie esigenze fiscali)", si legge nell'avviso di garanzia. Mentre Paturzo sarebbe stata assunta dalla società Expo con un assegno "pari alla somma di 5.417 euro mensili per la durata di due anni". Da dicembre 2011 Éupolis, secondo quanto riporta il sito, “ha sottoscritto una convenzione quadro con il Commissario Generale di Expo Milano 2015 per supportare: – la definizione e l’approfondimento del tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, soprattutto attraverso la predisposizione di approfondimenti conoscitivi (normativa, letteratura, stakeholder, etc.) in relazione ai vari sottotemi; – la gestione delle relazioni internazionali in ottica di promozione della partecipazione dei Paesi ad Expo 2015; – l’attività tecnico amministrativa, in particolare nell’attività di informazione sugli sviluppi e gli avanzamenti nella preparazione dell’Esposizione”. Si è difeso, in una nota, l'ex segretario della Lega Nord, che non ha in programma alcun intervento in Consiglio regionale (come sostenuto dal presidente Raffaele Cattaneo ma smentito dallo staff del governatore). "Sono assolutamente sereno e, allo stesso tempo, molto sorpreso. Per quanto a mia conoscenza, è tutto assolutamente regolare, trasparente e legittimo", ha sostenuto Maroni. Si tratta -spiega il presidente della Giunta- di due contratti a termine per persone che svolgono, con mansioni diverse, attività quotidiana di supporto della Regione Lombardia dalla sede di Roma. La loro attività è finalizzata alla ottimizzazione e alla efficienza della macchina organizzativa in vista dell’evento Expo". In particolare, sottolinea Maroni "una figura professionale ha un preciso scopo di raccordo tra la Regione Lombardia e la Società Expo, mentre l’altra, di provata esperienza professionale, ha un ruolo di consulenza delle diverse tematiche organizzative legate a Expo. «Sono, ribadisco, sereno e fiducioso -conclude- che le cose verranno al più presto chiarite". Secondo l'avviso di garanzia firmato dai pm Eugenio Fusco e Pasquale Addesso, Maroni e Ciriello avrebbero abusato della "loro qualità e poteri e, in particolare, delle qualità e dei poteri inerenti la carica di presidente della Regione su enti regionali e società dalla Regione stessa partecipata". L'indagine nasce dall'inchiesta sulla vendita di 12 elicotteri all'India da parte di Agusta Westland, società di Finmeccanica, e i reati, secondo i pm di Busto, sarebbero stati commessi dieci giorni fa, il 4 luglio, nella cittadina in provincia di Varese. I militari del Noe hanno anche perquisito uffici della Regione Lombardia in via del Gesù a Roma a disposizione della Carluccio. Nel dettaglio, Maroni e Ciriello avrebbero dato "indebite utilità economiche" a Carluccio e Paturzo - si legge nell'avviso di garanzia - "non essendo riusciti a collocarle nello staff del presidente, in quanto la loro assunzione sarebbe stata soggetta ai controlli della Corte dei Conti sulla Regione". Ciriello, "manifestando che tale era il desiderio del presidente Maroni - si sostiene - richiedeva e otteneva da esponenti di Eupolis un contratto conclusivo al fine esclusivo di garantire a Carluccio una indebita utilità economica pari a 29.500 euro annui. Inoltre, otteneva "da esponenti di Expo 2015, anche per il tramite di Obiettivo lavoro temporary manager, un contratto concluso al fine esclusivo di garantire a Paturzo, una indebita utilità economica pari alla somma di 5.417 euro mensili (per la durata di due anni)". La società Expo, in una nota, ha chiarito che l'assunzione di Paturzo è stata fatta su indicazione del gabinetto del presidente della Regione per curare alcuni progetti, tra cui i tour promozionali di Expo a livello internazionale e nelle province lombarde. Sul fronte politico al governatore è arrivata la "piena fiducia" e "solidarietà" degli assessori della sua giunta e dei capigruppo della maggioranza (in diverse note congiunte), oltre a quella della coordinatrice lombarda di Forza Italia, Mariastella Gelmini. Mentre Pd e Patto civico hanno espresso "preoccupazione" per la "pletora di notizie su irregolarità nelle nomine" (il riferimento indiretto è anche al contratto alla moglie di Matteo Salvini da parte dell'assessorato al Welfare). E il Movimento 5 Stelle ha prenotato la richiesta di dimissioni nel caso in cui le accuse contro Maroni fossero confermate. Da Palazzo Lombardia la voce dell'ex ministro dell'Interno è arrivata solo attraverso una nota, diffusa a metà pomeriggio. Al centro dell'inchiesta, ha chiarito Maroni, vi sono "due contratti a termine per persone che svolgono, con mansioni diverse, attività quotidiana di supporto della Regione Lombardia dalla sede di Roma". "La loro attività - ha continuato - è finalizzata alla ottimizzazione e alla efficienza della macchina organizzativa in vista dell'evento Expo. In particolare, una figura professionale ha un preciso scopo di raccordo tra la Regione Lombardia e la società Expo, mentre l'altra, di provata esperienza professionale, ha un ruolo di consulenza delle diverse tematiche organizzative legate a Expo". "Sono, ribadisco, sereno e fiducioso che le cose verranno al più presto chiarite", ha concluso Maroni.
Un’inchiesta era partita per un concorso dagli esiti sorprendenti: la selezione per l’assegnazione di quaranta borse di studio. I bandi sono due: uno per 31 “giovani laureati”, l’altro per nove “dottori di ricerca”. Ed è proprio uno dei candidati al secondo concorso che ha fatto partire le indagini, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Nell’esposto Antonio Alizzi, professore a contratto di management per l’editoria all’università di Verona, spiega come si sia ritrovato dal primo al secondo posto in graduatoria per una delle nove aree messe a bando. Nella selezione per titoli era risultato, con 40 punti, in cima alla classifica. Alle prove orali totalizza altri 39 punti e arriva a 79. Ma davanti a lui c’è Filippo Cristoferi, brillante studioso molto inserito nei giri di Comunione e liberazione, tra le firme del Sussidiario, la rivista d’area del movimento e già collaboratore e borsista di Éupolis. Cristoferi ha un punto in più di Alizzi: 80. Ed è molto curioso, osserva il suo concorrente, visto che nella valutazione dei titoli aveva solo 31 punti e per la prova orale altri 46. Come si arriva a 80? Con un incremento di tre punti della valutazione ufficiale, che nella somma finale viene portata da 31 a 34 punti. Per far funzionare questo carrozzone sforna studi la Regione ha speso nel 2013 quasi 23 milioni di euro per progetti che vanno da un generico “contributo per le attività istituzionali” al “trasferimento risorse gestione osservatori Dg Famiglia” fino ad un corso in formazione specifica in Medicina generale da oltre sei milioni di euro. Tra i suoi consulenti diversi ciellini tra cui l’ex sottosegretario formigoniano Robi Ronza, fondatore del settimanale ultracattolico "Il Sabato". Sono decine e sono chiamati con un contratto cucito su misura. Nell’elenco infinito di collaboratori e consulenti (sono più di 700 per i primi sei mesi del 2014 per una spesa che supera più di quattro milioni e 600 mila euro) spunta anche l’ex braccio destro di Formigoni Nicolamaria Sanese. Dieci mesi di lavoro per 46 mila euro per guidare «la scuola superiore di Alta Amministrazione di Éupolis Lombardia e progettazione attività formative per la dirigenza apicale della pubblica amministrazione lombarda». Sanese aveva lasciato la poltrona di potente segretario generale dopo il rinvio a giudizio per associazione a delinquere e corruzione insieme all’ex governatore Roberto Formigoni. Secondo i pm di Milano, da segretario generale Sanese teneva i rapporti con il faccendiere Piero Daccò. E interveniva sul direttore generale della Sanità Carlo Lucchina (anche lui rinviato a giudizio) «affinché fossero adottati dalla giunta, in violazione di legge e dei doveri di imparzialità ed esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico, provvedimenti diretti a erogare consistenti somme di denaro e procurare altri indebiti vantaggi alla Fondazione Mugeri». Nonostante il rinvio a giudizio tiene corsi di buona amministrazione ai manager pubblici lombardi.
Il cerchio magico di Maroni: ecco come il Governatore sistemava tutte le sue pedine. Dal Pirellone a Infrastrutture, il giro nelle nomine del segretario leghista alla guida della Regione Lombardia, scrive Alberto Statera su “La Repubblica”. Sono "indaghizzato": viene su spontaneo ironizzare, a causa dell'effetto Crozza, dinanzi alla notizia del presidente della regione Lombardia Roberto Ernesto Maroni, detto universalmente Bobo, indagato a Busto Arsizio per "induzione indebita a dare o promettere utilità". Ex impiegato dell'azienda di cosmetici Avon, fan di Bruce Springsteen e lui stesso musicista tuttora praticante, il governatore è stato sempre afflitto da una patologica timidezza, colta dal suo perfido imitatore e già raccontata da Guido Passalacqua nel suo libro sugli esordi della Lega. Ma l'antico dato caratteriale, dopo venticinque anni di politica anche in alti vertici come il ministero dell'Interno, non ha impedito che diventasse anche lui un campione del modello clientela&parentela o, se volete, dell'italico familismo amorale. Il cerchio magico delinquenziale del suo ex duce Umberto Bossi ha oscurato tutti gli altri cerchietti magici padani, ma anche Bobo ne ha da anni uno ben collaudato, diventato sempre più famelico dopo la sua assunzione al vertice della prima regione d'Italia. Per questo, con tutto il rispetto per i pm di Busto Arsizio e per lo stesso Maroni, che spesso ha lamentato che "quando bisogna immolarsi per la Lega tocca sempre a me", leggere il decreto di perquisizione dei magistrati, da una parte sembra fornire nuovi spunti satirici, dall'altra fa riflettere sulle piccole frazioni di realtà che la magistratura riesce - quando riesce - a perseguire...Tra i primi atti ci fu la nomina di Anna Maria Tavano da Catanzaro ai vertici delle infrastrutture della Lombardia, con uno stipendio di 186 mila euro più bonus. Questa signora sarà bravissima, ma è la moglie di Domenico Aiello, avvocato calabrese, una specie di Ghedini di Maroni...Tavano e Aiello, vecchi amici di Isabella Votino, detta "la badante di Bobo"... sono capisaldi del cerchietto magico. Come Maria Cristina Cantù, assessore regionale al Welfare, che ha appena assunto Giulia Martinelli, compagna del neo-segretario della Lega Matteo Salvini......Giovanni Daverio, in arte Johnny, e Giuseppe Rossi, in arte Gegè, musicisti del Distretto 51, la band di Bobo, approdati a tutt'altro che irrilevanti incarichi nella sanità regionale. O la vocalist Simona Paudice, "coadiutore amministrativo esperto" all'ospedale di Treviglio...
Regione Lombardia, la compagna di Salvini assunta per chiamata diretta. Giulia Martinelli è entrata nello staff dell’assessore al welfare Maria Cristina Cantù per una cifra al momento di circa 70 mila euro l’anno, nell'ente guidato dal leghista Roberto Maroni. Ma non è l'unica: il figlio dell'assessore Aprea vola nella sede regionale a Bruxelles. Il segretario del Carroccio: "Che c'è di male?", scrive Davide Vecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Ognuno ha la sua family. Anche Matteo Salvini. La compagna del segretario del Carroccio è stata assunta con un contratto diretto in Regione Lombardia, guidata dal leghista ed ex capo del Carroccio, Roberto Maroni. Giulia Martinelli è entrata nello staff dell’assessore al welfare Maria Cristina Cantù, quella che propose di assegnare i fondi regionali a sostegno della maternità solo a chi risiede in Lombardia da cinque anni spiegando la decisione con un lapidario: “Oggi ne vanno troppi agli extracomunitari”. Martinelli doveva essere assunta già lo scorso primo gennaio: Cantù presentò il decreto di assunzione alla segreteria generale del Pirellone che però lo bloccò e rispedì al mittente. Il momento per il Carroccio non era dei migliori, il partito con ancora le ferite aperte della Family di Bossi guardava alla sopravvivenza alle Europee come a un miraggio. E soprattutto a storcere il naso erano stati alcuni esponenti del partito. A cominciare dall’ex assessore Daniele Belotti e da alcuni parlamentari che da Roma avevano chiamato direttamente il governatore Maroni: “Non provate a fare una roba del genere”. Bobo seguì il consiglio. Martinelli ha incassato, pur avendo già chiesto l’aspettativa alla Asl – dove ha vinto un concorso e lavora come avvocato – e ha cominciato a collaborare con la Cantù. Senza un incarico ufficiale. Che però è arrivato a giugno: un contratto in forma di incarico fiduciario per una cifra al momento di circa 70 mila euro l’anno. Il doppio di quanto percepiva alla Asl. Il contratto non è ancora stato ufficializzato. “Sappiamo che lavora qui, la vediamo da settimane ogni giorno eppure nessuno ha il coraggio di mettere la faccia su questa nomina”, afferma il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Dario Violi. Due settimane fa, con esattezza il 27 giugno 2014, Violi e il suo gruppo hanno presentato richiesta formale per avere l’elenco degli incarichi e dei contratti fatti da Cantù ma ancora non hanno ricevuto alcuna risposta. E non è detto che quello di Martinelli ci sia perché in base al decreto Monti non c’è l’obbligo della pubblicazione dei contratti privatistici ma solo delle collaborazioni. “Noi sappiamo che lavora qui – ripete Violi – e appena avremo i dati ufficiali faremo un’interrogazione per chiedere chiarimenti in merito alle assunzioni di amici, parenti”. Sì perché quello della compagna di Salvini non è “l’unico caso di incarico dubbio”: ci sono anche i fedelissimi del segretario del Carroccio Lucio Brignoli ed Eugenio Zoffili, coordinatore federale e nazionale lombardo del movimento giovani padani, entrambi sbarcati nel Palazzo Lombardia. Zoffili alla dirigenza dello staff dell’assessore Simona Bordonali, Brignoli in quella di Claudia Maria Terzi. Tanto per rimanere alla Lega. In Forza Italia la bandiera è tenuta alta dall’assessore all’istruzione Valentina Aprea: suo figlio Stefano Spennati, finita l’esperienza in Europa come assistente parlamentare di Lara Comi, è diventato dirigente della Regione Lombardia presso la sede di Bruxelles. Il consigliere regionale dei Cinque Stelle, Stefano Buffagni, ha presentato richiesta d’accesso agli atti e minaccia di presentare “una mozione di censura nei confronti dell’assessore”. Va detto però che Spennati, 32 anni, ha già un lungo curriculum: nel luglio 2009 era consulente del ministero dell’Istruzione per gli affari esteri, poi è stato nello staff del Commissario Antonio Tajani e nella segreteria di Mario Mauro quando era vicepresidente del Parlamento europeo. Spennati, oggi assistente a Bruxelles di Gianlorenzo Martini, direttore della delegazione presso l’Unione Europea di Regione Lombardia, non risponde al telefono. Disponibile invece è Matteo Salvini per spiegare la nomina della compagna. E parte all’attacco: “Un contratto con la Cantù? E cosa c’è di male? Lavorano insieme da almeno sei anni, prima a Milano poi a Legnano e ora in Regione, quindi?”. Quindi che la compagna del segretario della Lega venga assunta nella Regione che il partito guida non è proprio normale. “Ma per piacere… Ha fatto i concorsi per entrare all’Asl, se fosse rimasta nel privato da avvocato avrebbe guadagnato di più”. Lavorando anche di più. “Ma no, ha fatto una scelta di vita: lavorare nel pubblico, avendo a che fare con malati di mente, autistici e quant’altro; insomma la moglie di Renzi fa l’insegnante? La mia fa la dipendente Asl… poi guadagnasse diecimila euro al mese…”. Su questo “sono la stessa cosa”, chiosa Violi di M5S: “Parlano tanto di famiglia ma poi si preoccupano di sistemare le loro e, al massimo, gli amici”.
Il M5s: "Salvini ha piazzato la moglie in regione". Lui: "Siete dei poveretti", scrive “Libero Quotidiano”. Dal suo profilo Facebook Matteo Salvini si scaglia contro il giornale di Marco Travaglio che ha pubblicato un articolo nel quale denuncia la presunta assunzione in Regione Lombardia della compagna del segretario della Lega Nord. "Quei poveretti del Fatto Quotidiano, non potendomi attaccare su altro, se la prendono con la mia compagna perché ’lavora in Regione'", scrive Salvini. "Peccato - aggiunge - che la mia compagna, laureata e avvocato (più brava di me!), abbia scelto di lasciare una più comoda e remunerativa carriera nel privato per occuparsi di sociale, di malati di mente e di donne maltrattate, di disabili e di bimbi in difficoltà, lavorando per la Asl da ormai 5 anni, non da oggi, essendo assunta come migliaia di altre persone senza che io abbia (ovviamente) fatto nulla". Per Salvini "lei è in grado di aiutarsi da sola, e di aiutare gli altri. Se i Kompagni sono ridotti a questo, vuol dire che siamo sulla strada giusta! Scusatemi lo sfogo, ma quando infamano le persone mi incazzo. E ora riprendo a fare quello che mi piace, cioè lavorare". Ma non è solo Salvini ad essere finito nella denuncia del Movimento 5 Stelle che hanno presentato una interrogazione al governatore Roberto Maroni citando due presunti casi di una ’parentopoli' alla Regione Lombardia. In una nota, i grillini avevano scritto che "Giulia Martinelli, compagna del leader della Lega Nord Matteo Salvini, nel maggio scorso, è entrata a far parte dello staff dell’assessore regionale lombardo al Welfare Maria Cristina Cantù, con un compenso di circa 70 mila euro l’anno". E ci sarebbe anche "Stefano Spennati, figlio dell’assessore di Forza Italia Valentina Aprea", che "terminata l’esperienza in Europa come assistente parlamentare, è diventato dirigente della Regione Lombardia presso la sede di Bruxelles". Secondo Dario Violi, consigliere lombardo del M5S, "questa è una parentopoli e da mesi stavamo lavorando, con accessi agli atti, per farla emergere. I documenti ci vengono puntualmente negati o gli uffici ci fanno aspettare tempi enormi per darci informazioni che dovrebbero essere pubbliche. Aprea e Salvini ci dovrebbero spiegare l’opportunità che compagni o figli di esponenti di partito siano assunti nell’istituzione che governano". "Il caso Salvini-Aprea - ha aggiunto il consigliere del M5S - è solo la punta dell’iceberg: ogni giorno ci imbattiamo in personale assunto in posizioni apicali dalla Regione, dalle Asl o dalle aziende partecipate che non ha alcun requisito se non l’amicizia, la parentela con politici della casta o esperienze di lavoro in questo o quel partito". Pertanto, "con un’interrogazione chiediamo a Maroni di rispondere in merito a questo nuovo caso di parentopoli che danneggia i cittadini lombardi e l’immagine dell’istituzione".
Salvini, il comunista padano che per Milano dà il sangue. Il nuovo (probabile) leader della Lega da ragazzo frequentava i centri sociali. È stato consigliere comunale della sua città per 19 anni, è volontario dell'Avis e detesta Roma, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Il superfavorito alla segreteria della Lega Nord, Matteo Salvini, ha una psicologia elementare che coincide con la scritta della sua maglietta verde preferita: «Milano. Viverci un onore, difenderla un dovere».
Matteo, detto Teo, è tutto qui: il Nord, la Padania, Milano, il Milan. Se si confermeranno le previsioni, il 7 dicembre, giorno dell'elezione, la Lega avrà per capo un baldo quarantenne impregnato così tanto di padanità che, al confronto, i due predecessori, Bossi e Maroni, fanno figura di spiriti universali. Umberto e Bobo, infatti, sono diventati con gli anni uomini di mondo, hanno soggiornato a Roma, frequentato salotti e accettato compromessi. A Teo, invece, Roma fa venire l'orticaria. Due volte gli è toccato scendere laggiù e solo perché era stato eletto deputato. In entrambi i casi, è fuggito appena ha potuto, preferendo allo scirocco romano le bore di Strasburgo. Nel 2008, resistette un anno. Poi, esausto, si fece eleggere alle Europee del 2009 e filò via. Rieletto a Roma con le Politiche di quest'anno, ma ancora in forze nell'Ue, optò per il seggio europeo, lasciando la scranna di Montecitorio a un collega. Insomma, con la capitale evita rapporti così come con il Centrosud. Anche perché, quando ci è venuto a contatto, è stato deluso. Venerando Bossi fin dalla puerizia, Teo volle imitarlo prendendo per moglie una ragazza di origine meridionale. Così impalmò la pugliese Fabrizia, di cui era innamoratissimo, e ne ebbe Federico, oggi di dieci anni. Ma a parte il fatto che lei era vicina ad An e lui un comunistoide in salsa padana, le cose tra loro si guastarono presto. Teo ne trasse conferma di essere incompatibile con ciò che oltrepassa i confini meneghini. Ora vive con Giulia da cui, un anno fa, ha avuto Mirta. Non si deve dedurre da questa traversia sentimentale, che Salvini sia ondivago o incostante. Fantasioso nelle sue iniziative, Teo è in realtà molto lineare nei comportamenti fondamentali. Ha quattro idoli, sempre gli stessi: Bossi, Maroni, Fabrizio De Andrè, il Milan. Bossi è il mito astratto, Maroni il riferimento concreto. Ciò significa che se ora Bossi si getterà nella lizza per contendergli la segreteria, Teo lo combatterà con ogni mezzo, senza timori reverenziali. Per lui è, ormai, puramente un'immagine votiva cui accendere un cero. Nelle cose serie, l'unico che pesi è Bobo. De Andrè, invece, è la sua fissazione dai tempi in cui frequentava il Leoncavallo, il centro sociale che lo ha nutrito di blande convinzioni di sinistra e che gli ha lasciato il marchio dell'orecchino alla Nichi Vendola che continua a portare. L'estate, quando come sempre va in Sardegna, trascina parenti e amici a Tempio Pausania in visita alla casa dove il cantautore fu rapito dai briganti. Il Milan, infine, rappresenta per lui le domeniche allo stadio tra i tifosi della curva e l'unico legame con il Cav che, per il resto, gli è indigesto. Tanto è vero che, per le politiche di quest'anno, aveva ostacolato l'alleanza tra Lega e Pdl «perché la presenza in campo di Berlusconi non ci aiuta». Di famiglia benestante - il papà era dirigente d'azienda - Teo ha sempre avuto un temperamento ruspante. Poteva diventare un distinto pollone della Milano da bere, con un bel master e un avvenire in banca. Ha scelto, invece, di trascorrere le giornate vestito di verde nei mercatini rionali a distribuire volantini. Anziché laurearsi - dopo le Medie dai preti e il liceo classico al Manzoni -, ha piantato le tende alla Facoltà di Storia. È lì da ventuno anni, senza dare esami ma rinnovando l'iscrizione tanto per non gettare la spugna. Non è un curriculum da intellettuale ma conferma la costanza cui accennavo sopra. A diciassette anni, nel 1990, Teo prese la tessera della Lega. Per amore della Padania, diradò la frequentazione della parrocchia dei Santi Narbore e Felice, dove aveva debuttato come boy scout e proseguito poi come sgambettatore del pallone. A vent'anni (1993), è entrato in Consiglio comunale, rimanendoci per diciannove primavere di fila. Prendeva l'equivalente di 800 euro il mese. Tanto gli è bastato per una dozzina d'anni finché dal 2004, si sono aggiunti altri incarichi tra cui, per due legislature, la poltrona di deputato europeo. Salvini non è uno che si è arricchito con la politica. Modesto all'inizio, dimesso tuttora, sua massima aspirazione è diventare un giorno sindaco di Milano. Altre cariche non lo solleticano. Gli piace «fare politica» che equivale, nella sua testa, ad armare un casino, movimentare la giornata, provocare. Già nel 1997 si fece notare alle elezioni dell'autoproclamato Parlamento della Padania, per il nome della lista che capeggiava: «Comunisti padani», frutto della già descritta propensione leoncavallina. Da allora, ha fatto sparate a iosa. Dalla proposta di riservare alle donne alcuni vagoni della Metro milanese per sottrarle «all'invadenza degli extracomunitari», al rifiuto, da consigliere di maggioranza, di stringere la mano al presidente Ciampi in visita a Milano dicendogli: «Lei non mi rappresenta». Una volta, sempre come consigliere, drizzò un mercatino abusivo davanti alla sede dei Vigili urbani, per rinfacciare sarcasticamente l'inerzia del Corpo verso il dilagare in città del vero abusivismo. Così, si è fatta fama di Pierino. Ma, considerato innocuo e talvolta utile, è benvisto anche dagli avversari. La giornata tipo di Teo comincia alle sette con le apparizioni nelle piccole tv regionali, da Telenova a Tele Padania. Poi corre qua e là per risolvere problemi minuti della gente, dall'ascensore rotto di una casa popolare, all'assistenza. Il grosso del tempo lo passa però nei mercatini, dove organizza banchetti leghisti, fa propaganda maroniana, raccoglie petizioni, ecc. Una variante, nella sua qualità di deputato Ue, è volare a Bruxelles di prima mattina per fare lobby padana e rientrare nel pomeriggio per fare all'incirca lo stesso a Milano. Ha due appuntamenti fissi. Il venerdì accompagna in parrocchia il figlio Federico, che vive con la moglie separata, a giocare a pallone come faceva lui nella speranza che in futuro segue le sue orme anche come boy scout e leghista professionale. L'altra immancabile scadenza è con l'Avis. Teo è infatti un generoso e quasi fanatico donatore di sangue che, in casi di emergenza, organizza anche scambi trasfusionali tra militanti della Lega. Un idiota gli ha chiesto se fosse un espediente per evitare al sangue padano di finire in vene extracomunitarie. «Il sangue ha un solo colore», ha osservato Salvini, dimostrando che la risposta più semplice è la migliore per dare del cretino a un cretino.
C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.
La mafia al Nord esiste. Ora è difficile negarlo. Una notte della scorsa settimana la Cassazione ha reso definitive le condanne del maxiprocesso di Milano sulla 'ndrangheta in Lombardia. Ora negare o nascondere sarà più difficile, ma se ne parla malvolentieri, scrive l'11 giugno 2014 Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana”. Alessandro Manzoni aveva già capito tutto. Solo chi diceva che al Nord la mafia non esiste, poteva pensare che quel metodo intimidatorio, grazie al quale bastava un nome, per piegare i diritti alla prevaricazione, l’avesse “inventato” don Lisander facendo emergere dal nulla della fantasia l’incontro tra don Abbondio e i bravi. Troppo bello per essere anche vero, ma adesso, come si dice, “è Cassazione”. La ‘ndrangheta al Nord esiste e c’è la prova che, ovunque faccia affari sporchi, non è una faida tra ‘ndrine isolate, ma un struttura ramificata e unitaria, anche se con una struttura verticistica diversa da quella riconosciuta per cosa nostra. Il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti plaude all'efficacia dell'inchiesta e dei processi e definisce la sentenza di «eccezionale importanza». Chi studia la storia della criminalità organizzata ritiene che la sentenza definitiva relativa al troncone milanese del processo noto alle cronache come Crimine-Infinito, condotto tra Milano e Reggio Calabria, - abbia portata storica, in termini di conoscenza del fenomeno e di creazione di un precedente significativo, in fatto di giurisprudenza. C'è anche chi la paragona a quella del maxiprocesso di Palermo del 1992. Anche per questo fa un po’ impressione che il maxiprocesso di Milano faccia molta meno notizia di quello di allora a Palermo, quasi che ci si fosse assuefatti al rischio o, peggio, alla tentazione di cullarsi nell’incoscienza. Se ci avessero detto vent’anni fa che 22 anni dopo avremmo assistito a un maxiprocesso milanese di criminalità organizzata con centinaia di imputati, che sarebbe durato meno di 4 anni tra chiusura delle indagini e conferma in Cassazione, avremmo gridato a una previsione malata di catastrofismo, dimenticando che la litania della mafia che non esiste, aveva già avuto tanti precedenti al Sud, negati, finché il maxiprocesso palermitano non li ha messi nero su bianco in Tribunale. Ma ora che il punto fermo arriva a Milano quasi non se ne parla. Eppure, altre inchieste tra gli anni Novanta e primi anni duemila, sempre a Milano, avevano acceso luci, magari meno diffuse, ma significative sul problema, altri processi sono in corso a Torino. Ma c’è ancora chi si sente offeso: offeso non dall’esistenza di una locale di ‘ndrangheta che si chiama La Lombardia, offeso non dal fatto che sia potuto accadere, ma offeso dalle parole come pietre che la scolpiscono in una sentenza. E forse il problema è proprio qui: invece di indignarsi perché le cose contenute nelle sentenze accadono ci si indigna perché qualcuno indaga e le svela. Invece di voler capire per prevenire, si preferisce non sapere. Ma non è chiudendo gli occhi che si risolvono i problemi, e le cronache sulla corruzione lo dimostrano. A chi le ricorda, però, alla prova dell'attualità fanno eco le parole, scosse di commozione e di rabbia, che tuonarono ventidue anni fa nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano: «Oggi è finita la Duomo connection, alla quale Giovanni e io avevamo lavorato assieme. La mafia si può sconfiggere. Ma esiste, signor procuratore. A Milano come a Palermo, non ci sono confini». Oggi era il 25 maggio 1992, la Duomo connection era il primo processo che chiamava in causa la mafia, cosa nostra in quel caso, a Milano. Giovanni era Giovanni Falcone, saltato per aria due giorni prima a Capaci su mezza tonnellata di tritolo, le parole erano di Ilda Boccassini che vent’anni dopo, da capo della Direzione distrettuale antimafia milanese, in sinergia con Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Nicola Gratteri a Reggio Calabria, ha coordinato insieme ai sostituti procuratori Alessandra Dolci e Paolo Storari l’indagine portata al vaglio della Cassazione il 5 giugno scorso. La linea della palma non si ferma, il malaffare prospera, ma, almeno, Giovanni Falcone aveva ragione: «Se succede qualcosa a me altri continueranno». La magistratura, però, non può arrivare che a reati già commessi. Ad altri spetterebbe provare a prevenirli. Ma spesso sono gli stessi che preferiscono non vedere.
Mafie al nord, il timbro della
Cassazione, scrive Lorenzo Frigerio su “Articolo 21”. Quando gli storici ne
scriveranno tra qualche decennio – sempre che decidano di scriverne,
privilegiando una volta tanto le vicende più complesse di questo Paese e non i
giochi di Palazzo – si ricorderà senza dubbio la notte tra il 6 e il 7 giugno
del 2014 come data epocale nella storia del contrasto alla criminalità
organizzata al nord e in particolare della lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia,
un tempo considerata immune dalle possibili infiltrazioni mafiose.
Una criminalità, quella di origine calabrese, senza ombra di dubbio oggi la più
agguerrita tra le mafie nostrane, in grado di estendersi con i suoi tentacoli al
di fuori del nostro Paese tanto da diventare una minaccia pubblica a livello
internazionale. Una data da ricordare dunque. Una data davvero storica perché
segnata dalla decisione della VI sezione penale della Corte di Cassazione che,
mettendo un timbro definitivo al primo filone del processo “Crimine/Infinito”,
nato dal blitz ordinato dalle DDA di Milano e Reggio Calabria a metà luglio del
2010, certifica l’esistenza di un organismo verticistico di controllo delle
cosche nel bel mezzo della fantomatica Padania e ne sanziona l’esistenza,
comminando in totale ben otto secoli di carcere ai soggetti facenti parte delle
cosche all’opera nella regione più importante del nord del Paese, in quello che
viene considerato il motore economico d’Italia. Un organismo direttivo quello di
cui la Suprema Corte parla – denominato dagli stessi affiliati con una non
malcelata ironia “la Lombardia” – in grado di garantire unitarietà d’azione ai
locali sparsi sul territorio regionale e identificate negli atti processuali. Un
elenco da mandare a memoria, per evitare le amnesie di chi preferirebbe
archiviare tutto rapidamente: Milano centro, Bollate (MI), Bresso (MI), Cormano
(MI), Corsico (MI), Legnano (MI), Limbiate (MI), Pioltello (MI), Rho (MI),
Solaro (MI), Pavia, Canzo (CO), Erba (CO), Mariano Comense (CO), Desio (MB),
Seregno (MB). Una rete diffusa sul territorio lombardo fatta di contatti
informali e di rapporti solidi con quello che è “il capitale sociale” della
‘ndrangheta in Lombardia: un fitto reticolo di relazioni con insospettabili
esponenti dell’economia e della finanza e rappresentanti della politica e delle
istituzioni, in grado di assicurare agli uomini delle ‘ndrine di arrivare a
massimizzare profitti e di perfezionare business leciti e illeciti a favore di
un’organizzazione criminale ritenuta – a torto – fino ad un decennio fa un
pericolo minore rispetto a Cosa Nostra. La sentenza della Cassazione scrive
l’ultima pagina del giudizio abbreviato emesso dal gup del Tribunale di Milano
Roberto Arnaldi nel novembre 2011 e poi parzialmente confermato in appello
nell’aprile 2013 e riguarda la gran parte dei soggetti indiziati, al termine
delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm
Alessandra Dolci e Paolo Storari. Altri filoni processuali sono in itinere
presso i Tribunali di Milano e di Reggio Calabria e sarà interessante vedere se
avranno la stessa lettura assicurata da quest’ultima sentenza. Secondo la
ricostruzione operata nei diversi gradi di giudizio, “la Lombardia” era arrivata
addirittura a vagheggiare progetti secessionisti dalla casa madre in Calabria,
rappresentata dalle storiche “Province” di Reggio, della Piana e della Ionica.
Un progetto peraltro suicida che portò prima all’eliminazione di un boss come
Carmelo Novella nel 2008 in un bar di San Vittore Olona, alle porte di Milano, e
poi allo storico summit dell’ottobre 2009, ripreso dalle telecamere dei ROS dei
Carabinieri nel circolo per anziani di Paderno Dugnano, dove i capi della
‘ndrangheta in Lombardia si riunirono. Un incontro segreto resosi assolutamente
necessario per nominare i nuovi vertici, dopo l’eliminazione di Novella, voluta
per reprimere nel sangue il tentativo di affrancarsi dai clan calabresi e per
lanciare un monito a tutti gli affiliati. Un summit le cui immagini sono poi
state consegnate alla memoria collettiva grazie ad internet e ai social network
e che racconta di come i boss ‘ndranghetisti si diedero appuntamento in quella
struttura dedicata alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino, noncuranti
dell’offesa alla loro memoria. Uno sfregio pensato e voluto, ma che si
immaginava sarebbe rimasto un segreto custodito dai partecipanti alla riunione.
La sentenza della Corte di Cassazione inaugura una nuova chiave di lettura del
fenomeno ‘ndrangheta, storicamente considerata refrattaria ad organismi
verticistici di comando e proprio per questa libertà organizzativa in grado di
diffondersi in Italia e nel mondo, senza troppi vincoli gerarchici, facendosi
però forte delle tradizioni e delle regole che pure restavano quelle delle
origini e della terra calabrese. Sono passati meno di quattro anni dal blitz del
luglio 2010 e sembra passato un secolo. Soprattutto oggi diventa difficile
leggere il quadro della presenza delle mafie nel nord, in particolare in
Lombardia, la regione più toccata dalle indagini antimafia degli ultimi
anni. Sembra sempre più difficile per la politica negare l’esistenza di una
ramificata presenza delle cosche nel territorio, presenza definita ormai con il
termine della “colonizzazione” da parte della Direzione Nazionale Antimafia.
Sembra sempre più difficile per l’opinione pubblica far finta di non avere
questa presenza scomoda in casa, ben dentro i confini di una terra colpevolmente
ritenuta immune. Sembra, infine, sempre più difficile però scaricare il peso del
condizionamento criminale degli appalti per EXPO 2015 sulla cricca dei “soliti
noti” presi con le mani nella marmellata appena qualche settimana fa. Eh sì,
perché la matematica non è un’opinione. All’indomani dell’operazione del luglio
2010, Ilda Boccassini in conferenza stampa annoverò tra gli effettivi a
disposizione della ‘ndrangheta in Lombardia ben 500 elementi. Se 150 furono
arrestati allora, significa che in circolazione ce ne sono almeno 350. E anche
se alcuni fossero finiti nelle maglie della giustizia in altri procedimenti,
vogliamo pensare che i molti restanti se ne stiano buoni e calmi, in attesa che
passi la “nuttata” o meglio l’EXPO, senza provare a fare quello che sanno fare
meglio?
La 'ndrangheta nata al Nord che nessuno voleva vedere. L'inchiesta "Infinito" ha dimostrato l'esistenza delle mafie nel Settentrione. La sentenza conferma che non si tratta più di un'invasione. La cultura e i meccanismi criminali si formano nel territorio come a sud, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. La prima pagina de Il Giornale che nel novembre 2010 lanciò la raccolta di firme contro Roberto Saviano La 'ndrangheta comanda al nord. È una sentenza storica questa della Cassazione che conferma le condanne e tutto l'impianto accusatorio del processo Infinito. Quando ne parlai, in prima serata tv, nel novembre del 2010, su Raitre, le mie accuse generarono una reazione incredibile. Raccontare come la 'ndrangheta comandasse nel nord Italia sembrò un'accusa insopportabile: ancor più, svelare che la criminalità interloquiva con tutti i poteri politici. Una bestemmia, per di più pronunciata all'ora di cena in tv, nella casa di ogni italiano. Quando, poi, l'inchiesta smentì la diversità della Lega, che anzi era spesso complice o nel silenzio o nella connivenza - come si vedrà con il caso Belsito anni dopo - la scoperta scatenò tutti i pretoriani del governo Berlusconi - e un impegno diretto dell'allora ministro dell'Interno. Roberto Maroni si precipitò a smentire in ogni angolo delle tv, cercando di far passare la presenza criminale al nord come una cosa minore, anzi scontata: lo sapevano tutti, e poi la Lega non c'entrava. I professionisti del fango iniziarono a raccogliere firme contro di me che osavo dare "del mafioso al nord". Finì così anche la mia esperienza in Rai: dopo aver raccontato come imprenditoria criminale e politica si saldano in una esponenziale crescita economica corrotta. Ma torniamo alla sentenza. Era il luglio del 2010 quando partì il blitz dell'inchiesta Infinito-Crimine: 154 arresti in Lombardia, altri 156 in Calabria. L'inchiesta della Dda di Milano svelava gli interessi mafiosi nelle Asl, l'infiltrazione nelle istituzioni pubbliche, le prime mire sull'Expo, i subappalti, le estorsioni, le aziende che vengono divorate perché - senza liquidità - si affidano a linee di credito delle 'ndrine. E ancora: la scoperta di una "confederazione" di diversi locali di 'ndrangheta nella struttura definita "Lombardia". Il tentativo del boss Carmelo Novella di rendersi sempre più autonomo rispetto alle 'ndrine calabresi, che dimostra il grado di maturità raggiunto dalla 'ndrangheta al nord, e la sua conseguente eliminazione. Ecco: tutto questo oggi non sono più accuse, ipotesi o condanne di primo o secondo grado. Oggi siamo di fronte a una sentenza di Cassazione e questa sentenza è chiara: l'inchiesta Infinito è confermata, al nord la 'ndrangheta comanda con una sua struttura unitaria. Ecco perché questa sentenza sta alla lotta della mafia come la scoperta dell'atomo alla ricerca fisica. I pm Ilda Boccassini, Paolo Storari e Alessandra Dolci della Dda, insieme con i Carabinieri, la Dia, i Ros di Milano e la Polizia - questa è un'indagine in cui credette molto il compianto Antonio Manganelli - hanno compiuto un'operazione complicatissima. E il ruolo di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino - all'epoca dei fatti procuratore a Reggio Calabria e ora a Roma - è stato fondamentale per permettere l'elaborazione di questa inchiesta doppia: fatta da sud e da nord. Perché questa sentenza non mostra semplicemente che c'è una presenza mafiosa al Nord: questo lo sapevamo dagli anni Settanta e a dimostrarlo c'erano già state diverse sentenze. No, questa sentenza dimostra invece che la presenza della 'ndrangheta non è più frutto di "invasioni", di cellule che vagano e arrivano ovunque anche al nord. Dimostra che la Lombardia, e più in generale il nord Italia, sono ormai diventati territorio di mafia. Questa sentenza fa cadere anche l'ultimo finto sillogismo: "Se è vero che tutti i meridionali non sono mafiosi, è vero però che tutti i mafiosi sono meridionali". Non è così: non è più così. I rapporti strutturali con il territorio e i meccanismi scoperti smontano l'idea che si sia trattato di invasione. Ma suggeriscono, al contrario, la formazione a livello locale di meccanismi e di cultura mafiosa. Di più. L'inchiesta dimostra che l'imprenditoria e una parte delle istituzioni lombarde si connettevano alle organizzazioni criminali per rafforzarsi, per consolidare potere economico. I livelli di responsabilità sono diversi, ovviamente: ma non v'è stata, da parte della politica, una vera scelta di contrasto al segmento economico mafioso. Per ultimo, andrebbe ricordato come ha lavorato l'Antimafia di Milano. Su Ilda Boccassini è stata riversata da anni una caterva senza precedenti di insulti e accuse, esterne e interne. Il pm non ha mai risposto agli attacchi: lo fa oggi, con questa sentenza storica che cambia il paese. Intercettazioni, riscontri, pedinamenti. L'inseguimento dei flussi di denaro, il ruolo delle banche, gli investimenti sospetti. E poi i traffici, gli omicidi. Anni, silenziosi, di inchiesta: senza colpi di scena, fughe di notizie, arresti chiassosamente eccellenti. È così che sono arrivati i risultati. E ora che cosa diranno coloro che hanno governato e governano la Lombardia? Quali firme raccoglieranno, quali bugie racconteranno i professionisti del fango? Da oggi è ufficiale: le mafie non riguardano più solo il Sud.
La mafia al Nord: quando dirlo era troppo scomodo, scrive Tiziano Resca su “Avvenire”. A volte può bastare un film per risvegliare la memoria, incrinare un comodo torpore e ricondurci a forza dentro la realtà. Tre giorni fa è stata presentata una realizzazione Rai dal titolo L'assalto. Andrà presto in onda, è una storia che si muove tutta al Nord del Paese, scosso dai tentacoli della più pericolosa piovra: la mafia, la 'ndrangheta, tutto quanto fa business sporco in modo facile e spietato muovendosi in una società in crisi di ogni cosa, o quasi. La "mafia al Nord" è un'ombra che si è fatta concreta almeno da una decina d'anni, ma che secondo alcuni ha origine negli anni Sessanta-Settanta, quando almeno cinquecento "uomini d'onore" vennero sottratti al loro brodo di coltura e inviati in quelle regioni grazie alla legge sul soggiorno obbligato. Oggi decine di inchieste, centinaia di arresti anche eccellenti, altrettanti "affari sporchi" portati alla luce hanno ormai dimostrato come uomini dei clan siano ben attivi in molta parte del Settentrione. Ma per lungo tempo i sospetti sulla mafia al Nord hanno trovato altalenanti risposte. Se qualcuno lanciava un allarme, qualcun altro cercava spesso di sopire, sminuire, dimenticare. Perché era vista come gratuita denigrazione – scomoda e imbarazzante – la sola idea che cosche e 'ndrine potessero davvero estendere i propri confini, incunearsi in zone dove più allettanti erano interessi e affari, cercare complicità e collusioni sempre più aggrovigliate e raffinate. Insomma, sarebbe stato come ammettere che quei tentacoli al Nord potevano contagiare anche parte del potere politico piccolo o grande, e gestori della cosa pubblica a livello locale. Sindaci di importantissime città e funzionari dello Stato sobbalzavano sulla poltrona solo a sentire quella parolaccia e la stessa Lega, partito decisivo nella gestione delle regioni settentrionali – Lega che peraltro aveva espresso un ministro dell'Interno quale Roberto Maroni, impegnato in una severa lotta ai clan – fu a volte protagonista di polemiche contro chi sosteneva che fosse in atto una strategia espansionistica delle cosche. Oggi – negli ultimi anni – una più diffusa presa di coscienza anche a livello politico ha certo fornito qualche puntello in più a magistrati e forze dell'ordine. Ma ormai le macerie lasciate dai nuovi "colletti bianchi" dei clan – forse meno dediti dei loro predecessori all'omicidio, ma ben specializzati in riciclaggio, usura, estorsioni, minacce – restano ad ingombrare le terre del Nord. Dove, per lorsignori, le attrattive continuano a non mancare. Milano, e con essa buona parte del Settentrione, sta viaggiando verso l'Expo 2015. Va riconosciuto: c'è la massima attenzione sui rischi di infiltrazione negli appalti. Ne parlava già esattamente quattro anni fa l'allora presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu. Lo scorso mese la stessa Commissione, ora presieduta da Rosy Bindi, è stata in trasferta a Milano. Anche in questa occasione si è riusciti ad innescare qualche polemica a livello politico, ma pazienza. Quello che conta è che, a giochi fatti, non si creino i presupposti perché tra qualche anno i luoghi dell'Expo siano al centro di iniziative come quella appena avviata sulla costa romagnola: un tour in pullman sui luoghi della mafia, una sorta di gita tra alberghi bar ristoranti simbolo della colonizzazione dei clan. Ottima l'intenzione di sensibilizzare, forse discutibile il metodo.
Eppure c'è ancora chi nega l'evidenza.
Le ossessioni di Saviano fanno il gioco della mafia. Il fatto che al Nord ci sia la mafia non vuole dire in alcun modo che il Nord sia mafioso, e neppure che rischi di essere contaminato, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Saviano, lo scrittore di mafia, gode come un matto. È entusiasta perché una recente sentenza della Cassazione ha stabilito, per legge, che la 'ndrangheta del Nord non è una parente povera della 'ndrangheta del Sud, ma è la stessa cosa. «Avevo ragione io - dice e scrive in queste ore -, il Nord è in mano alla mafia». Quella di Saviano ormai è una ossessione, direi un tifo interessato: senza la mafia non saprebbe che scrivere e addio libri, articoli, conferenze e incontri antimafia. Ora io non metto in dubbio le parole della Cassazione, è che mi sembra la scoperta dell'acqua calda. Mi sembra ovvio che la mafia ci sia, evidente che ci sono i mafiosi ma, addetti ai lavori a parte - direi maniaci a parte -, chi se ne importa se i clan che operano a Milano sono gli stessi o solo cugini di quelli che comandano a Corleone o a Reggio Calabria. Quello che Saviano non vuole capire - o finge di non capire - è che il fatto che al Nord ci sia la mafia non vuole dire in alcun modo che il Nord sia mafioso, e neppure che rischi di essere contaminato. Un conto è infiltrarsi in un appalto, riuscire a inserire con l'inganno un proprio esponente in una struttura pubblica o politica, altro è inquinare il vivere della comunità, comandare, disporre della vita e della testa delle persone. Fattene una ragione, caro Saviano, noi al Nord non siamo e non potremo mai essere in balia della mafia. Sappiamo combatterla ed estirparla non appena ne individuiamo una cellula. Non siamo omertosi, non siamo solidali, non applaudiamo i mafiosi all'uscita dalle caserme quando vengono arrestati, non insultiamo né aggrediamo - come avviene purtroppo in tante, troppe zone del Sud - i poliziotti che ammanettano i boss. Ci possono essere in giro - e probabilmente ci sono - anche migliaia di mafiosi, ma restano un corpo estraneo alla comunità. Al Nord un mafioso non è un padrino e neppure un uomo d'onore: è solo un criminale da assicurare alla giustizia il più presto possibile. Capiamo che chi ha costruito la sua fortuna economica e professionale sull'antimafia sia costretto a soffiare sul fuoco per tenere alti tensione e interesse. Buttafuoco, raffinato scrittore siciliano, di recente ha scritto che ci sono due tipi di mafia: la mafia e la mafia dell'antimafia. Un suo celebre conterraneo, Leonardo Sciascia, sostenne questa tesi già nel 1987, e per questo fu cacciato dal Corriere della Sera e linciato dai suoi amici comunisti. Chi sostiene che «tutto è mafia» porta inevitabilmente la gente all'assuefazione che «nulla è mafia». A vantaggio, caro Saviano, della mafia.
La mafia al nord? Saviano si sbaglia, scrive Franco Pelella su “Il Corriere della Sera”. Caro Beppe, Roberto Saviano ha preso spunto dalla recente sentenza della Corte di Cassazione relativa all’inchiesta “Infinito” per sostenere di nuovo una tesi da lui ripetuta più volte e cioè che la mafia è diffusa capillarmente nel nord dell’Italia. Secondo lui la sentenza “Dimostra che la Lombardia, e più in generale il nord Italia, sono ormai diventati territorio di mafia”. (“La ‘ndrangheta nata al Nord che nessuno voleva vedere”; La Repubblica, 8/6/2014). La mia opinione è che la sentenza della Cassazione mette in evidenza una consistente presenza della mafia al Nord ma essa non basta per dire che siamo di fronte ad una sua presenza capillare. Secondo me l’errore di fondo che fa Roberto Saviano è quello di basare le sue affermazioni su poche fonti di dati (soprattutto i processi) piuttosto che su molteplici fonti, come sarebbe corretto che facesse un sociologo “ad honorem” come lui. Se avesse consultato la ricerca più completa sulle mafie italiane (“Gli investimenti delle mafie”, redatta nel 2013 dal Centro di ricerca “Transcrime” dell’Università Cattolica di Milano) avrebbe avuto un quadro più completo del problema e avrebbe tratto conclusioni diverse. Il Centro “Transcrime” ha effettuato una misurazione della presenza delle organizzazioni mafiose sul territorio nazionale; tale misurazione è stata effettuata mediante la creazione dell’indice di presenza mafiosa (IPM). Il risultato finale del calcolo dell’IPM è una graduatoria delle regioni italiane formulata sulla base di tale indice. Ecco la graduatoria delle prime dieci regioni sulla base dell’IPM calcolato per ognuna di esse: 1) Campania 61,21; 2) Calabria 41,76; 3) Sicilia 31,80; 4) Puglia 17,84; 5) Lazio 16,83; 6) Liguria 10,44; 7) Piemonte 6,11; 8) Basilicata 5,32; 9) Lombardia 4,17; 10) Toscana 2, 16.
Il Giornale, Feltri: "Firmate contro Saviano che dà del mafioso al Nord". Il direttore editoriale del quotidiano di via Negri chiama a raccolta i suoi lettori contro lo scrittore di Gomorra, "reo" di aver parlato delle collusioni tra 'ndrangheta e Lega: "Sono fanfaronate, senzazioni che fanno guadagnare, non notizie", scrive Elena Rosselli su “Il Fatto Quotidiano”. Il giorno dopo l’arresto di Antonio Iovine, boss dei casalesi latitante da 14 anni, Il Giornale va alla guerra contro Roberto Saviano. In prima pagina, Vittorio Feltri, lancia l’iniziativa: “Una firma contro Saviano che dà del mafioso al Nord”. A fianco dell’editoriale al veleno dedicato allo scrittore, il quotidiano di via Negri mette a disposizione un indirizzo mail e numeri per fax ed sms invitando i lettori a scrivere chiaramente il proprio nome e cognome per dire al “signor Gomorra” che “Sondrio non è Casoria, Como non è torre Annunziata e Brescia non è Corleone”. Lunedì sera, durante il suo monologo nel programma di Raitre “Vieni via con me”, Roberto Saviano aveva raccontato la risalita delle organizzazioni criminali lungo lo stivale accostando alcuni esponenti della Lega al fenomeno della ‘ndrangheta in Lombardia. Durissime le reazioni il giorno dopo da parte degli esponenti del Carroccio. Ad arrabbiarsi più di tutti, il ministro dell’Interno Maroni che ha immediatamente chiesto alla Rai di poter replicare alle accuse dello scrittore campano nella puntata di lunedì prossimo. Alla risposta negativa del capostruttura di Raitre Loris Mazzetti, il titolare del Viminale ha prima minacciato querela e chiesto l’intervento del Quirinale, poi ha proposto allo scrittore “di metterci una pietra sopra e lavorare insieme contro la criminalità”. Tutto questo, nel giorno in cui la Direzione investigativa antimafia (Dia), lancia l’allarme sulle collusioni fra imprenditori e ‘ndrangheta in Lombardia. E in cui il Viminale mette a segno un gran colpo nella lotta alla criminalità organizzata: l’arresto di Antonio Iovine, superboss dei Casalesi latitante da 14 anni. Non sotterra l’ascia di guerra però Il Giornale, che in un servizio di cinque pagine attacca l’autore di Gomorra e chiama a raccolta i lettori perché esprimano tutto il loro sdegno contro l’accostamento tra lombardi e criminali. In prima pagina, Feltri dopo aver ricordato che “questo governo, quanto nessun altro prima, si è distinto nelle botte alla mafia”, si chiede: “E un giovanotto campano letterariamente fortunato salta su a dire che la Lega fa affari con la cupola?” Scontata la conclusione: “Ma ci faccia il piacere”. Secondo l’editorialista de Il Giornale, quelle di Saviano, “più che riflessioni sono fanfaronate”. Esagerazioni che portano soldi: “Compilare cronache (con pretese di saggio) sulla mafia sia redditizio assai e dia titolo per avere accesso agli studi televisivi, con relativo compenso, tuttavia ciò non affranca dal dovere di non spacciare sensazioni per notizie”. Insomma, la’ndrangheta al Nord? Per Feltri una “senzazione” di Saviano. Ecco perché i lombardi “che nel loro piccolo si incazzano”, secondo il quotidiano di via Negri sommergeranno il giornale di mail, messaggi e fax di adesione alla campagna. Ma il servizio contro Saviano non si limita alla prima pagina. Sono sei le facciate che Il Giornale dedica allo scrittore. Innanzitutto la cronaca della querelle tra Saviano e Maroni. Laddove l’autore di Gomorra diventa “il Pippo Baudo dell’antimafia ” (Borghezio dixit), il titolare del Viminale appare l’eroe buono che perdona “il telepredicatore impreparato” Saviano e gli chiede di “deporre le armi”. La terza pagina, sotto l’etichetta “agguato al Carroccio” è dedicata a un vecchio racconto di Saviano, “Un sogno padano” che lo scrittore aveva pubblicato nel 2003 per Nazione Indiana, una rivista letteraria online di Milano. Secondo l’articolo, dal “sogno” dello scrittore di Casal di Principe si capirebbe cosa egli pensi esattamente del Carroccio: “L’armata padana guidata da Bossi è un esercito pronto a usare il mitra contro immigrati, meridionali e negri. Il Saviano d’antan – continua l’articolo – è lo stesso di oggi, feroce con il Nord, settario e fazioso”. A fianco il commento di Salvatore Tramontano nota strani parallelismi tra la scelta dell’argomento criminalità – Lega usato dallo scrittore in Vieni via con me e l’uscita ieri della relazione della Dia che affronta l’esistenza dell’ndrangheta al Nord (inviata al Parlamento ieri, ma terminata a ottobre, e comunque controfirmata dal ministro dell’Interno Maroni, ndr). “La fabbrica sudista del fango ha subito sfruttato la relazione della Direzione investigativa antimafia – scrive Tramontano – che parla, con una coincidenza un po’ sospetta di tempi, di una presenza consolidata della malavita in Lombardia”. La penultima pagina del servizio, titolata “le balle di Saviano“, riprende articoli già usciti su Il Giornale sugli “strafalcioni” dell’autore di Gomorra accusato di aver “scopiazzato” pezzi di altri giornalisti per comporre il suo celebre reportage sulla camorra: “Così Saviano ha copiato Gomorra. Interi brani ripresi, senza citarli, da ‘corrispondenze di guerra’ di cronisti con l’elmetto da sempre”. Lo scrittore è chiamato in causa anche per le sue “amicizie imbarazzanti”: “Improbabile il legame tra Roberto e Pietro Taricone“. Perché? “Per i quattro anni di differenza”. A chiudere il cerchio degli articoli contro Roberto Saviano è Vittorio Sgarbi con un commento dal titolo “Scrittori coraggiosi? La malavita si combatte sul campo”. Il critico d’arte indossa la fascia tricolore in qualità di sindaco di Salemi e dopo essersi lamentato per il mancato invito a Che tempo che fa “perché sono un maleducato”, lancia la bordata contro Saviano “il coraggioso scrittore con scorta”. Sgarbi si paragona all’autore di Gomorra: “Anch’io vivo sotto scorta per le mie denunce, dalla Sicilia al business eolico in Molise”. Secondo il critico d’arte Saviano in trasmissione è stato “evasivo e non convincente” perché “non ha parlato di Molise, Puglia, Calabria e Sicilia, martoriate dalle pale eoliche con profitti miliardari e arresti di mafiosi. Niente, a Saviano non interessa”. Sgarbi è preoccupato per il Molise: “Vedo il Molise in pericolo. Lì con l’eolico fa affari la camorra”. Peccato che Feltri, nella conlusione dell’editoriale in seconda pagina dica il contrario e citi il Molise come esempio di regione del Sud virtuosa: “Nel Molise ad esempio, la camorra e la Sacra Corona Unita non hanno mai attecchito, perchè questa è terra sannita, e i sanniti, che hanno rotto le ossa ai romani, non hanno paura dei bulli con la pistola protagonisti di Gomorra”. Le firme contro Saviano non arrivano a sorpresa. Gli house organ di Berlusconi lavoravano da giorni a diverse varianti sul tema. Ieri mattina Libero apriva con questo titolo: “Saviano ha rotto i Maroni”. Il quotidiano di Maurizio Belpietro spiegava: “Il ministro, che ha arrestato 6500 boss in due anni, si appella al Quirinale contro le accuse dello scrittore alla Lega: “Devo andarmene?” Poi la chiosa: “Ora il presidente scelga se stare con le istituzioni o con l’avanspettacolo”. Ventiquattro ore dopo, via alla raccolta di firme su Il Giornale. A questo punto non resta che aspettare i titoli e le iniziative di domani.
Si moltiplicano intanto le iniziative a favore di Roberto Saviano. Il sito di Articolo21, l’associazione per la difesa della libera informazione diretta da Stefano Corradino, risponde a Il Giornale con l’appello “Una firma per Roberto Saviano (che dà dei mafiosi ai mafiosi)”. ”E’ grazie a Saviano e a tanti altri giornalisti che coraggiosamente indagano sulla criminalità, sui rapporti tra mafia, economia e politica – spiega Corradino – se si è aperto uno squarcio, uno dei tanti muri di omertà di questo Paese e se si è arrivati agli arresti di capi clan come Antonio Iovine”. “Per questo siamo con Roberto – conclude il direttore di Articolo21 – e con tutti i Saviano che ogni giorno dalle redazioni più grandi a quelle più sperdute, da nord a sud, ingaggiano una battaglia difficile e rischiosa contro la criminalità e i suoi intrecci perversi”.
Mafia e politica al Nord, ecco la mappa: 74 casi, il record a Milano con 18. L'analisi di ilfattoquotidiano.it basata sui dati delle inchieste giudiziarie degli ultimi quattro anni, dalla Liguria alla Lombardia. Un cittadino su cinque amministrato da almeno un personaggio avvicinato dai clan, soprattutto di 'ndrangheta. Cinque i Comuni sciolti sopra la linea del Po. Il sostegno elettorale al primo posto tra i motivi che determinano l'approccio, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. Cinque comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e un centinaio di relazioni pericolose. È la fotografia dei contatti tra ‘ndrangheta e politica nel nord Italia scattata dalle più importanti inchieste antimafia degli ultimi quattro anni. Un quadro inquietante, sicuramente incompleto, che descrive il tentativo dei clan di influenzare la vita amministrativa di comuni, province e regioni anche nel profondo nord del Paese. Le indagini realizzate dal 2009 al 2013 indicano che il 20 per cento dei cittadini di Piemonte, Liguria e Lombardia, ossia 1 su 5, è stato amministrato o rappresentato da almeno un politico accusato di affiliazione o concorso esterno in associazione mafiosa. Circa 75mila abitanti del nord-ovest dal 2011 vivono in un comune sciolto per mafia. E in questo quadro la provincia di Milano, con quella di Torino e Genova, risulta l’area in cui più forte è il tentativo di condizionamento dei risultati elettorali. Spulciando i documenti dell’antimafia e tenendo conto solo di politici in carica e candidati – e non di uomini di partito o funzionari, che pure figurano – si ricava un elenco di almeno 74 casi di avvicinamento tra rappresentanti delle istituzioni e criminalità calabrese (grande protagonista, pochissime volte affiancata o sostituita da Cosa nostra). La stragrande maggioranza dei casi non contiene alcun reato, e in ogni caso tutte le persone citate sono da intendersi innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma gli episodi tutti insieme tracciano una prima mappa inedita dell’assalto dei clan alla politica del Nord Italia. Emergono le scelte degli uomini legati alla malavita e quella rete di “relazioni esterne” dell’organizzazione criminale che, anche quando non ha rilevanza penale, contribuisce a fare della mafia un sistema di potere e non un semplice gruppo armato. Sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, i rapporti individuati possono essere classificati in cinque tipi per livello di coinvolgimento, a prescindere dal loro profilo penale che, lo ribadiamo, resta perlopiù irrilevante (o, in alcuni casi, ancora da provare definitivamente in tribunale). Si passa dal semplice contatto (30 per cento degli episodi), cene, pranzi e appuntamenti in cui gli uomini dei clan tentano un primo abboccamento, al sostegno elettorale (43 per cento), che rappresenta il tipo di rapporto maggiormente rilevato e nasce talvolta da una scelta spontanea dei malavitosi (una decisione in ogni caso mai gratuita, almeno nelle intenzioni), per arrivare agli episodi in cui più chiaramente emerge una prospettiva di accordo tra le parti (16 per cento). A questi si sommano infine gli episodi in cui, secondo gli inquirenti, politici e amministratori si relazionano agli uomini di mafia sapendo bene con chi hanno a che fare: 5 casi di presunta affiliazione e 3 di concorso esterno in associazione mafiosa. Le inchieste rivelano che il sostegno elettorale è il motivo di contatto più frequente tra cosche e classi dirigenti, così come lo scambio tra voti e appalti è la base di ogni scioglimento comunale per mafia. I voti sono una merce molto richiesta, la buccia di banana su cui rischiano di scivolare anche i politici più scafati. Passa tutto da lì: è il peccato originale che i clan sfruttano per ricavare beni e favori all’organizzazione criminale. In questo contesto i comuni sciolti per infiltrazioni mafiosa, Bordighera (il cui commissariamento è stato successivamente annullato), Ventimiglia, Leinì, Rivarolo e Sedriano, raccontano solo una parte della storia. Guardando ai rapporti tra politica e mafia ogni territorio, comune, collegio o circoscrizione elettorale del nord Italia diventa lo specchio del potere conquistato dai clan. L’area di elezione di politici e amministratori costituisce infatti lo spazio su cui si misura la capacità mafiosa di penetrare le istituzioni, condizionare un territorio e la sua vita democratica. La dimensione della sua scalata al potere. In questa classifica alla città di Milano tocca il valore massimo, con 11 episodi segnalati. E i numeri peggiorano quando gli episodi si sovrappongono sullo stesso territorio. La cifra che ne risulta (indicata nella mappa con una diversa gradazione di colore) è ben più grave e colloca, ad esempio, il capoluogo lombardo in vetta alle posizioni con 18 casi complessivi. Nelle intercettazioni e nei documenti ufficiali (i dati sono aggiornati al 31 dicembre 2013), la stragrande maggioranza dei politici si mostra inconsapevole, distratta, responsabile tutt’al più di una caccia al consenso che conduce talvolta a pericolosi incontri ravvicinati. E infatti tutti i politici si dichiarano estranei a qualsiasi coinvolgimento o responsabilità. Le relazioni con uomini legati ai clan nascono spesso in un’area grigia popolata da colletti bianchi, affaristi e fiancheggiatori di ogni sorta, in cui si stringono molte mani e non sempre è facile capire chi si ha di fronte. Capita, poche volte per la verità, che i politici vengano addirittura scelti a loro insaputa, sostenuti dai “calabresi” per giochi di sponda o di interessi incrociati, quando collettori di voti – luogotenenti dei boss, uomini di partito, affaristi e persino genitori o parenti – intercettano per i candidati inconsapevoli i consensi della rete criminale (è il caso, ad esempio, del sindaco di Torino Piero Fassino o delle giovani Fortunata Moio e Teresa Costantino). Accanto a questi episodi emergono però anche abboccamenti diretti e più compromettenti. Richieste di voto avanzate senza fare troppe domande. In questi casi i politici coinvolti non possono negare di aver chiesto quei voti, ma giurano di non aver minimamente sospettato della qualità criminale dei loro interlocutori, in alcuni casi ancora da provare in tribunale. Sono gli episodi in cui, come scrivono i magistrati della procura di Milano “non sempre è l’appartenente alla mafia che si infiltra nella società civile” ma “esponenti di istituzioni, della società civile o delle professioni ricercano il rapporto con la mafia”. A questi fatti si sommano poi alcuni casi limite, una decina in tutto, in cui lo scambio, secondo gli inquirenti, avviene nella piena ed esplicita consapevolezza dei ruoli. È sconcertante vedere quanto in alto riescano a salire gli uomini legati alla criminalità calabrese, nei loro rapporti, prima che scatti un qualche campanello d’allarme. Come un sasso tirato nello stagno, i rapporti tra mafia e politica disegnano centri concentrici che si propagano da alcuni punti nevralgici verso l’esterno. Più rapidi a diffondersi sono trovano interlocutori disponibili, più radi dove i servizi mafiosi non hanno mercato. Dal punto di vista della collocazione politica il partito di gran lunga più avvicinato è il Pdl, con 40 episodi, coincidenti ad oltre la metà dei casi totali, per il resto quasi equamente distribuiti tra Pd, Udc, Idv, liste civiche e altri partiti. Mentre sono tutte di centro-destra le amministrazioni dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. I comuni commissariati per mafia sono tutti medio-piccoli, ma il dato non deve trarre in inganno. I tentativi di contatto riguardano infatti anche consiglieri e amministratori provinciali, regionali, nazionali e persino un parlamentare europeo. Se negli ultimi 4 anni i boss calabresi hanno contattato, sostenuto o fatto accordi con 10 sindaci, 6 assessori e 22 consiglieri comunali (guardando ai soli candidati eletti), i rapporti che superano la soglia comunale rappresentano nel complesso circa il 40 per cento del totale, con 12 avvicinamenti di consiglieri o assessori regionali e 6 di politici con cariche provinciali.
Nota metodologica e fonti. I dati riportati nella mappa e nei grafici sono aggiornati al 31 dicembre 2013 e riguardano gli episodi contenuti nelle principali inchieste antimafia realizzate dal 2009 al 2013. Il partito di appartenenza e la carica dei politici sono relativi al momento del contatto con l’organizzazione criminale. Molti di loro hanno successivamente assunto altre cariche, o cambiato partito. Non sono stati classificati gli intermediari o gli uomini di partito senza cariche rappresentative o amministrative al momento del contatto. La mappa segnala esclusivamente i politici citati negli atti giudiziari, molti dei quali non sono neppure indagati, e comunque tutti sono da considerarsi non colpevoli fino all’ultimo grado di giudizio. Ad ogni soggetto è attribuito un territorio in relazione al contesto di elezione: comune, collegio o circoscrizione. La situazione giuridica indicata per ognuno riguarda esclusivamente le condotte che abbiano attinenza con il tema della ricerca. Nel caso del sostegno elettorale, per ogni soggetto è indicata la carica conquistata anche grazie al sostegno mafioso e, in caso di mancata elezione, la carica – se presente – posseduta prima della candidatura. Viceversa compare la dicitura “non eletto”. Il lavoro ha utilizzato le seguenti fonti: Relazione Commissione antimafia XVI legislatura, gennaio 2013; G. Barbacetto e D. Milosa, Le mani sulla città, Chiarelettere, 2011; E. Ciconte, Politici e malandrini, Rubbettino, 2013; Marco Grasso e Matteo Indice, A meglia parola, De Ferrari, 2013; Vittorio Mete, Fuori dal Comune, Bonanno, 2009; M. Portanova, G. Rossi, F. Stefanoni, Mafia a Milano, Melampo, 2011, Rocco Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, Donzelli, 2009. Archivio web de Ilfattoquotidiano.it. La Repubblica, Il Corriere, La Stampa e alcune testate locali. I dati demografici e i confini territoriali attingono agli ultimi rilevamenti Istat (2011-2013).
Nicola Gratteri: "Non c'è mafia senza corruzione". Il maxiprocesso, tra Milano e Reggio Calabria, ma anche le inchieste sulla corruzione che devastano il Nord: quanto sono legate mafia e corruzione e soprattutto che fare, per essere efficaci? Ne parliamo con il procuratore aggiunto Nicola Gratteri, scrive Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana”. Nicola Gratteri è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ha lavorato con Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, al ramo calabrese dell'inchiesta nota alle cronache come Crimine-Infinito. Il troncone lombardo, coordinato da Ilda Boccassini, Paolo Storari e Alessandra Dolci, nei giorni scorsi ha avuto piena conferma in Cassazione, mentre il Paese annega nella corruzione dilagante.
Dottor Gratteri, è davvero una sentenza storica? Perché?
«Certamente è di fondamentale importanza, la sentenza della Cassazione conferma la presenza massiccia della ‘ndrangheta in Lombardia, ma anche in passato ci sono state inchieste di enorme rilievo, grazie a magistrati quali Alberto Nobili e Armando Spataro, che hanno dimostrato l’esistenza della ‘ndragheta in Lombardia. Purtroppo, c’è la tendenza a dimenticare, a sottovalutare esiti giudiziari importanti, quali quelli scaturiti da indagini come Nord-Sud, Zagara, La notte dei Fiori di San Vito e Riace. L’inchiesta Crimine-Infinito ha confermato molte delle “intuizioni investigative” del passato sull’unitarietà della ‘ndrangheta e sulla capacità di questa organizzazione criminale di mettere radici anche lontano dai territori di origine».
Quel processo, iniziato con l'indagine diventata pubblica nel 2010, svelava tra l'altro gli appetiti della 'ndrangheta sull'Expo, oggi ne vediamo, da altre indagini, la faccia corrotta: è un caso corruzione e criminalità organizzata spesso ramifichino dalla stessa malapianta?
«Il professor Antonio Nicaso, mio coautore ed esperto di mafie a livello internazionale, dice sempre che ci può essere corruzione senza mafia, ma non c’è mafia senza corruzione. Le indagini confermano questo assioma. Quello che prima si faceva con la violenza, oggi si fa con la corruzione, utilizzando prestanomi, avvocati, broker, commercialisti, faccendieri di ogni tipo. Le mafie, ed in modo particolare la ‘ndrangheta che ricava gran parte dei suoi proventi dal traffico internazionale di cocaina, ha bisogno di giustificare la propria ricchezza. Cerca di infiltrarsi dove c’è da gestire denaro e potere. Lo fa da sempre, anche se parte della politica tende a dimenticare e a sottovalutare gli esiti processuali, probabilmente per una sorta di marketing territoriale».
Che cosa deve aspettarsi un magistrato dal legislatore per un contrasto serio?
«Bisogna continuare ad aggredire i patrimoni mafiosi, ma soprattutto le cointeressenze, sempre più frequenti, tra politici e mafiosi. La lotta alle mafie non può prescindere da questi presupposti investigativi. Le mafie vanno impoverite, così come le risorse pubbliche vanno attentamente monitorate. Se non cominciamo a fare pulizia nel settore delle opere pubbliche, faremo sempre più fatica a combattere le mafie. Le organizzazioni mafiose per sopravvivere e rafforzarsi hanno bisogno di stringere relazioni con il potere».
La magistratura per reprimere, l'authority e la politica per prevenire: quanto è importante che le due cose coesistano?
«Sono due aspetti fondamentali. Non dovrebbe essere la magistratura a fare le pulci alla politica. Dovrebbe essere la politica a isolare i comportamenti discutibili, i rapporti con i mafiosi, le frequentazioni pericolose. Una volta c’erano i probiviri, oggi avanzano i furbi. La politica dovrebbe rimettere l’etica, i comportamenti virtuosi al centro del dibattito. Quando interviene la magistratura spesso è troppo tardi. Bisognerebbe prevenire certe pratiche e certi comportamenti. Mi auguro che la politica sia in grado di rigenerarsi».
Quanto è alto il rischio che si prevenzione e azione penale si intralcino a vicenda?
«Per combattere le mafie, così come la corruzione, c’è bisogno di una forte volontà politica. Nel rapporto presentato all’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, abbiamo indicato una serie di proposte. Mi auguro che il Parlamento abbia la forza e la volontà di adottarle».
Sentiamo parlare di poteri speciali all'Authority, di che cosa avrebbe bisogno per non essere una foglia di fico?
«Avrebbe bisogno di tutti quei poteri necessari per incidere, garantendo strumenti legislativi adeguati. Cantone è stato chiaro: non ha nessuna intenzione di fare passerella. È un magistrato serio e preparato. Resterà al suo posto, solo se gli verranno garantiti i poteri che ha chiesto al Governo».
Quando si parla di commissariamenti e di appalti da revocare le imprese insorgono e i lavoratori temono per il lavoro: esistono modi concreti di ripulire senza fermare tutto? O è un'utopia una volta scoperto un caso Expo, un caso Mose?
«Bisogna fare prevenzione, bisogna seguire attentamente tutta la filiera degli appalti. Si potrebbe cominciare con una sorta di “white list", una lista nella quella figurano aziende con profili virtuosi, affidabili, lontane da compromessi e contiguità politico-mafiose».
Esiste ancora una speranza di contrasto quando la corruzione lambisce anche i controllori?
«Esiste solo nella misura in cui si decide di voltare seriamente pagina. Non servono rattoppi, ma misure drastiche ed esemplari. Oggi non domani».
Già, il caso Expo. La denuncia dell'Authority dei contratti a Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione: "Deroghe a ottanta regole, così la spesa è lievitata", scrivono Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su “La Repubblica”. "Appalti senza controlli per mezzo miliardo". È stato più facile costruire le fondamenta dell'Expo che una pista ciclabile a Monza, più semplice affidare un contratto di vigilanza da qualche milione di euro che non assumere due bidelli in una scuola pugliese. In attesa di vedere quello che sarà, l'Esposizione universale del 2015 si è già rivelata per quello che è: una delle più grandi deroghe che lo Stato abbia mai concesso a se stesso. Mezzo miliardo di euro di denaro pubblico sottratto "alle norme e ai controlli" in nome dell'"emergenza" più prevista del mondo. "Ben 82 disposizioni del Codice degli appalti sono state abrogate con quattro ordinanze della Presidenza del consiglio - denuncia Sergio Santoro, l'Autorità garante per la vigilanza dei contratti pubblici - così hanno escluso noi e la Corte dei conti da ogni tipo di reale controllo". Dopo gli arresti dell'inchiesta di Milano, però, è scattato l'allarme e gli uffici tecnici dell'Authority hanno analizzato tutti i contratti per capire cosa sarebbe accaduto se quelle deroghe non ci fossero state, se il Codice nato nel 2006 apposta per combattere i fenomeni di corruzione fosse stato rispettato alla lettera. Ed ecco che sono venuti fuori affidamenti diretti oltre le soglie consentite, goffi riferimenti a commi di legge inesistenti, procedure ristrette poco giustificabili. "Le nostre sono osservazioni - ci tiene a specificare Santoro - fatte sui documenti disponibili online". Numeri, casi, segnalazioni, appunti, finiti in un dossier che Repubblica ha avuto modo di consultare e che è stato consegnato al magistrato Raffaele Cantone, il commissario voluto dal premier Matteo Renzi per evitare altri scempi. Le falle. Per capire di cosa stiamo parlando basta prendere l'opera al momento più famosa dell'Expo, le cosiddette "Architetture di servizio" per il sito, cioè le fondamenta dei capannoni. Famosa per il costo, 55 milioni di euro, ma soprattutto perché attorno a quel contratto ruota l'indagine di Milano sulla banda di Frigerio. Lo ottiene la Maltauro, ma come? Per l'affidamento Expo sceglie di non bandire una gara europea, aperta a tutti, ma di seguire la procedura ristretta. Partecipano sette aziende e dopo la valutazione della commissione vince un'Ati (Associazione temporanea di imprese) che ha come capofila appunto la Maltauro, l'azienda che è accusata di aver pagato mazzette a Frigerio e Greganti. La procura di Milano accerterà cosa è accaduto e come. Per il momento si può dire che a spalancare la porta alla corruzione è stata proprio la legge, permettendo la procedura abbreviata. "Come in molti altri casi per l'Expo - scrive il Garante nel suo dossier - si è seguito il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa". A individuare quale sia, deve essere una commissione di 3 o 5 membri, "imparziale e altamente qualificata". Ma, ed ecco l'anomalia, nell'offerta della Maltauro hanno avuto più peso gli elementi qualitativi "per loro natura soggettivi", quali l'estetica e il pregio, rispetto al prezzo e ai tempi di esecuzione, "che sono invece dati oggettivi". Il punteggio qualitativo era 65 punti, quello quantitativo 35 punti. In sintesi, basta avere dei commissari amici e il gioco è fatto. "Ne abbiamo due su tre", si compiacevano Frigerio e Greganti, al telefono. E lo stesso Maltauro, interrogato dopo l'arresto, ha confermato il sistema. L'urgenza che non c'è. Ma a impressionare l'Authority è l'"emergenza perenne" che tutto giustifica. Perché, per esempio, viene affidato "in deroga" a Fiera di Milano spa l'allestimento, la scenografia e l'assistenza tecnica (2,9 milioni)? "Non si ravvisano evidenti motivi di urgenza - annota Santoro - per un appalto assegnato il 28 novembre scorso, un anno e mezzo prima della data del termine dei lavori". Ancora: con procedura "ristretta semplificata" sono stati dati i 2,3 milioni per il servizio di vigilanza armata a un'Ati (la mandataria è la Allsystem Spa), nonostante quella modalità "è consentita solo per contratti che non superino il milione e mezzo di euro". Sforamenti simili, ma di entità inferiore, sono avvenuti con l'"affidamento diretto", utilizzato 6 volte. "Il tetto massimo ammissibile è 40mila euro", segnala Santoro, ma nella lista figurano i 70mila a un professionista per lo sviluppo del concept del Padiglione 0 e i 65mila per servizi informatici specialistici. Ben 72 appalti sono stati consegnati "senza previa pubblicazione del bando", tra cui figurano il mezzo milione a Publitalia per la fornitura di spazi pubblicitari e i 78mila euro per 13 quadricicli alla Ducati energia, impresa della famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. A Fiera Milano congressi - il cui amministratore delegato era Maurizio Lupi fino al maggio scorso, quando si è autosospeso - viene invece affidata l'organizzazione di un meeting internazionale dal valore di 881mila euro. Anche in questo caso Expo decide di seguire la via della deroga, appoggiandosi a una delle quattro ordinanze della presidenza del Consiglio (il dpcm del 6 maggio 2013). Lo fa in maniera quantomeno maldestra, perché nel giustificativo pubblicato sul sito ufficiale "si rileva un riferimento al comma 9 dell'articolo 4 che risulta inesistente". Un refuso. Il caso Mantovani. Su un caso, la realizzazione della "piastra del sito espositivo", l'Authority si sofferma un po' di più. È l'appalto più consistente, la base d'asta è fissata a 272 milioni di euro. Con un ribasso addirittura del 41 per cento e un offerta di 165 milioni lo ottiene, il 14 settembre di due anni fa, una cordata guidata dal colosso delle costruzioni Mantovani, il cui presidente Piergiorgio Baita sarà arrestato il febbraio successivo nell'ambito di un'inchiesta sul Mose di Venezia. "Con lo stesso aggiudicatario - rileva il garante - Expo ha stipulato però altri due contratti, rispettivamente di 34 milioni e 6 milioni, in opere complementari alla piastra". Un'osservazione che rimane tale, che non arriva ad assumere le forme di una qualche accusa specifica contro la cordata di imprese vincitrici, ma che per Raffaele Cantone (che martedì si incontrerà con Santoro) potrebbe valere un approfondimento. La Pedemontana. Quando l'Authority ha potuto ficcare il naso, sono stati guai. "Solo per la costruzione della Pedemontana - spiegano - non siamo stati esautorati dal nostro ruolo di vigilanza". A marzo del 2013, dopo uno screening dello stato di avanzamento, oltre a segnalare gravi ritardi ha individuato un incremento del costo complessivo dell'opera complementare all'Expo di 250 milioni di euro. Non sarebbe un caso. Nella relazione ispettiva si legge che l'appalto era stato affidato con "elementi oggettivi di distorsione della concorrenza e conseguente alterazione del risultato della gara". In sostanza appalto sbagliato, costi impazziti, autostrada che rischia di non essere mai terminata.
I MANETTARI INFILZATI.
Gli arresti esaltano i manettari: "Nuova Mani pulite". M5S processa Scajola, la Lega chiede pulizia. Pd spiazzato, Forza Italia garantista, scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”. C'è chi prova a salire sulla tigre giustizialista e a cavalcarla (probabilmente incrociando le dita, nella speranza di non trovarsi mai al posto degli indagati). E chi prova a far notare che c'è qualcosa che non va, che ci si trova di fronte a un canovaccio già visto, con una serie di eventi giudiziari a orologeria, dall'ampia eco mediatica, scoppiati a due settimane dal voto. Nel giorno del doppio affondo giudiziario - tra inchiesta Expo e arresto di Claudio Scajola - la politica si muove secondo schemi in qualche modo «identitari». I grillini partono subito all'attacco e in un post sul blog di Beppe Grillo, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato, Maurizio Buccarella, chiede l'approvazione «di una nuova e seria legge anti-corruzione». «Dopo Scajola», recita il post, «ecco la nuova Tangentopoli delle larghe intese sugli appalti Expo 2015. Il Movimento 5 Stelle in tempi non sospetti aveva denunciato con forza come l'Expo fosse un tangentificio a forte rischio corruzione e infiltrazioni mafiose: grandi opere... grandi tangenti!». Il Pd, invece, si muove in modo disordinato. C'è chi riflette sul clima dominante che oggi regna nel Paese e dice a mezza bocca: «Meno male che in giunta per le autorizzazioni a procedere abbiamo votato per l'arresto di Genovese, altrimenti oggi saremmo nel mirino». Nel partito, però, c'è anche chi teme che il voto in aula, che probabilmente ci sarà martedì o mercoledì, possa riservare qualche sorpresa. Matteo Renzi, comunque, invia un messaggio chiaro e invita tutti a stare alla larga dalla materia. «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati», chiarisce il presidente del Consiglio. «I politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura». Toni duri imbraccia, invece, la Lega con Matteo Salvini. «Su Expo vogliamo assoluta pulizia, spiace che certe facce del vecchio mondo siano ancora in giro». Chi non si tira indietro dal sollevare perplessità su modalità e tempistica degli eventi è Forza Italia. Una protesta che va al di là dei calcoli sull'opportunità tattica della presa di posizione e del timore che le manette possano tramutarsi in benzina versata sul fuoco grillino. «Il copione si ripete, non appena sono vicine le elezioni scatta la giustizia a orologeria quasi sempre verso esponenti di centrodestra anche quando, come nel caso di Scajola, non fanno parte di questa competizione elettorale. Forza Italia resta un partito garantista, Scajola dimostrerà la sua estraneità» dice Giovanni Toti. «Noi - prosegue - continueremo nell'azione di rinnovamento delle liste e dei quadri dirigenti del partito in modo totalmente indipendente dall'azione della magistratura». Gianfranco Rotondi invita ad approfondire e verificare dal punto di vista giuridico davvero la detenzione di Scajola sia una fattispecie contemplata dal codice, o non si sia esagerato con questa misura. Infine, Elisabetta Gardini, capolista nel Nord Est, non ha dubbi: «Non dico che ci sia un complotto, ma avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente. Possiamo dire che c'è un cronoprogramma, un affollamento di questi avvenimenti sempre intorno alle campagne elettorali».
Il Mose e le cronache dal Basso Impero, scrive Valerio Morabito su "Blog Taormina". Negli ultimi giorni Venezia non è più la laguna che ci invidia il resto del Mondo. E’ solo una palude in cui emergono, ora dopo ora, loschi affari di diverso colore politico e di vari rami istituzionali. Quella che ormai è ribattezzata la Tangentopoli veneta, infatti, non è un fenomeno circoscrivibile al solo perimetro della politica, ma come detto dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, c’è anche “il coinvolgimento pesantissimo del sistema di controllo”. Tutto ciò rende la vicenda molto più grave di quanto si potesse immaginare e pone in un angolo chi, tra esponenti politici e noti giornalisti, ha cercato di marcare la differenza ludica tra guardie e ladri. In un contesto del genere, purtroppo, non è possibile mettere in luce una dicotomia del genere. Scene da “Basso Impero” avrebbe detto Giorgio Bocca. Situazioni che richiamano alla memoria la decadenza di civiltà ormai logore per provare a rialzarsi, perché appesantite da un sistema così ingarbugliato in cui è impossibile trovare il bandolo della matassa. L’Italia sta vivendo in un’epoca di cui abbiamo sentito parlare nei vari libri di storia, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Questi periodi sono anche una grande opportunità per chiudere i conti con il passato e cercare di ripartire, di ricominciare da zero. Per tale motivo occorre, tra le tante cose, riscrivere le regole. Ci pensa già il magistrato Cantone, il quale ha lanciato un’ipotesi interessante: “Mi pongo il problema, se per il futuro non sia da imporre in tutti i contratti che verranno fatti dal pubblico una regola per la quale chi si macchia di corruzione non possa continuare ad avere appalti”. Inoltre il presidente anticorruzione si dice d’accordo sull’imporre rigidi controlli sui finanziamenti all’associazionismo antimafia: “Qualunque finanziamento erogato dallo Stato o da enti pubblici dovrebbe avere meccanismi di rendicontazione analoghi a quelli pubblici, e chi riceve denaro pubblico dovrebbe essere considerato un pubblico ufficiale”. Con tutte le regole di questo mondo, però, non si può pensare di debellare per sempre i ladri. Ci saranno anche dopo, perché fa parte delle caratteristiche umane. Ciò che importa, prosegue Cantone, è che “le regole devono evitare che i ladri la facciano franca”. Già, da queste parole emergono tutti i limiti della magistratura italiana. Incapace, ormai, di porsi come serio argine a tutto ciò. Anzi, spesso è compromessa in varie vicende come mostra lo scandalo del Mose. Per questo motivo l’ennesima storia di corruzione in Italia, non ha bisogno di tifoserie e partigianerie. C’è poco da schierarsi. Il sistema, come in ogni periodo da Basso Impero che si rispetti, è marcio in toto. Se da un lato è giusto che i colpevoli paghino e siano assicurati alla giustizia, dall’altro lato, per ripartire sul serio in questo Paese, è doveroso dare un freno alle spinte giustizialiste che albergano in alcuni organi di stampa e partiti. E’ vero, il mondo della politica non ha fatto nulla in questi anni per impedire un proliferare di “manettari”, anzi è stato un loro implicito alleato per via di ruberie su ruberie, scandali su scandali. Allo stesso tempo, però, occorre riflettere a cosa porterebbe un sistema in cui i partiti politici siano fondati da ex magistrati in carriera e provino a strumentalizzare le forze dell’ordine, mentre qualche quotidiano si trasformi in gazzettino delle Procure. Se un Paese che si definisce una Repubblica ha la necessità di porre simili distinzioni, vuol dire che qualcosa non va. E non per forza il tutto è una conseguenza degli affari sporchi della politica, perché le vicende degli ultimi mesi dimostrano come siano coinvolti tutti i settori della società italiana. E’ un problema generale e a dividersi superficialmente tra “guardie e ladri” c’è il rischio di confondersi ancora di più. C’è il rischio di mettere sotto al tappeto altri gravi problemi. Del resto il muro contro muro degli ultimi vent’anni ci avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Certo, sono discorsi delicati. Soprattutto in un momento del genere, dove da Venezia giungono notizie inquietanti e sempre nuove. Ad esempio è emersa la “galassia Galan”. Le accuse rivolte nei giorni scorsi all’ex Governatore del Veneto sono solo la punta dell’iceberg, visto che gli inquirenti hanno scoperto ben altro tramite la Franica Doo, una srl di diritto croato. Sotto il coperchio della società la famiglia Galan gestirebbe “il proprio patrimonio estero detenuto in Croazia” costituito da diverse imbarcazioni, molti immobili e conti correnti. Ed emergerebbe anche il tentativo di Galan di realizzare un suo sogno, quello di fare affari con il gas. Il parlamentare di Forza Italia si difende e sostiene che “stanno tentando di scaricare su di me nefandezze altrui. Non mi farò distruggere per misfatti commessi da altri”. Nega tutto anche il sindaco di Venezia Orsoni, il quale davanti al gip ha affermato: “A me hanno chiesto di fare il sindaco, sono un uomo prestato alla politica che non può minimamente fare azioni del genere”. Nel frattempo spunta un altro nome legato al mondo della politica. E’ quello di Davide Zoggia, bersaniano del Partito democratico. Il suo nome sarebbe stato fatto da Lino Brentan, l’ex amministratore delegato della società Autostrada di Venezia e Padova, che in sede di interrogatorio di garanzia l’avrebbe citato, perché “beneficiario di 65 mila euro”. Un finanziamento per la campagna elettorale del politico e il diretto interessato ha replicato dicendo che “non c’è nulla di penale in un tutto ciò”.
Il «Mose» separa le acque e fa riemergere tangenti, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Tempo”. Stando alle prove raccolte in 700 pagine dalla procura veneta parrebbe proprio di sì. E a leggere i capi di imputazione, le intercettazioni, le ricostruzioni dei flussi finanziari e dei fondi neri a larghe intese collegati alle presunte tangenti per la costruzione delle dighe in Laguna, di primo acchito vien davvero voglia di accodarsi ai cori di giubilo di grillini, manettari, giustizialisti, giacobini, di quanti, insomma, gongolano vedendo la gente con gli schiavettoni ai polsi. Epperò, siccome ne abbiamo viste e sentite tante in decenni di pseudo inchieste dalle «prove schiaccianti» (finite col proscioglimento o l’assoluzione degli indagati) preferiamo proseguire verso la giusta via garantista perché la presunzione d’innocenza, a casa nostra, vale sempre, comunque e per chiunque. Questo non vuol dire, però, che l’inchiesta che ha terremotato la città più bella del mondo sia campata in aria. Tre anni di indagine non sono pochi, dunque si presume che gli accertamenti siano stati fatti a puntino e a supporto siano stati trovati i riscontri del caso che giustificano una trentina di arresti e centinaia di perquisizioni. La supervisione del procuratore Nordio (quello che ai tempi di Tangentopoli indagò sulle coop rosse) è una garanzia così come la puntigliosità investigativa del nucleo locale della guardia di finanza che ha fatto emergere l’ennesimo «sistema» di malaffare endemico alla gestione di appalti milionari. Ancora una volta, come per i mondiali di Nuoto o i lavori al G8 per finire all’Expo, le Grandi Opere si rivelano un boomerang per i già disastrati conti pubblici oltreché un volano straordinario per il substrato illecito dell’imprenditorialità e della pubblica amministrazione corrotta. Che sembrerebbe - e ribadiamo il condizionale - aver messo da parte provviste sufficienti a garantirsi campagne elettorali future oltre a far campare sereni i figli dei figli dei figli. Come sempre accade quando scoppia la bomba, accanto ai manettari incalliti, l’altra politica dà il peggio di sé regalando sottili distinguo su questo e quell’indagato o sulle manette pre o post elettorali. Nessuno che rifletta sul Titanic Italia ormai alla deriva, in balia di onde giudiziarie sempre più alte che nessun premier rottamatore o commissario anticorruzione è in grado di fronteggiare più.
Le responsabilità della giustizia per il marciume tangentaro, scrive Vasco Ibatici su “Il Giornale”. Expo, Mose, Tav, Ponte sullo Stretto, ecc.ecc. Mi domando se accuse, indagini, carcerazioni preventive, manette, siano frutto di una denuncia alla magistratura formulata da qualcuno a ragion veduta o se le nostre istituzioni indagano a priori su qualsiasi appalto di media o grande misura perché tanto si sa che qualcosa si trova per dar lavoro alle patrie galere e per ingrassare le casse dello Stato. Si fa di tutto per coinvolgere tutti, si butta il sasso nello stagno creando onde che implicheranno decine di persone, non importa come, con quale grado di gravità e con un clamore che presumibilmente rovinerà la reputazione di molte persone, imprenditori, politici e non. Per poi scoprire, la storia lo insegna, che la maggior parte delle accuse cadranno, i personaggi in gran parte verranno assolti. E allora conviene operare con la massima riservatezza e colpire solo quando ci sono prove inconfutabili di colpevolezza, evitando queste spettacolarizzazioni. Caro Ibatici, le domande che lei allinea sono le stesse che milioni d'italiani, dopo questa valanga di scandali, si pongono. È evidente la necessità d'una azione risoluta contro il diffuso e finora inestirpabile malaffare. Non meno evidente è il rischio che magistrati affetti da protagonismo o dalla sindrome virtuosa del giustiziere o da faziosità politica sferrino colpi durissimi contro aziende e opere pubbliche di importanza vitale, con arresti a raffica. Il che avviene, in un clamore mediatico assordante, quando tecnicamente le colpe sono ancora tutte da dimostrare. Ci sono tanti, troppi politici o burocrati di mano lesta che profittano degli azzeccagarbuglismi legali per farsi sfacciatamente gli affari loro. La responsabilità maggiore del marciume non sta nei corrotti - che dovrebbero essere messi nell'impossibilità di allungare le mani sul malloppo -, sta nella lentezza d'una giustizia che ci dirà tra alcuni anni se Giancarlo Galan e Giorgio Orsoni sono veramente dei poco di buono, sta nella giungla sterminata e demenziale delle norme. È perfetta la diagnosi del procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, non sospettabile di furori manettari: «Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla».
Ci risiamo con le mele marce. Il Pd si autoassolve sempre. Da Genovese a Penati i democratici mettono in atto il solito trucchetto per apparire puliti, scrive Laura Cesaretti su “Il Giornale”. Per il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, finito ai domiciliari per il caso Mose, vale l'ultima frontiera dell'autodifesa di partito: «Non è del Pd», dice il renziano Luca Lotti. Certo, aggiunge il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, «questo non vuol dire che se sei del Pd sei buono e se sei indipendente sei un ladro. Se sei ladro, puoi essere Pd, Pdl o Cinque stelle e devi andare in galera». Linea confermata dal ministro Boschi: «Se le accuse saranno provate il Pd ne trarrà le conseguenze, come con Genovese». Se nella stagione di Tangentopoli la sinistra italiana si salvò dal fiume di inchieste e arresti che investì i partiti della Prima repubblica, ora lo scudo magico sembra sempre meno efficiente, e gli uomini Pd cadono come birilli. Ma si tratta quasi sempre di «mele marce», di «casi isolati». Quando non di veri e propri estranei che abusano del buon nome Pd: Greganti non se lo ricordava più nessuno (nonostante la tessera, le visite a Roma zona Senato, le foto a manifestazioni di Fassino e Chiamparino). E Orsoni non è mai stato del Pd. Il che è pure vero, tecnicamente, ma sa un po' di giustificazione postuma. Quella dell'inchiesta Mose, argomenta Laura Puppato, «è la vecchia guardia, noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». Una pagina non così semplice da voltare, in un partito nel quale i fan ossessivo-compulsivi delle Procure hanno contato, dal 2008 ad oggi, circa 400 indagati. Molti per bagatelle, molti totalmente scagionati o assolti. Ma tanti ancora nei guai, un partito che sembra incapace sia di divincolarsi definitivamente dal condizionamento delle Procure, sia di ammettere di essere esattamente come gli altri, quanto a «permeabilità». È di poche settimane fa l'arresto del ras delle preferenze messinesi Francantonio Genovese, concesso dal Parlamento, Pd in testa, su ordine di Matteo Renzi (e poi subito annullato dal gip). «Il Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica, sempre. Anche quando con i propri deputati», chiosò il premier, preoccupato che la vicenda interferisse con la campagna elettorale. Vecchia politica, Genovese lo era di certo. Ma di quella «vecchia politica» che sa rapidamente ricollocarsi ed aggiornarsi alle nuove leadership: veltroniani con Veltroni, bersaniani con Bersani, renziani con Renzi. Non sospettabile di simpatie renziane, invece, è Filippo Penati, ex capo della segreteria politica di Bersani e fidatissimo braccio destro del segretario Pd nelle primarie. Per lui, quando fu incriminato per concussione e finanziamento illecito ai partiti nella vicenda degli appalti di Sesto, la linea fu: è stato espulso dal Pd, la faccenda non riguarda piú noi. «Chi è coinvolto in indagini deve fare un passo indietro e Penati ne ha fatti tre o quattro e questo - disse Bersani - va riconosciuto». Poi il Pd si costituì parte civile contro di lui, che reagì con durezza: «Codardi. Mi hanno sacrificato per salvarsi l'immagine». Sacrificato e subito disconosciuto anche Franco Pronzato, arrestato per gli appalti Enac, quando il Pd bersaniani scoprì di avere un «responsabile trasporto aereo» nella sua persona. Dimenticata Maria Rita Lorenzetti, ex governatrice dell'Umbria, arrestata per la Tav. Rimosso Alberto Tedesco, salvato in Senato, poi arrestato a fine mandato, poi però assolto dalle accuse. Rimosso dalla ribalta Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e vice-ministro che Renzi non ha riconfermato. Difeso fino all'ultimo ma poi costretto a ritirare la candidatura a sindaco di Siena, a inizio 2013, Franco Ceccuzzi, indagato per il crac del pastificio Amato. Relegato in Sicilia Vladimiro Crisafulli. Più singolare, invece, la vicenda abruzzese, che rivela quanto possano essere perversi gli intrecci tra giustizia e politica: il neo-eletto governatore D'Alfonso, da sindaco di Pescare venne incriminato e arrestato con plurime accuse dalla procura diretta da Nicola Trifuoggi. Il quale però, cinque anni dopo, ha benedetto la candidatura di D'Alfonso a governatore e contemporaneamente è diventato vice del sindaco dell'Aquila Cialente, Pd anche lui e anche lui prima messo nel mirino delle inchieste.
Tangentopoli del Mose: tutte le accuse. Da Galan a Orsoni, dal Pdl al Pd, dalla Corte dei Conti ai ministeri, ecco i politici e alti funzionari che hanno intascato almeno 25 milioni di euro per riempire di miliardi le imprese del Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giancarlo Galane Renato Chisso Tutte le mazzette indagato per indagato: ecco il quadro completo delle accuse formulate dai magistrati veneti nell'ordinanza di custodia dei 35 arrestati (25 in carcere, 10 ai domiciliari) per la Tangentopoli del Mose, la grande opera emergenziale da 5 miliardi e 496 milioni di euro che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta, ma dopo trent'anni non è ancora entrata in funzione.
GIANCARLO GALAN: parlamentare di Forza Italia, ex ministro, presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010. Secondo l'accusa l'ex governatore, per favorire le imprese del Consorzio Venezia Nuova, ha intascato svariati milioni di euro e in particolare:
uno stipendio fisso in nero di un milione di euro all'anno, quantomeno dal 2005 al 2011;
900 mila euro in contanti nel 2006-2007;
altri 900 mila euro in contanti nel 2007-2008;
una quota del 7 per cento della società Adria Infrastutture, intestata a un suo prestanome, con conseguente partecipazione agli utili realizzati da quella impresa del Gruppo Mantovani con il discusso sistema del “project financing” all'italiana;
il 70 per cento delle quote della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestate allo stesso prestanome;
200 mila euro una tantum, consegnatigli all'hotel Santa Chiara di Venezia nel 2005 tramite la sua ex segretaria-factotum Claudia Minutillo;
la ristrutturazione gratuita della sua lussuosa villa di Cinto Euganeo, sui colli di Padova, con lavori costati un milione e cento mila euro e mascherati con fatture false.
RENATO CHISSO, politico di Forza Italia, assessore alle Infrastrutture e Grandi Opere nelle giunte Galan (incarico mantenuto anche con l'attuale governatore Luca Zaia, che però non risulta indagato), è accusato di aver incassato dalle grandi aziende del Mose:
uno stipendio in nero di 200 mila euro all'anno (con punte di 250 mila), versatogli a partire dalla fine degli anni Novanta fino al primi mesi del 2013;
il 5 per cento della società Adria Infrastrutture, formalmente intestato all'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, che in realtà gli faceva da prestanome; quota rivenduta da Chisso nel 2011 alla Mantovani spa per due milioni di euro;
il 10 per cento della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestata alla stessa prestanome;
250 mila euro in contanti, consegnatigli dal manager Piergiorgio Baita della Mantovani nella primavera 2012 all'hotel Laguna Palace di Venezia;
altre centinaia di migliaia di euro all'anno (il totale non è ancora quantificato) in contanti;
consulenze e assunzioni di comodo per amici e prestanome;
appalti di favore a imprese amiche per i lavori stradali delle “Vie del mare” (superstrada Jesolo-Cavallino).
GIORGIO ORSONI, sindaco del Pd di Venezia, è ai domiciliari per finanziamenti politici illeciti, con l'accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose queste somme:
110 mila euro, materialmente incassati dal suo tesoriere-mandatario, per la campagna elettorale del 2010, come candidato sindaco del centro-sinistra a Venezia;
altri 450 mila euro, sempre nei primi mesi del 2010, di cui almeno 50 mila versatigli personalmente dai manager Mazzacurati e Sutto del Consorzio Venezia Nuova.
GIAMPIETRO MARCHESE, consigliere regionale veneto del Pd, ora in carcere, è accusato di aver intascato dalla cordata di imprese private del Mose:
58 mila euro per le elezioni regionali del 2010;
15 mila euro al trimestre, a partire dall'autunno 2009 fino all'inizio del 2013, per un totale compreso tra 400 e 500 mila euro;
un contratto di lavoro fittizio da 35 mila euro.
AMALIA detta LIA SARTORI, europarlamentare di Forza Italia, non rieletta nel 2014, è indagata con l'accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose due finanziamenti illeciti:
almeno 25 mila euro per la campagna elettorale alle europee del 2009;
altri 200 mila euro dal 2006 al 2012, di cui 50 mila intascati personalmente il 6 maggio 2010 in un incontro con il manager Mazzacurati.
MARCO MILANESE, braccio destro dell'ex ministro Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, è solo indagato (ha evitato l'arresto collaborando con i magistrati) come destinatario di una tangente pagata dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, in particolare per aver intascato personalmente mezzo milione di euro, tra aprile e giugno 2010, per spingere il ministero dell'Economia ad autorizzare una nuova ondata di finanziamenti pubblici a favore del Mose.
EMILIO SPAZIANTE, ex numero due della Guardia di Finanza, in pensione dall'autunno scorso, è in carcere con l'accusa di aver intascato buste di denaro contante per spiare le indagini veneziane approfittando del suo grado, e in particolare per aver ricevuto dai massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova:
mezzo milione di euro, in più rate, recapitategli tra giugno 2010 e febbraio 2011 a Roma e a Venezia;
la promessa di altri due milioni di euro, concordati con l'onorevole Milanese e il finanziere veneto Roberto Meneguzzo (Gruppo Palladio), soldi poi non versati proprio a causa della scoperta che erano in corso le indagini, in teoria ancora segrete.
Tra gli arrestati per corruzione compaiono anche un magistrato della Corte dei Conti, accusato di aver intascato almeno un milione di euro tra il 2000 e il 2008, e due alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, che avrebbero incassato uno stipendio in nero di 400 mila euro all'anno, quantomeno dal 2007 al 2012, per addomesticare i controlli e non denunciare i problemi tecnici del sistema Mose.
Antonio Iovine: «Così la Camorra ha corrotto tutti». Scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Omicidi, mani sugli appalti, soldi a sindaci e amministratori pubblici, senza distinzione di colore politico. Le prime dichiarazioni del superboss pentito fanno tremare l'impero. Omicidi, mani sugli appalti, soldi a sindaci e amministratori pubblici, senza distinzione di colore politico. Così il superboss pentito Antonio Iovine, soprannominato «‘O Ninno» per il suo volto da bambino, è salito ai vertici del clan dei Casalesi. Le prime confessioni del padrino di Gomorra, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, a 4 anni dall’arresto dello scorso 17 novembre 2010 a Casal di Principe, fanno già tremare l’impero dei clan, così come il mondo della politica e dell’imprenditoria collusa con l’organizzazione criminale. Nelle sue prime deposizioni, Iovine ha dipinto un sistema definito «completamente corrotto», evocando i legami tra i clan e la classe dirigente del Paese, con «tutti i partiti nella rete». ‘O Ninno ha spiegato come ci fossero «soldi per tutti»: «Si deve considerare anche la parte politica ed i sindaci dei comuni i quali avevano l’interesse a favorire essi stessi, alcuni imprenditori in rapporto con il clan», ha spiegato. Dietro queste operazioni illegali, si nascondeva il voto di scambio politico-mafioso: «Tutto per avere vantaggi durante le campagne elettorali in termini di voti e finanziamenti», ha aggiunto Iovine. Secondo la versione del boss, «non faceva alcuna differenza il colore politico del sindaco». Questo perché «il sistema era operante allo stesso modo». Iovine ha così descritto la grande abbuffata degli appalti, parlando di «assegnazioni alterate dall’intervento dei pubblici funzionari» e di imprenditori che «automaticamente si presentavano per il pagamento a chi controllava» un determinato territorio. Il sistema illegale cresceva attraverso la violenza del clan. Lo stesso Iovine ha ammesso i suoi omicidi, a partire dagli anni Ottanta. «Anche io ne ho ammazzati tanti, ne è derivato un potere col quale mi sono potuto dedicare al mondo degli affari». Pur spiegando come esista una «mentalità casalese inculcata fin da giovani», basata sulla cultura della raccomandazione, dei favoritismi, delle mazzette e della regola del 5 per cento», Iovine nel suo interrogatorio ha aggiunto analisi su quelle che ha ritenuto le “colpe” dello Stato. «Prima ancora che i camorristi, questa mentalità l’ha diffusa nel nostro territorio proprio lo Stato, che invece è stato proprio assente nell’offrire delle possibilità alternative e legali alla propria popolazione». Per poi aggiungere: «Le nostre condotte sono anche conseguenza di questo abbandono che abbiamo percepito da parte dello Stato». Per Iovine «anche la parte politica che dovrebbe rappresentare la parte buona dello Stato è stata quantomeno connivente con questo sistema se non complice». Sicuramente era del tutto consapevole di come andavano le cose», ha accusato il boss pentito, citando come esempio gli appalti per la refezione scolastica in numerosi comuni dell’agro aversano, che erano stati assegnati un’impresa a lui vicina. Non sono mancate le accuse, comprese quelle a Lorenzo Diana, l’ex parlamentare Ds che ha svolto una dura azione di contrasto contro la criminalità organizzata: «Anche lui ha permesso che continuassimo ad avere questi appalti anche quando c’erano sindaci dalla sua parte». La replica è arrivata su Repubblica: «Iovine si metta d’accordo con se stesso. Perché voleva uccidermi allora? Sette pentiti hanno raccontato che il clan voleva farmi saltare in aria. Sono sotto scorta da 18 anni per le mie denunce», ha replicato. Tra i politici di peso il padrino ha invece citato anche Gianni Alemanno, per i milioni di euro in appalti per il rimboschimento nell’area del casertano. Fondi assegnati dal ministero dell’Agricoltura nei primi anni duemila (l’ex sindaco di Roma è stato ministro delle politiche agricole e forestali dal 2001 al 2006, ndr) e che secondo Iovine, sarebbero stati gestiti «per conto del clan» da un imprenditore amico, Vincenzo Della Volpe. Iovine ha spiegato di ricordare come Alemanno fosse andato a San Cipriano per una manifestazione elettorale su invito del nipote Giacomo Caterino (ex sindaco)». Alemanno, estraneo alle indagini, ha respinto ogni sospetto sul suo conto: «I finanziamenti furono assegnati prima che diventassi ministro, è stata la nostra gestione a denunciare lo scandalo. La manifestazione elettorale? Era una semplice iniziativa a favore di un candidato al consiglio provinciale (Caterino, ndr) su cui all’epoca non pendeva nessuna accusa», ha spiegato. Al di là dei nomi citati, comunque, le dichiarazioni di Iovine potrebbero svelare quelle aree di collusione tra criminalità, politica, mondo dell’imprenditoria. Certo, ogni parola dovrà essere verificata, per accertarne l’attendibilità, come ha spiegato a Repubblica il magistrato Federico Cafiero de Raho, oggi procuratore capo a Reggio, che aveva sostenuto l’accusa durante il processo “Spartacus”. Quello che trascinò all’ergastolo i maggiori padrini del clan in via definitiva (compreso lo stesso Iovine). «Quando personaggi di questa pericolosità collaborano, coronando uno straordinario sforzo investigativo, è evidente che bisogna prendere con le pinze ogni parola e pesarle bene. Ma dormo sonni tranquilli: i pm che stanno vagliano le sue dichiarazioni hanno rigore, esperienza». Potrebbe essere una svolta, un colpo di grazia al “sistema”. Iovine, oggi 50nne, è considerato uno dei quattro capo clan dei Casalesi, insieme a Francesco Bidognetti, a Francesco Schiavone (il boss conosciuto come Sandokan, catturato nel ’98) e a Michele Zagaria (l’ultimo ad essere arrestato, il 7 dicembre 2011, ritrovato nel bunker dove si era rifugiato). Ha spiegato nei verbali di voler collaborare per «chiudere una pagina». Ha sei mesi di tempo, per legge, per raccontare le sue verità. Ma non solo: il 7 giugno testimonierà in videoconferenza anche al processo in corso a Santa Maria Capua Vetere, dove imputato è l’ex sindaco di Villa Literno, Enrico Fabbozzi, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma intanto ‘O Ninno ha iniziato a fornire la sua versione, riempiendo in undici giorni già diverse pagine di verbali. Boss-manager, durante i suoi 14 anni di latitanza – dal 1996 fino al 2010 – prima dell’arresto e della condanna all’ergastolo in via definitiva, Iovine ha continuato a gestire le attività dei Casalesi, mente affaristica del clan. Era lui, ribattezzato il “ministro dell’Economia” a gestire il riciclaggio dei proventi delle attività illecite – narcotraffico, racket, truffe su tutte – nell’economia pulita e nel business del cemento. Per poi inserirsi nel mondo degli appalti statali. Fino alla scelta di pentirsi, dopo quattro anni di carcere duro. Quasi una “prima volta” nella storia della camorra, considerati come non siano stati molti, prima di Iovine, i capi clan che avevano scelto di collaborare. Tra questi Pasquale Galasso, capo della Nuova famiglia. L’altro storico collaboratore di giustizia del clan dei Casalesi è stato invece Carmine Schiavone. Ma, come aveva ricordato Roberto Saviano, era un capo della vecchia generazione, messo ai margini nell’ultima fase e che aveva deciso di pentirsi proprio perché allontanato dai vertici. Al contrario, Iovine, è rimasto il il padrino di Gomorra, fino a pochi anni fa. Per questo le sue rivelazioni potrebbero adesso fornire informazioni essenziali sui rapporti tra imprenditoria e criminalità, non soltanto in Campania e in Italia.
Attenti a quello che dice il pentito. Camorristi come Antonio Iovine sanno quali corde toccare quando si decidono a parlare. Sta a noi fare la tara. Ma ci sono pure giornali dove sono i boss a dettare la linea editoriale, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. So benissimo di quali delitti mi sono macchiato. Sto spiegando un sistema dicui la camorra non è l’unica responsabile», dice Antonio Iovine, boss dei casalesi ora collaboratore di giustizia. Quello che sta accadendo in questi giorni, in queste ore, benché sembri una cosa semplicissima, perfino scontata, è in realtà il racconto più difficile da fare del nostro paese. È un racconto difficile perché nelle parole di Antonio Iovine trova spazio qualsiasi cosa accaduta e può essere omesso, allo stesso tempo, qualsiasi dettaglio. Questa collaborazione è un miracolo dei Pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano e di tutta la Dda di Napoli che ora sta gestendo una materia incandescente. Potrà far saltare molti equilibri politici, imprenditoriali, economici ancor prima che le dichiarazioni di Iovine siano passate all’attento vaglio della magistratura, ancor prima che si possa dare effettiva rilevanza penale a ogni singola affermazione. Antonio Iovine ci sta raccontando uno spaccato di paese. Uno spaccato, certo, e quindi non il paese nella sua interezza, eppure quello spaccato ci dice moltissimo e getta luce su tutto il resto, su tutto ciò che sembra lontano, lontanissimo dalle logiche criminali. Ci dice quali erano - e sono - le linee guida per truccare e aggiudicarsi appalti. Ci dice come venivano - e vengono - trovate alleanze e disponibilità all’interno delle istituzioni. Ci dice come vengono gestite le casse del clan dei casalesi, quanto spetta ai capi, quanto agli affiliati, quanto a chi sconta il carcere. Ci dice come sia stato possibile vivere tanto a lungo in latitanza, come veniva oliata la macchina delle coperture. Ci dice quanto abbiamo sempre ipotizzato, quanto eravamo certi accadesse. Ma sentirlo dalla viva voce di un capo, ha tutt’altro impatto. Ed è qui che stampa e opinione pubblica devono calibrare il proprio ascolto, modulare il proprio orecchio, settarlo su un’impostazione altra. I collaboratori di giustizia, soprattutto quando hanno vissuto in latitanza per così tanto tempo, come è accaduto ad Antonio Iovine, hanno voci incredibilmente sibilline perché sanno esattamente quali corde toccare e come farlo. E se la magistratura è ben accorta e pronta a tutto questo, siamo certamente noi i più esposti. Siamo noi a dover fare la tara e a contestualizzare ogni singola affermazione. Noi che scriviamo e voi che leggete. I rapporti tra stampa e criminalità organizzata sono rapporti saldissimi, rapporti che negli anni sono cresciuti, si sono rotti perché si costituissero nuovi canali di comunicazione. Una parte della stampa locale campana è stata ed è a disposizione dei clan, più o meno consapevolmente, in maniera più o meno palese. L’editore di due testate locali, il “Corriere di Caserta” e “Cronache di Napoli”, Maurizio Clemente, è stato condannato per estorsione a mezzo stampa, cioè minacciava di delegittimare attraverso le pagine dei suoi giornali chi non avesse pagato per evitarlo. Su questi giornali la camorra appare spesso come un’organizzazione colma di onore e i boss uomini pieni di fascino. Titoli che avreste potuto leggere sono “Don Diana era un camorrista” e “Nunzio De Falco re degli sciupafemmine”: Nunzio De Falco, condannato come mandante dell’omicidio di Don Diana. Il messaggio che, tramite questi quotidiani, negli anni, si è fatto passare, è chiaro: nessuno può schierarsi contro la camorra, chi lo fa ha sempre un interesse personale. In questo contesto va osservata e interpretata la telefonata che Antonio Iovine e Michele Zagaria fecero nel 1998 a un giornalista del “Corriere di Caserta” che aveva ipotizzato, dopo l’arresto di Francesco Schiavone “Sandokan”, problemi di successione tra Iovine e Zagaria. L’atteggiamento e i toni sono incredibili: sembra che lo considerino un quotidiano a loro disposizione e di conseguenza possano, senza alcun timore, chiamare il giornalista e far presente che quanto scriveva era falso. Che doveva correggere il tiro, che in quel modo creava problemi alle famiglie. Come se dettassero loro la linea editoriale, chiedevano quindi di riportare le notizie giuste (secondo loro) e non le interpretazioni individuali. Addirittura hanno proposto di far andare i loro fratelli il giorno dopo in redazione per confermare che fossero davvero loro ad avanzare le richieste: non temevano, evidentemente, alcuna denuncia o possibile intervento della polizia. Questo canale di interlocuzione alcuni quotidiani locali lo hanno sempre tenuto vivo. Hanno sempre fatto in modo che restasse aperto, operativo, efficace. Non sarebbe potuta accadere la stessa cosa a un giornalista di una testata nazionale o anche di una testata locale che non avesse mostrato storicamente con titoli, con articoli, con editoriali, tanta disponibilità nei riguardi dei clan. Post Scriptum: i Nuvoletta non avrebbero mai telefonato a Giancarlo Siani per dirgli di correggere quanto aveva scritto. Non lo hanno fatto.
Era un dirigente di prima fascia del ministero delle Infrastrutture, con uno stipendio di 149 mila euro l'anno, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Divenne magistrato delle acque di Venezia, ingaggiando un braccio di ferro con le imprese del Mose. Siccome lo perse e fu trasferita a Bologna, Maria Giovanna Piva andò a fare la vittima da Milena Gabanelli, che nella puntata di Off the report del 27 maggio 2012, ne fece subito un'eroina, che combatteva contro il governo di Silvio Berlusconi e il ministro Altero Matteoli. L'eroina è stata arrestata per l'inchiesta sul Mose con l'accusa di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Avrebbe intascato illegalmente attraverso un falso collaudo oltre 327 mila euro. Somma che aveva già in tasca quando bussò alla Gabanelli. Forse non le bastavano e così stava mandando un messaggio in codice alla cricca del Mose?
Mose, incredibile difesa del Pd: gli arrestati non sono del Pd, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Pd non c’entra nulla con il malaffare di Venezia. Hanno arrestato 35 persone, tra cui il sindaco della città, e un altro centinaio di signori è stato indagato con le peggiori accuse, ma il Partito democratico ha le mani pulite. Così almeno informa un comunicato della segreteria regionale del suddetto gruppo. In una nota diffusa dalle agenzia di stampa nella mattinata di ieri, dunque a botta ancora calda per i provvedimenti della magistratura, i vertici del partito di Renzi non recitano il mea culpa per non aver vigilato sulle tangenti che hanno preso il largo insieme al Mose, ma ci informano che, pur essendo stato eletto con i voti del Pd e pur guidando un giunta a forte impronta Pd, il primo cittadino Giorgio Orsoni non è del Pd, perché non ha mai chiesto la tessera. (...)Dietro le manette c'è la guerra totale per il futuro del Pd. Dopo aver negato di conoscere il sindaco tangentista di Venezia, sostenendo che Giorgio Orsoni non è del partito nonostante il partito lo avesse candidato e fatto eleggere alla guida della giunta di sinistra che regna sulla laguna, ieri il Pd si è superato. Questa volta non c’entrano le calli e neppure il Mose né ci sono di mezzo appalti e fatture milionarie. Però c’è quella che doveva essere una delle amministrazioni locali da portare ad esempio di buona amministrazione e soprattutto di cambiamento di verso. Ci riferiamo alla Città eterna, la Capitale della svolta. Da un anno ai vertici del Campidoglio c’è Ignazio Marino, un allegro chirurgo che dopo aver messo da parte il bisturi si è scoperto una passione per la politica. Prima come parlamentare, poi come primo cittadino di Roma. Nel marzo dell’anno scorso Marino si sottopose alle primarie per la scelta del candidato di centrosinistra e, vinta piuttosto facilmente la sfida, non fece fatica a battere Gianni Alemanno, che di Roma era stato a sorpresa sindaco per cinque anni. Sorpresa perché da un ventennio e più la Capitale era a guida sinistra e dunque un primo cittadino post-missino non era tra le ipotesi contemplate. All’errore di aver affidato la città a uno di destra, Marino pose rimedio con l’appoggio di tutte le forze antifasciste e democratiche e sulla base di un programma che prevedeva un radicale cambiamento di rotta.
I moralisti delle mazzette, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Eccoci di nuovo a commentare storie di arresti e mazzette. L’ultima in ordine di tempo è la diga di Venezia, quella che avrebbe dovuto evitare l’acqua alta. La chiamano il Mose, ma con l’accento sbagliato. Il pubblico ministero che ha indagato e chiesto gli arresti (Carlo Nordio) è un signore che, a differenza dei suoi simili, prima di arrestare un povero cristo si farebbe tagliare le mani. Odia la giustizia spettacolo. Ieri ha subito detto: «In Italia la corruzione continua perché le leggi sono troppo complesse e farraginose. A nulla serve aumentare le pene e inventarsi nuovi reati». I contribuenti sono gabbati più volte. Prima dai propri rappresentanti, che abusano delle tasse incassate. Poi dal fatto che queste benedette opere pubbliche, se mai si realizzano, non si chiudono mai nei tempi e nei modi promessi. Chi ancora pensa che l’Expo possa avere il fascino scintillante che ci avevano raccontato agli esordi? Arrivano infine i nuovi politici che, cavalcando l’indignazione, gridano allo scandalo (che c’è) e chiedono subito di bloccare tutto, nuove leggi, nuove commissioni e maggiori pene (come dice Nordio). Il 31 marzo 2010, all’indomani delle amministrative, Travaglio-porta-iella, rivolto al Pd di Bersani, scriveva: «Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia, dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta». Con 400mila euro di finanziamento illecito, sostiene oggi l’accusa. Vogliamo dire che dalla palude in cui siamo non se ne esce con i moralisti e le morali. Siamo un Paese in cui non si può fare nulla. Un bar non può mettere un’insegna, un artigiano non può assumere un apprendista, un ragazzo non può fare un lavoretto, un’impresa un capannone. O meglio, tutto si può fare: ma dopo una giungla burocratica e autorizzativa. In un sistema come questo è tutto corrotto. Il Mose è corrotto perché a prendere i soldi sono i politici. Ma nelle sue fondamenta diventa corrotta, marcia, la nostra economia. Essa non è più volta a raggiungere cospicui e sani profitti, ma a sfuggire le sanzioni previste da norme, codici, regolamenti. Le interpretazioni giudiziarie sono poi talmente divergenti che il diritto diventa arbitrio e i Tribunali ruote della fortuna. È inevitabile dunque che gli investimenti dei privati nell’ultimo triennio siano diminuiti del 15 per cento e del doppio circa quelli pubblici. Ieri abbiamo scoperto che anche il Brasile ci ha superato nella produzione industriale. Con la propensione ad investire così in calo, c’è da attendersi che il futuro ci riserverà una classifica ancora più inclemente. Il lavoro, poi, lo creeremo per legge. Sulla carta. Su questo siamo i numeri uno.
L’EXPO, il Mose & The Italian Job. Per capire che quello della mazzetta è un male storico del paese ecco cosa successe negli anni '50 e '60 per l'aeroporto di Fiumicino, scrive Sabino Labia su “Panorama”. La vicenda del Mose è il classico scandalo all’italiana con tutti gli interpreti al posto giusto come nel film The Italian Job. Una grande opera da realizzare, i miliardi inviati a pioggia da gestire, i politici (locali e nazionali, di destra e di sinistra) a gestire il flusso di denaro, e una pletora di senza nome e, soprattutto, prestanome che organizzano società occulte, scatole cinesi, false fatturazioni e passaggi di denaro. A fare da spettatori a questo enorme circo di malaffare ci sono loro, gli italiani che ogni volta sperano che questa sia l’ultima. Per capire come funziona lo Scandalo all’italiana nelle grandi opere (tralasciando volutamente gli scandali legati alle ricostruzioni post disastri naturali: Vajont, Belice, Irpinia, L’Aquila etc. etc.), torniamo indietro di mezzo secolo, e più precisamente al 1961. E’ il Gennaio del 1961 e Giulio Andreotti parla dal banco del governo del Senato: “Io rispetto di più le persone della camorra perché Pupetta Maresca (la donna che uccise l’assassino di suo marito) con le sue revolverate rischia di andare in galera e ci va. Noi abbiamo nella camorra politica di certi ambienti qualche cosa di meno nobile, perché si lanciano sassi e colpi di pugnale senza rischiare niente e non mostrando mai il proprio volto”. A cosa si riferiva il Divo Giulio nel ritenere la politica peggiore della camorra? In Aula si discuteva dello Scandalo dell’Aeroporto di Fiumicino. Lo scalo romano comincia la sua storia con la posa della prima pietra avvenuta il 10 dicembre 1950. Costo previsto: 29 miliardi di lire; fine dei lavori: 1° gennaio 1960 (giusto in tempo per accogliere atleti e turisti della XVII Olimpiade). Inaugurazioni effettuate: diverse, l’ultima il 13 agosto 1974, in occasione dell’apertura della terza pista costata altri 25 miliardi di lire. Spesa complessiva finale oltre 130 miliardi. I primi problemi cominciano con la scelta del terreno. In principio era stata preferita la zona di Casal Palocco, nell’area sud-ovest molto vicina a Roma e, particolare non di poco conto, non paludosa. Troppo bello per essere vero e, infatti, così non è. L’area è di proprietà della Società Generale Immobiliare che riesce a evitare l’esproprio, evitando un notevole danno economico. A questo punto si decide di optare per la palude di Fiumicino, 1088 ettari di proprietà dei principi di Torlonia, i quali vengono generosamente ricompensati con 45 lire al metro quadro. Tanto per capire com’era il mercato nella stessa zona, sempre i Torlonia, vendevano i loro terreni ai privati a 3 lire al metro quadro e l’amministrazione statale espropriava altre aree circostanti e di proprietà di un’opera pia, a 7 lire al metro quadro. Un vero e proprio regalo. Veniamo ai finanziamenti. Inizialmente furono stanziati 4 miliardi e 450 milioni; Dopo cinque anni, nel 1955, si aggiungono altri 14 miliardi per la costruzione della pista e per tutte le opere accessorie, compresa l’aerostazione. L’8 aprile del 1959 servono ulteriori 4 miliardi e 150 milioni per completare l’opera. Trascorrono pochi mesi e, nel luglio 1959, vengono stanziati altri 4 miliardi. Anche questi soldi non bastano e, intanto, i giochi si avvicinano. Il Ministero della Difesa, guidato da Andreotti, riesce a racimolare altri 800 milioni per consentire almeno un’approssimativa apertura al traffico. A gestire questa enorme mole di denaro viene incaricato, su suggerimento dello stesso Andreotti, il colonnello Giuseppe Amici. Il cognome è tutto un programma, verranno coinvolti parenti, amici e amici degli amici. Il 20 agosto, a cinque giorni dalla cerimonia inaugurale dei XVII Olimpiade, i ministri Zaccagnini, Lavori Pubblici, e Andreotti riescono ad aprire una minima parte dello scalo dell’Urbe “Leonardo da Vinci”. La vera inaugurazione è rinviata a novembre dello stesso anno. La stampa dell’epoca comincia a svolgere alcune inchieste per cercare di capire che cosa si cela dietro i continui ritardi dei lavori. Il 5 maggio del 1961 il governo istituisce una commissione d’inchiesta che accerta le numerose irregolarità della gestione dell’opera e come il colonnello Amici, pur essendo in servizio, possedeva alcune società, delle quali facevano parte la moglie, il figlio e parenti della moglie, e che avevano un ruolo di rilievo nella costruzione dello scalo. Il 23 dicembre 1961, nella relazione conclusiva, la commissione d’inchiesta accerta ufficialmente l’utilizzo“di iniziative e procedure criticabili non sempre rispettose del pubblico denaro”. Il 14 giugno 1963 la magistratura ordinaria decide per l’archiviazione del caso. Conclusione nessun colpevole. Nelle casseforti di Montecitorio esistono numerosi documenti che accertano le colpe dei politici e che non sono mai state rese pubbliche. Il presidente del Consiglio Renzi, dopo il caso EXPO e il caso MOSE ha chiesto il Daspo a vita per i politici corrotti. La domanda sorge spontanea: visto come funziona negli stadi, siamo sicuri che possa funzionare in politica? Ai posteri l’ardua sentenza.
Ecco dove nasce la corruzione, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Le tangenti sul Mose non dicono nulla di nuovo. E' un male che parte dalla testa, la nostra. L’altro giorno mi sono messo in fila al bar per pagare un caffè e cornetto quando è arrivato un tale ben vestito che dando l’impressione di non aver visto che c’era una fila (ma non vederci era impossibile) ha elencato alla cassiera, spiccioli alla mano, quello che aveva consumato. Il tutto con un sorriso a occhi bassi di conciliazione col mondo. La cassiera ha iniziato a farlo pagare, e siccome ho protestato, è stata lei a dire subito: “Scusate, è colpa mia”. Dopo qualche secondo, il tale pretendeva anche di non aver fatto brutta figura: “Non penserà che non volevo fare la fila, mi manderà mica il cornetto di traverso...”. E la cassiera, complice: “Eh, il signore è sempre corretto”… Come il caffè. Perché racconto questo episodio minimo e così diffuso? Perché risiede qui, in questa disinvolta trasgressione delle regole in nome di qualche potere, dell’amicizia e della convenienza, il terreno fertile della corruzione piccola e grande. L’hanno scritto in tanti: non sarà certo l’inasprimento delle pene o l’aggiunta di nuove regole a sconfiggere le mazzette. La complessità del sistema aiuta i furbi, non gli onesti. Il problema è nelle nostre teste. E dico “nostre” comprendendo la mia. Anch’io ho trasgredito a qualche regola, anch’io ho approfittato di qualche vantaggio personale, non importa se su scala piccola o grande e con quali giustificazioni. Sono anch’io andato alla ricerca di qualche corsia preferenziale. Quanti di noi possono dirsi puri? Sarà il sistema, la necessità di difendersi dalle ingiustizie, il merito che in Italia conta meno di zero e “non c’è altro modo”. Sta il fatto che la società italiana è corrotta, il “magna magna” che va in scena a ogni grande evento (praticamente nessuno escluso) è solo la finale del campionato italiano della corruzione che si gioca ovunque, ogni giorno, su ogni campo e campetto. E non c’è argine o diga che tenga, per restare al Mose. La collocazione dell’Italia nella classifica della corruzione tra i paesi del G7, della UE, e del mondo, è solo lo specchio di una realtà che ha invaso il quotidiano. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché non c’è poi una differenza concettuale tra il piccolo favoritismo, la piccola scorrettezza o scortesia, e la grande corruzione. Soltanto dal mea culpa può scaturire la necessaria rivoluzione culturale: il disgusto per i comportamenti scorretti e l’intolleranza verso chi trasgredisce. Solo così sarà possibile riconquistare un senso della comunità. E il primato del merito. La corruzione si combatte anche come fanno in America, recitando ogni mattina il giuramento alla bandiera.
Quando si dimostra che si è tutti uguali, per i manettari tira brutta aria.
Marco Travaglio, scontro con Elisa ad AnnoUno. Elisa: "Disfattista e manettaro". Travaglio: "Non dire cretinate". Una protagonista di "Announo" si scaglia contro il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano", accusandolo di vivere solo di critiche: "Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro". Siamo nello studio di AnnoUno, il programma di Giulia Innocenzi. Ospite d'onore è Marco Travaglio, che si produce nella sua consueta filippica manettara. Lo spunto, come ovvio, arriva dalla scandalo Mose: sul Fatto Quotidiano si è spinto ad affermare che la presunzione di innocenza è ridicola. Una presa di posizione che non è piaciuta ad Elisa, una delle ragazze protagoniste della puntata di AnnoUno. "Ma la smetta di attaccare tutti, di dire che rubano sempre tutti. Se in questo paese vince Beppe Grillo io vado all'estero, ma lei che cosa fa? Di che cosa scrive?". Marco Manetta, come sempre quando viene punto, perde le staffe: "Ti piace che rubino? Ti piace che rubino i tuoi soldi?". Elisa ribatte: "Glielo dico come direbbe Sgarbi: presunzione di innocenza, presunzione di innocenza, presunzione di innocenza". Marco Manetta si contorce, e sbotta: "Per favore, ma per favore. La presunzione d'innocenza - ribadisce - è un inutile gargarismo. Se vuoi dopo te lo spiego cosa intendo, magari capisci il labiale". Poi però prende parola Silvia, un'altra delle ragazze, e continua nel solco di Elisa: continua a demolire Travaglio per la sua clamorosa inclinazione manettara. Il vicedirettore è all'angolo. E in parallelo anche su Twitter si scatena il dibattito con una pioggia di cinguetti: "#Travaglio strapazzato da due biondine", scrive Nicola di Maio. "Voglio sposare la biondina che, limpida e divertita, ridicolizza Travaglio. Non che ci voglia molto, però è sempre un piacere", rincara Massimiliano Mannino. Infine, giusto per pescare un tris di commenti dal mazzo ecco Terry: "Lo stanno distruggendo le ragazze...Travaglio hai stancato". Nello studio di AnnoUno, insomma, si viene a creare una situazione paradossale. Nel regno di Michele Santoro e di Giulia Innocenzi, sul banco degli imputati, assediato dalla giuria popolare, ci finisce proprio lui, ci finisce proprio Marco Travaglio con un vivace scambio di battute ad "Announo" del 5 giugno 2014 tra Marco Travaglio ed Elisa Serafini, una delle protagoniste del programma in onda su La7. La 26enne milanese attacca il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano": "Lei vive di antagonismo da troppi anni, prima perché c’era Berlusconi, adesso non va niente bene perché c’è Renzi. Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro. Perché bisogna misurare la qualità di un paese sul numero di persone che vanno in galera?...Basta fare i manettari”. “Non si può essere così disfattisti…lo capisco che lui ha creato una carriera - prosegue Elisa - ma se va Grillo al governo lei deve cambiare lavoro perché non può andare contro una persona che sostiene…Ma lei vive solo di critiche?”. La risposta di Travaglio non si fa attendere: "E’ la cronaca che è disfattista, non sono io purtroppo…Secondo te il giornalista è uno che lecca il c*** ai politici? E’ uno che dice che va tutto bene quando va tutto male? Io racconto quello che succede”. Ma è quando la giovane cita Vittorio Sgarbi che il giornalista sbotta: "Ma non dire cretinate. Almeno leggi il labiale”.
Il Manifesto del Forcaiolo, scrive Filippo Facci. Marco Travaglio ha finalmente scritto il Manifesto del forcaiolo – in parte recitato ad Announo – ossia un articolo che cerca di fiancheggiare la comprensibile rabbia legata ai vari scandali, così da evidenziare i suoi autentici desideri in tema di giustizia. Darne conto è interessante, perché sintetizza che paese diventeremmo se certe soluzioni venissero effettivamente adottate: una sorta di Germania Est, coi Cinque Stelle al posto della Stasi. Intanto va segnalato che il pentastelluto Mario Giarrusso ha proposto seriamente il ripristino della ghigliottina – lo ha detto alla Zanzara, su Radio24 – spiegando pure che gli arresti domiciliari andrebbero aboliti. Diceva sul serio. Ma veniamo alle analisi e alle proposte di Travaglio.
1) Travaglio fornisce una disamina della seguente profondità: «Destra, sinistra e centro rubavano. Rubavano e rubano tutti, e insieme, sempre, regolarmente, scientificamente, indefessamente… Esiste soltanto una gigantesca, trasversale, post-ideologica associazione per delinquere che si avventa famelica su ogni occasione per rubare». Tutti. Insieme. Sempre. Quindi anche il governo delle larghe intese: «Continuano a rubare, secondo un sistema oliato e collaudato di larghe intese del furto che precede e spiega le larghe intese di governo». Il governo Pd-Ncd, dunque, serve a rispecchiare l’amicizia trasversale tra Frigerio e Greganti (Expo) o tra Galan e Orsoni (Expo). E Renzi? Ruba anche lui? No, «i suoi fedelissimi sono lì da troppo poco tempo. Ma rischia di diventare il belletto per mascherare un partito marcio». Renzi, quindi, è la copertura della gigantesca associazione per delinquere. Va rilevato che il Travaglio-pensiero – si fa per dire – è un’evoluzione recente: nel 2010, sul Fatto, elogiava il piddino Giorgio Orsoni (ora arrestato) definendolo «persona seria e normale».
2) Adesso però è cambiato tutto, e le garanzie democratiche e costituzionali andrebbero sospese. Lo scrive Travaglio, e tra le righe non si scorge alcun tono satirico: «L’art. 27 della Costituzione, quello della presunzione di non colpevolezza, diventa una barzelletta se si leggono le carte delle indagini… non c’è bisogno della Cassazione, e nemmeno della sentenza di primo grado, per capire che rubavano davvero». Basta Il Fatto Quotidiano che legga per noi le carte: carte infallibili scritte da pm infallibili, come dimostra la storia giudiziaria italiana. C’è da sentirsi tranquilli.
3) La terza proposta è di conseguenza: «Cacciare ogni inquisito dai governi locali e nazionali». È sufficiente essere inquisiti e non importa per che cosa: anche per atto dovuto, anche per una qualsiasi delle scemenze per le quali in Italia non esiste politico che non sia stato inquisito almeno una volta: o condannato, come Grillo, o come Travaglio. Del resto «a certi livelli non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora presi», scrive il nostro. Bene. Si allarga il clima di fiducia.
4) Anche la quarta proposta è di conseguenza: «Radiare dai contratti pubblici tutte le imprese coinvolte in storie di tangenti». E siccome «in storie di tangenti» sono state coinvolte praticamente tutte le più importanti aziende italiane ed estere (comprese Eni, Finmeccanica, Fiat, Autostrade, Coop) i lavori della Salerno-Reggio Calabria saranno conclusi da Casaleggio via internet.
5) Ma è un falso problema, perché prima c’è altro da fare: «Cancellare le grandi opere inutili ancora in fase embrionale, dal Tav Torino-Lione al Terzo Valico». C’è uno scandalo a Venezia e allora rinunciamo alla Torino-Lione, che è in fase embrionale come può esserlo un ragazzino di 14 anni. Non è un discorso pretestuoso, no.
6) Ma restiamo allo stato di polizia che piacerebbe a Travaglio. Che cosa servirebbe? Questo: «Introdurre gli agenti provocatori per saggiare la correttezza dei pubblici amministratori… imporre a chi vuole concorrere ad appalti una dichiarazione in cui accettano di essere intercettati, a prescindere da ipotesi di reato». Viene il sospetto che Travaglio abbia visto «Americam Hustle» o, più indietro nel tempo, «Le vite degli altri». E resta la curiosità di sapere che cosa accadrebbe nel nostro Paese se, oltre alle mazzette vere, ci fossero anche quelle false offerte da agenti provocatori e cioè corruttori: questo nello stesso Paese post-sovietico in cui chiunque partecipasse a un appalto (anche quello per la fontana del paesello) dovrebbe mettere a disposizione del maresciallo tutte le proprie conversazioni e dunque quelle dei suoi amici e familiari. Molto bello.
7) Il problema è che in galera c’è poca gente: occorre «piantarla con le “svuotacarceri”, costruire nuovi penitenziari e, nell’attesa, riattare caserme dismesse per ospitare i delinquenti che devono stare dentro». È così semplice. È la scuola dell’amico Piercamillo Davigo, già ispiratore anche della battuta sui colpevoli non ancora scoperti: in Italia ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione, diversamente dagli Stati Uniti. Ma segnaliamo un problema: Usa e Italia adottano sistemi diversi. Comunque tutto si può fare: ma bisognerebbe, anche qui, cambiare la Costituzione.
7) Nell’attesa, si possono «radere al suolo tutte le leggi contro la giustizia targate destra, centro e sinistra degli ultimi 20 anni». Tutte. Proprio tutte. Soprattutto quella che bruciò di più alla magistratura, cioè la riforma dell’articolo 513 che costrinse a cambiare la Costituzione nel 1999: si tornerebbe, cioè, a quando un accusatore poteva tranquillamente denunciare chicchessia, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza neanche presentarsi in aula per confrontarsi con la persona che aveva accusato. Very Germania Est.
8) «Tutto il resto non è inutile: è complice».
9) Per qualche misteriosa ragione – scrive infine, cioè: in realtà lo scrive all’inizio – dopo lo scandalo di Venezia dovremmo tutti chiedere scusa a Beppe Grillo: «Milioni di persone perbene – elettori, giornalisti, intellettuali, eventuali politici e imprenditori – dovrebbero leggersi l’ordinanza dei giudici di Venezia e poi chiedere umilmente scusa a Beppe Grillo e ai suoi ragazzi». Perché? Travaglio non lo spiega, se non deplorando gli «anni e anni sprecati ad analizzare il suo linguaggio, a spaccare in quattro ogni sua battuta, a deplorare il suo populismo, autoritarismo, giustizialismo… intanto destra e sinistra e centro rubavano» Tutti. Insieme. Sempre. Travaglio ne approfitta per correggere la rotta sull’alleanza grillesca con Nigel Farage: «L’abbiamo denunciata anche noi, ed era giusto farlo, ma in un paese normale: dunque non in Italia». Traduzione: c’è stato lo scandalo del Mose e allora Grillo potrebbe anche allearsi con Farage. Travaglio l’ha deciso mercoledì. Martedì aveva scritto il contrario.
Grillo rischia di far scoppiare la coppia Santoro-Travaglio. Santoro: "Beppe senza autorità morale per dire chi è buono e chi è cattivo", scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. I giornalisti sono stati convocati per parlare di Announo, il nuovo programma di approfondimento condotto da Giulia Innocenzi, che da giovedì, ospite Matteo Renzi, prenderà il posto di Servizio pubblico. A ben guardare, però, tira aria di rifondazione anche per il talk show di Michele Santoro: un nuovo inizio, una ripartenza, forse anche con un nuovo nome e qualche novità nella squadra. Del resto, Todo cambia: in politica, nell'informazione, nel rapporto con i leader, con Grillo, Renzi, la sinistra. Un cambiamento che potrebbe comportare anche la separazione tra l'ammiraglio e il suo bombardiere più agguerrito. «Fino a qualche tempo fa era tutto chiaro, il cattivo era riconosciuto», spiega Santoro. «Di fronte a Berlusconi, io e Travaglio eravamo uniti, anche se io ero su posizioni più liberali... Ora chi è il cattivo?». Travaglio sta con Grillo, Santoro no. Inoltre, anche sul piano televisivo assistiamo a un cambiamento profondo: «E io pensavo che Servizio Pubblico fosse un ciclo finito. Ma Cairo, con cui c'è stato un confronto serrato, ci ha chiesto di continuare anche per l'anno prossimo. Sono stato contagiato dalla sua voglia e ho deciso di accettare». Tanto più che «La7 è il vertice dell'indipendenza e sono onorato di lavorare in una rete in cui nessuno mi dice che cosa devo fare». E la Rai? «Se mi offrisse di fare un programma, anche simbolico, tipo Trasmissione zero, lo farei, perché no? È un lungo pezzo di storia professionale...». Ma di ritorni, per ora non si parla. Della necessità di cambiare Servizio pubblico invece sì. La riflessione era già in atto. E l'attacco di Grillo ha fatto da detonatore. «Mi auguro che dismetta i toni illiberali. Che impari a rispettare il lavoro dei giornalisti», afferma Santoro. «Contro Vauro ci sono stati toni inaccettabili, fino alle minacce, innescate da una forza politica che avrebbe il dovere di dissociarsi. Il mio amico Travaglio dice che la Rete si esprime così. Io temo che si trasformi in una grande Piazza Tahrir, anti-istituzionale a prescindere. Grillo è il Berlusconi del web», dice al Giornale il conduttore che con il Cav ospite ha fatto il record storico: «Ti restituisce quello che prende da lì, sull'immigrazione, sulla Tav... Fa il suo mestiere, ma non ha l'autorità morale per dire chi sono i buoni e i cattivi. Usa anche il gossip per colpire i presunti avversari... Si è creata una combinazione mostruosa Casaleggio-Dagospia. Ora non voglio disturbare la sua campagna elettorale, ma una volta terminata, potrei andare anch'io nelle piazze a raccontare come stanno le cose. Sarebbe un'operazione di legittima difesa e per la libertà di stampa». In difesa, Santoro gioca anche a proposito di crisi «dei cosiddetti talk show». È la tv generalista a essere in crisi, dieci anni fa Rai e Mediaset facevano il 90 per cento di share ora arrivano al 60. E poi, mostrando uno studio dell'istituto di ricerche Barometro, sottolinea che «nella storia di La7 Servizio pubblico compare in 4 posizioni della top 5, in 6 della top 10 e in 15 tra le prime 20 (in share, ndr), mentre nell'ultima stagione ricopre le prime sedici posizioni (in valori assoluti, ndr)». Se quest'anno c'è stato un calo è perché «ora lo spettatore ha un rapporto diverso con la politica». Alla maggioranza del pubblico interessa capire se Renzi ce la fa o no. Per il resto «siamo invasi da replicanti della politica. Ma anche i big hanno un richiamo limitato: Grillo da Mentana non ha fatto il botto... Lo stesso Berlusconi forse non ha piacere a tornare da noi, perché dovrebbe misurarsi con il 34 per cento dell'anno scorso. Magari avrà più interesse ad andare nel programma di Giulia. Certo, è stato invitato; come pure Grillo». Che però andrà da Vespa. «C'è la campagna elettorale e se gli serve fa bene... Ma mi pare una sconfitta, un'incoerenza. Tra dire che la tv è morta e poi andare da Vespa...», punge Santoro, dribblato dallo Sciamano pentastellato. «In realtà, la tv si mostra centrale anche quando nei blog si parla per una settimana dell'operaio ospite di Servizio pubblico e per prendere i voti di Berlusconi si attacca il Pd e la nuova peste rossa». Insomma, tutta colpa di Grillo e dei politici se i talk vanno così così. E un po' di autocritica di voi televisivi? «Ci siamo adagiati sul fatto che la temperatura esterna garantiva il successo delle nostre trasmissioni. Ma adesso si riparte...». Auguri.
Michele Santoro: "Travaglio? Occhio al fondamentalismo...scrive " Libero Quotidiano”. Su Il Fatto Quotdiano viene intervistato Michele Santoro. Si parte da AnnoUno, la trasmissione della santorina Giulia Innocenzi che ha sbancato in termini di share. Il teletribuno fa i complimenti alla sua creatura, afferma di essere sempre stato sicuro del fatto che avrebbe bucato lo schermo e si spinge ad affermare che "la tv cambia", e dunque "AnnoUno è già il futuro". Ma il piatto forte arriva quando nell'intervista Santoro parla di Beppe Grillo e, soprattutto, di Marco Travaglio. Si parte da una riflessione sul guitto ligure: "Non possiamo continuare a pensare che Grillo sia una specie di Masaniello che urla per dire qualunque sciocchezza. Dobbiamo valutarlo per quello che è: un leader politico, che deve avere una visione". E da queste considerazioni il discorso passa in scioltezza al leader grillino su carta stampata, Marco Travaglio appunto, il vicedirettore del Fatto Quotidiano che è il primo megafono del leader pentastellato. Un'adorazione, quella di Travaglio per Grillo, che Michele non riesce a digerire, tanto che negli ultimi giorni, dopo alcune parole sibilline del conduttore di Servizio Pubblico, si è cominciato a parlare del possibile divorzio tra Santoro e Marco Manetta. Così, parlando proprio con Il Fatto, in un significativo cortocircuito, Santoro dice la sua sul vicedirettore della testata. Il rapporto con Travaglio? "Un rapporto di grandissima amicizia prima di tutto, di stima smisurata sotto il profilo professionale. Ma il vero punto - si chiede Santoro - è cosa dobbiamo fare? Agire per il crollo del sistema o per la rigenerazione?". Il teletribuno mostra di non avere particolari dubbi: "Non possiamo sposare quello che fa Renzi, ma neanche quello che fa Grillo. No, non dico Marco abbia perso la sua indipendenza. Sarebbe una banalizzazione. Penso semplicemente che Marco sia portato a vedere tutto quello che sta fuori da questa piazza Tahrir come un'elemento che non contenga tanti spunti positivi. La sua è una visione pessimistica sul mondo politico organizzato. Lui - prosegue nella tirata - è come se pensasse che non è che si può stare in mezzo, bisogna stare dentro quella piazza. Però - attacca Michelone - stando dentro piazza Tahir il rischio è il fondamentalismo al governo. E' una differenza di analisi, non è una cosa banale che contrappone Santoro e Travaglio". Dunque, continua il conduttore di Servizio Pubblico, "nel momento in cui, quando andremo a disegnare un nuovo programma, questa differenza di valutazione di approccio è giusto che venga fuori, si confronti, insieme tracciamo la strada di come deve essere fatto un programma diverso da quello che stiamo facendo tutti e due". La domanda si fa poi più esplicita: "Marco - chiede Peter Gomez - quindi se ha voglia parteciperà al tuo programma il prossimo anno?". La risposta: "E' possibilissimo, ma potrebbe anche essere possibile per esempio che avendo io delle carte in mano da giocare, diverse da quelle del programma, perché non pensare che ci possa essere un programma di Marco. Magari con il mio aiuto". O magari no. Ma questo Santoro non lo dice. Quello che ha detto, al contrario, sembra un po' un benservito di lusso al "fido" Travaglio. Il divorzio è stato ormai consumato?
Santoro non nasconde il comunista che è in lui.
Santoro: "Resto un vecchio comunista". Il conduttore parla della Rai e del taglio di 150 milioni paventato da Renzi, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Michele Santoro si scaglia contro Matteo Renzi. Il tema del contendere è quello della Rai e del taglio voluto dal premier. E se viale Mazzini indicesse uno sciopero, il conduttore di Servizio Pubblico non esiterebbe ad aderirvi: "Perché sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro", spiega Santoro in una intervista a Repubblica. Sul taglio di 150 milioni dice: "Significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Infine, sul taglio agli stipendi di Vespa e Floris spiega: "Pura demagogia, se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience".
ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.
Italia. Quello che manca è la credibilità nelle istituzioni. Come dire….il pesce inizia a puzzare dalla testa.
"Falcone e Borsellino erano due persone diverse: l'uno, Giovanni, aveva un carattere introverso, quasi schivo, Paolo, invece aveva un carattere goliardico, era estroverso. Si scambiavano continuamente battute. Borsellino diceva a Falcone: 'Finché sei vivo tu io sono tranquillo, perché se devono fare qualcosa ad uno di noi prima lo faranno a tè'. Era uno scambio continuo di battute e scherzi". Lo ha detto il presidente del Senato, Pietro Grasso, partecipando ad un incontro-dibattito all'Assemblea regionale siciliana per celebrare la "Giornata della memoria e dell'impegno contro le mafie". "Entrambi avevano, però, una caratteristica professionale comune - ha aggiunto -: erano dei fuoriclasse, eccellevano e questo creava invidie dei colleghi. Dopo il maxi processo iniziarono a vivere un attacco continuo. Attacchi dal Csm e dalle istituzioni, vennero le accuse di insabbiare le carte, mettendo in difficoltà il loro lavoro".
Già. Il CSM. "Apprestandosi a chiudere la scandalosa vicenda degli abusi e delle irregolarità emerse in alcune delicate inchieste della Procura di Milano, senza neanche un 'Pater, Ave e Gloria' di penitenza, il Csm dimostra di essersi definitivamente trasformato da organo di autogoverno dei giudici a organo di autoinsabbiamento di ogni malefatta, specie se riguardante magistrati molto in vista e ritenuti intoccabili". E' quanto afferma Luca d'Alessandro (Fi), segretario della commissione Giustizia della Camera.
VELENI IN PROCURA E MALI DI CORRENTE, scrive Bruno Tinti (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano”. La Procura di Milano è sconvolta dalla denuncia di un Aggiunto, Robledo, contro il suo capo, Bruti Liberati: non mi voleva affidare i reati contro la Pubblica amministrazione, mi ha blandito, minacciato, emarginato, violato le procedure di assegnazione. È vero? Il Csm traccheggia, difende Bruti, impedisce un’approfondita istruttoria. Lo dice un suo componente, Racanelli. È vero? Lo stesso Racanelli, nel corso di un plenum cui partecipa il ministro della Giustizia, chiede che questi proceda a un’ispezione; e spiega che è stato costretto a farlo perché il Csm voleva insabbiare tutto. Ha fatto bene?
1) È nota la frase di Bruti: “Ricordati che sei stato nominato aggiunto per un solo voto, di Magistratura democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei al Csm che Robledo mi rompeva i coglioni e di andare a fare la pipì, così sarebbe stata nominata la Gatto che poi avremmo sbattuto all’esecuzione”. Bruti non ha negato di aver detto queste parole. Il corriere.it del 14/3 riferisce che – al Csm che gliene chiedeva conto – avrebbe sorriso e sostenuto che si trattava di humour inglese. Supponendo che la frase sia stata effettivamente pronunciata, le conclusioni sono obbligate. Bruti ritiene normale che le decisioni del Csm dipendano dagli schieramenti correntizi. Bruti ritiene normale che, nei contrasti interni all’ufficio, non si debba ricorrere al Csm, ma ricordare a chi gli si oppone il suo ruolo di correntocrate (in grado – evidentemente – di condizionarne la carriera). Bruti ritiene normale ghettizzare i magistrati a lui sgraditi “sbattendoli” in uffici valutati di secondo piano (Nunzia Gatto, poi divenuta Aggiunto, si occupa effettivamente di esecuzione). Ora, è vero che l’ultima versione dell’ordinamento giudiziario (legge Castelli–Mastella, due nomi, una garanzia), ha rafforzato molto i poteri del Procuratore capo; ed è vero che Bruti avrebbe potuto destinare al dipartimento che gli fosse sembrato opportuno Robledo (e Gatto). Ma ciò con un provvedimento motivato, passibile di ricorso al Csm. Minacce e ritorsioni non fanno parte delle prerogative di un magistrato.
2) Le mancate assegnazioni di importanti indagini a Robledo si prestano a considerazioni meno perentorie. L’indagine Expo, affidata a Boccassini. Vero che i reati per cui si procede sono quelli contro la Pa (corruzione). Ma sono anche vere altre circostanze. La prima informativa giunta alla Procura di Milano segnalava un’associazione a delinquere di stampo mafioso funzionale a commettere corruzioni. Competenza della Dda, Boccassini. E però il Gip non ha ritenuto sufficienti le prove con riferimento a questo reato. Il fascicolo doveva essere trasferito a Robledo? Parrebbe di no: sia perché le indagini sul 416 bis proseguono; sia perché, quando un magistrato comincia un procedimento, la cosa peggiore che si può fare è toglierglielo e affidarlo a un altro; giorni e giorni di lavoro buttato. E poi Bruti ha inserito, nel pool che si occupa dell’indagine Expo, un Sostituto appartenente al dipartimento di Robledo, D’Alessio. Il Ruby bis, le false testimonianze a favore di Berlusconi. Vero, la falsa testimonianza è un reato contro la Pa. Ma è prassi costante in ogni Procura che di questo tipo di indagini si occupino i Pm che hanno trattato il procedimento principale. Per una ragione di efficienza: conoscono bene gli atti, sanno già quali prove dimostrano la falsa testimonianza, non ha senso che qualcun altro ricominci tutto da capo. E il processo Ruby era stato trattato da Boccassini. Ma non doveva esserlo, dice Robledo: l’accusa più grave era quella di concussione, di competenza del dipartimento della Pa. Ma, anche in questo caso, l’indagine era cominciata per tutt’altro: la telefonata di Berlusconi al questore e tutto quello che ne seguì avvennero a procedimento iniziato da tempo. Sarebbe stato dissennato sostituire i Pm a indagine praticamente conclusa. Però il veto all’iscrizione di Podestà, che ordina di raccogliere firme false per le liste Pdl alle regionali 2010, perché potrebbe creare problemi al Pdl, se vero, è inaccettabile. Se vero… Robledo dice che, dopo l’iscrizione (cui egli aveva proceduto contravvenendo all’ordine del capo) Bruti gli avrebbe detto “allora non ci siamo capiti”. Sta di fatto che, in una lettera successiva, Bruti evidenzia il suo disappunto: “Hai proceduto a stretto giro (come prevede la legge ndr), senza adottare la cautela dell’iscrizione con nome di fantasia, che ti avevo indicato come opportuna”. E Robledo nega di aver ricevuto tale suggerimento. E, quanto alla mancata iscrizione e assegnazione del processo ESA-Gamberale per turbativa d’asta, Bruti l’ammette: “Me ne sono dimenticato”. Da procedimento disciplinare: è rimasta nel cassetto per più di 3 mesi. Per molto meno (ritardi nel deposito delle sentenze e mancate iscrizioni per fatti da quattro soldi) decine di magistrati sono stati condannati. Insomma luci e ombre. Il Csm dovrebbe accertare le une e le altre; è quello che dice l’art. 105 della Costituzione.
3) Ma Racanelli dice che non lo fa. Riferisce di volontà “politica” di insabbiare tutto; di rigetto di richieste di audizione dei magistrati che possono fornire informazioni sulla vicenda; di nuovo e sconcertante strumento di accertamento dei fatti: un contraddittorio cartaceo a distanza. E se qualcuno volesse fare qualche domanda? È per questo che si rivolge al ministro.
4) Ha fatto malissimo, tuonano le correnti. Il Csm è organo sovrano, indipendente dalla politica. Vero. Solo che questi stessi correntizzati e correntocrati, tutti uniti, invocarono e approvarono le ispezioni ministeriali a De Magistris e alla Procura di Salerno. L’indignazione a corrente alternata è poco credibile. E comunque, se è vero che al Csm c’è la “volontà politica” di insabbiare, che altro resta?
Come si dice, il difetto sta nel manico. Bisogna mandare al Csm gente che non abbia nulla a che fare con le correnti. Quello che si sta tentando adesso, con il sorteggio. A tacer d’altro, senza le correnti, Bruti forse nemmeno ci sarebbe arrivato alla Procura di Milano.
Se davvero la «guerra alla Procura di Milano» finisce in nulla. Quello che avevamo creduto di capire nello scontro tra Alfredo Robledo ed Edmondo Bruti Liberati. E che ora il Csm, invece, nega sia mai esistito, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Scusateci, avevamo sbagliato. Alla Procura di Milano, dalla metà di aprile a oggi, avevamo capito fosse scoppiata una guerra senza esclusione di colpi. Non era così. Avevamo creduto di capire che l'alto magistrato Alfredo Robledo, nientemeno che un procuratore aggiunto (in ordine gerarchico, il numero 2 dell'ufficio), senza infingimenti e senza giri di parole, accusava davanti al Consiglio superiore della magistratura il suo capo, Edmondo Bruti Liberati, nell'ordine:
1) di avere attribuito illegittimamente ad altri magistrati una serie d'importanti inchieste, tutte «politicamente rilevanti», per il solo motivo che il medesimo capo della Procura, uomo dai lunghi trascorsi nel sindacalismo di categoria e per questo particolarmente abile nella gestione delle correnti giudiziarie e del potere nel suo senso più lato, riteneva in qualche modo più «affidabili» i destinatari delle indagini;
2) di avere indebitamente e gravemente rallentato l'avvio di due o tre inchieste, tutte «politicamente rilevanti», sostenendo in aperti dialoghi che in certi casi fosse meglio non intervenire in certe faccende per motivi di opportunità economica, finanziaria, politica...
3) di avere rimproverato Robledo, anche per questo autore della denuncia, di «scarsa collaborazione», e di avergli per questo rinfacciato che se era in quell'incarico lo doveva esclusivamente alla sua corrente di appartenenza, Magistratura democratica. In particolare, Robledo aveva denunciato, mettendolo nero su bianco, che Bruti gli aveva detto queste sconvolgenti parole: «Ricordati che al plenum (del Csm, ndr) sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, e che questo è un voto di Magistratura democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al Csm che tu mi rompevi i coglioni e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata scelta la Gatto, che poi avremmo sbattuto alle esecuzioni” (Nunzia Gatto, poi nominata procuratore aggiunto a Milano, è effettivamente andata a occuparsi del trattamento dei condannati, ndr)».
4) di avere tenuto per sé (e poi chiuso in una cassaforte per almeno tre mesi) un fascicolo proveniente dalla Procura di Firenze, contenente elementi che ipotizzavano una turbativa d'asta su una delicata cessione d'azienda da parte del Comune di Milano.
A sua volta, il procuratore rispondeva al Csm con una serie di accuse: Bruti sosteneva che il suo aggiunto gli aveva sottaciuto di avere personalmente querelato due degli indagati sui quali chiedeva la titolarità delle inchieste aperte dalla procura. Lo accusava anche di avere disposto un doppio pedinamento di un altro indagato e di avere «intralciato le indagini». Questo, avevamo capito. Invece no, lo ripeto: ci siamo sbagliati. È stato tutto un equivoco, spiacevole ancorché collettivo. Perché se tutto questo fosse stato vero, come finora pareva, di certo il Csm (come sembra) non si appresterebbe a chiudere la feroce disputa fra Bruti e Robledo con una serena archiviazione. È impossibile, non starebbe né in cielo né in terra che l'organo di autogoverno della magistratura, istituto di rilevanza costituzionale, non disponga nemmeno una censura, un trasferimento per incompatibilità ambientale. Non starebbe né in cielo né in terra: perché è evidente. Ma certo, è impossibile, ci siamo sbagliati. Perché la giustizia italiana è una cosa seria. Perché lo Stato di diritto è uno dei pilastri del nostro ordinamento democratico. Perché l'obbligatorietà dell'azione penale è un principio incontrovertibile, un caposaldo della giurisdizione. Perché il Consiglio superiore della magistratura è fatto esclusivamente di persone intellettualmente oneste, che rispondono alla legge e non alle spinte delle correnti. Perché il Csm è il baluardo dell'indipendenza dei magistrati e del loro corretto operare, non è un ente dove si patteggiano soluzioni, si insabbiano questioni, si coprono scandali. Perché a volte gli asini volano, e noi ancora ci crediamo.
Per il CSM nessuno ha ragione, ma noi sappiamo che hanno tutti torto. Se andiamo più nel dettaglio è indiscutibile affermare che un trasferimento d’ufficio contro il Procuratore Capo non sarebbe mai stato preso veramente in considerazione..., scrive Massimo Melani su “Totalità”. In molti, giorni fa, avevamo immaginato che Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, il primo capo della Procura di Milano e il secondo suo vice del pool antitangenti, occupati in una battaglia a campo aperto e ambedue sostenuti dai rispettivi alleati e sostenitori, non sarebbero mai stati richiamati all’ordine o trasferiti in altre sedi, ma ahiloro, dovranno sopportarsi ancora quattro anni. Il CSM, com'è solito fare quando di mezzo ci sono alcuni suoi protetti, tende ad insabbiare tutto ciò che può arrecare danno al proprio enorme strapotere e anche stavolta, coerentemente, ha deciso di archiviare il caso. Né il capo della procura, né Robledo, verranno sbattuti fuori dalla sede milanese. Entrambi resteranno al loro posto, con tutta la loro serenità per niente ammaccata da un esilio meritato, così da poter continuare reciprocamente a darsi, questa volta lontani da telecamere e taccuini, del bugiardo. Ambrose Bierce, scrittore statunitense, nel suo libro Il Diario del Diavolo, ebbe a scrivere: “Giustizia. Un articolo che lo stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, in ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi.” Nient’altro che un articolo, un prodotto di scambio che lo Stato italiano fa amministrare autonomamente da persone illecitamente parziali e dove, anche in quest’ultima situazione, non viene a mancare la paradossale, bizzarra, grottesca leggerezza di chi comanda il sistema giudiziario: nei prossimi mesi, non sto scherzando, sarà proprio Bruti Liberati a dover redigere, come procuratore capo, la scheda di valutazione di Robledo, per stabilire se sia in grado di rimanere al suo posto. E la stessa scheda dovrà compilarla anche per la Boccassini e Greco, i procuratori aggiunti che per Robledo erano stati aiutati in maniera sfacciata da Liberati in questi ultimi anni, e che sono sempre stati pedissequamente al suo fianco in ogni battaglia, in primis contro Silvio Berlusconi. Se andiamo più nel dettaglio è indiscutibile affermare che un trasferimento d’ufficio contro il Procuratore Capo non sarebbe mai stato preso veramente in considerazione, vuoi per l’affronto che sarebbe stato fatto al numeroso gruppo di persone importanti che quattro anni addietro lo vollero fortissimamente come capo, unitamente al Presidente della Repubblica; vuoi per la netta presa di posizione di Magistratura Democratica che, immantinente, ha isolato Robledo, colpevole di aver leso l’onore del grande capo. Facile, dunque, la scelta “pilatesca” del CSM che ha deciso di lavarsene le mani lasciando tutto com’era, senza infierire su nessuno, scimmiottando un tipico comportamento democristiano; cioè quello di non parteggiare né per l’una né per l’altra parte. In tutto questo, però, ne esce vincitore solo Robledo, che né il nemico Bruti Liberati né MD sono riusciti a scalzare dal suo posto, tentando di passarlo per le armi per disobbedienza alla causa o addirittura per interazione intellettiva col nemico. Provate adesso a ragionare un po’ sulla cosa e arriverete a capire ciò che può essere successo, o ciò che può sapere Robledo di tanto compromettente se, sia il massimo potere giudiziario, il CSM, sia il suo appoggio naturale, il sindacato di MD, si sono dovuti accontentare di un moscio e insignificante niente di fatto? L’importante è insabbiare i veleni venuti tragicamente a galla e, in questo, c’è serenamente da ammetterlo, quelli del CSM sono dei veri maestri.
Ma in Procura continua la faida tra correnti. La scelta di salvare entrambi i litiganti è scontata, però il clima rimane irrespirabile, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Milano I vecchi conoscitori dei riti eterni della magistratura italiana lo avevano previsto da tempo: «Non succederà niente e quei due dovranno rassegnarsi a convivere per altri quattro anni». Laddove quei due erano Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, il capo della Procura milanese e il suo vice del pool antitangenti, impegnati in uno scontro senza quartiere, e spalleggiati entrambi da alleati e supporter. La profezia si avvera ieri, con la Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura che insabbia tutto quanto. Non viene cacciato Bruti ma neanche Robledo (che a dire il vero non era mai stato formalmente sotto procedimento, anche se mediaticamente si è cercato di farlo passare per tale). Restano entrambi al loro posto, con la serenità d'animo e di rapporti reciproci che si possono immaginare tra due magistrati in là con gli anni, arrivati a darsi pubblicamente e vicendevolmente del bugiardo. E con un dettaglio oltretutto quasi grottesco: nei prossimi mesi sarà Bruti a dover stendere, come capo dell'ufficio, il pagellino di Robledo, per valutare se sia in grado di restare al suo posto. E la stessa pagellina Bruti dovrà stenderla anche per Francesco Greco e Ilda Boccassini, i procuratori aggiunti che Robledo lo accusava di avere favorito in questi anni, e che più sono stati al suo fianco in questa battaglia. Che il Csm potesse trasferirlo per «incompatibilità ambientale», Bruti Liberati lo aveva escluso già nei giorni scorsi: «Se al Consiglio non piace il mio modo di fare il procuratore dovrebbe rimuovermi dalla magistratura, perché io farei dovunque il mio lavoro come lo faccio a Milano», aveva confidato a chi lo conosce da tempo. D'altronde una rimozione d'ufficio di Bruti sarebbe suonata come uno schiaffo al vasto fronte che quattro anni fa lo scelse come procuratore, con l'autorevole benedizione del Quirinale. A temere di più per la propria sorte era in queste settimane Alfredo Robledo, che si era trovato quasi isolato all'interno del sindacalismo di categoria: solo la destra di Magistratura Indipendente si era schierata con lui, e c'era persino chi chiedeva la sua testa per il reato di «lesa maestà» nei confronti della Procura milanese. Invece, almeno per ora, lo «zero a zero» sancito dal Csm salva capra e cavoli. Decisivo, perché finisse senza spargimenti di sangue, è stato il documento che due veterani della Procura milanese, Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, hanno fatto circolare nei giorni scorsi, raccogliendo la grande maggioranza delle firme dei pm: un documento vagamente democristiano, che non si schierava né con l'uno né con l'altro dei contendenti. Ma già l'equidistanza, l'accortezza di evitare difese d'ufficio del capo Bruti Liberati (che né Pomarici né Spataro amano particolarmente) ha finito con suonare come un messaggio esplicito a chi, come una parte di Magistratura Democratica, puntava a rovesciare il tavolo e a fare del grande accusatore Robledo l'unica vittima della faccenda, passandolo per le armi per diserzione o addirittura per intelligenza col nemico. La partita non è ancora del tutto chiusa, perché ieri non finisce i suoi lavori la Settima commissione del Csm, quella che potrebbe tirare le orecchie a Bruti per la sua gestione dei fascicoli. Ma nel frattempo la Procura milanese si prepara a restare in mezzo al guado, ad affrontare anni in cui non basterà una delibera del Csm a riportare sotto la sabbia i veleni venuti drammaticamente alla luce in queste settimane.
Repubblica inetta, nazione corrotta, scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti. E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”. Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta. Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano. Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica. Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai. Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.
ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.
Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.
Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.
DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.
RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.
D. Sapeva già tutto?
R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.
D. Come si sapeva?
R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.
D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?
R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.
D. E da questa unione cosa è nato?
R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.
D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?
R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.
D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?
R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.
D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?
R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.
D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?
R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.
D. In che senso?
R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.
D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?
R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.
D. Come mai proprio gli appalti?
R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.
D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?
R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.
D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.
R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.
D. Cioè?
R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.
D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?
R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.
D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.
R. Esattamente.
Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.
1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.
2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.
3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?
4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.
5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.
6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.
7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.
8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.
9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.
10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.
Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.
IPOCRISIA ITALICA. E' TUTTO UN VOTO DI SCAMBIO. ERGO: SIAM TUTTI MAFIOSI.
Il voto di scambio è il voto dato a un candidato in cambio di favori leciti o illeciti, ovvero quando l'elettore non agisca motivato da scelte politiche disinteressate, ma corrotte da un tornaconto o una promessa da parte del candidato o di chi lo rappresenta. È praticato talvolta da organizzazioni criminali e cosche mafiose d'intesa con gruppi politici: questa fattispecie è detta scambio elettorale politico-mafioso. È possibile distinguere tra un voto di scambio c.d. "legale" ed uno "illegale". Il voto di scambio "legale" è frutto del clientelismo politico e consente, a chi ne usufruisce, di vedere soddisfatta una propria richiesta legittima in cambio del voto. Si pensi ad un campo destinato all'agricoltura che diventa edificabile, in seguito alla modifica del PGT. Se tale modifica di destinazione d'uso è fatta nel rispetto delle norme vigenti non determina alcun reato, ma consente al proprietario del terreno di vedere legalmente accresciuto il proprio patrimonio personale. In cambio il politico guadagna il consenso di quell'elettore. Il voto di scambio "illegale" è quello in cui un politico offre in cambio del voto qualcosa che non è legittimato ad offrire. Per esempio un posto in un'Amministrazione pubblica con un concorso pubblico addomesticato o il condono di un abuso edilizio non condonabile o il cambio della destinazione d'uso di un immobile in violazione alle norme del PGT. In Italia il voto di scambio non è di per sé una fattispecie di reato autonoma, tranne che nel momento in cui possa essere ascritto a soggetti a cui possa essere contestata attività di cui all'art 416 bis del codice penale italiano. Il voto di scambio può manifestarsi in un rapporto diretto fra politico ed elettore e/o con l'interposizione di interessi di organizzazioni mafiose, in cambio di denaro o di una raccomandazione per un posto di lavoro. La norma non opera nessuna distinzione e sanziona nel solito modo il mero voto di scambio mediato dal coinvolgimento di associazioni mafiose e quello diretto fra politico ed elettore, in assenza di associazioni mafiose, o senza che l'elettore abbia conoscenza di persone all'interno dell'organizzazione mafiosa, ovvero dell'esistenza di un meccanismo violento di coercizione del voto, delle assunzioni clientelari e dell'aggiudicazione di appalti. Nel solito modo è punita qualsiasi violazione della legge per ottenere un voto, sebbene siano reati di ben differente gravità: il falso in un concorso pubblico per un'assunzione clientelare nella pubblica amministrazione; il falso nelle gare di appalto pubbliche per aggiudicare gli appalti a imprese che fanno assunzioni clientelari; il concorso esterno in associazione mafiosa, sempre per imporre l'assunzione di persone e l'aggiudicazione di appalti ad imprese, segnalati dagli eletti che ricorrono alla mafia, o al contrario segnalati dalle organizzazioni criminali.Nel caso di una forma di associazione, il voto di scambio può analogamente avere luogo per ottenere finanziamenti o appalti pubblici, se queste incentivano una convergenza di "massa" per i voti dei loro iscritti. Il 16 aprile 2014 il senato ha approvato in definitiva la modifica dell'art 416 che disciplina le sanzioni penali sul voto di scambio politico-mafioso, che prevede una riduzione della pena del 40% e una maggiore aleatorietà delineata per la fattispecie del reato di scambio. Il nuovo testo dell'articolo 416-ter prevede che chiunque accetti la promessa di procurare voti in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità (cancellato il termine ''qualsiasi'' riferito ad altre utilità) è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. Hanno votato a favore della riforma: Sel, Scelta civica, PI, Autonomie, Gal, Ncd, Fi, e Pd. Lega Nord si è astenuta. Contrario il M5S. Voto di scambio e ricatto occupazionale. A volte si tratta di vere e proprie somme di denaro di piccola entità, specialmente per le elezioni minori (comunali o provinciali). Più spesso si tratta di favori meno palesi da individuare. Da quando, ad esempio, esistono leggi che permettono contratti di lavoro di tipo flessibile (a tempo o collaborazione), chi ha il potere di offrire lavoro, cioè imprenditori o anche amministratori al potere desiderosi di ricevere la conferma del loro mandato, usano assumere, o promettono solo di farlo prima delle elezioni, ingenti numeri di giovani con contratti precari, così da forzarli al voto per loro in cambio della conferma del lavoro. Questo ovviamente poteva accadere anche in passato da parte di chi opera nel nero ed è molto più frequente in realtà di forte disoccupazione, per lo più al sud. In questo caso il "voto di scambio" è legato ad un più generale ricatto occupazionale che permette, grazie alla disoccupazione, di acquisire grandi poteri sulla pelle, e grazie a volte alla complicità, di chi abbia bisogno. Voto di scambio e organizzazioni criminali. Altre forme più gravi, quanto efficaci, di "voto di scambio" sono quelle per cui viene sfruttata, nel corso di consultazioni elettorali, l'influenza che gli ambienti mafiosi esercitano su gran parte della popolazione per far confluire i voti su una determinata parte politica che ha favorito, con leggi o con la concessione di appalti per la costruzione di opere pubbliche, lo sviluppo delle attività imprenditoriali della mafia. Questo fenomeno ha avuto inizio alla fine degli anni cinquanta del XX secolo quando il fenomeno mafioso cominciò ad assumere le caratteristiche tipiche di una azienda multinazionale e si è radicata nel settore delle costruzioni e della finanza internazionale. Questo ovviamente può avvenire anche in maniera meno grave, attraverso gruppi che hanno una qualsiasi influenza, imprenditori, enti religiosi, sindacati, associazioni; ciò che però rende l'atto illegale e spregevole è l'abuso di potere teso a elargire favori, spesso illegali, in cambio del voto o anche la coercizione al voto da parte di chi ha, non un'influenza, bensì un potere sociale che gli permette il ricatto. Il rilevamento illecito del voto. Detto questo, il problema del "voto di scambio" è sempre quello di riscontrare oggettivamente che quella persona in particolare abbia votato quel partito, uomo politico preciso, il che sarebbe teoricamente impossibile grazie al voto segreto. In realtà di metodi ce ne sono diversi, specialmente grazie alla preferenza, in cui si scrive il nome del candidato e lo si può scrivere in modo riconoscibile e alla presenza di tanti seggi che delimitano molto il loro àmbito, da quando però esistono e sono così diffusi apparecchi fotografici di piccole dimensioni e digitali, quindi senza meccanismi rumorosi, il "voto di scambio" è diventato semplicissimo da effettuare. L'elettore corrotto entra nel seggio elettorale, segna la scheda e la fotografa con il telefono cellulare o la fotocamera, poi mostra la fotografia al politico o chi per lui che gli elargirà il favore richiesto. Per questo motivo, durante Governo Prodi II, stabilì con decreto il 1º aprile 2008 regole severe e pene esemplari fino all'arresto per chi si reca a votare munito di una fotocamera inclusa quella del telefono cellulare.
Venduti all’estero per 80 denari, scrive Danilo Ruberto. Il dato elettorale del 25 maggio 2014 conferma un dato conclamato: basta promettere e si riceve un voto. L’allarmante vendita alle lobby straniere e gli 80 euro. Mentre in Europa vincono gli Euroscettici e avanza la destra, in Italia stravince. C’era una volta un sindaco di Firenze, eletto segretario del Partito Democratico, che aveva promesso di non ricoprire la carica di Presidente del Consiglio qualora ce ne fosse stato bisogno. C’erano una volta in Italia i figuranti, o prestanome, i cui fili erano mossi dall’alto. Oggi c’è Matteo Renzi, ad esempio, che sta festeggiando il 40 % alle Elezioni Europee, con un partito più vicino al neo liberismo che alla sinistra. Se qualcuno domani metterà per iscritto la storia già scritta, il titolo di questo capitolo non potrà non essere: "Venduti per 80 denari". E l’inizio di questo capitolo, magari scritto in tedesco, non potrà che iniziare così: “C’erano una volta gli italiani che si vendettero alle lobby per 80 denari“. Il dato elettorale del 25 maggio afferma chiaramente che l’italiano ha bisogno di qualcuno che gli prometta qualcosa. Soldi, programmi in tv e quant’altro. Non sapendo però che quell’assegno mensile sarà recuperato in altro modo. C’era una volta Matteo Renzi che, andando ad Amici (Mediaset), risultò simpatico ai giovani italiani col suo giubbotto di pelle e l’aria di uno che il giorno prima era stato nel pub a divertirsi con i compagni (non “quei” compagni). Chissà cosa avranno da festeggiare oggi nelle sedi del PD. Forse intoneranno Bella Ciao mentre continueranno a intascarsi i rimborsi elettorali (con un referendum che di fatto li aveva abrogati), regalando qualche miliarduccio alle banche europee. Oltre a comprare altri F35 magari li lucideranno pure. Per non farsi trovare impreparati e disordinati, non si sa mai. Forse torneranno ancora a parlare di Enrico Berlinguer, facendo rivoltare il comunista nella tomba. E dall’alto penserà: "Ma io cosa ho a che fare con questi"? L‘Italia è in svendita alle multinazionali non italiane. Solo che molti non lo sanno. E peggio ancora non sanno di essere neo liberali di destra. Poichè il Pd con la sinistra non ha nulla a che fare. Nemmeno lontanamente. Per non dimenticare nemmeno che presiede un governo sedendo in Parlamento con la destra italiana, quella dichiarata, quella che ce l’ha per iscritto nel proprio simbolo di partito. Chi ha memoria storica conosce, chi non ce l’ha pensa sia che Renzi sia l’alternativa a Silvio Berlusconi , e che il suo partito (che con Romano Prodi consegnò l’Italia all’Euro) sia la sinistra. Enrico Berlinguer, perdona loro perché sanno quello che fanno.
Quel voto di scambio che uccide la democrazia. Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro. Così mafia e 'ndrangheta fanno eleggere i loro candidati, scrive dal canto suo Roberto Saviano su "La Repubblica", che da buon comunista ha altro modo di intendere il voto di scambio. Una parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque - in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada - appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi. Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei "acceleratore di diritti". In un paese dai meccanismi istituzionali compromessi, la politica diventa una sorta di "acceleratore di diritti", un modo - a volte l'unico - per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi - e questo è evidente soprattutto sul piano locale - non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi. In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come "funziona" il voto di scambio, di come l'Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L'elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l'apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere. Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l'elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l'assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l'ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne. Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell'urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d'Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L'allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia. Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l'eterno vecchio e lui l'eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un'idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall'altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I "buoni" votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell'Imu e un condono tombale, dall'altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall'altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all'ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l'esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni. Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni '70 e '80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l'attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente - è importante sottolinearlo - ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni '90 non c'era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti. La storia di Alfredo Vito "Mister centomila voti", impiegato doroteo dell'Enel che prende negli anni '90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. "Do una mano a chi la chiede": ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano - e non sono - quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il "riconoscimento di un premio" per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall'altro, la scelta diretta del candidato - in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione - trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante. Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifiuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro). Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare. Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo. Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un'indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c'è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto! E poi c'è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della "scheda ballerina". L'elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all'elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica. In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come "acceleratore di diritti" sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l'OSCE (l'organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L'OSCE non recepì l'appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta. Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?
Meno male che c'è qualcuno che a modo suo dice la verità. Show del leader del Movimento Cinque Stelle che prima passeggia nello studio di Porta a Porta, poi risponde alle domande del conduttore. "Siamo dentro un'associazione a delinquere di stampo legale: destra e sinistra si sono spartiti il Paese. Gli 80 euro? Sono solo la depravazione del voto di scambio. Napolitano? Non rappresenta più la Repubblica". Poi dice che vuole processi online per politici, giornalisti e imprenditori, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 19 maggio 2014. E’ una mossa politica, ha spiegato entrando negli studi di via Teulada 21 anni dopo l’ultima volta. E Beppe Grillo l’intervista a Porta a Porta se l’è giocata proprio così: come un’ulteriore opportunità per far conoscere anche al pubblico di Rai1 e in particolare a quello di Bruno Vespa cos’è il Movimento Cinque Stelle, cosa propone quello che altrove viene definito come Hitler o come un buffone. “Quello del 25 maggio è un voto politico – ribadisce più volte il leader dei Cinque Stelle – O noi o loro. Noi non siamo originali. Non diciamo cose nuove. Ma qui la questione è decidere tra chi è sincero e chi non lo è”. Ancora una volta: tra chi dice le stesse cose da 20 anni e non le fa e chi propone di rovesciare tutto, cambiare tutto, risanare tutto. Nessuna parolaccia, a differenza delle performance sui palchi delle piazze riempite ancora nelle ultime settimane, ma il bagaglio degli argomenti è lo stesso: “Spazziamo via la spazzatura storica dei partiti politici”, mentre “Napolitano non rappresenta più la Repubblica”. E ancora: “Siamo dentro un’associazione a delinquere di stampo legale: destra e sinistra si sono spartiti il Paese”. O noi o loro, appunto. “Da resettare, bisogna mandarli a casa tutti ma solo dopo aver verificato prima se hanno rubato”. E’ una mossa politica e quindi, a fianco dell’invito a scegliere “noi o loro” (gli onesti contro i disonesti, “basta compromessi” sottolinea), prova anche a spiegare le sue grida, la sua agitazione, la sua rabbia che in questi due-tre anni è stata quella che ha portato il Movimento Cinque Stelle a essere il primo partito del Paese. ”Io risulto uno che grida – ammette – E’ vero, sono arrabbiato, a volte esagero ma è una rabbia che ha unito in un bel sogno 10 milioni di italiani, non siamo andati in giro a far a botte con la polizia o a sfasciare le vetrine”. ”La mia rabbia è una rabbia buona: questo non è un partito, è un sogno, è un piano B”. Il modo per dire basta, la via di fuga, l’uscita di sicurezza : o noi o loro. O noi o un partito violento o fascista di come ce ne sono – dice – in Grecia, in Francia, in Finlandia e via andando. L’intervista di Vespa a Grillo è insieme “storica” e sui generis. Intanto per il ritorno in Rai da dove Grillo era uscito nel 1993 da comico e monologhista e dov’è rientrato come leader politico e quasi-monologhista. Poi perché – da showman – prima di mettersi seduto sulla poltrona, fa sudare Vespa per svariati minuti. Ma soprattutto perché il leader dei Cinque Stelle si concede questa volta proprio al programma diventato negli anni il simbolo del dialogo perpetuo tra centrodestra e centrosinistra, dell’immagine del “tutti amici”, dell’inciucio. “Se qualcuno mi avesse detto qualche tempo fa che sarei venuto qui da te lo avrei querelato” sintetizza, appunto, Grillo, rivolgendosi a Vespa, quello che una volta chiamava “l’insetto” dal quale dover salvare la Rai. Invece il confronto tra i due scivola via serrato, in una gara di dialettica, tra la tendenza al “faccio tutto io” di Grillo e diversi scambi ironici: “Bevi, non ti bagnare e calmati” gli fa Vespa, “Con te davanti non ci riesco a rilassarmi, la tua è una finta calma” gli risponde l’altro. Il presentatore di Porta a Porta ha in mano l’intervista dell’anno – è la riproposizione con altri colori della sfida Santoro-Travaglio vs Berlusconi – ma non soffre certo di piaggeria per il “lusso” di avere “l’inintervistabile” lì in studio: se la gioca, non molla un centimetro e qualcuno fa notare che si è ricordato come si fa diversamente da altre occasioni (dalla scrivania di ciliegio in poi). “Perché ti approfitti delle persone meno informate – interviene a un certo punto Vespa – dicendo che si può fare un referendum per uscire dall’euro quando sai benissimo che non è vero?”. Ma domande e obiezioni sono accolte da Grillo che cerca di neutralizzarle nel merito, senza fare lo “sfasciacarrozze”, come direbbe Berlusconi. “Sull’euro devono decidere gli italiani e non quattro coglionetti” replica. Ma non rovescia il tavolo come a Palazzo Chigi alle consultazioni con Matteo Renzi. Gioca fino in fondo, a modo suo. Tanto che alla fine, mentre parte la sigla di coda, è lui, Grillo, a dare per primo la mano, una specie di “cinque”, a Vespa. “E’ stato corretto” dice il leader M5s alla fine del programma. “Ma il processo alla stampa bisogna farlo”. Sì, perché l’altra idea evocativa che fa rimbalzare di nuovo in questi ultimi giorni – dentro questo “o noi o loro” – è questa specie di “maxiprocesso” online da fare a politici, imprenditori e politici che sono gli artefici “del disfacimento del Paese”. Ma in trasmissione non si vede il “plasticone” che Grillo ha preparato e portato negli studi di via Teulada prima della messa in onda di Porta a Porta. Cioè una miniatura del “castello di Lerici in cui ci sono anche delle segrete da cui spuntano dei signori: ci sono tutte le categorie, politici, imprenditori e giornalisti”. Un’iniziativa provocatoria che aveva suscitato durante la giornata la protesta indignata del Pd che aveva invocato perfino l’Agcom per una presunta violazione della par condicio. A sottolineare una volta di più che quella di Grillo è stata una “mossa politica”, necessaria a 5 giorni dal voto, soprattutto ora che il Pd vede girare sondaggi strani, dai risultati controversi, ambigui, forse temibili. Chissà, forse proprio l’intervista alla pari con Vespa potrebbe essere stata la zampata finale per dare di nuovo al Movimento Cinque Stelle il primato nazionale (sia pure in uno scenario di consistente astensionismo). “Siamo già primi” assicura Grillo, più volte. Anzi: quella dei Cinque Stelle sarà una “marcia trionfale“, perché “l’ebetino è già finito” (“cioè Renzi” sottotitola ogni tanto Vespa per chi potrebbe non capire). “Non possiamo perdere” insiste. La riprova, aggiunge, sarà venerdì prossimo, il 23, in piazza San Giovanni. “Lì vedremo se perdiamo le elezioni” provoca. L’ultima volta la piazza era piena e non era il primo maggio, ma il 23 febbraio 2013. Qualche giorno dopo Pierluigi Bersani avrebbe cominciato la sua via crucis prima della Waterloo per l’elezione al Quirinale, le sue dimissioni e l’inizio del governo delle larghe intese perfino con Berlusconi. Altro carburante per il serbatoio del “non partito” diventato sogno.
CRONACA MINUTO PER MINUTO
00.29 – “Appuntamento al 23 a San Giovanni: lì vediamo se perdiamo”
“Io vi saluto e vi dò appuntamento il 23 in piazza San Giovanni: lì vedremo se perdiamo le elezioni, vieni a fare un bagno di umiltà, vediamo come ti accolgono”. Così Beppe Grillo, rivolgendosi a Bruno Vespa durante Porta a Porta.
00.26 – “Spazziamo via la spazzatura dei partiti”
“Spazziamo via la spazzatura storica dei partiti politici”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a ‘Porta a Portà su Rai1.
00.19 – “Berlusconi e i cani? Lui ha una società che fa sperimentazione animale”
“Lui (Berlusconi, ndr) che parla di cani, ha una società, collegata con la Glaxo, dove fanno sperimentazione animale”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
00.18 – Siparietto Grillo-Vespa: “Bevi, calmati”, “Non ci riesco con te”
Siparietto tra Beppe Grillo e Bruno Vespa a Porta a Porta. “Mancano cinque minuti, bevi e non ti bagnare”, dice Vespa a Grillo, che replica: “Non riesco a rilassarmi, c’è una calma finta, non riesco a rilassarmi con te”.
00.15 – “Se Renzi vincesse ne prenderei atto”
“Non possiamo perdere. Ma se vince Renzi ne prendo atto”. Lo afferma il leader del M5S Beppe Grillo a “Porta a porta” su Rai1, rispondendo a Bruno Vespa che gli chiede cosa succederebbe se a vincere le Europee fosse Matteo Renzi.
00.05 – “L’Expo è una rapina, tutte le aziende sono colluse con la mafia”
“L’Expo è una rapina, tutte le aziende sono colluse con la mafia, quasi tutte”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a ‘Porta a Portà su Rai1. “Non puoi dire lasciamole rapinare se no i rapinatori perdono il lavoro”, ha aggiunto Grillo rivolgendosi a Vespa. “Abbiamo un commissario, Cantone – ha aggiunto Grillo – che è una persona perbene, un super commissario dell’anticorruzione. Cantone arriva e dice: cosa è successo? Arriva lì con un altro commissario che dice: ‘non mi sono accorto di nientè. Abbiamo il commissario del commissario. Gli appalti, per il 95%, sono stati dati, ma che Paese è”, ha detto ancora il leader del Movimento 5 Stelle.
00.02 – “Il 25 maggio sarà un voto politico: o noi o loro”
“Il voto del 25 maggio è un voto politico: o noi o loro. Da resettare, bisogna mandarli a casa tutti ma solo dopo aver verificato prima se hanno rubato”. Lo afferma il leader del M5S Beppe Grillo a “Porta a porta” su Rai1.
00.01 – “Sono qui per il comizio, non per farmi intervistare”
“Sono in comizio, non venivo mica qui a farmi intervistare”. Così Beppe Grillo, rivolgendosi a Bruno Vespa durante la puntata di Porta a Porta su Rai1. Subito dopo però ricomincia a rispondere alle domande del conduttore.
23.58 – “Con le privatizzazioni si stanno mangiando il Paese”
“Si stanno mangiando il Paese. L’ebetino ha messo il suo consulente alle Poste, nel consiglio d’amministrazione”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a ‘Porta a Portà su Rai, in merito alle privatizzazioni avviate dal governo. “Stanno svendendo i nostri gioielli”, ha aggiunto Grillo.
23.58 – “L’Eni è già in crisi, è in perdita totale”
“L’Eni è già in crisi, è in perdita totale. Ha un contratto con Putin di 30 anni”. Lo afferma Beppe Grillo a “Porta a porta” su Rai1. “Le aziende che verranno a gestire acqua ed energia qui – aggiunge il leader del M5S – sono quelle che prima erano in Grecia e Sudamerica”.
23.56 – “Renzi ha dato due slinguate alla Merkel”
“Renzi è andato in Europa, è andato lì e ha dato due slinguate alla Merkel”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
23.53 – Grillo mostra maxi assegno da 5 milioni per restituzione diarie parlamentari
Un maxi assegno da oltre cinque milioni di euro a simboleggiare la restituzione delle eccedenze delle indennità e delle diarie dei parlamentari del Movimento 5 Stelle. Lo ha esposto Beppe Grillo nello studio televisivo di ‘Porta a Portà, ospite di Bruno Vespa.
23.50 – “Voglio un processo a media, politici e imprenditori”
“Voglio un processo dei mezzi di comunicazione, della politica e dell’imprenditoria”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
23.49 – Grillo a Vespa: “Tu non sei un giornalista, sei un pacchetto”
“Tu non sei un giornalista, sei un pacchetto. Tu sei in pensione ma vendi un pacchetto”. Beppe Grillo “provoca” così Bruno Vespa a “Porta a porta” su Rai1.
23.41 – “Vogliamo elezioni anticipate”
“Noi vogliamo andare ad elezioni anticipate, non facciamo alleanze, devono andare tutti a casa”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
23.41 – “Siamo in un’associazione a delinquere di stampo legale: si sono spartiti il Paese”
“Siamo dentro a un’associazione a delinquere. Destra e sinistra si sono spartiti il Paese, noi non accettiamo più compromessi”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
23.41 – “Vedete? Non sono né Hitler né Stalin. Con noi non ci sono partiti fascisti”
“Sono venuto a dimostrarvi che non sono nè Hitler né Stalin: abbiamo tolto la violenza dalle strade. Se non si è formato un partito violento, fascista ( e tu lo sai era tuo papà..) è merito nostro che abbiamo incanalato le forze incattivite in un movimento democratico”. Lo dice Beppe Grillo a Porta a Porta. Il riferimento di Grillo è a una falsa credenza secondo la quale Vespa sarebbe discendente di Benito Mussolini.
23.40 – “80 euro? Depravazione del voto di scambio”
Il bonus Irpef di 80 euro “è una depravazione del voto di scambio, la scarpa destra per la scarpa sinistra di Achille Lauro era qualcosa di più decoroso”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
23.39 – “Gli 80 euro? Era più decoroso Achille Lauro”
“Gli 80 euro? Sarebbe stata più decorosa la scarpa destra data prima del voto da Achille Lauro. Significa che ti faccio una campagna per le elezioni, ma poi vedi le coperture e…. Hanno levato l’assegno di sostegno per il coniuge. Poi dopo hanno scritto armonizzato invece di levato”. Lo afferma il leader del M5S Beppe Grillo a “Porta a porta” su Rai1.
23.37 – “L’informazione ha generato il disfacimento del Paese”
“Siamo dentro una situazione che ha generato il disfacimento di questo Paese, cioè l’informazione, prima ancora dei politici”. Lo ha detto Beppe Grillo, ospite da Bruno Vespa a Porta a Porta su Rai1.
23.35 – “Napolitano non rappresenta più la Repubblica”
“Se vinciamo le elezioni, il governo non si dimette? E chi l’ha detto? Diremo che Napolitano non rappresenta più questa Repubblica. Siamo già adesso la prima forza politica del Paese”. Lo afferma il leader del M5S Beppe Grillo a “Porta a porta” su Rai1.
23.35 – “Questo non è partito, è un sogno”
“La mia rabbia è una rabbia buona: questo non è un partito, è un sogno, è un piano B”. Così Beppe Grillo a Porta a Porta. “E’ vero, a volte esagero, ma è una rabbia che ha unito in un bel sogno dieci milioni di italiani: non siamo andati in giro a far a botte con la polizia o a sfasciare le vetrine” aggiunge.
23.34 – “Faremo la marcia trionfale, ebetino già finito”
“Noi vinceremo e la nostra sarà una marcia trionfale”. Lo dice Beppe Grillo a Porta a Porta dove aggiunge: “L’ebetino è già finito: parliamo del nulla, del niente”.
23.31 – “Io urlo, ma la mia è rabbia buona”
“Io risulto uno che grida. E’ vero, sono arrabbiato, a volte esagero ma è una rabbia che ha unito in un bel sogno 10 milioni di italiani, non siamo andati in giro a far a botte con la polizia o a sfasciare le vetrine”. Lo afferma il leader del M5S Beppe Grillo a “Porta a porta”, replicando alle critiche di Matteo Renzi.
23.29 – “Lupara bianca? E’ un termine giornalistico, non mafioso”
“Lupara bianca è un termine giornalistico, non è un termine mafioso. Lupara bianca è la scomparsa di questi personaggi: guardate Monti, chi se lo ricorda? Eppure è quello che doveva mettere a posto l’Italia”. Lo ha detto Beppe Grillo da Bruno Vespa a Porta a Porta.
23.21 – Grillo “passeggia” per lo studio di Porta a Porta
Beppe Grillo inizia la sua partecipazione a Porta a Porta girando per lo studio, dicendosi commosso per essere tornato in uno studio Rai dopo 21 anni. “Sono commosso perché è dal ’93 che non vengo in studio in diretta. E sono commosso dalle fotografie: se mi vedessi non darei mai il voto a uno così”. Lo dice Beppe Grillo in studio a Porta a Porta dove chiede: “Il pubblico è sempre lo stesso, pagato. Non so se gli danno 80 euro…”.
Esclusiva. Gli 80 euro? Una truffa: ecco il documento del Ministero dell’Economia che smaschera Renzi, scrive Andrea Succi su “L’Infiltrato”. Abbiamo scovato un documento ufficiale del MEF, il Ministero dell’Economia e Finanze, che smaschera la truffa di Renzi riguardo ai famosi 80 euro: è un gioco delle tre carte. Oggi te li do, domani spariscono. Come? Con un artifizio tecnico che lascerà tutti a bocca aperta. Pubblichiamo, in esclusiva, il documento. Il documento è datato 22 maggio 2014, quindi tre giorni prima delle elezioni. E, probabilmente, non è un caso che sia stato secretato fino a quel momento e che abbia visto la luce “fuori tempo massimo”, quando i giochi elettorali erano ormai chiusi e l’effetto “80 euro” era andato a buon fine, come ha dimostrato poi la schiacciante vittoria del Partito Democratico del pifferaio Renzi. Checché ne dicano analisti e parolai, alla ricerca di chissà quali motivazioni psico-sociali dietro il 40-20 delle Europee 2014, la spinta eccezionalmente decisiva al trionfo renziano l’hanno data gli 80 euro. Diciamocela tutta: siamo un Paese che dai tempi di Achille Lauro ad oggi non è cambiato in niente, almeno da questo punto di vista. Il voto di scambio c’è sempre stato e sempre ci sarà e, se siamo stati capaci di venderci per un paio di scarpe, figurarsi per 80 euro in busta paga. O almeno: per la promessa di 80 euro in busta paga. Perché di questo si tratta: di una promessa. Di un gioco delle tre carte che presto si rivelerà tale. E intanto Renzi è ben saldo al suo posto e ci resterà, bontà sua, fino al 2018. Almeno stando alle sue dichiarazioni post-elettorali. Il sospetto che si trattasse di una truffa in piena regola lo abbiamo sempre avuto. Ma trovarci davanti a questo documento ci ha lasciato, francamente, senza parole. Ricordate la falsa promessa di restituzione dell’Imu di Berlusconi? A confronto quella è roba per dilettanti. Veniamo ai contenuti del documento, firmato da Roberta Lotti, dirigente dell’Ufficio V della Direzione dei Sistemi Informativi e dell'Innovazione del MEF. L’Ufficio V ha competenza in materia di “retribuzioni per il personale delle amministrazioni dello Stato”: parliamo quindi di quella schiera di dipendenti pubblici, che compongono una grossa fetta degli aventi diritto alla detrazioni Irpef, quindi i famosi 80 euro, a scalare in base alle fasce di reddito. Ricordiamo che il bonus promesso da Renzi dovrebbe essere di 80 euro per i redditi dipendenti compresi fra gli 8.000 e i 24.000 €, mentre andrà a scendere fino a scomparire per la fascia di reddito compreso fra 24.001 e 26.000 €. L’oggetto del documento, che pubblichiamo in esclusiva e che smaschera la truffa di Renzi, riguarda “le indicazioni operative in merito all’art.1, D.L. 66 del 24 aprile 2014 in materia di riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti”: ovvero, tratta proprio dei famosi 80 euro. Fin qui nulla di strano. Se non fosse che, a partire da qualche riga più giù, sale fortissima la puzza di bruciato. Perché, così si legge nel documento, “codesti uffici” mettono on-line “la funzione self service a disposizione degli amministrati per comunicare la rinuncia all’attribuzione del beneficio”. Domanda: perché mai qualcuno dovrebbe rinunciare agli 80 euro in busta paga? Chi sarebbe così sciocco? A meno che… a meno che non risulti più semplice rinunciare piuttosto che aspettare invano la manna dal cielo. E scorrendo il documento si capisce dove sta l’inghippo. L’artifizio tecnico che viene utilizzato è racchiuso tutto nella differenza tra “reddito previsionale” e “reddito reale”. Perché, questo si legge nel documento, la detrazione Irpef (il bonus da 80 euro) verrà calcolata sulla base del “reddito previsionale” e non su quella del “reddito reale”. Conclusione: a fine anno saranno migliaia quelli chiamati a restituire i soldi sulla base dell’imponibile reale. Ecco il perché il Mef avverte fin da ora che chi vuole può rinunciare, tramite l’apposito modulo self-service, all’attribuzione del credito. Come denunciato da Marcello Pacifico dell’Anief-Confedir - l’associazione nazionale sindacale per il personale docente e Ata, precario e di ruolo – “alla fine della fiera appena il 40% degli insegnanti percepirà l’aumento. Su 735mila prof in servizio solo 300mila. E per tanti sarà anche inferiore a quanto strombazzato dall’Esecutivo.” Non solo: “Se l’aumento corrisposto con le buste paga del mese di maggio è solo ipotetico – accusa Pacifico - perche il credito è stato determinato sul reddito presunto e non effettivo”, questo significa che “a fine anno, in fase di conguaglio, sarà poi determinata l'effettiva spettanza in base al reddito complessivo reale e ai giorni lavorati. Per migliaia di insegnanti che percepiscono redditi al limite della soglia prevista dal beneficio fiscale, si sta quindi profilando la concreta possibilità che i benefici acquisiti in busta paga nei prossimi otto mesi vengono poi restituiti a fine 2014.” Ovvio: basta calcolare il bonus su un reddito presunto, e non su base reale, per mandare “fuori soglia” migliaia di persone ed evitare di assegnare loro gli 80 euro. Persino Totò, che era riuscito a vendere la Fontana di Trevi ad un turista americano, sarebbe impallidito di fronte al mago (della truffa) Renzi.
ITALIANI. SIAM TUTTI LADRONI E MAFIOSI.
E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
Ogni mese l'ex capo clan dei Casalesi, Antonio Iovine, poteva contare su centomila euro per pagare gli "stipendi" ai suoi affiliati e per soddisfare le esigenze personali. Lo ha riferito lo stesso Iovine rispondendo in videoconferenza da una località segreta alle domande del pm Antonello Ardituro. Il boss provvedeva a retribuire le famiglie degli affiliati detenuti; un compenso maggiore andava a quelli detenuti in regime di carcere duro. Il sistema, ha spiegato Iovine, si incrinò tuttavia nel 2010 dopo la sentenza di appello Spartacus, quando il clan subì una frammentazione. "Richiesti dagli imprenditori". "All'inizio noi non li cercavamo; aspettavamo che facessero i loro passi per gli appalti dopo di che li interpellavamo. Poi furono loro a scegliere noi: ognuno cercava un riferimento con qualcuno di noi", ha spiegato il pentito. "Non ho mai avuto nessun tipo di problema per l'appartenenza politica dei sindaci; anzi, la posizione politica dei sindaci era per noi ininfluente", ha detto spiegando come il clan dei Casalesi esercitava il controllo delle amministrazioni locali. "Lo sapevano anche i bambini - ha esemplificato Iovine - che a San Cipriano d'Aversa, il vero sindaco era Peppinotto, ovvero il nostro Giuseppe Caterino". Quanto al sistema di gestione degli appalti nel Casertano e ai rapporti del clan con gli imprenditori il pentito descrive chiaramente un’imprenditoria collusa«All’inizio noi non li cercavamo, aspettavamo che facessero i loro passi per gli appalti dopo di che li interpellavamo. Poi furono loro a scegliere noi, ognuno cercava un riferimento con qualcuno di noi». E in merito alle modalità con cui il clan si aggiudicava le gare di appalti, “o ninno” rivela la complicità del responsabile dell’ufficio tecnico, incaricato di aprire le buste la sera prima della lettura, così da permettere agli imprenditori di fiducia del clan di inserire nella busta il ribasso giusto e risultare l’indomani vincitori della gara. Tira in ballo anche l’emergenza rifiuti, che descrive come un vero e proprio business per il clan, grazie alle amicizie di Zagaria con e dirigenti della Regione, grazie alle quali il clan riuscì a pilotare l’assegnazione delle piazzole di stoccaggio di ecoballe, così da farle allestire nei terreni appartenenti allo stesso Zagaria o in quelli di persone a lui vicine. Il pentito si sofferma anche sul controllo esercitato dal clan sulle amministrazioni locali e sui rapporti con i rispettivi sindaci, la cui appartenenza politica risultava del tutto ininfluente agli occhi del gruppo camorristico. «Lo sapevano anche i bambini che a San Cipriano d’Aversa il vero sindaco era Peppinotto, ovvero il nostro Giuseppe Caterino», dichiara Iovine tirando in ballo anche i vertici amministrativi statali nella figura di Alemanno, allora ministro dell’agricoltura, per l’aver varato una politica di rimboscamento dell’alto casertano di cui lo stesso pentito dichiara di non aver mai capito l’effettiva esigenza. «Fu Alemanno a varare la politica di rimboscamento, non ho mai capito a che servisse rimboscare le montagne dell’alto casertano. So per certo che furono favoriti alcuni imprenditori che si riunirono in consorzi e che gestivano vivai, io assicuravo loro solo garanzie di sicurezza, ovviamente in cambio di tangenti. Un giorno Alemanno venne a tenere un comizio nel cinema “Faro” di Casal Di Principe, organizzato da mio nipote». Nelle sue rivelazioni c’è spazio anche per la sfera personale, in particolare per la sua amicizia con Michele Zagaria, incrinatasi nel tempo a causa dei diversi caratteri dei due, l’uno accondiscendete e incline al dialogo, l’altro incline allo scontro. «Da parte mia era un’amicizia sincera- prosegue Iovine - mentre da parte sua soprattutto nel corso degli anni era un’amicizia più di interesse per sfruttare la mia posizione all’interno del clan».
Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno AmorosoIl cantiere del Mose Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori-confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro..."Questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar...", ha detto ai pm l'ex segretaria di Galan... Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre... "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...".
L'ex segretaria di Galan vuota il sacco: "Ecco come funzionava il sistema di mazzette", scrive “Libero Quotidiano”. E' più di un anno che la Dark Lady di Giancarlo Galan sta vuotando il sacco: parla delle mazzette alla Regione, al Ministero, al magistrato alle acque; parla della corruzione del generale della Guardia di Finanza; parla del vorticoso giro di fondi neri nelle quali è entrata; parla di giornali acquisiti e pure di ragazze assunte per avere buoni rapporti con i Servizi Segreti. La ex segretaria del governatore del Pdl (ora Forza Italia), Claudia Minutillo, è un fiume in piena e dagli interrogatori pubblicati oggi sul Corriere della Sera gli inquirenti del caso Mose sono riusciti a ricostruire il sistema con cui venivano creati fondi neri, qualcosa come 50 milioni di euro, necessari per pagare le mazzette. Secondo la Minutillo, ribattezzata la Dark Lady per via del suo look total black, tutto sarebbe iniziato nel 2005. Dopo averla arrestata per fondi neri e false fatturazioni e sospettando che dietro si nascondesse la corruzione dei politici, i pm di Venezia la incalzano per sapere se le somme che transitavano dall’ufficio di Giovanni Mazzacurati, l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, l’ente che governava sul Mose, servono anche per ungere i funzionari delle strutture regionali, ministeriali o del Magistrato alle Acque. «Sapevo che il sistema prevedeva sia la struttura burocratica, sia regionale, sia ministeriale e anche il Magistrato alle Acque che era di nomina ministeriale ma in realtà era Mazzacurati che decideva chi e come», ammette la Munutillo spiegando che i destinatari delle somme raccolte da Mazzacurati «erano (omissis) e Marco Milanese, uomo di fiducia del ministro Tremonti. A lui era destinata la somma di 500 mila euro che l’ingegner Neri conservava nel suo ufficio al momento dell’ispezione della Guardia di Finanza al Consorzio Venezia Nuova... Mi dissero: “Pensa che Neri li aveva nel cassetto e li buttò dietro l’armadio”. La Finanza sigillò l’armadio e la sera andarono a recuperarli». E ancora: «Il primo imprenditore che accettò di finanziare i politici veneti fu Piergiorgio Baita (ex presidente della Mantovani, già arrestato e liberato dopo aver confessato, ndr), che io ebbi l’onere di presentare a Walter Colombelli su incarico di Galan a Venezia, organizzando un appuntamento all’hotel Santa Chiara. Nell’occasione ricevetti una busta contenente del denaro a Galan. Erano i primi mesi del 2005», puntualizza l'ex segretaria del governatore, ma gli inquirenti sono convinti che la data sia precedente. Dagli interrogatori pubblicati sul Corsera viene fuori il sistema che garantiva a imprenditori a imprenditori, manager e Corsorzio una sorta di immunità giudiziaria attraverso la corruzione di un generale «ma non mi è stato detto il nome (si tratta di Emilio Spaziante, arrestato per aver ricevuto 500 mila euro, puntualizza Andrea Pasqualetto sul Corsera) pagato da La Mantovani, Baita», dice la Minutillo. L’ex presidente del gruppo Mantovani, la spina dorsale del Consorzio Venezia Nuova, capofila anche del maggior appalto dell’Expo secondo il racconto della Dark Lady gli «chiese anche di fare un paio di assunzioni (era già imprenditrice, ndr)». «I cognomi di queste due ragazze», spiega, «sono significativi: una si chiama S., il cui padre è comandante dei Servizi segreti, che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della laguna». La Minutillo racconta un episodio in particolare: «Successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse». A un certo punto gli inquirenti scovano una serie di contatti romani della Mantovani finalizzati all’acquisto di una società capitolina, la New Time corporation. «Si trattava dell’acquisizione di una quota della società editrice di un giornale che si chiama Il Punto. Era gente appartenente ai Servizi, per cui questa partecipazione, che costò molti soldi e molti altri vennero versati in tempi recenti, era un modo per pagare queste persone, per avere informazioni e per vedere di influire sulle indagini in corso». Riguardo alle somme destinate alla Regione Claudia Minutillo ha detto agli inquirenti che «le somme sono state versate a Galan e a Chisso. A Galan venivano consegnate, anche più volte all’anno, somme ingenti di denaro, parliamo di 100 mila euro o anche più. Questo mi è stati riferito sia da Baita che si lamentava delle richieste esose, sia dallo stesso Galan quando ne ero la sua segretaria. Poi c’erano alcuni funzionari regionali ai quali si facevano favori. Quanto a Galan, Baita mi disse che aveva sostenuto finanziariamente la ristrutturazione della sua villa. Non so se avete mai visto la casa, credo che i lavori siano costati qualche milione di euro». E ancora: «So che normalmente l’ingegner Mazzacurati versava somme di denaro a Chisso all’Hotel Monaci all’ora di pranzo. Chisso in più occasioni si lamentò del fatto che Mazzacurati versava solo alle feste comandate... era chiaro che voleva essere remunerato più frequentemente». Secondo l'ex segretaria di Galan il business del futuro del Mose «è la commissione di collaudo sulla gestione il vero. Il Mose ormai lo danno per finito perché i soldi sono stati erogati o comunque stanziati tutti (in realtà ne sono stati stanziati 4,9 miliardi su 5,4, ndr); il vero affare ora è quello della gestione del Mose. Vale svariate decine di milioni di euro l’anno».
Quella verità inconfessabile: "Niente affari senza tangenti". Dall’interrogatorio dell’imprenditore Maltauro emerge la fotografia di un Paese in via di decomposizione. "Ho quasi settant’anni, mettiamo fine a questo sistema", scrivono Luca Fazzo Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. È come nel '92, è come Mani Pulite. No, «è peggio». È l'Italia delle tangenti vista con gli occhi di chi, le tangenti, le paga. Enrico Maltauro è un imprenditore. Un mese fa finisce in carcere perché - sostengono i pm di Milano - ha versato stecche per avere i lavori di Expo. «Tutto vero», conferma Maltauro davanti al giudice. «Ammetto», dice l'imprenditore all'inizio dell'interrogatorio di garanzia. Ma a Maltauro non basta, e chiede al gip Fabio Antezza di poter fare «una premessa». È la fotografia di un Paese in via di decomposizione. Così eccola, la metastasi della corruzione. «Questa vicenda - mette a verbale l'imprenditore - è collegata alla vicenda del '92. Perché io lo chiamo, lo definisco stato di necessità da parte di un professionista che svolge e gestisce la mia attività, di avere la necessità della sua presenza sul mercato delle opere pubbliche e dei lavori banditi dallo Stato (...). Una persona che fa il mio mestiere ha l'assoluta necessità di avere un contatto, un'interlocuzione, un rapporto con la... diciamo con le stazioni appaltanti». È una consapevolezza antica. «Parlo dalla metà degli anni '80». «Mi sono perfettamente reso conto - insiste Maltauro - che esiste una totale e assoluta invadenza e una totale e assoluta dominanza della... chiamiamola politica, con le sue varie diramazioni. Con il sottogoverno, con la politica, con le espressioni amministrative periferiche, rispetto alla gestione di questo mercato. Per cui in qualche modo, in modo assoluto e in modo assolutamente forte, in modo assolutamente in certi casi patologico, viene a essere necessitato un collegamento e un contatto di questo genere». L'imprenditore vicentino scava nel passato. «Io avevo avuto un'esperienza molto negativa negli anni '90 (ha patteggiato una pena a un anno per le tangenti sugli appalti di Malpensa 2000, ndr), dopodiché decisi sostanzialmente non dico di cambiare mestiere, ma di ritirarmi in un altro tipo di attività». Maltauro racconta di aver lavorato in Libia, e dopo qualche anno di essere tornato in Italia. «Nell'ambito di questa mia rientrata nel sistema italiano, mi sono assolutamente reso conto che la situazione che avevo lasciato tanti anni prima non solo non era cambiata, ma forse sotto un certo aspetto era anche peggiorata». E in che modo l'Italia di oggi è peggio di quella di vent'anni fa? «Il sistema dei partiti - spiega ancora Maltauro - che fino agli anni '90, '92, '93 comunque sia aveva un suo ordinamento, una sua gerarchia, aveva una sua logica, bella, brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento, però c'era una sorta di gerarchia, di ordine, di riferimento, di definizione. Negli ultimi anni qui la situazione si era sfarinata, prendendo delle caratteristiche assolutamente personalizzate. Gruppi di potere, gruppi di influenza, gruppi di lobby, gruppi di gestione di attività/nomine/conseguenze delle nomine». Quindi, che fare? «O lavoriamo all'estero, cosa che peraltro abbiamo fatto, oppure vendiamo l'attività, cosa che io ho pensato moltissime volte». Maltauro racconta di aver provato a cercare dei partner stranieri, vendendo quote della propria società. «Abbiamo fatto un preliminare con un'importante azienda austriaca (...). Era un'operazione di grande qualità e di grande livello, anche perché è una delle grandi società europee, per cui era una cosa che mi rendeva molto contento». Ma «non riuscimmo a concludere quell'operazione». Motivo? «Il consiglio di amministrazione della multinazionale austriaca prese paura, molto semplicemente detto, della situazione italiana. E vennero a dirci: Guardate, tutto a posto dal punto di vista dei numeri, però noi non ce la sentiamo di approfondire». E così, sfumati i capitali stranieri, Maltauro ritiene di non avere avuto altre alternative. «Siamo una società che ha mille e ottocento dipendenti a libro paga (...), è un'azienda che ha quasi cent'anni». E per «trovare delle soluzioni dal punto di vista anche dell'acquisizione del lavoro (...), ho avuto la necessità, diciamo così, di aumentare o impostare un mio livello di comunicazione con la... chiamiamola politica, con la para-politica, con le lobby della politica, chiamiamole come vogliamo. E rispetto a questo, a questo che io definisco stato di necessità, si incardina il procedimento che mi vede in questo momento protagonista. Io non contesto minimamente i fatti. (...) Ho quasi settant'anni e questo momento mi mette nella volontà e nell'assoluta decisione di porre una censura definitiva con questo tipo di situazione».
Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. Se si abbattessero le ville che hanno distrutto le nostre coste, tanti italiani sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati Testo: C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più. Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine. In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se - invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» - si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.
La mazzetta incurabile, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non riesco più a indignarmi per la corruzione. Troppo seriale, scontata, inestirpabile, trasversale per suscitare ancora rabbia. Il sistema col tempo è peggiorato: si prendono mazzette senza realizzare le opere e poi ieri portava almeno benefici a cascata, oggi resta ai diretti interessati. È stupida la reazione «mandiamoli tutti a casa»; e poi chi subentra, in base a quale sortilegio sarà più affidabile? Sono forse cambiati i criteri di selezione, sono mutate le motivazioni, ci sono differenze «etniche», culturali o religiose che possano farci dire che i nuovi sono diversi? Chi ci dice che i miracolati di Grillo ma anche quelli di Renzi, diventati di colpo classe di potere, siano più affidabili rispetto ai loro predecessori? Vi ricordate cosa fecero i craxiani rispetto ai vecchi marpioni dc & soci? E la soluzione non è nemmeno dare poteri enormi ai giudici o invocare nuove leggi, normative più toste. Non serve e s'è visto. Per arginare la corruzione restano tre vie non ancora intraprese: rendere più semplice il sistema e le sue norme, sfoltendo i passaggi e i poteri di veto, perché più controlli ci sono e più potenziali corrotti ci saranno; selezionare la classe dirigente sulla base di curriculum, competenza, capacità e non in base a criteri cosmetici, demagogici o di affiliazione ai clan e ai capi; scegliere i politici in base alla motivazione che li muove, se sono spinti da molle civili e ideali o no, perché se quel che conta siamo io, i miei e la nostra vita, la corruzione è dietro l'angolo. E si ripeterà in eterno.
Enrico, Gianni e il Mose. I Letta tirati in ballo nell'inchiesta veneziana. Zio e nipote sono entrambi da sempre favorevoli all’opera. Ora i due nomi spuntano nei faldoni. I due smentiscono, Gianni querela e Enrico nega le ultime affermazioni di Pravatà: «Sono falsità». Ma il rapporto dell’ex premier con il Consorzio risale ai tempi del think tank VeDro’, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. «Leggo falsità sul mio conto legate al Mose. Smentisco con sdegno e nel modo più categorico. Non lascerò che mi si infanghi così». È categorico l'ex premier Enrico Letta, via twitter, rispetto alle accuse che gli muove Roberto Pravatà. Il vicedirettore generale del Consorzio Venezia Nuova che sostiene che il Consorzio stesso abbia appoggiato la candidatura di Letta nel 2007 con 150 mila euro. «Cado totalmente dalle nuvole» è la replica dell’ex premier, «tutti i finanziamenti che ho ricevuto nelle mie campagne elettorali sono sempre stati regolarmente denunciati e registrati, e dunque sono pubblici». Pravatà nel corso dell’interrogatorio avrebbe però sostenuto che il presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati lo avrebbe convocato «per dirmi che il Consorzio avrebbe dovuto concorrere al sostentamento delle spese elettorali dell'onorevole Enrico Letta, che si presentava come candidato per un turno elettorale attorno al 2007, con un contributo dell'ordine di 150mila euro». Come? «Il presidente mi disse che Letta aveva come intermediario per il Veneto, anche per tale finanziamento illecito, il dottor Arcangelo Boldrin, con studio a Mestre. In effetti venne predisposto un incarico fittizio per un'attività riguardante l'arsenale di Venezia». Letta nega. Così come ha negato lo zio Gianni, il cui nome è uscito dai faldoni giusto due giorni prima di quello del nipote. «Il mio coivolgimento è una favola» ha detto l’ex sottosegretario di Silvio Berlusconi. E ha annunciato querele, affidandosi alla tutela dell’avvocato dell'ex Cabaliere Franco Coppi. «Non esistono né richieste di denaro, né versamenti. Non sono mai esistiti, mai pensati e neppure immaginati» dice Letta zio, convinto che se i giornalisti avessero letto l'ordinanza del Gip, «avrebbero dovuto rinunciare al gioco perverso della insinuazione maliziosa». Rivendica «un normale e doveroso contatto istituzionale», Letta, rispetto a quello che per Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, sarebbe stata una richiesta di favori, subappalti a «certe imprese» e a un «aiutino» all’ex ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi. Smentiscono i Letta. E nessuno dei due risulta indagato. Però bisogna registrare che non è la prima volta che vengono coinvolti nella storia del Mose. E non solo, come ovvio, per gli incarichi ricoperti, che - come dice Letta zio - hanno prodotto «doverosi contatti». Già un anno fa furono tirati in ballo, insieme, in accoppiata, per il Mose. Gianni per un bigliettino di ringraziamento ritrovato nella sede della Palladio Finanziaria, una delle aziende del Consorzio. Letta senior di suo pugno ringraziava, «per il regalo ricevuto», il finanziere Roberto Meneguzzo, capo della holding di Vicenza. Meneguzzo è lo stesso che ora è nella lista dei 35 arresti con cui è esplosa la vicenda Mose, e secondo Mazzacurati era per il Consorzio il ponte con il governo Berlusconi e il ministero guidato da Giulio Tremonti. Per Enrico, invece, fu scomoda la sponsorizzazione, pur trasparente, del Consorzio Venezia Nuova a Vedrò, il think tank dell’ex premier, per le edizioni delle stagioni 2011 e 2012. Il logo del Consorzio è sulle locandine dell’evento estivo organizzato sulle riva nord del lago di Garda, in compagnia di altri sponsor eccellenti, da Autostrade e Ferrovie, a Lotto e Moby. “Inchiesta sul Mose: perquisito anche Capecchi, tesoriere di Vedrò”, titolano i giornali a metà del luglio scorso. La Guardia di Finanza, su decreto di perquisizione del pm Paola Tonini, si reca nell’abitazione di Capecchi, a Perugia, e nella sede romana dell’associazione, per mettere insieme i faldoni di tutte le società che hanno avuto rapporti con il Consorzio. Sono oltre cento e tra loro c’è Vedrò. Può succedere. Come può succedere che tanto Gianni quando Enrico si siano sempre spesi per la grande opera in Laguna. Il quotidiano «la Nuova Venezia», il 17 luglio 2013, osservava: «Letta, ricordano i comitati anti-Mose, fu nel 2006 il coordinatore della commissione insediata da Prodi – di cui era sottosegretario – che aveva bocciato tutte le alternative al Mose».
Ecco chi paga Enrichino. Enel, soprattutto. Ma anche Eni, Telecom, Vodafone, Sky, Lottomatica, Sisal, Autostrade per l'Italia, Nestlé, Farmindustria e il gruppo Cremonini. Sono i generosi sponsor della fondazione VeDrò, da cui nasce la rete di potere del premier incaricato. Chissà se avranno qualcosa in cambio, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. Chi finanzia VeDrò, il think-tank bipartisan che ha fatto di Enrico Letta l’uomo giusto per un governo di larghe intese? Sponsor privati, ovviamente. Dall’Enel al gruppo dell’industria alimentare Cremonini, fino all’Eni e ad Autostrade per l’Italia. Il motivo? Ritorno di visibilità, loghi su brochure e siti internet. E la politica? La politica non c’entra, dicono: «Noi non negoziamo la nostra posizione intellettuale», dice subito il tesoriere Riccarco Capecchi. Vedrò, anzi vedremo: «Dobbiamo lavorare molto sul tema delle privatizzazioni», è la posizione nota di Enrico Letta: «Il patrimonio pubblico è ancora enorme: bisogna cominciare a mettere nel mirino nuove privatizzazioni pezzi di Eni, Enel e Finmeccanica». E poi: «Sarà uno dei temi del nostro governo, quando gli elettori ci faranno governare», conclude il prossimo Presidente del Consiglio. Sul tema dei finanziamenti privati ai think-tank, Mattia Diletti, docente e ricercatore di scienza politica all’Università La Sapienza di Roma, ha fatto un lavoro molto articolato: «Questo tipo di fondazioni politiche hanno bilanci molto simili e possono contare su budget medi di 800 mila euro». E Vedrò? «E’ poco sopra la media», dice Diletti. «Quello che colpisce però del sistema di finanziamento riguarda soprattutto i finanziatori piuttosto che i finanziati», spiega: «Sono prevalentemente ex monopoli pubblici, che hanno un rapporto ancora stretto con la politica e che finanziano un po’ tutti, con cifre ridotte, a pioggia, sia la destra che la sinistra. Funziona un po' «all’americana», dice Diletti. E come si riempie, in America, un bilancio da 800 mila euro? Lo si capisce prendendo in mano una qualunque brochure delle attività di Vedrò. Enel, Eni, Edison, Telecom Italia, Vodafone, Sky, Lottomatica, Sisal, Autostrade per l’Italia, Nestlé, Farmindustria, il gruppo Cremonini (la carne Montana): sono tante le aziende che concorrono al fabbisogno del pensatoio. Quello che non sappiamo è quanto sia il contributo specifico di questi sponsor, quali sono economici e quali invece in servizi. Quello che sappiamo è che gli sponsor hanno spesso un ruolo attivo, all’interno del dibattito, contribuendo al contenitore ma anche al contenuto. Enel, ad esempio, promuove così l’appuntamento estivo di Vedrò, sul proprio sito: «Un think-net aperto e dedicato anche alla mobilità elettrica e alle smart cities», dove «Enel, sponsor della manifestazione, è protagonista del working group Vedrò Energie». Vedrò vive tutto l’anno, organizza convegni, aperitivi e presentazioni. L’evento centrale è però la tre giorni che si svolge a fine agosto a Dro’, paese trentino di 4.500 abitanti, una quindicina di chilometri a nord del del lago di Garda, in un’ex centrale idroelettrica. Nonostante la chilometrica lista di sponsor, l'evento non è gratuito. Anzi. Gli hotel della zona costano cari, e tutti gli ospiti - o quasi - pagano di tasca propria. In più, ovviamente, c’è una quota di iscrizione: 150 euro per gli under trenta, 300 euro o più per tutti gli altri. Avarizia degli organizzatori? Piuttosto, ricerca dell’esclusività. Già così - per la prossima edizione - sono previste oltre mille persone: ben più di quelle arrivate l’anno scorso, che erano 800. «Le loro quote», ci spega il tesoriere Riccardo Capecchi, «servono a coprire i costi vivi della manifestazione, l’allestimento della centrale, le navette con gli alberghi, il catering per i tre giorni». Ma non bastano. A Vedrò lavora una decina di persone («ma io come altri sono volontario», dice sempre Capecchi) e sono le sponsorizzazioni a tenere in piedi il tutto. Con quanto? Quanto basta per coprire tutti i costi, ma di più non si può sapere: «Noi - dice Capecchi - per ovvie ragioni di privacy non diffondiamo l’entità delle contribuzioni». Ma bisogna stare tranquilli, assicura, perché ««gli accordi che prevalentemente sono sulla visibilità, rispettano i parametri standard». «Quello che posso dire», continua Capecchi, «è che la contribuzione media è di circa 30 mila euro. Anche se poi, ovviamente c’è chi dà meno e chi dà molto di più». C’è poi chi è proprio affezionato: il premio di più fedele supporter va proprio all’Enel che a Vedrò ci va dalla prima edizione. «Con loro, così come con tutti gli altri», spiega il tesoriere, «c’è la condivisione di un progetto». Basta la condivisione a coprire tutti i costi? Pare di sì. «Anzi», si vanta Capecchi, «siccome io sono un gestore oculato, riusciamo anche ad avere un lieve avanzo di bilancio». Bilancio che però non aiuta a scoprire le cifre precise, perché le voci sono accorpate: «La nostra volontà di trasparenza è però certificata dal fatto che abbiamo fatto una società, al 100 per cento partecipata da Vedrò, che ha l’obbligo di presentare un bilancio pubblico, invece di fare tutto come associazione». Resta da capire se le sponsorizzazioni diano o meno i loro frutti. Politicamente parlando., s'intende.
Enrico e Gianni Letta, separati in politica ma uniti nella società degli uomini d'oro. Zio e nipote tra gli uomini che contano della Spencer Stuart, la società di cacciatori di teste che designa i candidati a 350 superpoltrone pubbliche, scrive Denise Pardo su “L’Espresso”. In ordine d’importanza, ma sotto, un bel po’ sotto al tavolo ufficioso formato da Matteo Renzi, Luca Lotti e Marco Carrai, la triade alla ricerca della miglior mappa possibile per le nomine degli enti pubblici in scadenza a giorni, c’è un altro tavolo, ufficiale questa volta, che conta e lavora. È il tavolo di Spencer Stuart, società internazionale di cacciatori di teste e vincitrice di due gare per la selezione degli uomini d’oro che siederanno sulle 350 poltrone che da metà mese diventeranno vacanti. Spencer Stuart di uomini d’oro se ne intende: nel suo advisory board due nomi al vertice del potere, influenti e autorevoli sempre, sia che entrino, sia che escano dalle porte girevoli di Palazzo Chigi e anche della stessa Spencer. Per di più zio e nipote. Si tratta di Gianni e Enrico Letta, mai al governo insieme, in Spencer Stuart sì. In ballo, ora, ci sono le poltrone più pesanti dell’economia pubblica italiana. Il potere vero ai massimi livelli, tali da avere a che fare, a volte, con Vladimir Vladimirovic Putin o Barack Obama quando si tratta di gas, petrolio, energia, difesa del mondo. L’elenco con le caselle da riempire è infinito, colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, aziende quotate in Borsa e no, società partecipate direttamente o indirettamente dal Tesoro, centri studi, enti desueti. La griglia su cui poggia buona parte del sistema del Palazzo e del Paese e che questa volta, per parlare renziano, può cambiare davvero verso, può essere alla svolta buona. Ed è soprattutto una significativa cartina di tornasole per Matteo Renzi. Ma andiamo per ordine. In nome della trasparenza, nel giugno del 2013, al tempo del governo di Enrico Letta, dopo gli scandali di Finmeccanica, una direttiva del ministero dell’Economia, allora c’era Fabrizio Saccomanni, traccia una procedura per arrivare a selezionare i manager da designare alla testa delle aziende pubbliche. Viene nominato un Comitato di garanzia con personaggi di rango: Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta, Vincenzo Desario, ex direttore generale di Banca d’Italia, la professoressa Maria Teresa Salvemini, consigliere Cnel. A loro saranno consegnate le liste con le rose dei candidati, amministratori delegati, presidenti, consiglieri d’amministrazione, selezionate dalle società di cacciatori di teste chiamate a supportare la direzione Finanza e privatizzazioni del Tesoro guidata da Francesco Parlato. Poi la Provvidenza, il fato o la fortuna faranno la spola con Palazzo Chigi. In più, chi vuole proporsi autonomamente, con un ottimismo degno di essere studiato dai cervelloni della Nasa, può mandare un curriculum a candidature@tesoro.it. facendo finta di vivere in Gran Bretagna dove per il posto del governatore e del suo vice è apparso un annuncio a pagamento sull’“Economist”. Una scelta sacrosanta almeno formalmente al riparo di appetiti politici e delle complicate scacchiere di lobby, relazioni, fratellanze, affiliazioni, appartenenze che nel sistema del Palazzo hanno contato non poco, sicuramente troppo. Ma che certo non hanno smesso di esercitare ancora adesso la loro pressione. A luglio 2013 l’incarico per le candidature delle società del Tesoro, un gran bel bottino, se l’aggiudicano Spencer Stuart e Korn Ferry (per legge gli head hunters devono essere due). E il 10 marzo 2014 anche la gara di Cassa Depositi e Prestiti per le sue partecipate, altro gruzzolo prelibato, viene vinta ancora da Spencer Stuart, il cui presidente e amministratore delegato è Carlo Corsi, ex carabiniere, cavaliere e colonnello dell’influente e misterioso Ordine di Malta. Così, forse a causa dei malumori all’interno al Tesoro per l’eccessiva egemonia di Spencer Stuart, succede che Cassa mandi un nuovo invito per una seconda gara. A vincere, questa volta, è Management Search che dovrà dividere l’impegno con Spencer. Un invito, si diceva. Un invito? Per partecipare a una gara al ministero dell’Economia serve un invito come per il ballo della Rosa a Montecarlo? Sì, le competizioni non sono aperte a tutti ma sono a chiamata diretta. È assolutamente lecito ma certo in questo modo si può decidere chi chiamare e chi no, escludendo anche chi ha i titoli. Spencer, che in questa tornata raddoppia, sicuramente i titoli li ha. Ma ha anche gli uomini, uomini che contano, conoscono tutti, aprono qualsiasi porta se è il caso e possono pesare nelle scelte. Come Gianni Letta, plenipotenziario di Silvio Berlusconi, più volte sottosegretario del Consiglio, cooptato anche da Goldman Sachs, che a metà degli anni Duemila entra nell’advisory board di Spencer Stuart. Qualche anno dopo è la volta di suo nipote Enrico Letta. Ecco il “Save the date” per il Forum Spencer Stuart in collaborazione con il “Corriere della Sera”: «È prevista la partecipazione dei membri del nostro Advisory Board: Carlo Secchi (presidente) Raffaele Agrusti, Elio Catania, Enrico Letta, Tomaso Tommasi». La data è dell’8 novembre 2012. Cinque mesi dopo Letta jr diventerà presidente del Consiglio. Al tempo del Forum, ha un ruolo di primissimo piano nel panorama politico, è vice segretario del Pd. Ma anche il presidente dell’advisory board di Spencer Stuart, Carlo Secchi, è uomo molto influente. E grazie alle sue molteplici vite ha accesso ai cerchi magici più importanti. Ex rettore della Bocconi, è un collezionista d’incarichi, per dirne qualcuno è presidente del cda di Mediolanum e consigliere di Mediaset. Non ha disdegnato la politica: è stato parlamentare europeo nel 1994 e poi senatore per il Ppi, partito nel quale cresce Enrico Letta. Secchi rappresenta l’incrocio perfetto, nemmeno in provetta si sarebbe potuto fare meglio, tra Mario Monti, Silvio Berlusconi, Gianni ed Enrico Letta: le larghe, larghissime intese. Non è proprio quello che si può definire un soggetto indipendente. Ma per rimanere all’interno della trama dell’uncinetto del gran potere, il 5 dicembre dell’anno scorso nel nuovo comitato d’indirizzo dell’Istituto Toniolo, potentissimo ente fondatore e promotore dell’Università Cattolica, arriva Gianni Letta. Ad accoglierlo seduto al suo stesso tavolo anche Cesare Mirabelli, proprio il presidente del Comitato di garanzia per le nomine del Tesoro. Il ministero che ha “invitato” alla gara per le nomine la Spencer Stuart. Così mentre Paolo Scaroni, Fulvio Conti, Massimo Sarmi, Alessandro Pansa sfogliano la margherita del loro futuro, girano i requisiti del management spendibile al tempo di Renzi: tetto dei mandati, non più di tre, stipendi più umani, verginità giudiziaria, bassa commistione con vecchi poteri e mandarini, totale trasparenza. Peccato che nonostante la delicatezza del suo lavoro per la trasparenza delle nomine, Spencer Stuart abbia tra i suoi principali clienti proprio l’Eni di Scaroni e progetti in corso con Enel e Finmeccanica. Sarà questo il motivo per cui la società rifiuta di rilasciare dichiarazioni su chi siede oggi nel suo advisory board, ricostruibile solo sulla base di indiscrezioni e di take d’agenzia? Forse la privacy è d’obbligo se ci sono persone di rango come Letta o se magari si possono profilare all’orizzonte conflitti d’interessi. Ma non sarà così, altrimenti il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Matteo Renzi lo saprebbero certamente.
L'eterno ritorno di Gianni Letta nelle inchieste. Il nome dell’ex sottosegretario Letta compare nelle carte sul Mose e sull’Expo. Come in quasi tutte le indagini-scandalo degli ultimi anni. A conferma di un potere soft ma pressoché sconfinato. Impermeabile ai cambi di governo e durato ben oltre la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. «Non è la prima volta che il mio nome viene evocato o citato in una delle tante inchieste che riempiono le cronache di questi mesi. Ed è ovvio che lo sia, perché negli anni di governo mi sono occupato di tutte le più importanti vicende». Proprio non è andata giù a Gianni Letta l’accostamento della sua persona con l’inchiesta sul Mose che sta facendo tremare la politica. E in effetti - per quanto mai indagato e spesso solo citato nelle conversazioni («ho sempre agito con correttezza e trasparenza» ha rivendicato lui) - quasi non c’è stato scandalo piccolo o grande in cui non sia comparsa nelle carte anche l’eminenza grigia del berlusconismo, dalla P4 alla Banca popolare di Milano, dal caso Rai-Agcom ai prezzi dei farmaci gonfiati. E da ultimo, il Mose e l’Expo. Una ricorrenza che, al di là dell’assenza di rilievi penali, racconta meglio di tante parole il sistema di potere incarnato da Letta, da molti osannato quale statista e impagabile servitore dello Stato . Un potere soft, il suo, ma pressoché sterminato. Soprattutto, impermeabile ai cambi di governo. Tanto da essere un po’ in declino, forse, ma da durare tuttora. Prima del Mose il nome dell’ex sottosegretario era già apparso poche settimane fa nell’inchiesta sull’Expo. Nella quale Letta, come quasi sempre, appare il Richelieu da cui tutti vanno in processione per chiedere una referenza, una intercessione o una buona parola. «Ma perché non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il presidente?» domanda ad esempio il presunto “corriere” delle tangenti Sergio Cattozzo all’ex parlamentare di Forza Italia Gianstefano Frigerio a maggio 2013. Ovvero quando Berlusconi non era più a Palazzo Chigi da un anno e mezzo e al governo sedeva da meno di un mese Letta junior. Il motivo per cui spendersi? Le nomine nelle società pubbliche, in cui gli organizzatori della cupola, non contenti degli appalti, cercavano di mettere il becco. E infatti, secondo quanto emerso, lo stesso Letta alcuni mesi prima avrebbe ricevuto l’allora senatore Pdl Luigi Grillo, poi arrestato, interessato a promuovere (senza successo) la candidatura del manager Giuseppe Nucci. Tramite del contatto, Cesare Previti. «Ecco Giuseppe (...) son stato da Cesare (Previti, ndr) … abbiamo parlato al telefono con Gianni Letta. Domani ci riceve, domani mattina ci dice a che ora, perché c'è anche il Presidente» riferisce Grillo al telefono. «Appena andiamo a parlare con Gianni poi ci vediamo io e te e ti racconto». Ma Da Letta, a quanto emerso, sarebbero andati anche i toscani Denis Verdini e Altero Matteoli per perorare il nome dell’ex sottosegretario Stefano Saglia per la guida di Sogin. Altro passo indietro di poche settimane: ad aprile vengono depositati gli atti dell'indagine sulla Banca popolare di Milano (Bpm), per la quale l’ex presidente Massimo Ponzellini rischia il processo. Analizzando le intercettazioni fatte nell’arco di due mesi (relative al 2009) la Guardia di finanzia è giunta alla conclusione che il rapporto tra Ponzellini e Letta “è apparso solido, duraturo e confidenziale da permettere” all'ex sottosegretario “senza particolari filtri, di raccomandare al banchiere persone o aziende in cerca di finanziamenti”. Come nel caso di Marco Bianchi Milella, figlio di primo letto della regina romana dei salotti e vecchia amica Maria Angiolillo, al quale il sottosegretario cerca di far ottenere un incarico. Oppure lo sforzo per aiutare “imprese amiche bisognose di una sponda finanziaria”. Ed è proprio con la mediazione della Angiolillo che, sempre nel 2009, i vertici della casa farmaceutica Menarini, posseduta dalla famiglia Aleotti, arrivarono fino al sottosegretario per far approvare un emendamento contro i medicinali generici , più economici in quanto non coperti da brevetto. Una vicenda, scrivono i Nas di Firenze, in cui ci fu “una volontà politica di altissimo livello costituita dal Capo del Governo e da Gianni Letta nel condurre in porto l’emendamento” e nella quale ci fu “l’appoggio decisivo di Berlusconi”. E poco cambia quando a Palazzo Chigi arrivano i Professori, come traspare dalle carte dell’inchiesta sulla tav di Firenze. Anche col governo Monti l’ex sottosegretario continua infatti ad avere peso nelle nomine istituzionali, considerato anche che il suo posto alla presidenza del Consiglio lo ha preso proprio un Letta-boy: Antonio Catricalà. Una situazione evidente nella scelta dei componenti dell’Authority sui trasporti, come ha raccontato l’Espresso , dove in una “telefonata imbarazzata” (così la definisce, intercettata, l’ex governatrice umbra Maria Rita Lorenzetti, poi arrestata) l’allora vicesegretario Pd Enrico Letta fa sapere “che suo zio Gianni non vuole sentire ragioni a mollare Pasquale De Lise ”, il consigliere di Stato già apparso nelle carte dell’inchiesta su Guido Bertolaso, Angelo Balducci e Fabio Anemone. Per quanto ampio, il potere di Letta fonda su una riservatezza assoluta che si manifesta anche al telefono. Al punto che anche quando finisce direttamente nelle intercettazioni, mentre i suoi interlocutori mostrano una loquacità assai poco avveduta, lui si limita a poche parole. Come nell’inchiesta Rai-Agcom. Il 3 dicembre 2009 il commissario Agcom Giancarlo Innocenzi, pressato da Berlusconi per far chiudere “Annozero”, lo chiama per chiedergli di contattare il presidente dell’Authority Corrado Calabrò. Innocenzi si profonde con foga in un lungo monologo («Tu sei l’ultima spiaggia», arriva a dirgli) e Letta si limita a un telegrafico: «Proverò a cercarlo, grazie, ciao». Una accortezza messa a rischio solo dalla “disinvoltura” telefonica dell’amico di vecchia data Luigi Bisignani, di cui Letta è stato testimone di nozze («Bisignani si muoveva e veniva individuato come l'uomo di Letta» ha detto l’ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, sentito nell’inchiesta sulla P4). Un rapporto di amicizia gestito «in modo istituzionale e corretto» ha sottolineato Letta. Di certo, motivo di qualche imbarazzo per il sottosegretario. Come quando l’amico gli dice di essere «oggetto di attenzioni da parte dell'autorità giudiziaria» e lui gli suggerisce di «non parlare troppo al telefono, visto che è piuttosto facondo». Oppure quando Bisignani afferma ai pm di Napoli che «sicuramente» lo informava delle informazioni avute dal deputato Pdl Alfonso Papa, «in particolare tutte le vicende che potevano riguardarlo direttamente o indirettamente come la vicenda riguardante Verdini». O ancora quando, intercettato, Bisignani parla della cena per festeggiare la nomina a giudice costituzionale di Giorgio Lattanzi e Letta si trova costretto a smentire ai magistrati di avervi partecipato. Ma il nome di Letta è spuntato nei mesi scorsi anche nell’inchiesta su un appalto pilotato per l’informatizzazione di Palazzo Chigi, uno stralcio della P4 che ha visto coinvolto l’ex capo dipartimento di Palazzo Chigi, Antonio Ragusa e, ancora una volta, Luigi Bisignani, che ha patteggiato una pena di due mesi (un altro anno e sette mesi il faccendiere lo aveva patteggiato per il filone principale). I pm di Roma sentono Borgogni e il discorso cade su un’assunzione nella galassia Finmeccanica relativa a un familiare di Ragusa, che i magistrati ipotizzano sia uno scambio corruttivo relativo all’appalto. «Non c’è nesso» afferma Borgogni: «Sarebbe stata sufficiente una telefonata con il sottosegretario Gianni Letta, che con il Guarguaglini (presidente Finmeccanica, ndr) era in contatti giornalieri e al quale Ragusa era molto vicino, per ottenere l’effetto». Che sia vero o no quanto sostenuto, l’ex sottosegretario si sarebbe speso personalmente per caldeggiare un’assunzione. Anche se con parametri non proprio meritocratici, a detta di Borgogni: «Che Letta fosse in condizioni per fare tali richieste e che concretamente le facesse mi risulta personalmente perché aveva raccomandato a Guarguaglini una persona proveniente da Telecom e io mi opposi perché era impresentabile». C'è anche il nome di Maria Teresa Letta, sorella di Gianni e vice presidente nazionale della Croce Rossa Italiana, nelle carte dell'inchiesta sulle mazzette per la ricostruzione de L'Aquila. La donna non è indagata. Il suo nome appare nel procedimento contro Graziano Rosone, uno dei tre imprenditori arrestati. L'accusa nei confronti di Rosone è di millantato credito proprio nei confronti della Letta. Rosone avrebbe ottenuto 12mila euro da un dipendente di Poste Italiane per fargli ottenere un trasferimento vicino a casa, cioè dal Piemonte all'Abruzzo. Al dipendente delle Poste, Rosone ha detto che quei soldi servivano per pagare la Letta – nome in codice “la Professoressa” - che l'imprenditore ora agli arresti domiciliari in effetti conosce bene avendo realizzato con la sua azienda edile, la Telegest, un centro civico per la Croce Rossa in provincia de L'Aquila. Il gip del capoluogo abruzzese, giustificando l'estraneità della Letta alla vicenda, cita la testimonianza di un responsabile di Poste Italiane: questo dice di non aver mai ricevuto pressioni dalla Letta e spiega che il dipendente delle Poste aveva tutto il diritto al trasferimento (poi ottenuto) poiché doveva essere sottoposto a un trapianto d'organi vitali.
Il CASO DI MOTTA VISCONTI.
Omicidio di Motta Visconti: Gomorra in famiglia, scrive Rita Di Giovacchino su “Il Fatto Quotidiano”. A giudicare dagli ultimi due eclatanti fatti di cronaca, che nelle ultime ore affollano le nostre menti per via del bombardamento mediatico e per quel mix di fascino e orrore, repulsione e attrazione morbosa che solo gli omicidi in famiglia riescono a suscitare, due rigide categorie del delitto sembrano trovare conferma. Primo, tra le pareti domestiche si uccide più che in un clan mafioso. Secondo, nessun criminale incallito riesce a infierire sulle sue vittime con tanta ferocia, determinazione di quanto possa fare un padre, una madre, un marito o un figlio. Se pensiamo alle recenti immagini del serial Gomorra sfilate sui nostri schermi, che pure hanno suscitato sgomento per eccesso di violenza, sparatorie ed efferate esecuzioni, che volete che siano colpi di pistola o raffiche di mitra a fronte dell’odio che trova sfogo in lame affilate, martelli, picconi o in mancanza di altro mani che si stringono attorno al collo di chi si ama.Tutto è poca cosa rispetto alla crudeltà di questo Claudio Lissi, il padre padrone di Motta Visconti che accoltella alla schiena la moglie Cristina dopo averci fatto l’amore e poi in rapida sequenza sgozza i due piccoli figli nel loro lettino. E infine, dopo aver inscenato una maldestra rapina, corre a festeggiare la ritrovata libertà al bar con gli amici. O dell’assassino di Yara Gambirasio, identificato al termine di un’indagine genetica degna di Fox Crime, capace di strangolare la ragazzina che ha visto crescere dopo un raptus sessuale che rischiava di mettere fine alla tranquilla vita che Ignoto 1, figlio illegittimo sì ma ormai adulto e a sua volta padre, era riuscito a costruirsi in quel di Clusone o Mapello che sia. Anche i nomi di questi paesini, spesso località che non compaiono neppure sulle carte geografiche, ci riportano a quel nord-est che detiene il primato degli omicidi in famiglia. Luoghi come Prosaglio d’Iseo, dove scomparvero i coniugi Donegani uccisi dal nipote introverso che amavano come un figlio, o a Erba dove Olindo e Rosa avevano costruito il loro rifugio perfetto, alla casetta di Cogne che imprigionava Annamaria Franzoni, al bar di Montecchio di Crosara dove Maso reclutò gli amici per uccidere i genitori. Basta spostarsi un po’ e arriviamo a Novi Ligure, altra villetta, altro massacro, quello compiuto da Erika e Omar. Un elenco infinito di salottini arredati con cura, gerani alle finestre, cucine monoblocco, forni a microonde, talvolta il pianoforte in angolo. Case costruite con amore e distrutte dall’odio che a poco a poco si è diffuso come un cancro. Se qualcuno fosse entrato in quelle stanze forse avrebbe già sentito il tanfo della putrefazione, ma nessuno si accorge mai di niente. “Una coppia così normale” dicono sempre i vicini di casa. Forse è proprio questa normalità, costituita da gabbie tutte uguali, dove all’improvviso irrompe la passione per qualcosa o qualcuno che sta “fuori” e che appare irraggiungibile, a far saltare ogni equilibrio. Se c’è un interrogativo da porsi, riguarda la famiglia così organizzata, minimale, padre madre figli, matrimonio monogamico, piccolo benessere che si scontra con l’ansia di un di più che spesso non arriva. I sogni chiusi in un cassetto, il nulla della politica, l’assenza di una comunità condivisa sono il segno della solitudine che produce patologia, incapacità di amare altro da sé o amore vissuto non come arricchimento ma come dovere, costrizione, assenza di libertà. Il narcisismo di ognuno diventa sadismo e in qualcuno libera il mostro che è dentro di noi. Inutile accusare la tv, Fb, Amazon, questi omicidi ci sono sempre stati, appartengono alla “cronaca nera”, colore che evoca il lutto che ciascuno di questi assassini porterà sempre con sé. Lo sa bene chi è andato a trovarli in carcere, quando i riflettori si spengono e restano da soli con i propri fantasmi. Nel penitenziario di Perugia rimasi colpita dal numero impressionante di bambole che vidi nelle celle di donne che avevano ucciso i propri figli. Nessuno di questi assassini penserà mai di se stesso di essere un criminale: “Ha visto cosa è successo?”, mi disse inorridita una detenuta mentre lavava il pavimento a Rebibbia. Erano i giorni della strage di via Fani, del sequestro Moro. Una suora poi mi disse che quella donna era stata condannata all’ergastolo per aver ucciso il marito, lo aveva fatto a pezzi con la complicità del cognato di cui era l’amante e lo aveva nascosto in un baule. A volte questi assassini sprofondano in uno stato di apatia totale, altre volte sembrano recuperare la propria identità “normale”, in ogni caso si proteggono dalla sofferenza, dai ricordi, vivono soltanto in superficie. Sono mostri no? Lo sono, ma il dolore in questi è talmente forte da non poter essere tollerato.
Prima notte in cella: "l'uomo di ghiaccio" ordina pizza e birra. È in isolamento, ma l'assassino vive queste ore in una serenità innaturale, scrive Enrico Silvestri su “Il Giornale”. Ha trascorso tranquillamente la sua prima notte in una cella di isolamento Carlo Lissi, reo confesso dello sterminio della sua famiglia nella villetta di Motta Visconti. Come tranquillo era apparso fin dall'inizio di questa vicenda: mentre famigliari e parenti si disperavano per la morte di una giovane mamma e dei suoi due bambini, lui ordinava una pizza e una birra per poi andare a dormire. Ieri ha potuto incontrare il suo avvocato in vista dei futuri atti processuali come l'autopsia e il sopralluogo del Ris. Ieri intanto Motta si è svegliata intontita da un episodio che l'ha sconvolta forse più che un terremoto, quasi incapace di reagire, fino a quando qualcuno ha lanciato via facebook la proposta di una marcia silenziosa di preghiera per le tre vittime del «mostro della porta accanto», appuntamento alle 21 in piazza Garibaldi. Certo nessuno avrebbe mai potuto lontanamente immaginare che Lissi, 32 anni, avrebbe accoltellato la moglie Cristina, 39 anni, subito dopo aver fatto l'amore, e poi i figli Giulia, 5 anni e Gabriele, 20 mesi. Nessuno avrebbe potuto solo supporre che avrebbe avuto la freddezza di andare a vedere la partita dell'Italia, gioire per i gol e quindi tornare a casa e «scoprire» che un rapinatore aveva svuotato la cassaforte dopo aver ammazzato la donna e i bimbi. Già il suo comportamento in caserma ha lasciato perplessi gli investigatori. Tutti erano disperati, in particolare il padre, il primo a essere stato chiamato dopo la «scoperta» del triplice delitto, si era sentito male ed era stato portato via in ambulanza. Lui invece ha detto di avere fame si è fatto portare una pizza, mangiata chiacchierando con gli investigatori, per poi andare a casa a dormire. La sua versione dei fatti è però durata 24 ore esatte, dalle 2 di domenica quando ha chiamato il 118 fino alle 2 di lunedì, quando è crollata come un castello di carte sotto le puntuali contestazioni degli investigatori. Ultima delle quali, la scoperta della sua passione per una collega di lavoro. Solo allora ha confessato anche se, rievocando i momenti in cui ha sgozzato i suoi due figli di 5 anni e di 20 mesi («Ho piantato il coltello nella gola, un solo colpo, di punta, loro non hanno nemmeno gridato»), non è sembrato particolarmente disperato. Dagli occhi è spuntata solo qualche lacrima, non certo un pianto dirotto. Tranquillamente dunque è andato in carcere a Pavia, rinchiuso in cella di isolamento e guardato a vista nel timore di un gesto disperato, che non c'è stato. Tranquillamente ha passato la notte dormendo e tranquillamente ieri ha incontrato il suo avvocato di fiducia, Corrado Limentani di Milano. Certo non c'è molto da scoprire, Lissi è reo confesso e rischia il quasi sicuro ergastolo viste le tante aggravanti del suo gesto: futili motivi, crudeltà, il vincolo famigliare, le principali, senza contare la possibile premeditazione. Ma bisogna procedere a una serie di atti in cui è necessaria la presenza dei periti di parte. Oggi infatti verranno eseguite le autopsie sui corpi delle tre vittime, mentre domani nella villetta di via Ungaretti 20 entreranno i carabinieri del Ris di Parma. Dopo i primi accertamenti della sezione investigazioni scientifiche del comando provinciale, sono necessarie ulteriori verifiche con strumenti più sofisticati. Per esempio bisognerà infatti individuare ogni più piccola macchia di sangue su cui verificare la «bloodstain pattern analysis», cioè l'inclinazione delle gocce di sangue e fissare con precisione le posizioni di vittime e carnefice. Dettagli forse per l'opinione pubblica, aspetti essenziali però per infliggere un'eventuale «fine pena mai».
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire.
Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati.
Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente.
Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi.
«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.»
“L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.
IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.
Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe.
Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra e di sinistra.
Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.
5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….
17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!
21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.
7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Crazxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?
4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.
11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.
29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.
26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?
18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.
14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!
9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.
10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.
17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.
25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.
2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.
5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…
24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.
18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.
3 maggio 1996. THE END.
10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.
3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.
22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.
16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.
24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.
19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.
7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.
15 MAGGIO 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.
11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.
29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.
13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.
24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.
3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.
7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.
21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.
2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.
6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.
9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.
29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.
24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.
15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.
25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.
3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….
19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.
19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.
14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.
11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.
17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.
25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.
9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.
16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.
23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.
30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?
12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.
3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.
10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.
1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.
8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.
15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.
19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.
16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.
21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.
4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.
18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.
31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.
13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.
27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.
8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.
15 luglio 2010. SENZA PAROLE.
11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.
18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.
16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.
22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.
27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.
10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.
26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.
21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.
7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.
21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.
25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: ,meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.
15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.
29 settembre 2011. SERIE B.
13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.
17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.
19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.
5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.
14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.
19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.
29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..
1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Il 9 maggio 2014 Silvio Berlusconi ha cominciato a scontare la pena per frode fiscale con il “servizio sociale” per gli anziani della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma continua a dominare le tribune elettorali, convinto di un destino da «padre della patria» e dei risultati di Forza Italia. Inarrestabile, come è sempre stato. Ecco gli albori della sua ascesa descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto e pubblicato proprio dal “L’Espresso” il 12 maggio 2014. In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi. Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”. Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella). «II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio », era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato. Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo. Camilla Cederna.
1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Formidabile quell'anno. È il 1977 quando il Dottore, come l'hanno continuato a chiamare i suoi collaboratori più intimi, diventa per tutti gli italiani il Cavaliere: il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. L'onorificenza viene concessa dal presidente Giovanni Leone all'imprenditore quarantenne che ha tirato su una città satellite, sta comprando la maggioranza del "Giornale" di Indro Montanelli e promette di rompere il monopolio della tv di Stato. È l'anno in cui il neocavaliere stabilisce rapporti fin troppo cordiali con il vertice del "Corriere della Sera" e in un'intervista a Mario Pirani di "Repubblica" annuncia di volere schierare la sua televisione al fianco dei politici anticomunisti. Fino ad allora lo conoscevano in pochi e soltanto in Lombardia: era il costruttore che aveva inventato Milano Due, la prima new town che magnificava lusso, verde e protezione a prova di criminalità. Il segno di quanto in quella stagione di terrorismo e rapine, ma soprattutto di sequestri di persona, la sicurezza fosse il bene più prezioso. E lui, nella prima di queste foto riscoperte dopo trentatre anni, si mostra come un uomo d'affari che sa difendersi: in evidenza sulla scrivania c'è un revolver. Un'immagine che riporta a film popolari in quel periodo di piombo, dai polizieschi all'italiana sui cittadini che si fanno giustizia da soli agli esordi pistoleri di Clint Eastwood. "Con una Magnum ci si sente felici", garantiva l'ispettore Callaghan e anche il Cavaliere si era adeguato, infilando nella fondina una piccola e potente 357 Magnum. È stato proprio quel revolver a colpire oggi il fotografo Alberto Roveri mentre trasferiva la sua collezione di pellicole in un archivio digitale: "Le stavo ingrandendo per ripulirle dalle imperfezioni quando è spuntata quell'arma che avevo dimenticato". Come in "Blow Up" di Antonioni, a forza di ingrandire il negativo appare la pistola: "All'epoca quello scatto preso da lontano non mi era piaciuto e l'avevo scartato". Roveri era un fotoreporter di strada, che nel 1983 venne assunto dalla Mondadori e negli anni Settanta lavorava anche per "Prima Comunicazione", la rivista specializzata sul mondo dei media: "Quando nel 1977 il direttore mi disse che dovevo fare un servizio su Berlusconi, replicai: "E chi è?". Lui rispose: "Sta per comprare il "Giornale" e aprire una tv. Vedrai che se ne parlerà a lungo"". Quella che Roveri realizza è forse la prima serie di ritratti ufficiali, a cui il giovane costruttore volle affidare la sua immagine di vincente. L'incontro avvenne negli uffici Edilnord: "Fu di una cordialità unica, ordinò di non disturbarlo e si mise in posa. Con mio stupore, rifiutò persino una telefonata del sindaco Tognoli". Il solo a cui permise di interromperlo fu Marcello Dell'Utri, immortalato in un altro scatto inedito che evidenzia il look comune: colletti inamidati e bianchi, gemelli ai polsini, pettinature simili. Sono una coppia in sintonia, insieme hanno creato una città dal nulla, con un intreccio di fondi che alimentano sospetti e inchieste. Una coppia che solo pochi mesi dopo si dividerà, perché Dell'Utri seguirà un magnate molto meno fortunato: Filippo Alberto Rapisarda, in familiarità con Vito Ciancimino. Tornerà indietro nel 1982, organizzando prima il colosso degli spot, Publitalia, e poi quello della politica, Forza Italia. La loro storia era cominciata nel 1974, trasformandosi da rapporto professionale in amicizia. Dell'Utri è anche l'amministratore di Villa San Martino, la residenza di Arcore. E dopo pochi mesi vi accoglie uno stalliere conosciuto a Palermo che fa ancora discutere: Vittorio Mangano, poi arrestato come assassino di Cosa nostra. Una presenza inquietante, che per la Procura di Palermo suggella le intese economiche con la mafia in cambio di tutela contro i sequestri. Nel 1977 però Mangano è già tornato in Sicilia. E Berlusconi tanto sereno non doveva sentirsi, come testimonia il revolver nella fondina. Ricorda il fotografo Roveri: "Dopo più di due ore di scatti mi invitò a pranzo ma prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l'autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: "Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?". Poi siamo saliti su una Mercedes che lui definì "blindatissima" per raggiungere un ristorante a soli 200 metri da lì". Sì, quelli in Lombardia erano anni cupi, prima che, grazie anche a Canale 5, alla nebbia di paura si sostituisse il mito luccicante della Milano da bere. Dall'archivio di Roveri ricompare il momento della svolta, quando si cominciano a materializzare i pilastri dell'impero del Biscione tra partiti, media e relazioni molto particolari. È la festa del 1978 che trasforma il Cavaliere in Sua Emittenza, con l'esordio di Telemilano nelle trasmissioni via etere. La politica ha il volto di Carlo Tognoli, sindaco socialista che per un decennio guida la metropoli mentre passa dagli scontri di piazza al jet set danzante della moda. Un personaggio defilato rispetto alla statura del grande sponsor di Berlusconi, quel Bettino Craxi che ne ha sorretto la crescita con decreti su misura, ricevendo in cambio spot e finanziamenti. Li univa la stessa cultura del fare che dà scarso peso alle regole, la stessa visione di una politica sempre più spettacolo, fino a plasmare la società italiana di oggi. In questa metamorfosi tutta televisiva la carta stampata ha avuto un ruolo secondario. All'epoca però l'attenzione era ancora concentrata sul "Corriere della Sera", la voce della borghesia lombarda. In questi scatti il direttore Franco Di Bella ammira soddisfatto il giovane Silvio. Rapporti letti in un'ottica molto più ambigua dopo la scoperta della P2: negli elenchi di Licio Gelli c'erano Di Bella, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din e l'editore Angelo Rizzoli. E c'era pure il nome di Berlusconi, data di affiliazione gennaio 1978, anche se lui ha sempre negato l'iscrizione alla loggia delle trame. Sin da allora le smentite a qualunque costo sono un vizio del Cavaliere a cui gli italiani si sono abituati. Come i divorzi, che segnano la sua carriera professionale, quella politica e la vita privata. Nelle foto del party al fianco di Silvio c'è Mike Bongiorno, il testimonial della sua ascesa mediatica. Resteranno insieme tra alti e bassi fino al 2009: un altro legame chiuso con una rottura burrascosa. E c'è anche Carla Dall'Oglio che si offre ai flash sorridente, afferrando per il braccio un marito dall'aria distaccata. Lei ha 37 anni e da dodici è la signora Berlusconi: poco dopo, nel 1980, quella scena di ostentata felicità sarà spazzata via dal colpo di fulmine per Veronica Lario. Il divorzio è arrivato nel 1985, consolidato da una manciata di miliardi e da una decina di immobili: da allora Carla Dall'Oglio è scomparsa dalla ribalta, dove però sono sempre più protagonisti i suoi figli Marina e Piersilvio, i nuovi Berlusconi.
Contro Berlusconi la sinistra contrappone i suoi miti.
San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.
Perché Berlinguer sì e Togliatti no!
Lo stalinista Togliatti che non disse mai: "Compagni, ci siamo sbagliati". Il segretario del Pci appoggiò l’eliminazione politica e fisica di molti comunisti dissidenti. Non per paura di Mosca ma per "coerenza" ideologica, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Molti anni fa, in un libro diventato famoso (Togliatti 1937, Rizzoli 1964) Renato Mieli si chiedeva perché anche i comunisti italiani - dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin - non sentissero la necessità di «stabilire la verità sulla fine di quei dirigenti comunisti europei che scomparvero nell'Unione Sovietica durante quel periodo». Commentava Mieli: «Il silenzio dei comunisti europei su questo doloroso passato è veramente sconcertante». Ma, scomparso Togliatti, l'ultimo dei grandi superstiti del Comintern e anche l'unico che avrebbe potuto parlare e rifiutò di farlo, la verità resta sepolta sotto la pesante coltre delle complicità e dell'omertà. «Il tempo - scriveva allora Mieli - cancellerà le tracce e gli uomini dimenticheranno ciò che è stato. È questo che si vuole? Un delitto perfetto insomma». Palmiro Togliatti era, nel 1937, col bulgaro Dimitrov, il finlandese Kuusinen e il sovietico Manuilski, uno dei membri della segreteria del Comintern. Furono loro ad avallare lo sterminio di tutti i dirigenti del partito comunista polacco (con l'eccezione di Gomulka) a opera della polizia staliniana con una sentenza di condanna politica. Quali fossero le ragioni che potevano aver indotto Stalin a liberarsi del partito comunista polacco appare evidente dal particolare momento in cui si svolsero quegli avvenimenti. Mosca stava per accordarsi con Hitler attraverso il Patto del 1939 che avrebbe portato alla spartizione della Polonia e allo scoppio della guerra. Il Pc polacco rappresentava un ostacolo a tale spartizione e perciò Stalin lo eliminò per spianarsi la strada all'eliminazione della stessa Polonia come Stato indipendente. A spiegare l'atteggiamento dei dirigenti del Comintern c'è invece una sola ragione, e cioè, come scrive Mieli, «la loro fedeltà al comunismo e quindi la loro totale sottomissione al tiranno e la conseguente loro impotenza ad opporsi». Ma avrebbero potuto Togliatti e i suoi compagni opporsi a Stalin? Lo stesso Mieli riconosce che «c'era poco da scegliere in quelle condizioni: o si collaborava con il regime o si finiva in galera. Togliatti, come tanti altri, è riuscito a sopravvivere appunto perché non ha scelto la galera». Il clima di terrore instaurato da Stalin in Urss e all'interno del movimento comunista internazionale non è sufficiente, però, a giustificare la remissività e persino la complicità di cui si resero responsabili gli uomini come il segretario del Pci. Alle radici più profonde dei loro comportamenti c'era una ragione sostanziale: che essi erano intimamente stalinisti e che in quel momento essere comunisti e militare nella Terza internazionale equivaleva a essere dalla parte di Stalin e condividerne i metodi. Togliatti non solo approvò ed esaltò, a titolo personale e a nome del suo stesso partito, gli eccidi di Zinoviev e di Kamenev, di Bukharin e di Rykov, del maresciallo Tukacevski e degli altri ufficiali dell'Armata rossa, ma adottò del sanguinario dittatore al servizio del quale si era messo e aveva messo il suo partito anche e soprattutto l'ideologia. Mieli ce ne fornisce intelligentemente un esempio, riferendo dell'atteggiamento tenuto dal segretario del Pci sulla questione polacca anche dopo le rivelazioni di Kruscev al XX congresso del Pcus. Togliatti, da quel momento, non sostenne più, come in precedenza, che la lotta di frazione all'interno del Pc polacco fosse una prova sufficiente a dimostrare che il partito era stato infiltrato dalla polizia di Pilsudski. Ma non smise, solo per questo, di affermare che all'epoca in cui si erano svolti i fatti ciò poteva essere ritenuto verosimile, cioè che il frazionismo bastava da solo a rendere responsabili i dirigenti di quel partito delle colpe di cui li si accusava ingiustamente. «Questo - concludeva Mieli - è esattamente il pensiero di Stalin che fu all'origine del periodo del terrore». In altre parole il segretario del Pci, pur riconoscendo di essere stato indotto in errore dalla falsa teoria staliniana sull'inasprimento della lotta di classe e dalle prove fornite dalla polizia sovietica, non ammise mai di essere stato egli stesso uno degli artefici della condanna politica del Pc polacco che giustificò l'annientamento fisico dei suoi dirigenti. E soprattutto non riconobbe mai di non aver neppure cercato di appurare se le accuse a loro carico fossero false, in base all'assunzione che le motivazioni di Stalin erano «in sé» sufficienti a giustificare il comportamento di un buon comunista in quella circostanza. «Che questa scelta fosse coerente con l'ideologia originaria - scriveva Mieli - è ovvio. Ma come si coniuga al presente, tenendo conto della pretesa del Pci di essere considerato come democratico? Come può un partito sedicente democratico riconoscersi in un passato che è una negazione brutale della democrazia?» Scriveva Mieli che, per i comunisti, «non si tratta di processare questo o quel dirigente di altri tempi, bensì di condannare il sistema che essi tentarono di instaurare, in ossequio a una ideologia totalitaria, che non sembra del tutto scomparsa nelle loro file». In altre parole, il Pci avrebbe dovuto riprendere il grido disperato a suo tempo inascoltato di una delle vittime italiane del terrore staliniano, Emilio Guarnaschelli: «Compagni, ci siamo sbagliati». Ma poteva un'organizzazione di massa, un grande partito come il partito comunista proclamare formalmente il fallimento degli ideali per i quali è nato e si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza? Personalmente ne dubito. Del resto, è proprio questa la ragione per la quale le generose sollecitazioni di Mieli al Pci affinché facesse luce sul proprio passato sono cadute nel vuoto: perché ciò che per lui era un imperativo morale, per il Pci era un impedimento politico. I comunisti italiani sono sempre stati inchiodati alla loro storia come a una croce, perché è la parola stessa «comunismo» che la storia ha condannato senza appello. Il fatto poi che molti di loro, presi individualmente, lo sapessero non significa che tale consapevolezza dovesse tradursi in comportamenti politici concreti a livello di coscienza collettiva, cioè di partito. È a quest'ultimo che ieri furono immolate tante vittime innocenti e oggi è sacrificata la ricerca della verità sulla loro tragica sorte. Come membro autorevole del Comintern, Togliatti ne divenne uno dei massimi dirigenti, contribuendo all'eliminazione, politica ma anche fisica, di molti comunisti la cui sola colpa era di non condividere, nei confronti dei propri Paesi, i brutali metodi di Stalin. Ciò non di meno fu, in questo caso, ortodossamente machiavelliano, un grande realista sia escludendo, con la «svolta di Salerno» e l'adesione alla democrazia parlamentare e monarchica ormai nell'orbita degli Usa - che sarebbero intervenuti militarmente in caso di pericolo rivoluzionario - sia in occasione dell'attentato subito, quando raccomandò ai compagni di «non perdere la testa» e di non abbandonarsi a tentativi rivoluzionari, un'avventura impraticabile che avrebbe portato il Partito comunista, del quale era segretario pur non essendo mai stato eletto da un Congresso, alla rovina.
Peccato però che davanti ai soldi, così come al pelo, tutti si arrendono alle tentazioni.
Ci sono giornalisti che forse Tangentopoli la rimpiangono, del resto segnò la loro giovinezza, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario, fatto di personaggi straordinari, copie alle stelle, carriere in decollo: vien da pensarlo, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Facciamo due esempi: 1) Il pm di Reggio Calabria voleva contestare a Scajola e agli altri arrestati anche l’aggravante mafiosa, ma il gip l’ha negata perché mancavano prove e anche solo indizi. L’ha confermato lo stesso pm su Libero di sabato, dunque era noto. Bene, ecco l’apertura di prima pagina del Corriere di domenica: «Scajola indagato per mafia»; testo di prima pagina: «La stessa ipotesi di reato sarà contestata a tutte le persone sospettate di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena». Un falso. Una notizia manipolata, nella migliore delle ipotesi. 2) Secondo esempio. Questa è l’apertura di prima pagina del Messaggero di domenica: «Appalto Expo, c’è la ’ndrangheta»; sottotitolo: «I pm di Milano: legami tra gli arrestati e le cosche"; testo di prima pagina: «La cupola di Frigerio, Greganti e Grillo avrebbe avuto legami anche con la ’ndrangheta». Ah sì? E allora perché l’aggravante non è stata neppure contestata? Risposta: perché non importa, l’aggravante mafiosa ormai è come una spezia per insaporire inchieste e resoconti. E poi scrivere, una tantum: uh, torna tangentopoli, magari.
Montanelli stronca Travaglio. In materia di giustizia Montanelli smentisce il capofila dei giornalisti forcaioli anche dall'oltretomba, scrive Alessandro Sallusti “Il Giornale”. Il tintinnio di manette riaccende gli entusiasmi di Marco Travaglio, capofila dei giornalisti forcaioli tanto cari alle procure. Si è autonominato erede unico del pensiero di Indro Montanelli, del quale millanta (sapendo di non poter essere smentito) l'amicizia e la stima. Sarà, ma il vecchio Indro, che non ha mai amato presunti portavoce, lo smentisce anche dall'oltretomba. E che smentita. È contenuta in un articolo scritto su Il Giornale il 13 luglio dell'81. Il giorno prima Spadolini aveva ottenuto la fiducia del suo primo governo ma il Pci annunciava sfaceli perché il neopremier aveva posto con forza la questione della riforma di una giustizia già malata allora. Ecco come commentava l'accaduto Montanelli: «Riduciamo i termini all'osso. Ci sono state, per eccesso di garantismo istruttorie svogliatamente durate anni e concluse con assoluzioni poco meno che scandalose; mentre ci sono le manette per reati che non le comportano obbligatoriamente, seguiti da procedimenti penali che, anche quando si concludono col proscioglimento da ogni accusa, segnano la rovina materiale e morale di chi ne è stato bersaglio». E ancora: «Non è possibile andare avanti con queste invasioni di campo della magistratura che sono arrivate a tal punto da rendere plausibile il sospetto che certi magistrati le pratichino non per ristabilire l'ordine ma per sovvertirlo, scatenando caccia alle streghe e colpendo all'impazzata». Aggiungeva Montanelli: «Questi magistrati sono inamovibili, impunibili, promossi automaticamente, pagati meglio di qualsiasi altro dipendente pubblico, incensati dai giornali di sinistra (cioè dalla maggioranza) e molto spesso malati di protagonismo». E ancora: «I comunisti non possono rinunciare alla magistratura com'è. Essa costituisce la più potente arma di scardinamento e di sfascio di cui il Pci dispone». E chiudeva: «Questa non è la magistratura, è solo il cancro della magistratura. Ma che è già arrivato allo stadio di metastasi». Trent'anni dopo siamo ancora lì. I giornali di sinistra (più Travaglio) a fare da addetti stampa a magistrati eversivi ed esibizionisti, noi de Il Giornale a puntare il dito sul «cancro della magistratura» che sta distruggendo il Paese. E siamo fermi anche nel puntare il dito contro ladri e mascalzoni. Ma contro tutti i mascalzoni (anche se di sinistra, anche se magistrati) e soprattutto se davvero ladri oltre ogni ragionevole dubbio.
Chissà qual è la verità tra tutte quelle propinate dai pennivendoli.
Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, F. Esposito. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.
Quando gli attacchi al governo italiano vengono da fuori.
Caso Geithner, ira Berlusconi: “Fu un complotto contro di me”. La ricostruzione dell’ex segretario Usa del Tesoro anticipata da La Stampa: “Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far cadere Silvio”. Brunetta: s’indaghi. Bruxelles: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela. Kerry: io non so nulla, scrive “La Stampa”. La ricostruzione di Timothy Geithner in merito alla caduta di Silvio Berlusconi irrompe nella campagna elettorale. Il leader di Forza Italia è furioso: «Questa è la mia rivincita. La conferma che nel 2011 c’è stato un Colpo di Stato», dice. Mentre i suoi parlamentari chiedono un’inchiesta per fare luce sull’accaduto. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato “Stress Test”. La ricostruzione di Geithner, anticipata da La Stampa, fa discutere. Berlusconi si butta in un nuovo tour mediatico (intervista al Corriere.it, al Tg5, e poi al quotidiano il Foglio). È incontenibile: sono stato vittima di un «complotto» e con me «è stata messa in discussione anche la sovranità dell’Italia». Berlusconi non fa trasparire in pubblico tutta la rabbia che ha dentro per quanto trapelato dagli Stati Uniti. Anzi, si affretta a ribadire più e più volte di «non essere per nulla sorpreso » da quanto detto dall’ex ministro dell’economia americano: «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico». In privato però la reazione è bene diversa. L’ex premier con i suoi si dice consapevole che questa storia non sposterà un voto, ma chiede comunque ai vertice azzurro di alzare il polverone. Da Forza Italia parte il fuoco di fila con la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 ed un chiarimento da parte del governo: «Renzi venga a riferire in Parlamento», dice Renato Brunetta pronto a chiamare in causa anche Giorgio Napolitano: «Gli ho scritto una lettera - fa sapere - proprio per sapere cosa intenda fare». Già perché è proprio il Capo dello Stato che l’ex capo del governo ha sempre chiamato in causa bollandolo come «regista» dell’operazione che portò alle sue dimissioni. Dal Quirinale non trapela nessuna replica, così come dalla Casa Bianca: no comment, è il massimo che fanno sapere dallo staff del presidente americano. Sulle barricate è invece Bruxelles che non ci sta a passare come parte in causa di un complotto: «Erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela», è la replica delle fonti europee alle rivelazioni di Geithner. A parlare ufficialmente è il presidente della Commissione Barroso sostenendo che ai tempi del G20 del 2011 «l’Italia era vicinissima all’abisso e alcuni tentarono di metterla sotto la supervisione del Fmi, mente noi siamo stati quasi soli a dire che questo non doveva succedere». Anche la linea del governo italiano è quella di non intervenire sulla questione: «Abbiamo voltato pagina, non è utile tornare su questi eventi», si limita a dire il ministro degli Esteri Federica Mogherini. A palazzo Grazioli però la pensano diversamente, tanto che il Cavaliere coglie ogni occasione per ricordare come sono andati i fatti: «I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero “riscontri” del colpo di Stato». L’idea però che la vicenda possa avere dei riscontri positivi sui sondaggi non sembra convincere Berlusconi, pronto però a «sfruttare» in termini di voti a Forza Italia la «delusione degli elettori verso Matteo Renzi». L’ex capo del governo non nasconde lo scetticismo per il governo guidato dal leader del Pd tanto, raccontano da Forza Italia, da averne parlato nei giorni scorsi con il Colle. Il leader di Fi è sempre più convinto che le elezioni politiche si avvicinano perché il presidente del Consiglio è sempre più impantanato, anche sul fronte del rilancio dell’economia: Le persone iniziano ad essere stanche degli annunci - è stato il ragionamento fatto a via del Plebiscito - e le riforme non sono certo un tema che Matteo può giocarsi per coprire l’aumento delle tasse. Dagli Usa, invece, il segretario di Stato Usa John Kerry dice (in italiano): «Io non so niente». «Assolutamente è la prima volta che ne sento parlare», ha aggiunto Kerry che aveva accanto a se il ministro degli Esteri Federica Mogherini al termine dell’incontro al dipartimento di Stato a a Washington. Rispondendo alla domanda se avesse letto il libro ha detto: «No , non l’ho letto».
L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio. Geithner: ovviamente dissi a Obama che non potevamo starci, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro del Tesoro americano Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato, e puntò invece sull’asse col presidente della Bce Draghi per salvare l’Unione e l’economia globale. «Ad un certo punto, in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i presti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato». Geithner, allora segretario al Tesoro Usa, rivela il complotto nel suo saggio «Stress Test», uscito ieri. Una testimonianza diretta dei mesi in cui l’euro rischiò di saltare, ma fu salvato dall’impegno del presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto il necessario», dopo diverse conversazioni riservate con lo stesso Geithner. I ricordi più drammatici cominciano con l’estate del 2010, quando «i mercati stavano scappando dall’Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo». L’ex segretario scrive che aveva consigliato ai colleghi europei di essere prudenti: «Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario». Ma all’epoca Germania e Francia «rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008», e non accettavano i consigli americani di mobilitare più risorse per prevenire il crollo europeo. Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea - Spagna, Italia e Grecia - stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, e suggerì l’adozione di un piano come il Talf americano, cioè un muro di protezione finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale, per impedire insieme il default dei paesi e delle banche. Fu quasi insultato. Gli americani, però, ricevevano spesso richieste per «fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinché fossero più responsabili». Così arrivò anche la proposta del piano per far cadere Berlusconi: «Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, io dissi». A novembre si tenne il G20 a Cannes, dove secondo il Financial Times l’Fmi aveva proposto all’Italia un piano di salvataggio da 80 miliardi, che però fu rifiutato. «Non facemmo progressi sul firewall europeo o le riforme della periferia, ma ebbi colloqui promettenti con Draghi sull’uso di una forza schiacciante». Poco dopo cadde il premier greco Papandreu, Berlusconi fu sostituito da Monti, «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e la Spagna elesse Rajoy. A dicembre Draghi annunciò un massiccio programma di finanziamento per le banche, e gli europei iniziarono a dichiarare che la crisi era finita: «Io non la pensavo così». Infatti nel giugno del 2012 il continente era di nuovo in fiamme, perché i suoi leader non erano riusciti a convincere i mercati. «Io avevo una lunga storia di un buon rapporto con Draghi, e continuavo ad incoraggiarlo ad usare il potere della Bce per alleggerire i rischi. “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di forza bancaria intelligente e creativa”, gli scrissi a giugno. Draghi sapeva che doveva fare di più, ma aveva bisogno del supporto dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il supporto della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso del’Europa. “Li devi mollare”, gli dissi». Così, il 26 luglio, arrivò l’impegno di Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. «Lui non aveva pianificato di dirlo», non aveva un piano pronto e non aveva consultato la Merkel. A settembre, però, Angela appoggiò il «Draghi Put», cioè il programma per sostenere i bond europei, che evitò il collasso.
Usa, l'ex ministro del Tesoro: "Nel 2011 complotto contro il Cav". Le rivelazioni choc di Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, nel saggio Stress test: "Alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per costringere Berlusconi a cedere il potere". Ma a Obama disse: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani", scrive Andrea Indini “Il Giornale”. Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi, inquietanti tasselli al golpe ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un golpe ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media progressisti hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il golpe non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro inquietante di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. A G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare per le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente.
Gli Stati Uniti: "Funzionari Ue ci chiesero di far cadere Silvio Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Monti. Non solo Napolitano. Non solo Prodi. Anche a Barack Obama fu chiesto da alcuni funzionari europei di prendere al complotto per far cadere Silvio Berlusconi. A fare pressioni sul presidente Usa furono alcuni funzionari europei, che proposero ad Obama un piano per far crollare l'esecutivo, nell'infuocato 2011. Gli Stati Uniti, però, si sottrassero al complotto: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani". La fonte di tali rivelazioni? Niente meno che l'ex ministro del Tesoro, Timothy Geithner, che spiega quanto accaduto in un libro di memorie uscito lunedì, Stress Test, e anticipata dalla stampa. Dopo il il libro-rivelazione di Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, che svelava le indebite e (troppo) preventive pressioni di Giorgio Napolitano su Mario Monti, ecco un nuovo pamphlet destinato a fare molto rumore politico. Geithner, uno degli uomini più potenti degli States, scrive: "Ad un certo punto in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all'Italia, fino a quando non se ne fosse andato". L'ennesima prova al fatto che l'Europa berlinocentrica voleva far fuori lo Stivale e il suo presidente del Consiglio. Geithener si riferisce ai mesi più difficili per l'Italia, alle prese con le bizze dello spread, nell'autunno 2011. In particolare le richieste agli Stati Uniti furono avanzate già a settembre 2011, prima che lo spread raggiungesse i massimi, quando in Polonia all'Ecofin ricevette richieste per "fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili". Contestualmente, come detto, arriva anche la proposta di far cadere Berlusconi. Ma Geighner precisa che, per quanto gli Usa avrebbero preferito un altro leader, gli Stati Uniti preferirono evitare il complotto.
Angela Merkel pianse con Barack Obama: "Obbedisco alla Bundesbank", scrive Martino Cervo su “Libero Quotidiano”. Sul Financial Times è apparso uno degli articoli di giornale più appassionanti degli ultimi anni. L’intero testo si trova all’indirizzo goo.gl/p11UOo (necessaria una registrazione gratuita). È un lunghissimo retroscena sulla notte dell’euro, a firma Peter Spiegel, che della testata è corrispondente da Bruxelles. Un romanzo breve (5 mila parole), primo di una serie che il quotidiano dedica alla ricostruzione delle giornate che cambiarono per sempre l’Europa. L’interesse per il lettore italiano è doppio: il nostro Paese è, nel novembre 2011, lo spartiacque per la sopravvivenza dell’euro, e manca una ricostruzione non strumentale di cosa accadde in ore che costarono la caduta di due governi (Papandreou e Berlusconi), sotto il rischio concreto di una catastrofe finanziaria. Il racconto si apre con una scena difficile da immaginare: Angela Merkel è in una stanza di hotel con Obama, Barroso, Sarkozy, e piange. «Non è giusto», stritola tra i denti con le lacrime agli occhi, «Io non mi posso suicidare». Perché la signora d’Europa è ridotta così? Libero riassume l’articolo di Spiegel per i suoi lettori. Siamo, come detto, a inizio novembre 2011. L’estate si è conclusa avvolta dalle fiamme dello spread. La Grecia è sul filo della permanenza nell’euro. L’Italia è la prossima preda di chi scommette sull’implosione della moneta unica, lo spread vola a quota 500, il governo traballa sulle pencolanti stampelle dei «responsabili», Merkel e Sarko hanno appena sghignazzato in mondovisione alla domanda sull’affidabilità di Berlusconi. Il G20 di Cannes del 3-4 novembre diventa un appuntamento carico di tensione. Il premier greco Papandreou ha annunciato un referendum sull’uscita dall’euro. L’eventualità manda letteralmente nel panico soprattutto i paesi creditori. A 48 ore dall’inizio del vertice Sarkozy raduna tutti i protagonisti del redde rationem: il premier greco, la Merkel, il capo dell’eurogruppo Juncker (oggi candidato del Ppe alla guida della Commissione Ue), il capo del Fondo monetario Christine Lagarde, i capi dell’Unione José Barroso e Herman van Rompuy. Il dramma greco è affiancato a quello italiano. Roma, rispetto ad Atene, è «too big to bail». La Lagarde è durissima: «L’Italia non ha credibilità». Quel che si fa con la Grecia avrà una ricaduta immediata, ed esponenziale, sul nostro Paese. Con Papandreou c’è Venizelos, ministro delle Finanze. Sarkozy mette spalle al muro il premier ateniese, per evitare il referendum e costringerlo a prendere una decisione lì, sul posto: dentro o fuori. Qui si apre un retroscena nel retroscena: il Ft racconta che Barroso poche ora prima, all’insaputa di Merkel e Sarko (padrone di casa del G20), incontra il capo dell’opposizione greca Samaras, offrendogli sostegno istituzionale a un governo di unità nazionale a patto di abbattere il referendum. Poi inizia il vertice «vero». Senza che i premier sappiano dell’accordo Barroso-Samaras, il capo della Commissione Ue fa il nome di Lucas Papademos, vicepresidente della Bce, come possibile guida di un esecutivo di larghe intese ad Atene. «Dobbiamo ammazzare questo referendum», dice Barroso. Venizelos soppianta il suo premier e cancella il referendum con una dichiarazione ufficiale. Papademos diventerà premier sette giorni più tardi. La Grecia è «sistemata». A questo punto bisogna sollevare una barriera contro l’assedio dei mercati all’euro. La trincea si chiama Italia. Molti delegati sono sconcertati dalla presenza al tavolo di Obama, che in teoria non ha titoli per sedersi a una riunione informale sull’eurozona. Segno di debolezza delle istituzioni comunitarie? Della gravità globale di un possibile tracollo che rischia di far saltare un mercato decisivo per i prodotti Usa? Il nodo cruciale è il ruolo del Fondo monetario. Come più volte raccontato da Giulio Tremonti, l’Italia declina l’offerta di una linea di credito da 80 miliardi di dollari, accettando solo il monitoraggio del Fmi. «I think Silvio is right», dice Obama, buttando sul tavolo una carta nuova, che assegna a Berlino una posizione cruciale. Per aggirare i veti dei trattati che impediscono alla Bce di finanziare direttamente gli Stati, il presidente Usa - in accordo coi francesi, alla faccia del tanto sbandierato asse Merkozy raccontato in quei giorni - propone l’utilizzo del «bazooka» con un’ennesima sigla: SDR. Che sta per «special drawing rights» (diritti speciali di prelievo), un particolare tipo di valuta che il Fmi stesso usa come unità di conto della partecipazione finanziaria dei singoli Stati. Una strategia simile (usare la potenza di fuoco degli SDR contro la crisi) era stata usato nel post-Lehman. Qui si tratterebbe di riversare quelle risorse nel fondo salvaStati europeo in via di formazione. Quel che segue è il miglior esempio possibile per raffigurare il nodo della democrazia ai tempi della crisi, e investe in pieno il tema della famosa «indipendenza» delle Banche centrali. La gestione degli SDR è infatti in capo a queste ultime. E il capo della Bundesbank è Jens Weidmann, custode dell’ortodossia dell’austerity tedesca. Appena si diffonde il piano Obama-Sarko, il «falco» apre le ali e dice «nein» al telefono con i delegati tedeschi: la Germania non paga. La Merkel scoppia in pianto e pronuncia il suo: «Non è giusto, non posso suicidarmi. Non posso decidere io al posto della Bundesbank». Il dramma dell’euro è qui: quattro tra i più potenti governi democraticamente eletti del mondo si fermano davanti al veto (legittimo) di un banchiere. Obama vuole che la Germania alzi la quota degli SDR. La Merkel apre, purché l’Italia accetti di farsi commissariare dal Fondo. Tremonti e Berlusconi non mollano, Angela neppure, a causa di Weidmann. La tensione è totale. La riunione si scioglie con un nulla di fatto, salvo la richiesta al governo di Berlino di provare a smussare la Buba . «Non mi prendo un rischio simile se non ottengo in cambio nulla dall’Italia». Alla conferenza stampa dopo il G8 Berlusconi rivela l’offerta del Fmi e il «no» italiano. Pochi giorni dopo, il governo cade. Al supervertice non è successo nulla. Toccherà a Draghi tenere in piedi l’euro, e (anche) a noi pagare per il fondo salvastati.
Gli attacchi vengono anche dal'interno. L'accordo tra Fini e Napolitano per "eliminare" Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. "Il golpe contro Silvio Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini". A tirare in ballo altri protagonisti del complotto anti Cav è Amedeo Labboccetta. In una intervista al Tempo, l'allora braccio destro di Fini, racconta le ambizioni dell'ex presidente della Camera che ha giocato di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al leader azzurro con l'obiettivo di prendere il suo posto a Palazzo Chigi. "Fini me lo disse in più circostanze. 'Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?!", rivela Labboccetta a Carlantonio Solimene che racconta anche di come nacqua il feeling tra Fini e il Colle: "Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno". E lui, dice, di essere testimone di quelle chiamate essendo in quel periodo in una posizione privilegiata. All'inizio, prosegue l'ex deputato del Pdl, Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale. Lui e Dell'Utri tentarono più volte di fargli cambiare idea. Berlusconi, secondo il racconto di Labboccetta, arrivò perfino ad offrirgli la segreteria del partito. Ma niente, Fini, non smetteva e alzava la posta chiedendo la testa dei ministri La Russa e Matteoli e del capogruppo al Senato Gasparri. "Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva tenere per le palle Berlusconi', continua Laboccetta secondo il quale l'obiettivo di Fini era di "eliminare politicamente Berlusconi". "Quando lo costrinsi a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo", rivela, "mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"». Labboccetta non raccontò mai a Berlusconi quello che Fini stava ordendo alle sue spalle, ma si giustifica sostenendo che si diede da fare perché quel piano saltasse: "Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale". "Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni". Alla domanda di Solimente: "Ma perché dice queste cose solo oggi?" Labboccetta risponde: "All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni".
Sallusti: "Dietro al complotto per far fuori Berlusconi c'è Clio Napolitano", scrive “Libero Quotidiano”. “Dietro al golpe del 2011 c'è Clio Napolitano". Alessandro Sallusti ai microfoni de La Zanzara su Radio 24 aggiunge nuove elementi alle rivelazioni di Alan Friedman che parlano di una strategia chiara da parte del Colle per destabilizzare il governo Berlusconi nel 2011 e sostituire il Cav a palazzo Chigi con Mario Monti. Il direttore de Il Giornale punta il dito contro la moglie del Capo dello Stato e afferma: "Mi dicono che la moglie di Napolitano, la comunista Clio, odia Silvio, e ha molto peso sulle scelte del Quirinale. Dietro al complotto politico finanziario che ha fatto cadere Berlusconi, c'è Clio Napolitano". Insomma secondo Sallusti la mano occulta che guidò la caduta di Berlusconi nel 2011 appartiene a Clio Napolitano. Il direttore de Il Giornale però non risparmia critiche nemmeno agli ex alleati del Cav: "Sia Fini che Alfano sono stati cooptati da Napolitano per uccidere Berlusconi". Sallusti parla anche dello spread: "Fu creato ad arte ed il complotto contro Berlusconi ci fu". Infine l'annuncio poi confermato nel suo editoriale di oggi su il Giornale: "Se siamo in un Paese libero, mettiamo in stato d'accusa Napolitano".
Berlusconi: «Complotto contro di me? Obama si comportò bene». «Non mi sorprende che l’uomo del presidente Usa abbia confermato le manovre nei miei confronti… Ma lui si comportò bene durante tutto il G20 e mi diede ragione», scrive Alan Friedman su “Il Corriere della Sera”. Seduto nel giardino di Villa San Martino a Arcore, Silvio Berlusconi è più che soddisfatto. Le anticipazioni del libro di memorie di Timothy Geithner (Stress Test) confermano quello che il Cavaliere dice di sapere da tempo, e cioè, che la Casa Bianca bocciò una richiesta da parte di alcuni europei di far cadere il suo governo nell’autunno del 2011. «Non sono sorpreso. Ho sempre dichiarato che nel 2011 nei confronti del mio governo, ma anche nei confronti del mio Paese, c’è stato tutto un movimento che era partito dal nostro interno ma poi si è esteso anche all’esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro governo», dice Berlusconi. «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico. E poi abbiamo saputo anche che ci sono state quattro successive tappe di scrittura, con l’ultima addirittura di 196 pagine». Berlusconi è in grande forma e viene fuori un ricordo preciso. «Io avevo la contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo anche ad un certo punto ritenuto che ci fosse una precisa regia. Al G-20 di Cannes, addirittura, amici e colleghi di altri paesi mi dissero: "Ma hai deciso di dare le dimissioni? Perché sappiamo che tra una settimana ci sarà il governo Monti…". E l’ha rivelato per esempio Zapatero in un suo libro che riguardava quel periodo». Non è sorpreso che queste nuove rivelazioni vengano da un uomo di Obama. «Io devo dire che Obama si comportò bene durante tutto il G20. Noi fummo chiamati dalla Merkel e Sarkozy a due riunioni in due giorni consecutivi e in queste riunioni si tentò di farmi accettare un intervento dal Fondo Monetario Internazionale. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti dall’esterno e rifiutai di accedere a questa offerta, che avrebbe significato colonizzare l’Italia come è stata colonizzata la Grecia, con la Troika».
Eppure son tutti uguali.
Expo, appalti e tangenti: la sinistra spunta ovunque. Nelle carte ci sono dozzine di nomi dell'area Pd tirati in ballo dagli arrestati. Da Bersani fino al sottosegretario Delrio e al portavoce del partito Guerini, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Lo dicevano spesso, quelli della cupola. «Copriamoci a sinistra». Nel Paese degli appalti truccati servono santi bipartisan. Di qua e di là. Ma di là - a sinistra - ce n'erano davvero parecchi. Realtà o millanterie, sta di fatto che nelle carte dell'inchiesta milanese su Expo e non solo ci sono dozzine di nomi dell'area Pd. Non è un caso, secondo una teoria dell'ex senatore Luigi Grillo. «L'ho visto anche ieri Pier Luigi (Bersani, che ha già smentito, ndr), io tengo sempre i rapporti - dice a Giuseppe Nucci, ex ad della Sogin - lo informo degli sviluppi. Sai, loro, i post-comunisti non sono diversi dai comunisti, cioè il dialogo lo accettano, sono anche garbati e sono simpatici. Poi quando c'è da stringere per questioni di potere preferiscono sempre il cerchio stretto». Ecco, gli affari sono affari. E per ogni torta sul grande tavolo degli appalti pubblici, sostengono i pm, una fetta doveva andare a sinistra. Attraverso le cooperative, che si aggiudicano i lavori. Attraverso Primo Greganti, che avrebbe fatto da tramite tra il partito, le coop e i manager di Stato, e che ieri è stato sospeso in via cautelare dalla sezione del Pd di Torino a cui era iscritto («Ma qui non l'abbiamo mai visto», racconta il segretario della sezione). E attraverso i mille canali - più o meno reali - che ciascuno degli interessati sostiene di poter smuovere per passare all'incasso. Greganti, per rendersi credibile, si «vende» anche il nome di Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alle primarie del Pd, il quale ha smentito un suo interessamento su Expo. «Io sono andato giù a Roma - dice Greganti il 6 marzo - ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (Greganti si sbaglia, ndr)... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco...». Poi qualcuno bussa anche al ministero. Così, proprio Nucci racconta di aver incontrato Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo economico nel Governo Renzi. «Mi ha detto - racconta Nucci a Grillo - “io sono a disposizione per tutte le cose che voi c'avete da fare”, e dico “io voglio lavorare per il mio Paese”, lui ha detto “Ne parlerò col Gabinetto, col ministro, questa cosa mi piace molto”». Ma a lambire il governo Renzi c'è anche un riferimento - assai fumoso - a Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A parlare è l'ex Dc Gianstefano Frigerio. «Però Guerini è un buon... adesso non so se lo porta al governo ... forse lo lascia ... al partito i suoi giri ... uno è Delrio e l'altro Guerini». Decisamente più significativi altri passaggi che riguardano proprio Lorenzo Guerini, portavoce del Pd. Ancora Frigerio al telefono, parla con Sergio Cattozzo della Città della salute e degli appalti Sogin. «Devo parlarne a Guerini... a Lorenzo, devo parlarne... ». «Bisogno organizzare un incontro - suggerisce Cattozzo - io te e Guerini, così lo tiriamo dentro il Guerini. Stiamo parlando di sette miliardi di lavoro, ragazzi!». Tanti, tantissimi soldi. E gli appalti Sogin portano la cupola a cercare più sponde possibili. È in questo contesto che spuntano i nomi di Giovanni Battista Raggi, tesoriere del Pd in Liguria, e di Claudio Burlando, già ministro dei Trasporti e ora governatore ligure. Greganti avrebbe dovuto avvicinare Raggi e attraverso questi Burlando, per ottenere - si legge in un sms di Cattozzo del settembre scorso - «un po' di sponsorizzazione forte nazionale». Ma la cupola, secondo la Procura di Milano, era «glocal». Oltre alle coperture nazionali, infatti, cercava appoggi sul territorio. Ovunque c'era una gara milionaria, c'era da muoversi. Ed è così che si arriva in Sicilia, dove la cricca sta seguendo i lavori per l'ospedale di Siracusa. Frigerio, al telefono con Cattozzo, ragiona. «Sei amico di Enrico Maltauro (uno degli imprenditori arrestati, ndr) tieni conto che stiamo seguendo per lui un ospedale a Siracusa che dobbiamo parlare con Crocetta (Rosario Crocetta, governatore siciliano, ndr) per l'autorizzazione compagnia bella ma tu sei d'accordo... mah aspetta adesso ne parlo al mio consulente poi vediamo venerdì quando viene da me glielo dirà a Enrico, mi ha chiamato Foti (Luigi Foti ex parlamentare della Dc ora ritenuto vicino al Pd, ndr) vuole la mia copertura sulla Sicilia per l'ospedale di Siracusa». Ma alla fine, erano ganci reali o solo chiacchiere? Altro che balle, a sentire Stefano Boeri. Per l'ex assessore comunale Pd di Milano, era tutto vero. «Sono stato fatto fuori dalla partita Expo dalle lobby economiche, compresa la Lega delle Cooperative. Io costituivo un ostacolo», ha spiegato in un'intervista. A Boeri ha replicato l'assessore milanese Pierfrancesco Majorino. «Di Boeri si può pensare tutto e il suo contrario, ma il nesso è totalmente inventato». Al netto delle faide interne al partito, il dubbio resta.
Quelle larghe intese Cl-Coop per spartirsi affari e poltrone. Nelle carte della Procura le prove dell'asse tra cooperative rosse e aziende cielline. L'indagato Frigerio: "Anche Lupi è amico loro", scrive Luca Fazzo “Il Giornale”. Altro che Peppone e don Camillo. Oggi i vecchi nemici fanno affari insieme. Nascosta nelle carte dell'indagine sugli appalti dell'Expo 2015 c'è una traccia che costringe a rivedere antiche certezze. E a prendere atto che quando oggi si parla dei colossi delle coop, lanciati alla conquista di fette sempre più grosse degli appalti pubblici, si parla di qualcosa di assai diverso dalle vecchie cooperative emiliane, tutte business e ideologia, che fanno parte della storia del Novecento italiano. Il grosso delle aziende aderenti alla Lega nazionale cooperative e mutue continua, ovviamente, a stare nell'orbita del Pd. Ma dentro la Legacoop cresce un nuovo partito di tutt'altra estrazione: uomini e aziende che vengono dalla storia di Comunione e liberazione, e dal suo braccio nell'imprenditoria, la Compagnia delle opere. Ex comunisti e ciellini convivono e collaborano. E si ritrovano, nelle carte dell'indagine, a godere di protezioni bipartisan. A spiegarlo chiaramente, tranquillizzando un interlocutore è Gianstefano Frigerio, l'ex parlamentare della Dc e di Forza Italia, arrestato mercoledì. Scrive la Guardia di finanza: «Frigerio dice che quelli che gli presenterà della Manutencoop (alti dirigenti) non sono di sinistra ma sono dei loro». Non è chiaro a chi si riferisca Frigerio. Ma il vecchio democristiano torna sul tema in un'altra conversazione: «Ieri ho parlato con Pellissero e gli ho raccomandato, guarda che la cosa migliore è Manutencoop e anche qualche sua azienda... “sì sì lo so anche se hanno fatto un po' di alleanze eccessive con i ciellini”». Un asse che può apparire singolare, quello tra i due mondi: ma che si basa su due pilastri comuni, la vocazione sociale e il pragmatismo imprenditoriale. Di fatto, Cdo e Legacoop si ritrovano da tempo alleate in un'opera di lobbismo comune e trasversale per ottenere leggi che tutelino l'imprenditoria sociale. Questo ha generato contiguità e alleanze. E anche intrecci di poltrone: il caso più noto è quello di Massimo Ferlini, ex assessore comunista a Milano, che oggi è uno dei principali esponenti della Compagnia delle opere ma siede anche nel consiglio di amministrazione di Manutencoop. Così, in nome di un comune sentire, si saldano intese un tempo impensabili. Ancora Frigerio: «Anche Maurizio Lupi (ministro delle Infrastrutture, ciellino doc) è amico di quelli di Manutencoop». Scrive la Finanza: «Frigerio sostiene di conoscere bene i legami che ci sono tra Manutencoop e i ciellini tanto che negli ultimi anni, con Formigoni, sempre a dire dell'indagato Manutencoop avrebbe già ottenuto importanti lavori». E d'altronde in Lombardia non è un mistero che dopo la caduta di Formigoni le aziende della Cdo, rimaste orfane di protezione politica, si stiano ulteriormente avvicinando alle coop rosse. «Parlando con Levorato lui è un vecchio comunista, io un vecchio democristiano, quindi sappiamo come si parla tra noi», dice Frigerio di Claudio Levorato, il manager di Manutencoop per cui la Procura aveva chiesto l'arresto: e in questa frase c'è dentro un bel ritratto di storie simili cresciute su sponde diverse. D'altronde, dice sempre Frigerio, «ti manderò il capo delle coop (...) copriamoci perché sono le coop rosse e corrono meno incidenti. Prendeteveli perché sono rossi» . E fin qui potrebbe sembrare un semplice calcolo di opportunità o un preaccordo di spartizione. Ma quello che raccontano le carte è qualcosa di più, una sorta si compenetrazione tra mondi solo apparentemente distanti. C'è una matrice forse cattocomunista: basta guardare il profilo Linkedin di Fernando Turri, altro manager coop che compare nell'inchiesta, a capo della Viridia: studi dai salesiani, ma alle spalle il Quarto Stato di Pellizza. E c'è soprattutto una consapevolezza che i tempi sono duri, la spending review ha tagliato gli appalti, e così se si vuole sopravvivere bisogna abbattere vecchi steccati. Frigerio: «Manutencoop, aldilà di quello che pensa Rognoni, è “così” con Cl».
LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.
Politica e criminalità organizzata. L’arresto di Scajola e lo scoperchiamento del potere italiano, scrive Gad Lerner. Tra Scilla e Cariddi, fra le due rive dello Stretto: da una parte Amadeo Matacena (finito per caso a destra in Forza Italia) e dall’altra Francantonio Genovese (finito per caso a sinistra nel Pd). In comune il business dei traghetti con la società Caronte, ma non solo. Sono capoclan locali che con la loro dote di preferenze ottengono facilmente candidature al parlamento nazionale, usano i partiti come strumenti intercambiabili, entrano in relazione con i vertici dello Stato, ne ottengono protezioni e complicità. E’ in questo meccanismo che rimane impigliato oggi Claudio Scajola, a suo tempo ministro degli Interni e massimo dirigente organizzativo di Forza Italia. Un politico di razza, vecchio navigatore democristiano, a sua volta radicato su un territorio come il Ponente Ligure dove la ‘ndrangheta calabrese ha messo radici da parecchio tempo. Non è un caso che la magistratura abbia intercettato le manovre di Scajola per favorire la latitanza di Matacena nel corso di altre indagini sui rapporti fra il tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, e alcune famiglie della malavita calabrese. Stiamo assistendo allo scoperchiamento di una parte rilevante del potere italiano, costituito dall’intreccio fra politica in cerca di consenso e interessi malavitosi bisognosi di protezione e riciclaggio. Sotto l’ombrello del berlusconismo (ma non solo, e non solo a destra) episodi come quello che ha portato all’arresto di Scajola sono numerosi. Guarda caso anche Matacena voleva scappare in Libano, come Dell’Utri. E Berlusconi che subito dichiara “non ne sapevo niente, povero Claudio”, non vi ricorda il proverbio secondo cui la prima gallina che canta ha fatto l’uovo?
In realtà sono rimasti identici solo i metodi dei magistrati e dei giornalisti, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Forse non vi siete accorti che nell'inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: sono sullo sfondo assieme a fisiologici referenti (tanti) che vengono consultati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette e pilotava appalti. È come se dei mazzettari professionisti avessero lasciato l'azienda e si fossero messi in proprio, col dettaglio che frattanto le aziende abbandonate sono fallite tutte: come i vecchi partiti, come quella politica che manca non perché sia virtuosa, ma perché non conta più nulla. Primo Greganti, ventun anni fa, disse che rubava per sé e non per il partito, e non era vero: ora invece lo è, perché la «cupola» non alimentava il finanziamento illegale della politica, alimentava le proprie tasche; e i politici ne escono perlopiù gabbati, usati per promuovere carriere. Lo scandalo è sufficientemente grave da essere analizzato nel suo specifico, non servono riflessi tipo «Come prima, più di prima» (Corriere) o «Ora e sempre tangentopoli» (Repubblica) con ridicole interviste al vecchio pool di Milano. Servirebbe chiedersi se le manette fossero tutte necessarie (quisquilie da garantisti) ma soprattutto chiedersi che accidenti c'entrino certe intercettazioni, quelle in cui vengono sputtanate persone che non c'entrano niente su questioni che non c'entrano niente. Ma pare che, tra gli appalti pilotati, ci sia anche quello della libera stampa a Beppe Grillo.
Manette a gogò. Magistrati scatenati alla vigilia del voto. Arrestati in 20 tra cui Greganti e Scajola Sospetti di corruzione per l'Expo. L'ex ministro accusato di aver aiutato un latitante, scrive Alessandro Sallusti “Il Giornale”. Tecnicamente parlando si tratta di una manovra diversiva. Come arginare la verità fangosa che sta emergendo sulle porcate commesse dai magistrati, prima fra tutte quella sulle illegalità della Procura di Milano nell'inchiesta Ruby? Semplice, una bella retata all'alba. Anzi due, perché - come diceva Totò - meglio abbondare. Così in poche ore finiscono dentro in tanti, nomi eccellenti ovviamente, altrimenti addio titoloni. Da ieri mattina sono in carcere, tra gli altri, a Roma l'ex ministro degli Interni Claudio Scajola (accusato di intrattenere rapporti con la famiglia dell'ex deputato, oggi latitante, Matacena), a Milano, per tangenti, due ex politici (Stefano Frigerio e Primo Greganti, già coinvolti in Tangentopoli) e uno dei capi di Expo 2015. Pareva strano che il partito dei giudici si astenesse dal partecipare a questa campagna elettorale. E, infatti, eccoli, più decisi che mai: un colpo al Pd (Greganti), uno a Forza Italia (Scajola), insomma una secchiata di merda sui due partiti che stanno cercando di riformare il Paese. Grillo ringrazia e guadagna ancora qualche punto. Lui ai magistrati non fa paura, anzi, è lo strumento ideale per fermare l'asse Renzi-Berlusconi che ha già annunciato la riduzione degli stipendi d'oro dei magistrati e la riforma della giustizia. Le procure mandano a Renzi un segnale chiaro, in stile onorevole Antonio Razzi versione Crozza: «Amico, attento, te lo dico un'ultima volta: fatti li cazzi tuoi». Può essere, lo vedremo, che tra gli arrestati ci siano ladri e malfattori. Però mi fa strano il tempismo e il clamore, perché la verità sarà accertata solo a urne chiuse. E viste le tante inchieste spettacolo finite nel nulla, la cosa preoccupa perché falsa le regole del gioco democratico. Dicono che Bruti Liberati, capo della Procura di Milano, abbia le ore contate e sia al centro di una guerra tra le fazioni di pm che si contendono potere e successione a suon di accuse e controaccuse. Ieri un suo vice, Robledo, si è rifiutato di firmare gli ordini di arresto e non ha partecipato alla conferenza stampa. C'è il terribile sospetto che la resa di conti finale tra magistrati stia avvenendo sulla pelle di veri, presunti o falsi delinquenti. In un Paese normale, una procura così messa, delegittimata, divisa e incarognita, sarebbe già stata commissariata. Questi sono un pericolo vero, più pericolosi del più pericoloso tangentista.
La settimana terribile dell'Italia. Prima settimana di maggio 2014. Bacchiddu, Scajola, Expo, Nuova Tangentopoli, Genny 'a carogna. Il paese sprofonda inesorabilmente, senza la forza di cambiare davvero. Anche per colpa nostra, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Una settimana da dimenticare sta finendo, specchio di una vecchia Italia. Un’Italia che non cambia. Che va in retromarcia. Che guarda indietro. Non è più questione di ricambio generazionale (quello finalmente un po’ c’è, anche se a ben vedere l’arroganza di certi giovani non è inferiore a quella di certi anziani). Il problema è nazionale. Siamo noi italiani, forse, che abbiamo qualche problema con la storia e con noi stessi. Non riusciamo a esser seri, a concentrarci sulle cose da fare, a renderci conto della gravità dell’emergenza che stiamo attraversando, a prendere coscienza del declino che ci sta portando verso il baratro, del grado di inciviltà che viviamo nelle nostre città. C’è qualche tarlo che ci corrode, qualche virus che non vuol saperne di abbandonare la presa. Come si spiega altrimenti l’escalation di notizie da paura degli ultimi giorni? Siamo alla terzultima settimana prima del voto del 25 maggio che servirà a ridisegnare il Parlamento europeo, tornata importante anche per la politica nazionale. Forse, ci si poteva aspettare che prendessero il sopravvento temi concreti e veri. Non so: l’economia, l’istruzione, l’Europa. Invece ci siamo dibattuti e abbiamo dibattuto sul “caso Bacchiddu”, sulle spacconate di Genny ‘a Carogna, su Greganti 2 la vendetta, la corruzione dietro l’Expo 2015 e le lotte fratricide tra i magistrati di Milano, per finire coi fischi di Grillo all’Inno di Mameli. Tutte robe che non ci cambiano la vita, che ci distraggono dai veri problemi, che peggiorano terribilmente l’immagine dell’Italia e di noi italiani in Europa. Che scoraggiano irrimediabilmente le persone per bene ed esasperano chi già non ne può più. La Lista Tsipras riesce a far parlare di sé solo perché il meccanismo dei media e della politica si tuffa sulla foto accattivante di una bella ragazza e una brava giornalista, Paola Bacchiddu, che in un clic di (auto)ironia posta su facebook una propria istantanea balneare con la motivazione scherzosa di voler usare ogni mezzo, ora che il giorno cruciale del voto si avvicina, e quindi invita a barrare la lista “L’Altra Europa con Tsipras”. Apriti cielo. Si scatena la polemica su “chiappetta rossa”, la gogna del web, l’assalto del branco (a sinistra, a destra), il groviglio di considerazioni femministe e/o machiste…
Ed a proposito di questo..."Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro, scrive “Libero Quotidiano”. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista Se non ora quando aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
Tornando alla riflessione di Ventura...Poi, sabato, lo spettacolo immondo e barbarico di una sparatoria in piena Roma, con tifosi che si confrontano in un delirio di violenza finché dentro lo stadio un energumeno tatuato con maglietta che chiede la liberazione dell’omicida di un poliziotto alza il pollice fischiando di fatto l’inizio di una tristemente memorabile finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, sotto gli occhi e le bocche aperte, mute, delle più alte cariche di uno Stato ridicolizzato e impotente. Genny ‘a Carogna, imparentato con camorristi, detta legge. Le famigliole tremano. Renzi neanche s’accorge del tenore di quella maglietta insultante. E per finire, ecco l’ordalia giudiziaria come da copione: la raffica di arresti per presunte tangenti relative all’Expo 2015 di Milano accende i riflettori su un passato per nulla esaurito. Con l’aggiunta piccante di uno scontro interno alla magistratura per irregolarità additate dal procuratore aggiunto Robledo nell’assegnazione delle inchieste a chi non ne avrebbe avuto titolo. Come non bastasse, finisce in manette un ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola. E Grillo si tuffa sugli arresti con la goduria del capobranco che assapora un punto in più il 25 maggio, perché la rovina dell’Italia significa la sua apoteosi. Un Grillo che si mette fra gli ultrà dello stadio dicendo che anche lui avrebbe fischiato l’Inno d’Italia e che mette in campo tutta la sua finezza di analisi affibbiando le solite trito-comiche etichette agli avversari, dal “pregiudicato Berlusconi” (dimentico d’esser lui stesso condannato in via definitiva per omicidio colposo, senza neppure esser vittima di chissà quale persecuzione giudiziaria) a “Renzi ‘a Menzogna” che evoca “Genny ‘a Carogna”. Questo, dopo avere ravvivato malamente la campagna elettorale con parabole che hanno per protagonisti gli ebrei della Shoah e i lager (riferimenti privi di qualsiasi pietà umana). Mamma mia, che Italia è questa. Che paura. Che futuro ci aspetta.
Dell'Utri. Sette anni di reclusione. Condanna confermata, scrive “Il Corriere della Sera”. Il verdetto della Cassazione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri era atteso in serata del 9 maggio 2014. I giudici della Prima sezione penale si sono ritirati in Camera di consiglio per decidere se confermare o no il verdetto d’appello: 7 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Sostituto Procuratore Generale di Palermo Luigi Patronaggio ha già emesso un ordine di carcerazione per Dell’Utri. Il provvedimento verrà trasmesso al ministero della Giustizia che lo allegherà alla richiesta di estradizione alle autorità libanesi. Il caso giudiziario di Marcello dell’Utri dura da 20 anni. Era infatti il 1994 quando la Procura di Palermo avviò le indagini per mafia sull’ex senatore, che fu rinviato a giudizio nell’ottobre del 1996. Il primo processo, aperto il 5 novembre del 1997 davanti al Tribunale di Palermo, presieduto da Leonardo Guarnotta, era durato sette anni e si era concluso l’11 dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, più due anni di libertà vigilata, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento per le parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. «Vi è la prova», aveva scritto il collegio nella motivazione, «che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale». Quel verdetto era stato parzialmente corretto in secondo grado, in un processo assai più rapido del primo, iniziato il 16 aprile del 2010 e conclusosi il 29 giugno dello stesso anno quando la Corte di Appello, presieduta da Claudio Dall’Acqua, aveva ridotto a sette anni la pena per Dell’Utri, a fronte di una richiesta di 11 anni formulata dal procuratore generale Antonio Gatto. I giudici avevano ritenuto provati i rapporti tra Dell’Utri e la mafia fino al 1992 mentre lo avevano assolto «perché il fatto non sussiste» per i fatti successivi. Aveva però retto l’impianto accusatorio, ribadito anche oggi dal Pg della Cassazione, secondo cui Dell’Utri avrebbe fatto da mediatore tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, e lo avrebbe tra l’altro convinto ad assumere come stalliere ad Arcore il boss Vittorio Magano, morto di cancro in carcere.
E poi.....Scajola: io non so se ci rendiamo conto. Rischio di essere ripetitivo ma il rischio vale la candela, scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. Ogni volta che scriviamo, discutiamo e parliamo di criminalità organizzata, di programmi di protezione, di “utilizzo” di testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia o di un’appropriata legislazione antimafia non possiamo non tenere conto che Claudio Scajola (ma anche con ruoli comunque apicali Cosentino, Dell’Utri, la lista è lunga e folta) sia stato non un politico qualsiasi ma un Ministro dell’Interno di questa Repubblica. Quindi sarebbe veramente ora che si trovi una narrazione che funzioni, un vocabolario leggibile per raccontare le mafia fuori da Corleone, Platì o Scampia e che arriva sempre ai punti più alti dello Stato. Perché Scajola (quello che aiuta un latitante a trasferirsi in Libano) e i suoi sodali sono gli stessi che decidono se e come vanno presi in considerazione e protetti coloro che denunciano e quindi mi pare normale che chiunque provi ad “raccontare” il terzo livello (come lo chiamava Giovanni Falcone) non possa sentirsi sicuro in questo Paese. E dovremmo trovare il coraggio di insegnarlo nelle scuole, farne memoria tutti i santi giorni in tutti i santi posti che frequentiamo bucando questa coltre di presunto “allarmismo” che ci rovesciano addosso ogni volta che si alza il tiro contro la politica. Penso, oggi, a chi si ritrova in pericolo per avere denunciato il malaffare e legge l’arresto di un ex responsabile della propria incolumità. Non lo so, mi viene da pensare questa cosa qui, oggi, prima di tutte le valutazioni politiche. Questa ferita qui che sta più profonda di tutti gli editoriali di stamattina.
8 maggio 2014. Arrestato l'ex ministro Scajola. Avrebbe favorito la latitanza dell'ex parlamentare Amedeo Matacena, condannato a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. L’ex ministro Claudio Scajola è stato arrestato dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. Tra le otto persone finite in manette figurano anche alcune persone legate al noto imprenditore reggino ed ex parlamentare Amedeo Matacena, colpito da provvedimento restrittivo insieme alla moglie Chiara Rizzo e alla madre Raffaella De Carolis. A seguito della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (giugno 2013) Matacena si è reso latitante. Perquisizioni effettuate in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Calabria e Sicilia, oltre a sequestri di società commerciali italiane, collegate a società estere, per un valore di circa 50 milioni di euro. L'arresto di Scajola è avvenuto in un noto albergo della Capitale. Appresa la notizia Silvio Berlusconi, ai microfoni di Radio Capital, ha manifestato il proprio dolore: "Non so per quali motivi sia stato arrestato, me ne spiaccio e ne sono addolorato". Il Cavaliere ha tenuto a precisare che non aveva avuto alcun sentore dell'inchiesta, tale da giustificare la mancata candidatura alle Europee del politico ligure nelle liste di Forza Italia. "Avevamo commissionato un sondaggio su di lui che ci diceva che avremmo perso globalmente voti se lo avessimo candidato, ma abbiamo capito che la sua candidatura ci avrebbe fatto perdere punti". In serata, intervistato dal Tg1, ha detto di non credere che la vicenda avrà ripercussioni sui risultati di Forza Italia. Perché è stato arrestato? Come ha rivelato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, l’ex ministro avrebbe aiutato l’ex parlamentare Matacena a sottrarsi alla cattura per l’esecuzione della pena. L’inchiesta è nata nell’ambito di una indagine su tutt’altro argomento, i presunti fondi neri della Lega Nord, in cui la figura chiave sarebbe il faccendiere Bruno Mafrici. Grazie a un’intercettazione gli inquirenti sono venuti a conoscenza di rapporti fra l’ex ministro e la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. La donna, secondo quanto emerso, si sarebbe adoperata per ottenere l’aiuto dell’esponente politico ai fini del trasferimento del marito, in Libano. Dalle indagini sarebbe emerso il ruolo di un’altra persona che avrebbe lavorato al trasferimento di Matacena nel paese dei cedri. Si tratterebbe dello stesso personaggio che avrebbe avuto contatti con Marcello Dell’Utri ai fini di una sua fuga nel paese mediorientale. "Amedeo Matacena - ha detto il procuratore De Raho - godeva e gode tuttora di una rete di complicità ad alti livelli grazie alla quale è riuscito a sottrarsi all’arresto". Scajola, secondo l’accusa, avrebbe aiutato Matacena a sottrarsi alla cattura in virtù dei rapporti che ha con la sua famiglia. Matacena è un noto imprenditore, figlio dell’omonimo armatore, noto per avere dato inizio al traghettamento nello Stretto di Messina e morto nell’agosto 2003. La frase incriminata. Lo spostiamo in "un posto più sicuro e molto migliore, ma più vicino anche". È questa una delle frasi pronunciate da Scajola in una conversazione telefonica con Chiara Rizzo, moglie di Matacena. La telefonata risale al 12 dicembre del 2013 alle ore 12.12. Nella conversazione, sostiene il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, emerge che "alcuni soggetti si stanno attivando per spostare Matacena da Dubai verso altro Stato". Dialoghi cifrati. "Poi ti racconto un po' di cose anch’io perché Daniele è andato a fare un viaggio sulle isole e ci sta fino al 28, è andato in giro, capito?". Così Scajola avrebbe informato la moglie di Matacena sugli spostamenti del marito, latitante dopo la condanna definitiva a cinque anni e quattro mesi. Il riferimento era, secondo gli investigatori, allo spostamento programmato per il 28 agosto dello scorso anno, data in cui Matacena è stato fermato a Dubai. Questa conversazione dimostrerebbe "la piena consapevolezza dello Scajola in merito agli spostamenti del latitante". In quegli stessi giorni si parlava ancora della vacanza di Daniele. La Rizzo chiedeva all’ex ministro "ma lì?", e lui rispondeva "per dieci giorni" "Daniele il mio amico, sai chi è Daniele?". E ancora: "E' andato in vacanza con Adele per dieci giorni a fare i bagni su.... Secondo il gip "si intuisce che è in difficoltà a parlare in quanto non vuole rivelare la località". A questo punto Chiara Rizzo esclamava "aaa ho capito! E tu glielo hai detto?". Scajola quindi rispondeva: "Nooo, no! Cercavo di dirlo a te in modo che tu lo sai che se dovesse mai farti venire qualche idea me lo dici, hai capito bene?". "Dite alla mia famiglia che sto bene, che sono tranquillo, la verità emergerà". Lo ha detto SCajola ai propri difensori, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito. Gli inquirenti hanno perquisito a Imperia l’ufficio dell’ex ministro in viale Matteotti e la sua villa in via Diano Calderina. Si sarebbe interessata a Matacena anche la figlia di Amintore Fanfani, Cecilia. È quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Reggio Calabria. Il nome di Cecilia Fanfani era sulla lista dei passeggeri del volo proveniente da Dubai e diretto a Nizza il primo agosto dello scorso anno. Nei suoi confronti, e anche a carico del fratello Giorgio Fanfani, è stata disposta una perquisizione. Proprio a Dubai il 28 agosto scorso è stato fermato Matacena. Il rampollo della famiglia di armatori era appena giunto negli Emirati Arabi dalle Seychelles. Lì, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, si era recato per incontrarsi con alcuni legali del posto "i quali - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - interessando i competenti uffici amministrativi, lo avrebbero assistito nelle operazioni di rinnovo del visto necessario al prolungamento della sua permanenza alle Seychelles". Di questa strategia sarebbero stati informati anche Carlo Biondi, figlio del politico Alfredo Biondi, ed Elvira Tinelli. A Cecilia Fanfani viene attribuita la scelta e la possibilità di usufruire dell’appoggio di uno studio legale per risolvere "il problema". Il fratello Giorgio Fanfani avrebbe presentato a Chiara Rizzo, moglie di Matacena, un avvocato. I figli di Fanfani non sono indagati e vengono definiti, nel provvedimento della Dda, "soggetti di interesse investigativo risultati in contatto e in rapporti anche di affari con gli indagati", insieme ad altre sette persone pure perquisite senza essere indagate.
Il patto Scajola-Matacena così la ’ndrangheta fece crescere Forza Italia. “L’ex ministro dell’Interno favorì gli interessi dei boss”. Ecco perché i pm volevano arrestarlo anche per mafia, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano arrestare anche per favoreggiamento mafioso Scajola Claudio, nato ad Imperia il 15/01/1948, ivi residente, ex ministro dell’Interno? «Perché dopo la sentenza di condanna per concorso esterno di Amedeo Matacena lui è diventato la proiezione politico-istituzionale- imprenditoriale del primo che consapevolmente agevolava gli interessi della ‘ndrangheta nella sua composizione unitaria». Così scrivono i pm calabresi nella loro richiesta di custodia cautelare contro Scajola, erede in qualche modo — secondo loro — del potere economico e criminale del latitante eccellente riparato negli Emirati Arabi e in fuga verso il Libano. Una coppia al servizio di consorterie e cosche, logge, circoli segreti. Prima sicuramente uno, poi probabilmente anche l’altro. La proposta dei pubblici ministeri è stata respinta dal giudice delle indagini preliminari «per mancanza di un supporto indiziario idoneo», ma nelle carte che hanno depositato ricostruiscono contro Scajola — oltre alle accuse di aver tentato di occultare il patrimonio di Matacena, di averlo soccorso nella sua dorata irreperibilità, di avere pianificato il suo spostamento da Dubai a Beirut — il “profilo” di Matacena, tutti i suoi affari e i suoi legami con l’ex ministro degli Interni e soprattutto una lontana vicenda che riporta alla nascita di Forza Italia. È nelle prime pagine del documento dei magistrati della procura firmato dal capo Federico Cafiero De Raho e dai sostituti Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, una mezza dozzina di fogli ripescati da un’indagine palermitana (la numero 2566/98 contro Licio Gelli + 13) finita nell’inchiesta sulla famigerata trattativa Stato-mafia e poi girata a Reggio. È il racconto di un pentito che ricorda un summit al santuario della Madonna dei Polsi — luogo sacro per la ‘ndrangheta, tutti i suoi capi ogni anno si riuniscono lì a settembre per stringere alleanze, dichiarare guerre, decidere strategie criminali — avvenuta qualche mese prima della fondazione di un nuovo partito. Siamo alla fine dell’estate del 1991, il pentito si chiama Pasquale Nucera, uno della ‘ndrina dei Iamonte di Melito Porto Salvo. Confessa Nucera: «C’è stata una riunione al santuario di Polsi nel comune di San Luca, nel corso del quale si parlò di un progetto politico...». C’erano tutti i capi più importanti della mafia calabrese. C’era Anche Amedeo Matacena, l’amico dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. C’era anche un misterioso personaggio «che parlava italiano con un accento inglese o forse americano». È stato identificato come Giovanni Di Stefano, un affarista che negli anni passati ha provato a comprarsi gli studios della Metro Goldwyn Mayer, un sedicente avvocato (è stato denunciato poi anche per esercizio abusivo della professione) che comunque è riuscito a difendere in aula gente come Saddam Hussein, il suo braccio destro Tariq Aziz, Slobodan Milosevic, il leader paramilitare serbo Zeliko Raznatovic meglio conosciuto come la “Tigre Arkan”. Questo personaggio, finito nelle pieghe delle indagini siciliane sulle stragi, era presente al santuario di Polsi e fu lui a parlare per primo di «un “partito degli uomini” che doveva sostituire la Democrazia Cristiana in quanto questo partito non garantiva più gli appoggi e le protezioni del passato». Parole testuali del pentito Pasquale Nucera, che in un secondo momento si dichiarerà anche agente del Sisde, il servizio segreto civile italiano. In due interrogatori, ricorda uno per uno tutti i presenti al summit: «Seppure defilato, c’era anche Matacena, “il pelato”, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace. Poi c’erano anche tutti i vari esponenti dei “locali” della ‘ndrangheta calabrese». Fa l’elenco: «Pasquale e Giovanni Tegano, Santo Araniti, uno dei Mazzaferro di Taurianova e uno dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che abitava vicino al cimitero, Marcello Pesce, uno dei Versace di Africo, parente di un certo Giulio Versace, Antonino Molè, due dei Piromalli, Antonino Mammoliti ed altri…». I pm riassumono in una trentina di pagine le attività oscure di Matacena e i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Poi scrivono: «Emerge con univoca chiarezza dalle complessive acquisizioni, invero, che di tale rete di relazioni è membro di rilievo lo stesso Claudio Scajola, unitamente alle altre persone sottoposte ad indagine, il quale diviene funzionale nel complessivo panorama criminale oggetto di ricostruzione proprio in quanto interlocutore istituzionale proiettato verso una candidatura di rilievo alle prossime elezioni europee…». E riferendosi agli uomini e alle donne — compreso l’ex ministro degli Interni — che hanno protetto l’ex deputato latitante: «Nel caso in specie si comprende, quale dato di dirompente rilevanza, che l’attività di protezione svolta a favore del Matacena, finalizzata a preservarne la piena operatività, non è più rivolta a suo esclusivo vantaggio ma diviene il passaggio necessario a proteggere lo strumento indispensabile di agevolazione delle capacità economico-imprenditoriali del complessivo sistema criminale nella sua componente riferibile alla ‘ndrangheta reggina, di cui il politico/imprenditore (Matacena, ndr) è ormai componente essenziale e non sostituibile». Hanno favorito Amedeo Matacena e favorendo lui e il suo “sistema” hanno favorito tutta la ‘ndrangheta. Anche Claudio Scajola. Ecco perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano il suo arresto con l’aggravante dell’articolo 7. Dopo la decisione negativa del giudice, il procuratore capo Cafiero De Raho ha già annunciato appello.
Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.
Da Scajola agli amici in Medioriente. Tutti i nomi dietro il "Circolo Matacena". Il decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria mette in luce un doppio binario diplomatico-finanziario per garantire la fuga dell'ex deputato Amedeo Matacena. Con personalità che vanno dalla massoneria alla politica. E l'arresto del già titolare dell'Interno è solo la punta dell'iceberg, scriveAmedeo Matacena è impressionante. L'ex ministro Claudio Scajola è soltanto l'uomo più in vista di un network che spaziava fra l'Italia, il principato di Monaco e il Medioriente. Nel decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria emerge un doppio binario diplomatico-finanziario per mettere in sicurezza l'ex deputato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco come la Procura di Reggio Calabria riassume la situazione: “Nel corso delle indagini sono emersi continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati e appartenenti a ambienti politici, istituzionali e imprenditoriali... La gestione di tali operazioni politiche, istituzionali ed economiche ha consentito alle persone sottoposte a indagini di diventare il terminale di un complesso sistema criminale, la gran parte di natura occulta e operante anche in territorio estero, destinato anche ad acquisire e gestire informazioni riservate fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione”.Poco dopo le 11 l'ex ministro Claudio Scajola ha lasciato la sede della Dia di Roma per essere portato in carcere a Regina Coeli, dove è in arresto per aver favorito la latitanza dell'ex deputato Amedeo Matacena. All'uscita dell'edificio Scajola ha mostrato un momento di evidente sorpresa per la presenza delle telecamere e fotografi che lo attendevano nel breve tragitto verso l'auto delle forze dell'ordine. Insomma l'operazione conclusa all'alba dell'8 maggio con l'arresto di Scajola, della sua segretaria Roberta Sacco, della moglie di Matacena, Chiara Rizzo, e di altri cinque indagati è soltanto l'inizio. Indagato ma non arrestato risulta il trentanovenne Vincenzo Speziali junior, che in un colloquio con Scajola dice di sé: “io sono programmato per non sbagliare”. Speziali ha sposato la libanese Joumana Rizk, che risulta essere nipote di Amin Gemayel, ed è omonimo dello zio senatore ed ex presidente di Confindustria Calabria, oltre che presidente dell'aeroporto di Lamezia Terme su nomina di Giuseppe Scopelliti, governatore dimissionario e candidato Ncd alle Europee. Speziali senior è anche indagato per concussione all'Asp di Crotone. Molti degli amici del “circolo Matacena” sono semplicemente citati nei documenti della Dda reggina. Molti hanno cognomi storici o vicende giudiziarie alle spalle. Appena Matacena viene arrestato a Dubai, dove si è recato per rinnovare il visto di permanenza alle Seychelles nello scorso agosto, è Giorgio Fanfani, figlio di Amintore, ad attivarsi per trovare un legale italiano negli Emirati: Ottavia Molinari. La sorella Cecilia Fanfani è definita “buona amica” da Chiara Matacena. Al consulto legale partecipa anche Carlo Biondi, figlio dell'ex Guardasigilli e avvocato Alfredo. C'è poi Marzia Mittiga, moglie dell'armatore Manfredi Lefebvre d'Ovidio, anch'egli residente a Montecarlo come l'armatore Matacena. Marzia Lefebvre, secondo gli investigatori, ha prestato la sua mail per alcuni messaggi che Chiara doveva mandare al marito negli Emirati. Speziali junior è l'ufficiale di collegamento che organizza, l'11 febbraio 2014, l'incontro romano tra Chiara Matacena e Luigi Bisignani. Lo stesso giorno, Speziali pranza con un altro piduista, il livornese Emo Danesi, vicino all'Udc. Durante il pranzo, Speziali telefona a Scajola mentre l'ex ministro si trova al ristorante romano Le tamerici con Daniele Santucci e Giovanni Morzenti. Santucci, presidente dell'Agenzia italiana per pubbliche amministrazioni e socio di Pier Carlo Scajola, figlio di Claudio, sarà arrestato il 14 marzo 2014 con l'accusa di peculato per 7 milioni di euro. Bisignani finirà agli arresti il 14 febbraio, tre giorni dopo l'incontro per l'affaire Matacena, per gli appalti di Palazzo Chigi. Morzenti, ex presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi), è stato condannato in via definitiva per concussione nel febbraio 2013. Alla comitiva dell'11 febbraio di unisce a un certo punto anche l'ex deputata crotonese del Pd Marilina Intrieri. Ma l'aiuto più importante a Chiara Rizzo arriva sicuramente da Scajola. È lui che la moglie di Matacena chiama in lacrime alle 9 di mattina appena dopo l'arresto del marito a Dubai, il 28 agosto 2013, chiedendogli subito un incontro a Montecarlo. L'ex ministro glielo concede. Da lì in avanti le intercettazioni fra i due sono spesso criptiche, con il latitante che viene a volte indicato come “la mamma” oppure con il nome del figlio Athos. Quando poi, dopo una serie di incontri a Beirut e all'ambasciata romana del Libano, il circolo Matacena deciderà di tentare la carta dell'asilo politico sotto l'ombrello protettore di Amin Gemayel, Scajola parlerà al telefono di “scuola”. Peraltro, senza subito essere compreso da Chiara Matacena. Più complessa è l'articolazione del salvataggio economico. In previsione della fuga, Matacena organizza un reverse merger delle sue società (Amadeus con le sue tre motonavi, la finanziaria Solemar, la lussemburghese Xilo, la Mediterranea shipping, più le due liberiane Amshu e Athoschia) per evitare di essere coinvolto nel blocco dei beni. Anche la moglie subisce il blocco del suo conto al Monte dei Paschi di Siena per decisione della direzione a settembre del 2013. Il flusso di soldi, però, è proseguito.
Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. La rete diBARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.
Università, concorsi truccati. Indagati sessanta professori. A Milano parte l'inchiesta per le selezioni. Già coinvolto nella vicenda il docente barese Loiodice, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La maxi inchiesta sui presunti concorsi universitari truccati si allarga e un filone investigativo finisce a Milano per competenza territoriale. Sono 35 i professori indagati nello stralcio inviato alla Procura lombarda dai pm baresi Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli, tra questi c’è anche il docente barese Aldo Loiodice. L’indagine trasmessa a Milano riguarda solamente le selezioni svolte in tutta Italia, tra il 2008 e il 2010, per posti da professori di prima e seconda fascia in diritto pubblico comparato. A Bari, invece, restano altre due indagini che si concentrano sui concorsi di diritto ecclesiastico e costituzionale svolti nello stesso periodo. Complessivamente, nella maxi inchiesta sono coinvolti una sessantina di docenti mentre sono nove le selezioni finite nel mirino della guardia di finanza. Il troncone dell’inchiesta che è rimasto Puglia è in fase di chiusura, i pm inquirenti a breve notificheranno gli avvisi di conclusione delle indagini. La Procura barese ipotizza i reati di associazione per delinquere finalizzata a corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico. Le carte che riguardano il concorso di diritto pubblico comparato sono state inviata a Milano perché, secondo i pm Nitti e Pirrelli, la presunta associazione per delinquere contestata agli indagati sarebbe stata costituita nel capoluogo lombardo. Tra i 35 nomi stralciati non figurano quelli dei cinque «saggi» incaricati nei mesi scorsi di supportare il governo Letta nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento nell'inchiesta emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche riportate nell'informativa conclusiva della guardia di finanza e depositata circa un anno fa. Secondo gli inquirenti, in una sorta di circoli privati si sarebbe deciso il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà. Nell’ambito di questa inchiesta, nel marzo 2011, furono eseguite perquisizioni in 11 Atenei diversi: Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo, e 22 docenti furono iscritti nel registro degli indagati. Nel corso delle verifiche il numero dei professori è salito, i 35 indagati nello stralcio finito a Milano rappresentano solamente un terzo del numero complessivo di docenti sotto indagine. L’inchiesta è partita nel 2008 grazie ad un esposto anonimo - finito nella mani della Pirrelli - nel quale veniva segnalato che quattro bandi da ricercatore all’università telematica Giustino Fortunato di Benevento avevano già i loro vincitori, ancora prima che venissero eseguite le prove. L’indagine ha così mosso i primi passi, ma poi scavando tra i documenti sequestrati, indagando e intercettando, gli inquirenti baresi hanno intrapreso altre strade fino a ricostruire la presunta rete non lecita di favori tra i docenti italiani. Secondo i pubblici ministeri, come le tessere di un grande puzzle, i vincitori dei concorsi universitari banditi in tutta Italia tra il 2008 e il 2010 si sarebbero andati ad incastrare a seconda dei desideri dei docenti. Le selezioni per posti di prima e seconda fascia, per ordinari e associati, all’interno dei dipartimenti di diritto costituzionale, canonico e pubblico applicato, sarebbero state decise a tavolino dagli stessi baroni ancora prima che venissero eseguite le prove. Come? Secondo la Procura attraverso uno «scambio di favori». I docenti avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e anche patti di fedeltà». Secondo la magistratura inquirente pugliese, alcuni docenti provarono anche a fare pressioni sull’ex ministro Gelmini per bloccare alcune riforme.
Non solo Expo 2015, scrivono Emilio Randacio ed Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e gli altri arrestati e indagati nell’inchiesta milanese gestivano appalti anche nella Sanità lombarda. Intanto emergono nuovi particolari nell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola. E da Dubai, dove si trova da latitante, Amedeo Matacena dice a Repubblica: faccio il maître, non tornerò in Italia. Ieri sera la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per Marcello Dell’Utri. La «cupola» o la «cordata»: così nelle carte della procura viene indicato il gruppo di sette persone finite in carcere a Milano per associazione a delinquere all’alba di giovedì. Un «circuito deflagrante e perverso», scrive sempre la procura, pilotato dagli gli ex parlamentari Luigi Grillo e Gian Stefano Frigerio insieme al «compagno G» Primo Greganti. Quest’ultimo, alla vista dei militari che gli notificavano l’ordinanza diciannove anni dopo quella che lo portò in cella durante Tangentopoli, è scoppiato in lacrime. Insieme al direttore generale degli acquisti Expo Angelo Paris, all’ex segretario Udc ligure Sergio Mattozzo (al quale i militari hanno trovato in casa 12.500 in contanti nascosti), puntavano a mettere le mani su appalti per mezzo miliardo. La fetta più corposa erano gli oltre 300 milioni che vale il progetto della “Città della salute”, le cui buste con le offerte dovevano essere segrete e sono invece state rinvenute e sequestrate durante gli arresti.
Expo e sanità, il sistema spiegato da un factotum dell’ex dc Frigerio. L’accordo con Greganti. «Ragazzi, adesso c’è la Città della Salute», scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Il manuale d’istruzioni della catena di montaggio degli appalti truccati, l’autopsia in diretta dei «delitti» compiuti nei lavori della sanità o delle opere pubbliche come Expo: il Virgilio che guida in questo girone infernale è, in una impagabile intercettazione ambientale nel circolo culturale milanese «Tommaso Moro» dell’arrestato ex dc ed ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio, il suo factotum di fiducia: l’indagato Giovanni Rodighiero, orgoglioso il 31 luglio 2012 di magnificare il sistema a un non identificato dirigente sanitario tanto desideroso di esservi ammesso. «I primari, i medici che gareggiano, vengono e vanno dai politici perché la Sanità è gestita dai politici - esordisce Rodighiero - . Allora se tu hai il santo protettore», che nel contesto sarebbe Frigerio, «il santo protettore ne prende atto (delle tue esigenze ndr ), ti chiede il curriculum e poi va a parlare con chi di dovere... Se gli garantisce il direttore generale che lo porta quello là, questo si afferma... fa la gara e vince lui...». Il risultato è che «lui è riconoscente a Gianstefano» e «Gianstefano è riconoscente al direttore generale». E «dato che soldi non ce ne sono sempre», o «si rompe le scatole al direttore generale di dargli un po’ di soldi o di mettere questo cavolo di macchinario che serve... capito?». Si può così passare alla fase due: la gara d’appalto per il tipo di fornitura in questione, e cioè - riassume il gip Fabio Antezza - «i meccanismi tramite i quali si riesce a predeterminare l’aggiudicazione a favore delle imprese per cui opera l’associazione, in primo luogo con il confezionamento ad hoc di bandi di gara e capitolati». Anche qui lo spiega Rodighiero, che fa l’esempio di una gara da 40 milioni di euro nella ristorazione in ambito ospedaliero: «C’è il provveditore e c’è l’ingegnere che stanno preparando il tutto, l’ingegnere l’ho fatto conoscere all’azienda. Come è pronto il documento (lo schema del bando ndr ), viene dato a una persona fidata, va in azienda, glielo dà, lo guardano... “questo non va bene e questo va bene... c’è da aggiungere questo questo e questo... farla su misura a me”... Viene ridato, l’ingegnere mette dentro e toglie (quello che l’impresa aveva chiesto di aggiungere e levare ndr ), il provveditore e l’ingegnere sono in sintonia. E quando è pronto il capitolato, è stato fatto su misura a te e non ad altri». Terzo tempo: adesso c’è da concordare il prezzo per la corruzione. «Se hai vinto, c’è un accordo a monte, che tu devi riconoscere ics...». Anche con rateizzazioni della mazzetta: l’appalto «viene dato a te, perché si chiude con l’accordo a te e tu sei l’uomo che deve andare dal direttore generale a dargli i soldi, ogni anno... Subito tutti non li hai... hai un anticipo annuale alla firma. Quando hai vinto l’appalto, un ics... ti tieni la tua parte e il resto gliela dai a quello là... l’anno prossimo quando fanno i pagamenti gli dai la rata... per nove anni». Quarta e ultima fase: il mantenimento degli accordi. E qui, per quanto buffo possa sembrare nel contesto tangentizio, la credibilità è tutto. L’importante è che l’accordo sia osservato qualunque cosa succeda, perfino se quel determinato manager statale corrotto dovesse cambiare posto: «Lui va via? Vai avanti a dargliela, eh?... è sempre stato così». Perciò i componenti dell’associazione a delinquere temono come la peste quegli imprenditori che non siano puntuali nel rispettare la tabella dei pagamenti programmati. Lo si ascolta, in un’altra intercettazione, quando il 15 marzo 2013 uno dei mediatori che collaborano con Frigerio, Walter Iacaccia, gli esprime l’irritazione per un imprenditore che non sta onorando una rata di 50.000 euro, che Frigerio a sua volta attende di dover poi consegnare a un pubblico ufficiale: «Io gli ho semplicemente detto (all’imprenditore inadempiente ndr ): non devi farmi fare figure di cacca... perché se tu fai così, non sai cosa ti precludi... ma soprattutto non puoi più chiedere favori... Ma che persona sei? Io ci metto la faccia sempre... ma porca miseria, ma tu pensi veramente di poter lavorare senza di noi?». Ieri, intanto, dai politici evocati «de relato» nelle intercettazioni sono arrivate altre smentite. Dopo aver letto che Frigerio asseriva «devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio Rognoni (allora direttore generale uscente di Infrastrutture Lombarde ndr ) per suggerirlo come presidente Anas», l’alfaniano ministro delle Infrastrutture ieri ha dichiarato «con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». Di «illazioni o millanterie» aveva già parlato anche l’ex segretario pd Pierluigi Bersani, citato il 7 settembre 2012 da Frigerio che aggiornava Rognoni sul progetto della Città della Salute a Sesto San Giovanni, del valore di 323 milioni e con stazione appaltante proprio Infrastrutture Lombarde: «Ho sentito un po’ a Roma Bersani e poi gli altri sulla Città della Salute, tu devi cominciare a fare delle riflessioni, poi, senza responsabilità tue, mi dici come far partire un colosso macello perché è una cosa grossa... Poi Bersani mi ha detto “a sinistra cosa fate?”, bisogna che senta, se Rognoni mi dice Manutencoop per me va bene». Ma per Bersani questo discorso non c’è mai stato. Le buste sigillate con le offerte relative alla gara ancora da aggiudicare per la realizzazione della Città della Salute sono fra le carte che l’altro ieri gli inquirenti hanno sequestrato a margine dei 7 arresti: a detta del gip, per l’associazione capeggiata da Frigerio era «necessario coinvolgere da subito un grande pool di imprese», procedendo «in accordo con Primo Greganti» e spingendo sulla «Cooperativa Manutencoop» (il cui indagato amministratore Claudio Levorato è una delle 12 persone per cui il gip ha respinto l’arresto per carenza di esigenze cautelari) «in quanto la coop ha i necessari collegamenti» a sinistra, là dove Frigerio si ritiene «coperto» appunto da Greganti, il «compagno G» già arrestato in Mani pulite vent’anni fa. Sin dal settembre 2012, ritiene quindi il gip, «il sodalizio imposta la consueta strategia di individuazione delle opzioni anche politiche in grado di assicurare un intervento efficace, e degli imprenditori da favorire con avvicinamento e corteggiamento». Che le intercettazioni possano sempre avere più spunti di lettura, del resto, affiora persino nel caso di Rognoni, sul cui conto l’arrestato Sergio Cattozzo (ex segretario dell’Udc ligure e collaboratore di Frigerio) il 20 gennaio di quest’anno esprimeva delusione dopo un iniziale periodo di abboccamenti reciproci, concordando con Frigerio su quanto fosse invece il caso di investire meno su Rognoni e più sul successore Angelo Paris, general manager di Expo 2015 pure arrestato giovedì: «...perché fra poco c’è la Città della Salute, ragazzi!... E siccome Rognoni a noi non ha dato niente, non abbiamo nemmeno debiti nei suoi confronti». Greganti, per parte sua, appare molto interessato a ritagliarsi un ruolo nella realizzazione del padiglione della Cina (con la quale ha noti legami d’affari) all’Expo 2015. Il 21 marzo scorso, al telefono con il liquidatore di Tempi Moderni S.r.l., Greganti - annota il gip - «sottolinea che la Cina ha intenzione di predisporre l’intero padiglione in modalità self-built», cioè costruendoselo da sola, «tuttavia Greganti riferisce di aver comunque rappresentato l’importanza della sua mediazione», per la quale sembrerebbe tenere rapporti con l’ambasciata di Pechino e mandare una memoria in Cina. Intanto le comiche, come talvolta accade, fanno capolino al confine di cose serie. E così giovedì, durante le perquisizioni Gdf contemporanee all’arresto delle 7 persone, Cattozzo è quasi riuscito a far sparire davanti ai militari, strappandoli da una agenda e nascondendoli nelle mutande, alcuni post-it. I foglietti, una volta recuperati dall’imbarazzante nascondiglio, si sono rivelati annotazioni di cifre e percentuali e nomi: forse proprio la medesima contabilità delle tangenti su una gara di Expo 2015 che i pm Antonio D’Alessio e Claudio Gittardi avevano ascoltato in una intercettazione.
Caso Expo, Greganti e la pista cinese. Come per Mani pulite la Cina è il cuore del business dell'ex tesoriere Pci: il suo braccio operativo è la società Seinco, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sindrome cinese: scavi nell'Expo di Milano e sbuchi in Cina. Negli affari di Primo Greganti, il «compagno G» tornato in cella a ventun anni da Tangentopoli, riaffiora prepotentemente la potenza asiatica. Di Cina l'ex tesoriere del partito comunista torinese aveva già parlato nel 1993, quando aveva cercato di convincere i pm milanesi che i 621 milioni incassati da Panzavolta non erano destinati a Botteghe Oscure ma a cercare appalti nella Repubblica Popolare. E di Cina si torna a parlare nelle carte della retata che l'altro ieri rispedisce in carcere Greganti insieme al suo coevo dell'altra sponda, l'ex dc Gianstefano Frigerio.A stimolare l'interesse di Greganti è il padiglione che il governo di Pechino deve realizzare per l'esposizione universale milanese del 2015. Business di «grande interesse», secondo l'ordine di custodia, per il «compagno G», che tiene rapporti con l'Ambasciata cinese in Italia e manda memorie in Cina. «Beh i cinesi li abbiamo incontrati, li ho incontrati a Milano», dice Greganti in una intercettazione, «fanno fare tutto giù in Cina, qui c'è solo un problema di montaggio (...) Perché c'è un rapporto con le Istituzioni, con l'Amministrazione, un rapporto con le altre imprese che lavorano lì». «Comunque - aggiunge - in ogni caso, gli abbiamo detto noi siamo qua (...) che se avete bisogno noi ci siamo, insomma, vi assistiamo in tutto, voi state tranquilli, definiamo prima quali sono i costi, voi sicuramente risparmiate, accelerate i tempi e noi vi diamo una mano». D'altronde «la Cmc già c'ha un ufficio in Cina a Shangai». L'ultima affermazione è interessante, perché riporta a uno degli assi conduttori dell'inchiesta su Expo: il rapporto tra Greganti e le cooperative rosse, il ruolo del «compagno G» nell'assicurare alle coop fette rilevanti della torta milanese. Secondo la Procura, il braccio operativo di Greganti è una società torinese che si chiama Seinco. È a nome della Seinco, per esempio, che l'11 dicembre scorso Greganti telefona a Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, il colosso pubblico dello smaltimento nucleare: «Sono della società Seinco, gli dica Primo Greganti, lui si ricorderà probabilmente». Oggi, negli uffici della Seinco i telefoni suonano a vuoto, la mail è irraggiungibile. Ma fino a pochi mesi fa la Seinco era pienamente operativa, il sito vanta appalti in Cina, a Cuba, lavori per le cooperative e per il gruppo Ferruzzi (sarà ancora la consulenza dei 621 milioni?). Per il giudice preliminare Fabio Antezza la Seinco è lo scherma dietro cui viaggiano le tangenti: «Il documento in oggetto - scrive il gip commentando uno scambio di mail tra Greganti e un dirigente della cooperativa Cmc - conferma il sovente (sic) utilizzo da parte degli associati di fittizi contratti di consulenza come mezzo attraverso cui giustificare la percezione delle indebite dazioni di denaro». Il confine tra consulenza e tangente può risultare esile: e proprio su questa linea è facile prevedere che si attesterà Greganti, quando dopodomani si troverà faccia a faccia col giudice che lo ha arrestato. Anche a lui, come vent'anni fa a Di Pietro, il tarchiato ex cassiere del Pci spiegherà di non essere un collettore di mazzette ma un semplice, scrupoloso cucitore di rapporti commerciali. D'altronde, anche a leggerle una per una, è impossibile trovare nelle intercettazioni una sola frase in cui Greganti si sbilanci. Mentre Frigerio ne dice di cotte e di crude, Greganti è sempre lui: attento, preciso, taciturno. È innocente, o ha semplicemente imparato la lezione?
C'è il compagno G, D'Alema si scopre garantista. L'ex premier freddo sull'inchiesta. E Lupi si difende sul pizzino di Frigerio: mai ricevuto, scrive Giannino della Frattina su“Il Giornale”. Dopo i sette arresti dell'alba di giovedì e le 80 perquisizioni in 15 città che hanno decapitato i vertici dell'Expo con il general manager Angelo Paris finito a San Vittore, Massimo D'Alema si riscopre garantista. Sarà perché questa volta alle patrie galere sono state associate anche due vecchie conoscenze di Mani pulite come l'allora segretario della Dc Gianstefano Frigerio e il cassiere del Pci Primo Greganti e quello erano tempi in cui «Baffino» era giovane e sognava per sé un futuro ben più radioso di quanto sia poi stato. O forse perché quando l'inchiesta cominciò a occuparsi delle tangenti rosse al Pci-Pds, fu proprio D'Alema a definire con disprezzo il pool «soviet di Milano». In realtà un soviet che si occupò di tutti fuorché dei comunisti, spianando loro la strada verso un potere che mai avrebbero conquistato. Son passati gli anni ed ecco D'Alema a difendere (forse per gratitudine) il «compagno G», quel «militante di scarsa fama, ma di sicura fede» che, arrestato nel '93, tenne testa ai magistrati negando che una tangente da 1,2 miliardi di lire fosse destinata al suo partito. Risparmiando così qualche guaio ai «rossi», ma arrecandone parecchi al nostro sventurato Paese. «Sono molto prudente a parlare di vicende giudiziarie che non conosco», ha detto ieri D'Alema presentando il suo Non solo euro al Salone del libro di Torino con il direttore del Tg3 Bianca Berlinguer. Tanto per non andare troppo lontano. «Ho imparato - ha assicurato iper garantista - che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Dicendosi perciò scettico sulla «smania di pronunciare sentenze su istruttorie parziali». E assicurando che «oggi sono finiti i partiti ma non la corruzione che è un fattore endemico nella società italiana». A Roma, intanto, un «biglietto» galeotto fa tremare il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nella sfida dell'Expo si è buttato a capofitto. Perché molti lavori e finanziamenti sono di sua competenza, ma anche perché sogna di correre tra due anni per diventare sindaco di Milano dove fu assessore nella giunta Albertini. Allora formigoniano di ferro, oggi in rampa di lancio per prendere il suo posto al vertice di quella galassia ciellina da cui sta cercando di estromettere il Celeste, ormai troppo invischiato nelle vicende giudiziarie per essere un buon testimonial del nuovo corso dell'Ncd alfaniano. «Leggo che nell'ordinanza per gli arresti dell'indagine sugli appalti di Expo - si legge in una nota di Lupi - vengo citato da Gianstefano Frigerio. Il quale, il 29 aprile dell'anno scorso, affermava: Devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio per suggerirlo come presidente Anas. Posso dire con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». A parlare del biglietto è il gip di Milano Fabio Antezza nell'ordinanza di custodia cautelare, mentre l'Antonio di cui si parla è quel Rognoni arrestato un mese fa nell'inchiesta su Infrastrutture Lombarde. A Milano, intanto, il giorno dopo le manette il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Maroni spingono per accelerare al massimo la nomina del sostituto di Paris. «Purtroppo - dice Maroni - Paris faceva tutto e deve essere sostituito immediatamente con una persona che abbia due requisiti: grande competenza e professionalità e, visto questo rigurgito di Tangentopoli, magari se viene da fuori e non ha avuto rapporti con questi ambienti è meglio». Fretta e condizioni che sembra non siano piaciute al commissario Expo Giuseppe Sala a cui spetta la decisione. E martedì a Milano arriva il premier Matteo Renzi.
Come prima, più di prima, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop. Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela. È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa. L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.
Romanzo criminale bipartisan, scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Gli arresti di Reggio Calabria nei confronti di Claudio Scajola (per aver favorito nella latitanza l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena) e quelli nei confronti di due ex democristiani passati a Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo, per gli appalti dell’Expo di Milano, insieme al compagno Primo Greganti, fotografano due momenti di un unica storia iniziata venti anni fa. Se le accuse saranno confermate non sarà poi tanto esagerato parlare di un ‘romanzo criminale’ che affianca e spesso si intreccia con la storia ufficiale del partito fondato e tuttora guidato nei fatti da Silvio Berlusconi. Claudio Scajola è stato arrestato, con l’accusa di avere favorito l’ex parlamentare calabrese di Forza Italia Amedeo Matacena nella sua latitanza. L’ex parlamentare calabrese che ha avuto un momento di gloria quando testimoniò in favore di Marcello Dell’Utri al suo processo, è stato condannato a 5 anni per i suoi rapporti con le cosche di Reggio. Voleva andare in Libano da Dubai dove era stato localizzato ed era in attesa di estradizione. Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie”. La storia è intrigante perché c’è un punto di connessione tra la fuga di Dell’Utri e quella del suo vecchio amico degli inizi di Forza Italia. Secondo il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “C’è qualche identità personale in relazione alle due indagini. Si tratta di un personaggio destinatario di perquisizione che ci risulta protagonista nella vicenda Dell’Utri, Speziali”, cioé Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl, sarebbe lui l’uomo che aveva un gancio con l’ex presidente del Libano Gemayel, candidato alle prossime elezioni e in buoni rapporti con Silvio Berlusconi. L’indagine della Dia di Reggio Calabria racconta quindi che un ex ministro dell’interno nonché ex coordinatore del partito di Silvio Berlusconi, avrebbe favorito un condannato definitivo per concorso esterno con la ’ndrangheta nella sua fuga. Non solo. Ci racconta che la destinazione finale e il gancio della fuga di Matacena a Beirut sarebbero comuni con quella appena avvenuta del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. L’immagine di Scajola, ministro dell’Interno che guidò il Viminale nel triste momento del G8 di Genova nel 2001, che viene portato negli uffici della Dia di Roma e poi nel carcere di Regina Coeli è certamente inquietante ma almeno appartiene ormai al passato dell’Italia berlusconiana. Come anche l’immagine di Marcello Dell’Utri trattenuto in ospedale a Beirut o quella di Matacena, per ora libero di circolare a Dubai. L'altra indagine, quella di Milano sugli appalti delll’Expo, invece è molto più inquietante perché riguarda l’oggi. Non solo nel campo del centrodestra ma anche in quello del centrosinistra. L’ordinanza di arresto di Milano ha colpito quella che sembra, secondo la ricostruzione dell’accusa, una sorta di cupola bipartisan degli appalti. Sono stati infatti arrestati Primo Greganti, il compagno G simbolo del coinvolgimento del Pci nell’indagine Mani Pulite nel 1992 da un lato e Gianstefano Frigerio, simbolo della continuità tra le mazzette della prima repubblica e la politica della seconda repubblica, dall’altro lato. Frigerio infatti, nato nel 1939 a Cernusco sul Naviglio, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese. Era il capo della Dc a Milano ed è diventato deputato di Forza Italia grazie a Berlusconi nel 2001. Primo Greganti, classe 1944, divenne famoso per il suo silenzio con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Il primo marzo 1993 venne arrestato su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). Il compagno G. negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattava di consulenze personali. Alla fine Greganti patteggiò solo una pena di 3 anni poi ridotta di sei mesi. Tra gli arrestati di ieri c’è anche un vecchio democristiano ligure, Luigi Grillo, poi passato a Forza Italia e decisivo nella nascita del primo Governo Berlusconi nel 1994. Grillo parlava al telefono con l’ex ministro della difesa del primo Governo Berlusconi. Non dei bei tempi del 1994 ma della nomina di un manager pubblico, Giuseppe Nucci, che aspirava a una nomina a Terna. Previti parla con Grillo dell’argomento Nucci e quest’ultimo parla con Greganti. Insomma, se Frigerio, Greganti e Grillo sono personaggi del passato. Gli affari di cui si occupavano sono quelli di oggi, dell’expo di Milano. In carcere è finito infatti anche il direttore dell’ufficio contratti dell’Esposizione di Milano, Angelo Paris. I pm contestano un’associazione a delinquere per pilotare bandi. In carcere è finito anche il genovese Sergio Catozzo, ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano. Ai domiciliari Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. E’ indagato anche il ras della Manutencoop Claudio Levorato. Al presidente della cooperativa bolognese rossa, come si diceva una volta, i magistrati contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e al traffico di influenze. L’uomo della Manutencoop Levorato e l’amico di Berlusconi, Gianstefano Frigerio, sono stati intercettati il 7 novembre 2013 mentre parlavano dell’appalto della Città della Salute. Frigerio propone, mentre una cimice della Dia registra le sue parole, a Levorato di usare i suoi appoggi politici nel Governo di centrosinistra (allora guidato da Letta) per favorire la nomina di Antonio Rognoni, allora presidente della società Infrastrutture Lombarde che si occupa degli appalti dell’Expo, alla guida dell’Anas. Frigerio dice: “io gli ho detto che una mano gliela do, per quello che posso fare io , della parte di Governo con cui ho rapporti io. Questa è una carta che può servire anche a lei perché un pezzo di Govemo ce l’ha anche lei … forse anche di più”. Frigerio suggerisce di piazzarlo al posto di direttore dell’Anas e Levorato non si scandalizza. In una conversazione intercettata c’è anche una telefonata del febbraio scorso in cui Frigerio sostiene di volersi mettere in contatto con Lorenzo Guerini, il nuovo portavoce della segreteria, il volto nuovo del Pd di Matteo Renzi. Il 24 febbraio scorso Frigerio dice all’amico Cattozzo “devo parlarne con Guerini” e Cattozzo replica: “devo organizzare un incontro con te e Guerini così lo tiriamo dentro, stiamo parlando di sette miliardi di lavoro”. Ma Lorenzo Guerini dice al Fatto: “Non li ho mai visti né sentiti. Non so chi sia questo Cattozzo”. Anche Pierluigi Bersani è tirato in ballo da Frigerio. L’ex parlamentare berlusconiano racconta di avere parlato con lui degli appalti dell’expo. Bersani al Fatto dice: “Pura millanteria non ho mai incontrato questa persona. Non mi sono mai occupato di queste questioni”.
La giustizia è e rimane la vera questione politica in Italia, scrive Fabio Camilleri su “La voce di New York”. Gli ultimi “clamorosi arresti” quali monotone variazioni sul tema. E mettere la testa sotto la sabbia non serve, a meno di non volerla perdere. A Milano arrestano l’Expo, a Reggio Calabria arrestano l’ex ministro Claudio Scajola e, per non restare indietro con la campagna elettorale, arresta pure la Camera dei Deputati, autorizzando i ceppi per Francantonio Genovese, deputato del partito Democratico, già sindaco di Messina. Per una volta, provo a ritenere che siano stati raccolti sufficienti indizi di colpevolezza in ciascuno di questi casi. Solo che rinchiudere in prigione prima del processo, lo sanno ormai anche i muri, dopo ventidue anni di ManiPulite Continua, è possibile se ricorrono uno o più dei “pericoli” per il processo medesimo: e cioè che l’inquisito si dia alla macchia, oppure che ricada nel peccato, o, infine, che provi a strappare le carte del Pubblico Ministero. Gli stessi muri di prima sanno che queste ultime generalmente sono tutte previsioni (di legge) che si autoavverano. In concreto, il pericolo c’è se chi accusa lo afferma. Perciò non ci resta che giurare in verba magistri: se li hanno arrestati, evidentemente un motivo c’era. Così va in Italia e così, per una volta, vorrei provare a ritenere anch’io. Solo che la mia buona volontà Legge e Ordine viene subito messa alla berlina. Già Scajola ristretto (in via cautelare) perché avrebbe aiutato un condannato per un reato di dubbia oggettività (“vicinanza”, “sostegno intermittente”, “contatti” “conoscenze” e via enumerando da una secolare coscienza, si dice per dire, inquisitoria) a fuggire, da uno stato in cui era legittimamente libero (gli Emirati Arabi Uniti, che avevano rigettato le richieste italiane) ad uno (il Libano) in cui è invece possibile l’arresto (come per Dell’Utri), qualche scossone alle mie buone intenzioni lo dà subito. Ma il vero tormento viene da Milano. Perché il Procuratore Aggiunto Robledo ha formalmente espresso il suo dissenso sull’indagine Expo, e non ha controfirmato, come gli altri, l’ordinanza di custodia cautelare? Perché il Procuratore Capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti”? Prima, possibile, risposta. Sono cosucce, miserie burocratiche; allora la conferenza stampa risulterebbe una tribuna vistosamente sproporzionata per una bega interna. Seconda, possibile, risposta. No, in effetti non sono proprio cosucce, tanto è vero che si è aperto un conflitto pure innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura; allora non è chiaro in che cosa consista “l’impostazione dell’inchiesta”. Se le manette hanno fondamento, allora è grave che un alto magistrato, con funzioni direttive, faccia mancare la sua approvazione in un momento così delicato, qual è la presentazione al pubblico, sia pure al pubblico-bue dei risultati di un’indagine preliminare così significativa. Se è fondata l’opposizione, allora è grave che un altro alto magistrato con funzioni direttive abbia chiesto la custodia cautelare, nonostante un così incisivo dissenso sui contenuti dell’indagine. C’è una terza ipotesi, però. Che il contrasto non sorga realmente dai contenuti dell’indagine, ma che riduca questi ad un semplice sfondo spendibile sul piano formale, su cui possano ergersi maestose le supreme ragioni del “riparto dei fascicoli”. Sarebbe l’ipotesi peggiore, se possibile. Significherebbe la manifesta e totale strumentalità delle indagini rispetto a vicende di rango, se così si può dire, eminentemente personale. E le persone in galera? E noi che osserviamo? Insisto: se gli arresti per la vicenda Expo sono fondati, cioè vi sono elementi sufficienti di colpevolezza e così via, non si può discettare di “impostazione dell’inchiesta” e inscenare un improbabile aventino procuratorio; se, invece, “l’impostazione dell’inchiesta” non è questione di “incompetenza per scrivania”, ma è locuzione che tradisce verità contenutistiche, rimaniamo col dubbio che la libertà personale di un certo numero di persone sia stata impropriamente mutilata, senza però, che ci si spinga oltre una sorta di arbitrato interno, eretto, con regale indifferenza, su carne viva. E sorvolo sul timing. Questa ulteriore espressione di eccellenza istituzionale e civile dovrebbe interessare anche il Governo in carica. Invece, la custodia permessa nei confronti dell’On. Genovese, quanto al Partito Democratico, olezza di viltà preelettorale. L’indagine che lo riguarda è aperta da anni; ha già attinto alla moglie, amici, collaboratori e vari altri soggetti; aveva ripetutamente espresso l’autodafè contemporaneo (“dichiaro la mia piena fiducia nell’operato della magistratura”, o formula equivalente), gli indizi sono acquisiti e stanno ormai macerando come neanche i mosti d’annata; dunque, l’arresto preventivo serve per “comunicare”. Ignorare le implicazioni allusive delle “indagini sensibili” non serve, caro Renzi. Significherebbe riconoscere di essere sotto tutela. Se vuole fare qualcosa di nuovo, di veramente politico e nobile, il Presidente del Consiglio deve intestarsi la questione giustizia e calarvi con la scure di Gordio: carriere, CSM, responsabilità civile, nuovi codici, soprattutto, nuovo Ordinamento Giudiziario, non a carriera “automatizzata”: altrimenti, può già preparare il collo; e la testa non la salva nemmeno se la ficca cinque metri sotto la sabbia dell’ignavia. L’annunciato trionfo elettorale, se non agisce in questa direzione, servirà solo ad amplificare il tonfo della caduta.
Ancora manette in favore di tv. L'arresto di Scajola e l'agghiacciante parabola di questi 20 anni. Da Renzi ci si aspetta il segno di una riforma intellettuale e morale, Fabrizio Rondolino su “Europa Quotidiano”. Il nostro codice di procedura penale, all’articolo 274, è molto chiaro: le «esigenze cautelari», cioè l’obbligo di arresto, necessitano di tre requisiti essenziali: il rischio di inquinamento delle prove («purché si tratti di pericolo concreto e attuale»), il rischio di fuga dell’imputato, il rischio di reiterazione del reato. È molto difficile ravvisare nell’arresto di Claudio Scajola la presenza anche di un solo requisito richiesto dal codice. Scajola non stava fuggendo (e, nel caso, sarebbe bastato ritiragli il passaporto come per esempio è accaduto con Berlusconi), non inquinava nessuna prova perché al momento prove contro di lui non ce ne sono, né tantomeno era in procinto di reiterare il reato. Già, il reato. Di che cosa è accusato l’ex ministro? Secondo la Dia di Reggio Calabria, Scajola avrebbe intrattenuto rapporti “sospetti” con Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare del Pdl Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (un reato a sua volta di assai incerta definizione), e avrebbe “interessato” un faccendiere italiano con interessi in Libano – lo stesso implicato nella fuga di Dell’Utri – per favorirne la latitanza. La parabola di questi vent’anni è agghiacciante. Nel fuoco di Tangentopoli un isolato deputato missino agitò le manette nell’aula di Montecitorio e fu, giustamente, subissato di critiche. E molti, se non tutti, si scandalizzarono alle immagini di Enzo Carra, allora portavoce di Forlani, ammanettato come un assassino colto in flagrante. Oggi la galera ha sostituito l’avviso di garanzia, fra gli applausi della plebe urlante (che spesso e volentieri magari passa col rosso, non paga le tasse e devasta gli stadi) e di mezzo sistema politico. Non era necessario arrestare Scajola, e tanto meno era necessario allestire una gogna pubblica, chiamando giornalisti, fotografi e telecamere come se si trattasse di una conferenza stampa o di un reality show. E non era neppure necessario richiedere l’arresto di Francantonio Genovese, il deputato del Pd coinvolto nell’inchiesta della procura di Messina sui finanziamenti alla formazione professionale: eppure la Giunta per le autorizzazioni, con il voto decisivo di un Pd evidentemente spaventato dalla campagna elettorale, ha concesso senza batter ciglio ciò che i pm chiedevano. Lasciamo da parte, per favore, la solita stucchevole retorica sulla presunzione d’innocenza e sulla piena fiducia nell’operato dei giudici. In Italia da molti anni non è così, le sentenze si emettono prima dei processi (mentre spesso i processi si concludono con un nulla di fatto) e vale invece, sempre, la presunzione di colpevolezza, tanto più se sei un politico. I politici, come per esempio sostengono ormai apertamente Travaglio o Grillo, si dividono in inquisiti e non ancora inquisiti. Ai primi le manette in favore di telecamera, ai secondi il sospetto incancellabile. Può andare avanti un paese così? No, non può. Non si cura la rabbia con la vendetta, non si placa l’indignazione (spesso giustificata) con l’esemplarità del gesto inquisitorio. Succede invece l’esatto contrario, in una spirale di rancore e di rivalsa dalla quale, alla fine, nessuno può sperare di salvarsi. Soprattutto, nessuno può sperare che così si ricostituisca una civiltà giuridica ormai dispersa e si gettino le basi di una nuova, indispensabile etica pubblica. Da Matteo Renzi, che alla sua ultima Leopolda prima di diventare segretario del Pd e presidente del consiglio aveva pronunciato parole importanti e impegnative sulla giustizia, ci si aspetta non una battuta più o meno polemica né tantomeno una guerra ideologica e personalissima “a la Berlusconi”, ma il segno di un cambiamento culturale, psicologico, emotivo – di una riforma intellettuale e morale.
La bufala della "giustizia a orologeria": nel 2014 almeno 27 fra condanne, arresti, indagini e prescrizioni, scrive Claudio Forleo su “International Business Times”. Ecco, puntuali come un orologio rotto che segna l'ora giusta solo due volte al giorno, arrivare i commenti dei soliti fenomeni che vedono negli arresti di oggi non una classe politica marcia fino al midollo, ma il solito complotto ordito dalle toghe politicizzate. E' la colossale balla della "giustizia ad orologeria", quella che si farebbe viva solo prima delle Elezioni, allo scopo di condizionare il voto. Lo sostiene Elisabetta Gardini, candidata alle Europee nel partito di Berlusconi: "Avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente". Le fa eco su Twitter Bruno Vespa, uno che ama solo i processi 'alla Cogne', non quelli ai politici. "Arresti eccellenti in campagna elettorale. Giusto per rendere il clima più sereno e trasparente". Chiaro, no? Se un ex ministro dell'Interno, fino all'altro ieri in corsa per un posto alle Europee, viene accusato di aver aiutato la latitanza di un condannato per mafia, chi se ne frega! Se si vota ogni anno (Politiche, Europee, Comunali, Regionali) e se la classe dirigente si fa arrestare, condannare o indagare almeno una volta al mese, è ovviamente colpa dei magistrati che fanno politica e che avvelenano il clima. Teoria riciclata anche quando le elezioni non sono alle porte. Qualsiasi arresto, sentenza o apertura di indagine è sempre 'a orologeria', che sia Ferragosto o Natale una 'spiegazione' si trova sempre. Purtroppo per questi teorici del complotto di serie Z notizie del genere sono le più frequenti quando si parla di politica in Italia, voto o non voto. Da gennaio ad oggi contiamo almeno 3 condanne, 6 rinvii a giudizio, 6 arresti o richieste di arresto (compresi i casi Scajola, Greganti e Frigerio) 10 aperture di indagini e 2 prescrizioni.
Parlamentari, ministri, candidati, consiglieri regionali, membri di spicco dei partiti (presenti e passati). Ecco il dettaglio:
2 maggio: Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, poi senatore del PD, condannato a otto anni di carcere per appropriazione indebita. Avrebbe intascato 25 milioni di euro.
16 aprile: Maurizio Gasparri, ex ministro e vicepresidente del Senato, rinviato a giudizio per peculato. Si sarebbe appropriato di una somma pari a 600mila euro dell'allora gruppo PDL per intestarsi una polizza sulla vita.
11 aprile: richiesta d'arresto per Marcello Dell'Utri. Il braccio destro di Silvio Berlusconi che, pur non facendo più politica attiva, resta il padrino di Forza Italia che riscrive la Costituzione con Renzi. Ma la "persona perbenissimo" (copyright dell'ex premier) fugge a Beirut. La richiesta di estradizione è di 48 ore fa.
3 aprile: nuovo arresto per Nicola Cosentino, già reduce da svariati mesi a Secondigliano (solo dopo aver perso il seggio da parlamentare), poi tornato a fare politica attiva con Forza Campania e ad incontrarsi con Denis Verdini nei giorni che precedono la nascita del governo Renzi. L'accusa è di concorrenza sleale ed estorsione con metodo mafioso.
1° aprile: chiusa indagine sulle spese pazze nella Regione Campania e notifica dell'atto, che in genere precede la richiesta di rinvio a giudizio, per Umberto Del Basso De Caro (PD, sottosegretario alla Sanità), Domenico De Siano ed Eva Longo (senatori di Forza Italia). Per tutti l'accusa è di peculato.
31 marzo: Silvio Berlusconi incassa l'ennesima prescrizione, la settima della sua 'carriera', nell'ambito del procedimento Fassino-Consorte. Dopo la condanna in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d'ufficio, la Corte d'Appello di Milano dichiara il reato estinto.
27 marzo: il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, da poco passato con il NCD di Alfano, viene condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per aver firmato falsi bilanci all'epoca in cui era sindaco di Reggio Calabria, Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose, il primo capoluogo di provincia nella storia d'Italia a subire questo provvedimento. Scopelliti, che avrebbe comunque dovuto lasciare la carica per effetto della legge Severino, non fa una piega, come il ministro degli Interni e leader del suo partito: candidato alle Europee.
27 marzo: l'ex tesoriere dell'UDC Giuseppe Naro è condannato ad un anno di reclusione per concorso in finanziamento illecito ai partiti: avrebbe intascato dall'imprenditore Di Lernia una tangente da 200mila euro.
26 marzo: Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC e candidato alle Europee, è indagato per finanziamento illecito nell'inchiesta su tangenti e fondi neri che coinvolge Finmeccanica e il SISTRI, il sistema di tracciabilità dei rifiuti mai entrato in funzione.
19 marzo: richiesta d'arresto per il deputato del Partito Democratico Francantonio Genovese, re delle preferenze alle parlamentarie PD, ras di Messina e dintorni. portatore di conflitti di interesse e soprattutto re della formazione professionale in Sicilia. Lui si 'autosospende' dal partito, in compenso i colleghi della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio se la prendono comoda: Genovese resterà al suo posto almeno fino a dopo le Europee. Ma guai a parlare di 'ritardi ad orologeria', sono solo molto scrupolosi.
3 marzo: l'ex presidente della Regione Lombardia, oggi presidente della Commissione Agricoltura nonchè 'diversamente berlusconiano', il Celeste Roberto Formigoni, viene rinviato a giudizio. per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Sanità: la sua Giunta, nel corso degli anni, avrebbe adottato provvedimenti favorevoli ad aziende private, in cambio di viaggi e regali di varia natura.
Marzo: al sottosegretario alla Cultura Francesca Barraciu, già indagata per peculato in Sardegna, vengono contestati altri 40mila euro di rimborsi non giusitificati ottenuti all'epoca in cui era consigliere regionale. La posizione della Barraciu si aggrava nonostante le rassicurazioni arrivate dal PD sul chiarimento che il sottosegretario avrebbe offerto ai magistrati.
28 febbraio: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi è indagato per concorso in abuso di atti d'ufficio per la nomina all'Authority di Olbia di un ex deputato del PDL, Fedele Sanciu, il quale non avrebbe i titoli per ricoprire tale incarico.
27 febbraio: Filippo Penati, accusato di concussione a Monza nell'inchiesto sulle tangenti del cosiddetto 'sistema Sesto' incassa la prescrizione nonostante avesse più volte dichiarato di volerci rinunciare.
21 febbraio: l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini sono indagati per finanziamento illecito relativamente ad una provvista di denaro di 25mila euro, che sarebbe stata "realizzata con false fatture di Accenture e destinata ad un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici".
28 gennaio: Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche Agricole, viene iscritta nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle nomine all'ASL di Benevento.
23 gennaio: Silvio Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano nel terzo filone di inchiesta sul caso Ruby (per cui ha già ricevuto una condanna in primo grado a sette anni). Per lui e gli avvocati-parlamentari Longo e Ghedini l'accusa è di corruzione in atti giudiziari.
16 gennaio: richiesta di rinvio a giudizio per l'ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota e per altri 39 consiglieri regionali. L'inchiesta è ancora sul grande scandalo delle spese pazze.
14 gennaio: Davide Faraone, membro della segreteria PD, è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze nella Regione Sicilia.
Una lista infinita, e abbiamo considerato solo l'anno in corso. Ma condanne, imputazioni o indagini a carico non limitano la carriera dei politici o dei manager che orbitano nella stessa galassia. Nonostante il rinvio a giudizio per la strage di Viareggio (disastro colposo plurimo), Mauro Moretti è stato scelto dal governo Renzi come AD di Finmeccanica. Paolo Scaroni ha guidato l'ENI per un decennio nonostante una condanna ricevuta durante Mani Pulite e altre indagini a carico. Come dimenticare le liste dei partiti per le prossime Europee, piene di impresentabili, come abbiamo riassunto nell'articolo dello scorso 17 aprile. Quella della giustizia ad orologeria è una bufala, mentre una bella indagine a carico, meglio ancora una condanna, fa curriculum.
Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco. Dalle carte del Csm sullo scontro tra Bruti e il suo vice Robledo spuntano anomalie anche per assegnare il caso Expo. Le nuove accuse del pg Minale. E il procuratore capo attacca i pm. Scomparsa gli indagati per mafia dal fascicolo sull'esposizione 2015, scrivono Michelangelo Bonessa eLuca Fazzo su “Il Giornale”. Che fine hanno fatto le accuse di associazione mafiosa che Ilda Boccassini ha utilizzato per conquistare la gestione dell'inchiesta sugli appalti dell'Expo? Di queste accuse, nell'ordine di custodia eseguito l'altro ieri mattina, quello che ha portato in carcere tra gli altri Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, non c'è più traccia. E così anche di questo dovrà occuparsi il Consiglio superiore della magistratura, che la prossima settimana interrogherà tra gli altri proprio la Boccassini: e dovrà capire se lo scontro in corso a Milano sia figlio di protagonismi personali e di «populismo giudiziario», come sostiene ieri il procuratore Bruti Liberati. O se invece, come afferma il principale accusatore di Bruti, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, a Milano una ristretta cerchia di magistrati, tutti più o meno legati a Magistratura Democratica, si impadronisca di tutti i fascicoli più delicati in violazione delle regole della stessa Procura. Nelle carte già in mano al Csm ci sono già alcuni dati di fatto da cui sarà impossibile distaccarsi. Sono i punti fermi che ha messo Manlio Minale, l'anziano procuratore generale, spiegando al Csm che in almeno due casi non è stata attivata la «necessaria interlocuzione» con Robledo, modo ostico per dire che il procuratore aggiunto è stato scavalcato, e che nell'inchiesta sulla Serravalle, che lambiva il Comune di Milano, il ritardo di Bruti nell'avviarla «ha pregiudicato le indagini». Ma davanti al Csm, Minale ha parlato anche di Expo, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. Al Csm, Robledo aveva denunciato come una plateale anomalia il fatto che una inchiesta per reati di corruzione non fosse coordinata da lui, competente per questi reati, ma da Ilda Boccassini, ovvero dal pool antimafia. Ed ecco quanto dichiara Minale: «Robledo era portatore di un convincimento assoluto, che in quel procedimento ci fossero solo reati contro la pubblica amministrazione» e che dunque lui «fosse stato ingannato e messo da parte (...) tant'è che anche ultimamente ho detto: Guarda che io voglio essere tranquillo, mi sono fatto dare le iscrizioni e risultano iscritti alcuni indagati per 416 bis», cioè per associazione mafiosa. Così, con la presenza anche di un filone mafioso dell'indagine su Expo, si giustificherebbe la presenza della Boccassini nell'inchiesta. Ma l'altro ieri vengono eseguiti gli arresti, e nell'ordine di cattura non c'è traccia di accuse di mafia. Nella retata dell'Expo si parla di appalti, di tangenti, di politica, ma non di Cosa Nostra né di 'ndrangheta. E allora, che fascicolo venne fatto vedere a Minale, con le accuse di associazione mafiosa? Forse i vecchi fascicoli sulla penetrazione 'ndranghetista in Lombardia, da cui ufficialmente scaturisce l'inchiesta Expo. Ma è una parentela assai remota, passata per mille passaggi successivi. Non era certo di quei filoni, che Robledo si sentiva spodestato per scarsa affidabilità politica. Proprio ieri, per andare al contrattacco Bruti Liberati sceglie un convegno all'università Statale. E lì afferma esplicitamente che il «populismo giudiziario è un virus endemico nei corridoi delle Procure della Repubblica, ma da noi a Milano ha potenti antidoti». La frase di Bruti parte da una citazione di un libro di Luigi Ferrajoli, padre fondatore di Magistratura Democratica, che si riferiva soprattutto a Antonio Ingroia, capofila di quei pm che «cercano di costruire un consenso popolare non solo alle proprie indagini ma anche per la propria persona». Ma questo, per Bruti, è anche il caso di Alfredo Robledo. E quei «potenti antidoti» di cui parla ieri Bruti sembrano voler dire che il procuratore è convinto di uscire vincente dallo scontro, in cui si sente attaccato non in nome della trasparenza ma del «populismo» e dell'ambizione personale.
Stefania Craxi: "Ora l'Italia chieda scusa a mio padre". La figlia dello statista socialista accusa i metodi da «Mani pulite»: "Una vergogna le modalità dell'arresto di Scajola e i processi aperti sulla stampa per Expo 2015", scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «In questo paese sarebbe venuta l’ora di chiedere scusa a Bettino Craxi….». Dopo l’ondata di arresti di giovedì 8 maggio 2014, che hanno resuscitato stili e metodi spettacolari da «Mani pulite» e che hanno fatto parlare di «una nuova Tangentopoli», Stefania Craxi in questa intervista a Panorama.it invita ad andare a rileggersi il celebre e inascoltato intervento dello statista socialista alla Camera nel luglio 1992.
Ora quelle parole cadute nel vuoto perché tornano secondo lei più che mai attuali?
"In un coraggiosissimo discorso di fronte al parlamento e alla nazione Craxi denunciò la degenerazione alla quale era arrivata la società italiana e chiamò la politica del tempo a porvi un rimedio. Ma seguì un vile silenzio. In questi vent’anni hanno fatto come le scimmiette: non vedo, non parlo, non sento. Il degrado è andato avanti di pari passo con una Giustizia che utilizza spesso due pesi e due misure. Due fenomeni che sono andati a braccetto. Certi magistrati dalla tentazione golpista, favoriti anche da una politica imbelle, hanno fatto avanzare la corruzione. Se prima c’era qualche corrotto, ma la politica era forte, ora non conta più la politica, contano solo le lobby e gli affari. L’Italia somiglia sempre più a un paese del Sudamerica che non a un paese moderno e occidentale".
Che effetto le ha fatto rivedere le stesse scene di vent’anni fa e le paginate dei giornali che ricalcano gli stessi schemi del processo mediatico? Da una lato, l’ex ministro Claudio Scajola, arrestato di fronte a una marea di telecamere e fotografi, si dice avvisati per tempo, dall’altro ondate di verbali di intercettazioni riversate sulla stampa, da Scajola all’inchiesta Expo 2015…
"Il metodo dell’arresto di Scajola è una vera vergogna. E la vergogna di processi che avvengono prima sulla stampa che nell’aula di tribunale continua. Anche un colpevole ha diritto a non avere la gogna. E poi i contorni dell’inchiesta Expo sono pochi chiari perché tutto avviene all’interno di uno scontro di potere dentro la mitica Procura di Milano".
Che opinione si è fatta?
"I tempi e i modi di questi nuovi arresti non sono estranei a questo scontro dove c’entrano protezioni, coni d’ombra. Tutto si consuma in una contrapposizione dove è emersa con molta chiarezza la voglia da parte di certi magistrati di protagonismo e di avere assegnate le inchieste di grido. Questa è la novità".
Gli arresti dell’8 maggio avvengono a meno di due settimane dal voto europeo. La tempistica fa sempre riflettere?
"Avvengono come al solito a pochi giorni dalla elezioni. C’è un uso improprio della custodia cautelare, che è anche un costo sociale abnorme per le nostre carceri e i cittadini. A leggere i giornali italiani sembra la sceneggiatura della stessa telenovela, con le medesime formule giornalistiche, tipo la cupola, la cupola massonica internazionale…Ma dove è?".
Che impatto politico avranno questi nuovi arresti?
"Questo spettacolo indecente è chiaro che favorirà Beppe Grillo che è un sintomo anche grave di un sistema malato. La sinistra ha sparso il morbo giustizialista che è entrato nelle vene dell’elettorato italiano mischiandosi a un impasto di invidia sociale e odio verso i potenti, aggravato da una politica che non ha saputo dare risposte. Nella Prima Repubblica i difetti c’erano, non a caso mio padre parlò di Grande Riforma già nel 1979, ma c’erano anche le regole, a cominciare dall’articolo 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare, ora invece sono rimasti i difetti ma sono saltate le regole".
È un fatto che la giornata degli arresti avviene dopo che Silvio Berlusconi è tornato centrale per fare le riforme, non a caso è stata Forza Italia a salvare Matteo Renzi al Senato. Che ne pensa?
"Da un lato c’è un giustizialismo che ha offuscato le menti e generato mostri, e poi c’è sempre una regia da parte di poteri neppure tanto dichiarati. Quelle di Renzi sono riformicchie, riforme fatte un tanto al chilo, ma è chiaro che quello che è successo è volto a far saltare il banco. Questo premier che sembra uscito dalla penna di Collodi elude la riforma della Giustizia. E intanto il Pd l’altro giorno in commissione ha votato contro la responsabilità civile dei magistrati".
Expo all’italiana: tangenti, pizzini e liti in procura. Scrive Tommaso Caldarelli su “Giornalettismo”. Caos totale a Milano: spuntano nuovi appalti truccati. E in Tribunale i pm litigano. Expo Milano 2015, il lavoro per i magistrati sembra non avere fine: spuntano nuovi guai giudiziari, nuovi appalti truccati e nuove tangenti. Come se non bastasse, davanti al Consiglio superiore della Magistratura è compiutamente uscita fuori la frattura all’interno della Procura di Milano, con il Procuratore Generale Edmondo Bruti Liberati che replica alle accuse del suo vice Alfredo Robledo, sostenendo che egli abbia intralciato il corso delle indagini. Insomma, veleni in procura: ne abbiamo parlato ieri raccontando della guerra di note inviate al Csm che in qualche modo dovrà dirimere la patata bollente. Lo scontro fra i due cavalli di razza, Bruti Liberati e Robledo, con il primo che accusa il secondo di intralcio alle indagini (ricorda Paolo Colonnello sulla Stampa: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della Guardia di Finanza” con il rischio che il pedinato scoprisse di esserlo. Solo l’abilità del personale operativo ha scongiurato questo rischio) e il secondo che accusa il primo di tenerlo fuori dall’indagine, attraverso un esposto al Csm che ha fatto finire, però, tutte le carte dell’inchiesta Expo sui giornali e sui settimanali come Panorama ben prima che fosse opportuno. Intanto i pubblici ministeri scoprono nuovi appalti truccati. Ancora il giornalista della Stampa racconta che l’imprenditore Enrico Maltauro da Vicenza, il principe delle tangenti della vicenda Expo Milano avrebbe versato a Giuseppe Cattozzo, esponente dell’UdC ligure, qualcosa come un milione di euro complessivamente, in più forme: contanti, fatture false, una bella Audi da 60mila euro. La domanda è: “Se Maltauro per un paio di appalti aveva versato quasi un milione e promessi altri 600mila euro, gli altri imprenditori per gli appalti sulal Sanità lombarda che rappresentano oltre il 90% di questa inchiesta, quanto hanno pagato?”. Sembra, moltissimi soldi, ed è per questo che una rogatoria con la Svizzera è già stata avviata. E con ogni probabilità si aprirà anche una “fase due dell’inchiesta”, con “file di imprenditori schierate in procura per confessare corruzioni e tangenti”. Secondo il sondaggio della Stampa “si è aperta una nuova tangentopoli”; ma non è tutto. Dall’ordine di arresto del manager Expo Angelo Paris risulta che la cupola degli appalti (i magnifici tre: Frigerio, Grillo, Greganti) aveva accesso libero ad Arcore, da Silvio Berlusconi, e buoni agganci a Palazzo Lombardia da Roberto Maroni: con sempre nelle mani i famosi “pizzini” sui quali sono annotati gli uomini delle tangenti e le percentuali da esigere. L’uomo del contatto è Gianni Rodighiero, collaboratore di Sergio Frigerio, che in più occasioni è ricevuto ad Arcore – e in un caso, lo stesso Frigerio è con lui: principalmente “di lunedì e di venerdì”, dicono i protagonisti dell’inchiesta; solo che, in tempi più recenti, bisogna stare più attenti, si dicono al telefono, per scansare “il cerchio magico di Silvio Berlusconi”. Per quanto riguarda Roberto Maroni e la regione, le carte riportate da Pietro Colaprico ed Emilio Randacio su Repubblica sembrano dimostrare che Roberto Maroni è stato agganciato una volta “per caso” e sarebbe stato proprio il presidente a sollecitare Frigerio “per il lavoro sulle vie d’Acqua”, aggancio che poi lo stesso Frigerio si rivendica, al telefono. Il figlio, Frigerio Gianluigi, “risulta essere un funzionario di Regione Lombardia”: insomma, Frigerio, in regione, possiede “maniglie solide” di cui non esita a vantarsi ogni volta che è possibile.
Una nuova tangentopoli su Expo 2015. Il blitz, scattato alle prime luci dell'alba del 8 maggio 2014, ha portato all'arresto di sette persone, tra cui il top manager Paris e l'ex parlamentare Grillo ma anche vecchie conoscenze come Greganti e l'ex dc Frigerio. L'accusa è di aver pilotato e gonfiato gli appalti dell'Esposizione universale, scrive “Panorama”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, nomi che riportano indietro di oltre vent'anni le lancette dell'orologio della cronaca giudiziaria e, in parte anche di quello del Paese. C'è poi quello di Luigi Grillo, ex parlamentare ligure che i suoi guai giudiziari (per poi essere assolto in appello) li ebbe in tempi più recenti, con la scalata della Banca popolare italiana ad Antonveneta nel 2005, quella dei "furbetti del quartierino". Greganti, Frigerio e Grillo ora sono in carcere per una complicata vicenda di appalti, legata anche ad Expo: Frigerio quale "capo, promotore ed organizzatore dell'associazione, con funzioni direttive e di coordinamento degli altri associati". Greganti e Grillo quali "organizzatori incaricati dell'attività di raccordo con il mondo politico, sia con finalità di copertura e protezione in favore dell'imprese di riferimento, sia con finalità di appoggio ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto allo scopo di assicurare agli stessi sviluppi di carriera nell'ambito degli enti e delle società pubbliche quale corrispettivo del trattamento preferenziale riservato alle imprese". Tradotto: associazione a delinquere, turbativa d'asta, corruzione. Il blitz, imponente, che ha coinvolto oltre 200 finanzieri, è scattato a Milano, alle prime luci dell'alba. Gli ordini di cattura sono sette. L'accusa, sostanziata anche da alcune intercettazioni definite clamorose dai pm milanesi, è quella di turbativa d'asta e associazione per delinquere per pilotare e gonfiare i prezzi degli appalti pubblici, tra cui quelli di Expo 2015. Tra coloro che sono stati raggiunti dall'ordine di custodia cautelare ci sono nomi pesantissimi. C'è Angelo Paris, 48 anni, il top manager di Expo. C'è l'ex dc ed ex parlamentare di Forza Italia, Luigi Grillo, passato armi e bagagli nelle fila dell'Ncd di Angelino Alfano. Ci sono vecchie conoscenze di Mani Pulite che avevamo dimenticato, come Primo Greganti, il compagno G, l'ex cassiere del Pci che rifiutò ogni collaborazione con i magistrati nei primi anni 90. O Gianstefano Frigerio, l'ex segretario regionale della Democrazia cristiana, finito già allora in carcere con un passato anche come parlamentare di Forza Italia, arrestato insieme al suo collaboratore Sergio Cattozzo, ex segretario Udc Liguria. E ancora, il costruttore di riferimento del gruppo, il vicentino Enrico Maltauro (che versava secondo i pm «30-40mila euro al mese» in contanti o come fatturazione di consulenze alla «cupola degli appalti»); Antonio Rognoni, di Infrastrutture Lombarde, la stazione appaltante voluta da Roberto Formigoni, già accusato - nell'ambito della stessa inchiesta - di aver pilotato appalti a favore di aziende amiche e gonfiato di almeno due milioni di euro di spese ingiustificate (mascherate come consulenze) i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza. Un gruppo di immobiliaristi, politici e faccendieri, secondo la ricostruzione dei pm Claudio Gittardi (pool antimafia) e Antonio D’Alessio (anticorruzione), che - muovendosi per tempo sulla base delle informazioni riservate cui non avevano accesso i concorrenti - si intascavano percentuali di tangenti, si aggiudicavano grazie alle loro amicizie appalti pubblici chiave (come quello di Expo per l'assegnazione delle case per le delegazioni straniere o il progetto definito 'Le vie d’acqua') gonfiandone i prezzi e azzerando la concorrenza pulita. Avevano anche una sede, il circolo culturale «Tommaso Moro», che per dirla con Bruti Liberati «nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe immaginato». L'inchiesta (un faldone di 600 pagine in cui compaiono anche i nomi, ma non sono indagati, di Maurizio Lupi, Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani e Cesare Previti) su cui i pm lavoravano da mesi ha subito un'accelerazione dopo che sono state registrate alcune intercettazioni compromettenti che sarebbero giunte fino ai primi mesi del 2014. "Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera" avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere finiti agli arresti. Ne emerge, dagli incartamenti, una «cupola degli appalti» in Lombardia, con un meccanismo operativo definito dai pm molto semplice che puntava a intascarsi percentuali di guadagno sugli appalti pubblici chiave non solo di Expo ma anche di altri grandi lavori pubblici: quando c’era una gara d’appalto giudicata interessante, l’associazione diretta da Frigerio avvicinava il pubblico ufficiale competente, utilizzando gli appoggi e le amicizie politiche che poteva vantare. Al sodalizio criminale venivano comunicati in anticipo i bandi di gara interessanti, con le caratteristiche utili da presentare per poterseli aggiudicare rispetto a eventuali concorrenti. La squadra operava insomma «in modo coordinato», coinvolgendo aziende legate a diversi partiti politici nei quali trovavano protezione. La promessa di carriera e promozione - secondo i pm - diventava la leva fondamentale per coinvolgere i nuovi adepti. Tra i lavori pubblici su cui il gruppo aveva rivolto le sue mire ci sono anche (per un valore di bandi di gara di 323 milioni) i lavori della Città della Salute di Sesto San Giovanni, gli appalti e le presunte finte consulenze gonfiate per i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza, la Pedemontana e la gestione dei servizi di supporto non sanitari rivolti alle due Fondazioni IRCCS Carlo Besta e Istituto Nazionale dei Tumori. «La politica non metta becco sulle indagini» ha dichiarato Matteo Renzi a Genova, nell'ambito di un'iniziativa di Ansaldo Energia.
La confessione di mister Expo. «Appalti in cambio di protezioni». Prime ammissioni di Paris, il manager chiave dell'inchiesta: «E' vero, ho favorito Frigerio e Greganti, perché ero isolato e mi servivano appoggi politici per la carriera. Ho sbagliato, ora mi dimetto». Oggi due interrogatori paralleli per l'industriale Maltauro e il politico Udc Cattozzo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Prima svolta nell'inchiesta sugli appalti dell'Expo. Angelo Paris, il direttore tecnico arrestato per associazione per delinquere, ha confessato già nel primo interrogatorio i fatti fondamentali che gli vengono contestati dai pm milanesi: ha ammesso di aver fornito informazioni riservate sugli appalti dell'Expo alla cosiddetta “cupola” politica guidata dall'ex democristiano poi berlusconiano Gianstefano Frigerio e dall'ex comunista poi democratico Primo Greganti, entrambi ora in carcere. Paris ha anche confermato di aver chiesto, in cambio, l'appoggio dei due faccendieri politici per la sua futura carriera di manager pubblico, candidato in particolare a guidare la società regionale Infrastrutture Lombarde dopo il duplice arresto dell'ex numero uno ciellino Antonio Rognoni. In questo primo interrogatorio, molto sofferto, Paris ha ammesso di aver fatto questi «errori» e di volersene assumere la «responsabilità» presentando subito le dimissioni. L'ex manager, inoltre, ha cominciato anche a spiegare a grandi linee le ragioni che lo avevano spinto a mettersi a disposizione dei faccendieri della “cupola degli appalti”: Paris ha detto che si sentiva sempre più «isolato» nella struttura dell'Expo e di aver concluso che proprio personaggi come Frigerio e Greganti potevano garantirgli quelle «protezioni politiche» che gli sembravano necessarie. Dopo queste prime ammissioni, Paris verrà nuovamente interrogato lunedì prossimo, questa volta dai magistrati dell'accusa, per chiarire e approfondire tutti i fatti e spiegare meglio i motivi per cui un tecnico dell'Expo possa pensare di dover chiedere «protezione politica» a due noti pregiudicati per corruzione, concussione e finanziamenti illeciti come Frigerio e Greganti, entrambi condannati con sentenza definitiva come tesorieri delle mazzette nella storica Tangentopoli esplosa nel 1992-1994. Le ammissioni di Paris, che occupava il ruolo chiave di responsabile del settore costruzioni e dell'ufficio contratti, rappresentano un'importante conferma della solidità dell'inchiesta coordinata dai pm Ilda Boccassini, Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. Una svolta, arrivata già nel primo interrogatorio di garanzia davanti al gip Fabio Antezza, che contraddice i dubbi sollevati invece dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel suo durissimo scontro con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva segnalato al Csm di non aver condiviso né firmato proprio le accuse rivolte a Paris. Per oggi sono fissati altri due nuovi interrogatori importanti: i pm, divisi in due squadre, sentiranno contemporaneamente Enrico Maltauro, l'industriale vicentino che ha già ammeso le prime tangenti, e Vito Cattozzo, il politico dell'Udc ligure che faceva da tramite tra Frigerio e l'ex parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo, curando i rapporti con il centrodestra e con le banche. Gli interrogatori contemporanei serviranno ad impedire ai due arrestati di poter concordare versioni di comodo, mentre i pm potranno contestare subito all'uno le eventuali ammissioni dell'altro, favorendo così dichiarazioni meno reticenti. Maltauro è il re degli appalti che è stato videoregistrato dagli investigatori della Dia mentre concordava e pagava tangenti, fino a consegnare di persona l'ultima bustarella con 15 mila euro pochissimi giorni prima degli arresti.
Expo, Bruti Liberati: "Robledo è stato d'intralcio alle indagini", scrive “Libero Quotidiano”. Nuovo atto nella violenta guerra tra toghe che sta sconvolgendo il pool di Milano. A riferire davanti al Consiglio superiore della Magistratura tocca a Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della procura meneghina, il "grande accusato" dal collega Alfredo Robledo. Bruti Liberati, in riferimento alla vicenda Expo, ha affermato che "le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini". La vicenda affonda le sue radici allo scorso marzo, quando Robledo aveva denunciato al Csm "fatti e comportamenti in essere dal procuratore della Repubblica, Edmondo Brunti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione". Le ragioni - In soldoni si tratta di un caso clamoroso che sta turbando la presunta armonia del pool di Milano: il magistrato (Robledo) denuncia il suo capo (Bruti Liberati). Perché? Perché Robledo si sente scavalcato a causa del fatto che, afferma, il capo assegnerebbe i fascicoli che riguardano reati contro la pubblica amministrazione (di cui sarebbe competente il suo ufficio) al pool reati finanziari, guidato dall'altro procuratore aggiunto, Francesco Greco, vecchia conoscenza di Mani Pulite. Oppure a Ilda Boccassini, la pm anti-Cav per eccellenza (la Boccassini è stata accusata dal pg di Milano, Manlio Minale, di non avere la titolarità dell'inchiesta Ruby; l'accusa è piovuta sempre nell'ambito dell'inchiesta avviata dopo l'esposto di Robledo). La battaglia - Lo scontro, in atto da mesi, è deflagrato nuovamente lo scorso giovedì, in parallelo all'esplosione dello scandalo Expo. Si è scoperto che Robledo non aveva firmato gli atti dell'inchiesta. Bruti Liberati, in una conferenza stampa in cui si era notata proprio l'assenza di Robledo, aveva spiegato che il collega "non ne condivide l'impostazione" e dunque "non ha vistato" gli atti dell'inchiesta Expo che non ha portato all'arresto di sette nomi di rilievo, e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre dodici persone, nonché a perquisizioni a Milano, Roma, Torino, Vercelli, Alessandria, Pavia, Lecco, Vicenza e Bologna. Ultimo atto - Ora, dunque, l'ultimo atto di questa vera e propria battaglia che tiene banco tra i corridoi dei tribunali di Milano, ossia l'accusa del capo (Bruti Liberati) al suo magistrato (Robledo) di aver "ostacolato" l'inchiesta Expo che sta mettendo a repentaglio l'organizzazione dell'evento e sta facendo tremare la politica italiana. Un'accusa pesantissima, e che non farà altro che dilatare il conflitto. Bruti Liberati e Ilda Boccassini da un lato, Alfredo Robledo dall'altro.
Bruti Liberati, Robledo e il doppio pedinamento. La querelle tra magistrati al vertice della Procura di Milano finisce in guerra. Ma un po' anche in farsa: perché è stato chiesto un pedinamento che era già stato disposto, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Lo scontro al vertice della Procura di Milano si alza improvvisamente di livello e diventa guerra guerreggiata. Il procuratore Edmondo Bruti Liberati, in una nota destinata al Consiglio superiore della magistratura che da oltre un mese sta affrontando la querelle aperta dal suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha scritto che le iniziative di quest'ultimo "hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sugli appalti dell'Expo, appena scoppiate con la retata dei mercoledì 7 maggio. Nella nota Bruti aggiunge che l'invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento ha anche "posto a grave rischio il segreto delle indagini". Ma qui, purtroppo, lo scontro scade in farsa. Perché Bruti cita un "doppio pedinamento" che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. Ecco che cosa annota il procuratore: "Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di finanza". Il procuratore aggiunge che "solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Si attendono ora altri "capitoli" dello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, e forse qualche conseguenza di tipo direttamente giudiziario. Robledo, qualche giorno fa, aveva spiegato al Csm le ragioni del suo mancato "visto" alle misure cautelari richieste per l’inchiesta sull'Expo: il numero 2 della procura aveva lamentato di non essere stato messo in condizioni dal procuratore Bruti Liberati, «in violazione della normativa», di fare una valutazione sulla posizione di uno degli indagati. In precedenza, Robledo aveva accusato il capo dell’ufficio Bruti Liberati di una serie di presunte irregolarità. Come il ritardo «di un anno» con cui era stato indagato Roberto Formigoni nell’inchiesta San Raffaele-Fondazione Maugeri e l'affidamento dell’inchiesta sul cosiddetto Rubygate, segnato a suo dire da gravi violazioni delle regole: l’assegnazione indebito del procedimento a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto dell’antimafia di Milano, che secondo Robledo non avrebbe avuto la competenza per occuparsi di quel procedimento. Bruti Liberati si è difeso davanti al Csm sostenendo che tutte le accuse erano prive di fondamento.
Expo, ecco tutte le beghe fra Boccassini, Robledo e Bruti Liberati, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. La ricostruzione dei dissidi fra i magistrati milanesi secondo i cronisti giudiziari dei principali quotidiani. Una lettura non troppo commendevole, come d'altronde quella sulle intercettazioni...Il terremoto giudiziario che si è abbattuto su Expo 2015 con la scoperta di una “cupola” trasversale finalizzata ad assegnare gli appalti in cambio di tangenti ha portato alla luce una ragnatela capillare di protezioni e intrecci affaristici tra manager, pubblici funzionari, politici e imprenditori, secondo le accuse dei pm. Ma ha fatto affiorare al contempo un conflitto radicale e reiterato fra le mura del Palazzo di Giustizia di Milano. A partire dallo scontro fra il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che ha vissuto un crescendo di accuse incrociate risalenti all’attribuzione a Ilda Boccassini del fascicolo investigativo e processuale sul Rubygate. E dall’accusa, rivolta al massimo responsabile dell’ufficio giudiziario milanese, di aver rinviato di un anno gli accertamenti per i presunti pagamenti di mazzette dei vertici dell’ospedale San Raffaele a favore dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Tensione che ha assunto una rappresentazione plastica nella conferenza stampa sui fenomeni di corruzione legati a Expo. E che non è rimasta inosservata da parte dei giornali più attenti alle dinamiche della magistratura ambrosiana. È il Corriere della Sera a mettere in rilievo una frase emblematica pronunciata da Bruti Liberati nella giornata di ieri. Ai cronisti giudiziari che gli ricordavano come l’inchiesta sulle illegalità relative agli appalti per Expo 2015 fosse uno dei filoni investigativi citati dal procuratore aggiunto Robledo nell’esposto presentato contro di lui al Consiglio superiore della magistratura per irregolarità nella gestione e assegnazione dei fascicoli di indagine, il capo dei pm milanesi ha così risposto: “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti. Ma prima vi erano state numerose riunioni”. Argomentazioni che hanno provocato una risposta repentina e sdegnata da parte del numero due della Procura. Il quale ha spiegato come il dissenso riguardasse la posizione di un indagato, su cui non vi erano a suo avviso gli elementi per una misura cautelare rispetto ai reati di corruzione e turbativa d’asta. Ragionamento di cui “mise a conoscenza Bruti Liberati e Ilda Boccassini, senza ricevere risposta”. A tutto ciò Robledo ha fatto riferimento nell’esposto trasmesso a Palazzo dei Marescialli. Un documento nel quale ha puntato il dito contro il comportamento centralizzatore del procuratore capo, “che frena ogni autonoma iniziativa di inchiesta, intercettazione e pedinamento”. Ma l’accusa va ben oltre. Bruti avrebbe gestito i dossier giudiziari penalizzando il suo ufficio specializzato nei reati contro la pubblica amministrazione, a vantaggio della Direzione distrettuale anti-mafia guidata da Boccassini. Le cui competenze, osserva il magistrato, non rientrano nelle indagini sulle tangenti correlate a Expo. La risposta della pm già appartenente al pool Mani Pulite giunge sulle pagine di Repubblica. L’inchiesta, rileva Boccassini, rappresenta “una delle numerose costole” di un filone investigativo risalente al luglio 2010 e concernente le relazioni nel territorio lombardo tra cosche della ‘ndrangheta, personaggi politici e manager di ospedali. Fattispecie criminose che spetta ai magistrati anti-mafia appurare. Soltanto più tardi, precisa la pm, vennero alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione: “Elementi che segnalai a Bruti per una sinergia con il dipartimento coordinato da Robledo”. A fornire una spiegazione sulle ragioni profonde della spaccatura nel Palazzo di Giustizia è un articolo apparso sul Giornale a firma Luca Fazzo. L’assenza fisica del procuratore aggiunto nella conferenza stampa dei magistrati milanesi, scrive il cronista, è legata agli orientamenti politico-ideologici dell’universo togato. Robledo, in breve, è estraneo all’entourage dei pm progressisti di Magistratura Democratica legati al capo della Procura. Figure tra le quali spicca la principale responsabile del pool anti-mafia, “capace di assumere la guida dell’indagine su Expo 2015 esattamente come fece nella vicenda Ruby. Un’inchiesta di cui non aveva la titolarità e che riguardava reati commessi da pubblici funzionari”. Ma vi è un dissenso più remoto, connesso al metodo di lavoro adottato dai capi dei due dipartimenti giudiziari: la scelta dell’organo di polizia giudiziaria cui affidare le indagini. L’ex pm del pool Mani Pulite, evidenzia Il Giornale, ha sempre utilizzato una squadra assai ristretta di militari della Guardia di finanza in servizio alla Procura. Nell’inchiesta in corso la pm vuole in tutti i modi ricorrere a questo gruppo di propria fiducia. L’obiezione avanzata da Robledo riguarda il numero esiguo del personale investigativo. Poiché il materiale giudiziario è sterminato, i magistrati inquirenti rischiano di perdere il controllo su tutti gli spunti dell’inchiesta: “E sarebbero gli uomini delle Fiamme Gialle a stabilire con ampio margine di discrezionalità le intercettazioni da trascrivere”.
LOMBARDIA, LA MADRE DEGLI AFFARI TRUCCATI.
20 marzo 2014. Tutta l'Italia ne parla.
Lombardia: 224 milioni di appalti in odore di trucco. Ecco la lista completa, scrive “Il Giorno”. C’è quasi tutto il respiro della grande Lombardia del futuro nelle gare d’appalto finite nel mirino della magistratura. Non c’è provincia che non sia stata toccata, solo Lecco e Lodi risultano lambite marginalmente. Queste le opere segnalate nell’ordinanza che ha fatto scattare gli otto arresti:
Brescia Messa in sicurezza del lago d’Idro; interventi ai presidi ospedalieri di Manerbio e Gavardo.
Bergamo Valorizzazione e alienazione patrimonio immobiliare azienda ospedaliera Riuniti.
Como Ospedale Sant’Anna; elisoccorso per emergenza 118 Villaguardia; intervento edilizia ospedale di Mariano Comense; valorizzazione e alienazione ospedale Sant’Anna.
Monza e Brianza Valorizzazione Villa Reale di Monza; costruzione nuovo ospedale di Vimercate; riqualificazione ospedale San Gerardo.
Milano Interventi edilizia sanitaria presidi ospedalieri di Melzo e Vizzolo Predabissi, Garbagnate Milanese, Cuggiono, Magenta; riqualificazione ospedale Niguarda; costruzione nuovo ospedale Garbagnate Milanese; manutenzione straordinaria presidio ospedaliero di Rho; riqualificazione stabili lotto 4 e 14 ex Manifattura Tabacchi Milano; interventi a Palazzo Pirelli; valorizzazione sedi e laboratori Arpa; ristrutturazione tre unità abitative Aler; realizzazione delle opere afferenti sistema viario di accessibilità a sito Expo 2015; acquisto da parte di Arexpo spa delle aree di Rho-Pero per Expo 2015.
Sondrio Interventi edilizia ospedaliera presidi di Sondrio, Sondalo e Morbegno.
Cremona Concessione autostradale Cremona-Mantova; valorizzazione centro ippico di Crema.
Mantova Interventi edilizia ospedaliera presidi di Asola, Bozzolo e Mantova (lotto I e II).
Varese Interventi edilizia sanitaria presidi ospedalieri di Saronno, Macchi Varese (lotto I e II), Luino, Cittiglio, Filippo Del Ponte e ambulatori di Varese, via Monterosa; sistemazione ambientale del sito di Borsano (Busto Arsizio).
All’elenco vanno aggiunte opere come Brebemi, Pedemontana, tangenziale Est esterna di Milano e bonifiche di siti contaminati che riguardano varie province.
Infrastorture Lombarde. In galera il dg dimissionario della controllata di Regione Lombardia. Ai domiciliari una schiera di avvocati e un ingegnere che truccavano appalti pubblici, scrive Francesca Brunati su “La Prealpina”.
Appalti truccati in modo da essere aggiudicati sistematicamente a "una ristretta cerchia di professionisti" in spregio alle procedure previste dalla legge, ai principi di trasparenza e ai criteri del minor aggravio di spesa per gli enti pubblici. C'è questo alla base del sistema di illeciti che ha decapitato i vertici di Infrastrutture Lombarde, la controllata della Regione Lombardia per la realizzazione di opere come ospedali, scuole ma anche il nuovo Pirellone, incaricata di conferire consulenze e assistenze legali stragiudiziali e assistenza tecnica-amministrativa per lavori legati a Expo con investimenti previsti per 11 miliardi. Nel pomeriggio di giovedì 20 marzo gli uomini del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Milano hanno portato in carcere Antonio Giulio Rognoni, il direttore generale, dimissionario, di Infrastrutture Lombarde (formalmente è ancora in carica) e amministratore della partecipata Costruzioni autostrade Lombarde, il capo dell'ufficio gare e appalti Pierpaolo Perez. Ai domiciliari invece sono finiti Maurizio Malandra, direttore amministrativo della società regionale, gli avvocati Carmen Leo, Fabrizio Magrì, Sergio De Sio, Giorgia Romitelli e un ingegnere, Salvatore Primerano. Le richieste di custodia cautelare sono state firmate dal gip Andrea Ghinetti, su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Paola Pirotta e Antonio D'Alessio. Il giudice, inoltre, ha anche ordinato l'interdizione da attività direttive e alla professione di ingegnere per nove persone tra cui Giuseppe De Donno ai vertici della G-Risk (settore sicurezza), l'ex ufficiale del Ros, tra i protagonisti della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Le accuse, a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla truffa, dalla turbativa d'asta al falso. Tra i vari appalti pilotati, oltre a quello da 210 milioni all'ospedale San Gerardo di Monza, per l'abbattimento di alcuni edifici a Pieve Emanuele (dal quale è nata l'indagine) e la riqualificazione dell'area, spuntano anche "i comportamenti di favore assicurati per lungo tempo - annota il gip - alla società Poliedrika srl delle sorelle Erica e Monica Daccò", figlie del faccendiere in carcere per i casi San Raffaele e Maugeri. E poi ancora due gare che riguardano Expo (non coinvolta nell'indagine): una assegnata all'avvocato Leo per 1,2 milioni e l'altra al suo collega Magrì in realtà dalla società Arexpo spa. Quanto poi alla realizzazione del palazzo Lombardia (il nuovo Pirellone) il gip parla di "clamoroso e spudorato conflitto di interessi". Secondo la ricostruzione della Procura e fatta sua anche dal gip, Rognoni sarebbe stato il "capo e promotore" di un sistema in cui "si riscontra una ristretta cerchia di professionisti (...) clandestinamente ed indebitamente insediatisi da lungo tempo (i reati contestati partono dal 2008, ndr) all'interno dell'amministrazione con il compito di porsi senza sosta al servizio del direttore generale (...). Essi - scrive ancora il giudice - si adoperano con lo scopo di accaparrarsi il maggior numero di commesse pubbliche dando nel tempo vita ad un organismo parallelo costituito da consulenti esterni di esclusiva fiducia di quest'ultimo, a cui essi risultano legati da un rapporto fiduciario in grado di sostenersi a dispetto della regolarità". In cambio Rognoni e Perez, come ha spiegato Robledo, avrebbero guadagnato "posizioni di rilievo all'interno della dirigenza della Regione" grazie a "un'amministrazione a sfondo domestico" delle gare. Anche per questo, come risulta dal provvedimento del gip Ghinetti, l'appalto per la Piastra dell'Expo sarebbe stato al centro di un tentato "trucco" per "tutelare l'immagine" politica della giunta allora guidata da Roberto Formigoni.
Expo e appalti truccati: scatta l'allarme su 11 miliardi di investimenti pubblici, scrive la Redazione di IBTimes Italia. Metti un candidato alla poltrona di subcommissario dell'Expo 2015 tratto in arresto per appalti truccati. Aggiungi il coinvolgimento nella stessa inchiesta di alcuni professionisti tra avvocati e ingegneri. Mescola il tutto con un sistema di potere che ha gestito la Regione Lombardia per quasi 20 anni (ed è finito imputato con l'accusa di corruzione nell'inchiesta Maugeri sulla sanità). Senza dimenticare che la Procura di Milano è spaccata, dopo l'esposto presentato al CSM da Alfredo Robledo, del pool reati contro la Pubblica Amministrazione, nei confronti del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ci sono tutti gli ingredienti per far scattare l'allarme sull'Expo che Milano ospiterà nel 2015, ma l'indagine che ieri ha portato all'arresto del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Antonio Giulio Rognoni assieme ad altre sette persone, rischia di passare come la solita indagine sulla corruzione strisciante che imperversa in Italia. In realtà c'è molto di più, perchè si tratta dell'ennesimo campanello d'allarme (si spera non ignorato) sull'appuntamento del prossimo anno (un giro d'affari superiore ai dieci miliardi di euro). Era proprio Rognoni il candidato alla poltrona di subcommissario, accusato di aver costituito "una struttura illegale all'interno di enti pubblici" che lavorava per lui. Infrastrutture Lombarde, partecipata dalla Regione Lombardia che Rognoni ha gestito dal 2004 fino allo scorso mese di gennaio, non è una società qualunque: ha gestito la costruzione del nuovo Pirellone, scuole e ospedali. Con il compito, riguardo a Expo, di fornire "assistenza tecnica-amministrativa". Proprio sull'esposizione universale sarebbero emerse secondo l'indagine "manovre occulte" allo scopo di 'indirizzare' gli appalti. Le accuse sono di associazione a delinquere, truffa e falso. Ma anche a scorrere l'elenco degli indagati c'è di che essere preoccupati. Spuntano i nomi delle figlie di Pierangelo Daccò, che gestiscono una società a cui sarebbe stato dato in affidamento un appalto senza bando pubblico. Daccò è il faccendiere già invischiato in due delicatissime inchieste sulla sanità in Lombardia: condannato in Appello per la bancarotta del San Raffaele (Formigoni indagato per corruzione), è coimputato proprio dell'ex governatore della Lombardia nel processo Maugeri. Indagato anche Giuseppe De Donno, già colonnello del ROS dei Carabinieri, oggi imputato nel procedimento sulla trattativa stato-mafia in corso di svolgimento a Palermo, riciclatosi nel settore della sicurezza privata. Deve rispondere di falsità materiale e truffa (è AD della società G-Risk) in merito ad alcuni appalti relativi alla "gestione del rischio ambientale". Formigoni lo aveva scelto come membro del "Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali dell'Expo" assieme a Mario Mori, altro imputato nel processo sulla trattativa. La cricca Rognoni viene descritta dagli inquirenti come "una ristretta cerchia di professionisti clandestinamente insediatisi da lungo tempo all'interno dell'amministrazione con il compito di porsi al servizio del Direttore Generale Antonio Rognoni. Si adoperano con lo scopo di accaparrarsi il maggior numero di commesse pubbliche dando nel tempo vita a un organismo parallelo costituito da consulenti esterni di esclusiva fiducia". Sull'Expo sono almeno due gli appalti finiti nel mirino i cui destinatari sarebbero stati "individuati con largo anticipo", prima ancora che il bando diventasse di dominio pubblico. La prima gara è relativa "all'affidamento a professionisti esterni dei servizi legali in relazione all'attività tecnico-amministrativa di Infrastrutture nel supporto e assistenza ad Expo spa", il secondo a "incarichi di consulenza legale affidati all'avvocato Magrì dalla società Arexpo", società per azioni che aveva il compito di acquistare le aree destinate ad ospitare l'esposizione universale. "Emerge dagli atti e dai testi delle telefonate - scrive il GIP nell'ordinanza di custodia cautelare per gli arrestati - che gli indagati hanno già predeterminato l'assegnazione di future gare".
«Appalti truccati sistematicamente per favorire gli stessi professionisti», scrive “L’Eco di Bergamo”. Appalti truccati in modo da essere aggiudicati sistematicamente a «una ristretta cerchia di professionisti» in spregio alle procedure previste dalla legge, ai principi di trasparenza e ai criteri del minor aggravio di spesa per gli enti pubblici. C’è questo alla base del sistema di illeciti che giovedì 20 marzo ha decapitato i vertici di «Infrastrutture Lombarde» la controllata della Regione Lombardia per la realizzazione di opere come ospedali, scuole ma anche il nuovo Pirellone, incaricata di conferire consulenze e assistenze legali stragiudiziali e assistenza tecnica-amministrativa per lavori legati a Expo con investimenti previsti per 11 miliardi. Nel pomeriggio gli uomini del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano hanno portato in carcere Antonio Giulio Rognoni, il direttore generale, dimissionario, di Infrastrutture Lombarde (formalmente è ancora in carica) e amministratore della partecipata Costruzioni autostrade Lombarde, il capo dell’ufficio gare e appalti Pierpaolo Perez. Ai domiciliari invece sono finiti Maurizio Malandra, direttore amministrativo della società regionale, gli avvocati Carmen Leo, Fabrizio Magrì, Sergio De Sio, Giorgia Romitelli e un ingegnere Salvatore Primerano. Le richieste di custodia cautelare sono state firmate dal gip Andrea Ghinetti, su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Paola Pirotta e Antonio D’Alessio. Il giudice, inoltre, ha anche ordinato l’interdizione da attività direttive e alla professione di ingegnere per nove persone tra cui Giuseppe De Donno ai vertici della G-Risk (settore sicurezza), l’ex ufficiale del Ros, tra i protagonisti della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Le accuse, a vario titolo, vanno dall’associazione per delinquere alla truffa, dalla turbativa d’asta al falso. Tra i vari appalti pilotati, oltre a quello da 210 milioni all’ospedale san Gerardo di Monza, per l’abbattimento di alcuni edifici a Pieve Emanuele (dal quale è nata l’indagine) e la riqualificazione dell’area, spuntano anche «i comportamenti di favore assicurati per lungo tempo - annota il gip - alla società Poliedrika srl delle sorelle Erica e Monica Daccò», figlie del faccendiere in carcere per i casi San Raffaele e Maugeri. E poi ancora due gare che riguardano Expo (non coinvolta nell’indagine): una assegnata all’avvocato Leo per 1,2 milioni e l’altra al suo collega Magrì in realtà dalla società Arexpo spa. Quanto poi alla realizzazione del palazzo Lombardia (il nuovo Pirellone) il gip parla di «clamoroso e spudorato conflitto di interessi». Secondo la ricostruzione della Procura e fatta sua anche dal gip, Rognoni sarebbe stato il «capo e promotore» di un sistema in cui «si riscontra una ristretta cerchia di professionisti (...) clandestinamente ed indebitamente insediatisi da lungo tempo (i reati contestati partono dal 2008, ndr) all’interno dell’amministrazione con il compito di porsi senza sosta al servizio del direttore generale (..). Essi - scrive ancora il giudice - si adoperano con lo scopo di accaparrarsi il maggior numero di commesse pubbliche dando nel tempo vita ad un organismo parallelo costituito da consulenti esterni di esclusiva fiducia di quest’ultimo, a cui essi risultano legati da un rapporto fiduciario in grado di sostenersi a dispetto della regolarita». E in cambio Rognoni e Perez, come ha spiegato Robledo in conferenza stampa, avrebbero guadagnato «posizioni di rilievo all’interno della dirigenza della Regione» grazie a “un’amministrazione a sfondo domestico» delle gare. Anche per questo, come risulta dal provvedimento del gip Ghinetti, l’appalto per la Piastra dell’Expo sarebbe stato al centro di un tentato «trucco» per «tutelare l’immagine» politica della giunta allora guidata da Roberto Formigoni.
Expo, truccata pure la gara per scegliere gli avvocati: "Chi ha vinto sapeva tutto", scrive Marinella Rossi su “Il Giorno”. Su questa inchiesta è scoppiata la guerra in Procura. «Qui Expo non c’entra niente», dichiara liquidatorio il procuratore aggiunto Alfredo Robledo in una conferenza stampa algida, in cui a fianco del procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati, dà conto di una delle inchieste oggetto di lite, fra lui e il capo, sull’assegnazione di fascicoli in condivisione (mai avvenuta) con il dipartimento della Dda Ilda Boccassini. Come a dire che di Expo si occuperà la collega? Ma che in questa sua inchiesta non si tratti di Expo, è subito smentito dal gip, il giudice Andrea Ghinetti, che in 243 pagine manda agli arresti per associazione per delinquere, turbativa d’asta e truffa l’ex dg di Infrastrutture Lombarde, Antonio Giulio Rognoni, il suo braccio destro Pier Paolo Perez, e un nugolo di avvocati. Ed ecco Expo, da pagina 139 della misura cautelare. Dove si affronta la funzione di Ilspa e l’incarico conferito all’avvocato Carmen Leo (da ieri agli arresti domiciliari) «in relazione all’evento Expo 2015». Il gip spiega che «rientra nella diretta competenza di Expo 2015 la realizzazione del sito per l’Esposizione, a partire dalle opere di urbanizzazione e le infrastrutture di base». La cosiddetta Piastra, lavori fondamentali di posa impianti e scavi. Lavori fino a 700 milioni di euro. Il giudice ricostruisce, attraverso mail, sequestri di materiale informatico e intercettazioni della Guardia di finanza di Milano, la storia della pratica. Il 28 luglio 2011 Rognoni determina «di procedere all’affidamento di professionisti esterni dei servizi legali», per il supporto e l’assistenza che Ilspa deve dare a Expo 2015. L’offerta è destinata a cinque professionisti, secondo il criterio del prezzo più basso. A Ilspa giungono 4 offerte, prima tra tutte - come prezzo più basso - quella dell’avvocato Carmen Leo, con 1 milione e 200 mila euro. Ma «diverse evidenze investigative provano, senza ombra di dubbio, che anche questa procedura negoziata è stata gravemente turbata» scrive il gip. Dal computer dell’assistente dell’avvocato Leo, emerge una cartella “Studio” e una sottocartella “Gara servizi legali”: grazie a questa si scopre che molti dei documenti predisposti sono «antecedenti al 28 luglio 2011, ossia alla stessa data di emissione» con cui «si dava ufficialmente avvio alla procedura di aggiudicazione». Alla professionista «è stato consentito di istruirsi autonomamente la procedura che poi sarebbe stata aggiudicata al proprio studio legale». Pagina 144: c’è il capitolo «incarichi di consulenza legale affidati all’avvocato Fabrizio Magrì dalla società Arexpo Spa», delegata ad acquistare e riconvertire le aree per l’Esposizione universale. La direzione generale della società è affidata a Cecilia Felicetti (indagata a piede libero). Ecco il nodo retrodatazioni, con estensione dei contratti all’infinito. Si tratta dei soliti appalti per assistenza giuridica e legale sull’acquisto delle aree. Valore economico in apparenza magro, rispetto all’altro, solo 39.785 euro. Ma la prospettiva è di mettere le mani su tutto. L’affidamento è disposto l’8 settembre 2011: le parti stabiliscono un’efficacia retrodata, vista la «necessità di avviare la procedura di gara entro la prima settimana del mese di agosto». «Emerge» - scrive il gip - come «il contratto sottoscritto dal direttore generale e dal direttore amministrativo di Ilspa (Rognoni e Perez, ndr) sia stato ancora una volta strumentalmente retrodatato». Sintomatica l’intercettazione fra Magrì e Perez, («indicativo il sarcasmo» di questi) che dice all’avvocato: «Bisogna che ti coordini un attimino con Cecilia, perché l’idea era quella di mettere dentro quello fatto e quello che tu andrai a fare prima che noi faremo la procedura per affidare tutto quello che affideremo e... su Arexpo, ok, capito, nel caso poi in cui tu risulterai vincitore di quella procedura, andrai avanti tu, capito». L’ 8 settembre 2011 le parti danno atto che «il contratto è protratto sino all’acquisizione di tutte le aree, ovvero al 30 dicembre 2011, avendo lo studio legale espletato in toto (tre mesi prima? ndr) le prestazioni ivi previste». Naturalmente, sino al 14 febbraio 2012, l’avvocato Magrì «non aveva ancora completato le prestazioni del primo incarico e già trattava parallelamente e stringeva accordi con Rognoni, Cecilia Felicetti e Maurizio Malandra (ai domiciliari, ndr) per aggiudicarsi un nuovo e più sostanzioso contratto». E l’11 aprile 2012, ultima data per la presentazione delle offerte, veniva ufficializzato l’incarico a Magrì per un importo definitivo di 160 mila euro. Come d’accordo con Rognoni, già dal 9 febbraio 2012.
Infrastrutture Lombarde, il gip accusa i politici: "I vertici della Regione sapevano". Si allarga il fronte dell'inchiesta milanese. Maroni chiede "chiarezza" su "fatti che riguardano il passato". Sala (ad di Expo): "Non c'è alcun coinvolgimento diretto della nostra società", scrive “La Repubblica”. Quella struttura "parallela" che per almeno cinque anni avrebbe pilotato incarichi, soprattutto di consulenza legale e tecnico-amministrativa, relativi ai più importanti appalti di opere pubbliche in Lombardia, compresi alcuni per l'Expo 2015, dialogava con "i vertici della Regione Lombardia" quando era guidata da Roberto Formigoni. Vertici che avrebbero avuto la "piena consapevolezza" che il tutto avveniva in un sistema di "diffusa illegalità". E' quanto emerge dalle carte dell'inchiesta della Procura di Milano che aveva portato all'arresto di otto persone, tra cui Antonio Rognoni, il direttore generale dimissionario di Infrastrutture Lombarde, società interamente partecipata dal Pirellone. Un rapporto costante, quello tra Rognoni e i piani alti della Regione, che fra l'altro il gip Andrea Ghinetti - il quale ha firmato l'ordinanza su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Antonio D'Alessio e Paola Pirotta - riconosce anche come pericolo attuale e concreto nelle esigenze cautelari. Le intercettazioni telefoniche dimostrano, scrive il gip, come il dg benché dimissionario "continui a occuparsi de facto anche della gestione di Ilspa (Infrastrutture Lombarde) tenendosi in stretto e costante contatto con i vertici della stessa nonché di Regione Lombardia, come sempre è stato". Le inchieste faranno il loro corso, ma l'Expo non può attendere. L'inchiesta non solo suscita dubbi da fugare sulla gestione ("Sono il primo a volere chiarezza", ha detto il governatore Roberto Maroni), ma potrebbe provocare creare problemi alla preparazione dell'Esposizione del 2015 a Milano. Tanto che anche il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ha espresso un "timore tremendo perché questo è il primo evento che abbiamo per uscire dalla crisi". Lunedì ci sarà una riunione Expo: da Infrastrutture Lombarde passano molte delle opere, interne ed esterne al sito. Un facile assist per i 5 Stelle, che sabato scorso erano con Beppe Grillo ai cantieri dell'Expo a sostenere che attorno al progetto ci sono troppi interessi e hanno contestato lo stesso Maroni, mentre apriva la giornata di ricordo delle vittime della mafia davanti agli studenti. "Parlaci di Rognoni", gli hanno urlato i consiglieri M5S abbandonando l'auditorium del Pirellone. Il governatore leghista ha riferito di aver parlato con il commissario unico Giuseppe Sala, ma anche col ministro Maurizio Lupi. Ed entro la riunione di lunedì vuole sostituire almeno i dirigenti di Infrastrutture delegati dalla Regione a seguire i cantieri dell'Expo. Sala - che ha escluso categoricamente "qualsiasi coinvolgimento diretto della nostra società" - ha spiegato che bisogna "lavorare nel rispetto pieno della legalità", ma ormai "non possiamo avere un'ora di ritardo. E questo devo garantire". Da un lato negli atti dell'indagine si scopre che Rognoni, assieme al capo dell'Ufficio gare della società pubblica, Pierpaolo Perez, e ad alcuni professionisti, avrebbe "turbato" circa 25 appalti relativi a ospedali, autostrade e all'Esposizione universale per un valore di circa 224 milioni di euro. Dall'altro lato, nelle stesse carte traspare anche un contesto più ampio, quello che il gip ha definito una "rete di favori e amicizie", nell'ambito di un "milieu politico-amministrativo" di cui facevano parte Rognoni e gli altri. Una rete nella quale risultavano inserite, per esempio, anche Erika e Monica Daccò (entrambe indagate), figlie del faccendiere Pierangelo, già condannato a nove anni per il crac del San Raffaele e rinviato a giudizio per il caso Maugeri assieme all'ex governatore Formigoni. Secondo il gip, inoltre, "non è affatto improbabile" che lo stesso Daccò "potesse avere un certo ascendente pure in Ilspa, visti i contenuti di un'intercettazione telefonica" del 24 aprile del 2012, registrata sul cellulare di Perez. Quest'ultimo "conversa" con tale Cristina Dall'Orto sulla "decisione di Rognoni di affidare a un nuovo consulente esterno la realizzazione del nuovo sito Internet della società". E i due ironizzano, chiarisce il gip, "sul fatto che il precedente affidatario sarebbe stato portato in Ilspa dai Daccò e che, per tale motivo, il motivo di cambiar consulente avrebbe potuto ingenerare il pensiero che fosse opportuno 'cancellare' quanta prima ogni traccia che potesse eventualmente ricondurre a loro". E ciò perché in quei giorni emergevano sulla stampa dettagli sull'inchiesta Maugeri. In quel periodo, si legge nelle carte, Rognoni avrebbe avuto "un atteggiamento ossessivo" volto "a evitare d'improvviso qualsiasi contatto o rapporto" con le sorelle Daccò "per non generare sospetti". E in una telefonata del luglio 2012 il dg "rivela che sarebbe andato a parlare della questione Daccò" all'allora segretario generale del Pirellone, Nicola Maria Sanese. Fra gli indagati c'è anche un ex ufficiale del Ros, Giuseppe De Donno (noto per il suo coinvolgimento nella cosiddetta trattativa Stato-mafia) nominato dal "presidente Formigoni il 7/8/2009 componente del Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali dell'Expo". Il gip rimarca la "capacità" di De Donno "di interagire in contesti ben più vasti e organizzati di quello in cui si esauriscono" i fatti dell'inchiesta. Indagini che dimostrerebbero, invece, attraverso alcune mail scambiate tra Rognoni e l'avvocato Carmen Leo come negli uffici del Pirellone nel 2008, alla presenza di dirigenti regionali come Maurizio Sala, si sarebbero aggirate le normative per incarichi di consulenza legale. Negli atti anche "manovre occulte", finalizzate "a pilotare gli affidamenti tecnici (...) nell'ambito delle opere di realizzazione della cosiddetta 'Piastra Expo'". Intanto l'avvocato Leo al telefono con Rognoni diceva: "Se ciulano all'interno del computer di Perez siamo rovinati". Gli arrestati saranno interrogati a partire da lunedì. "I vertici della Regione sapevano tutto, così avrebbe dichiarato la Procura di Milano stando a diverse agenzie in relazione alla vicenda legata a Infrastrutture Lombarde. Poi si vanno a leggere le carte della stessa Procura e si evince che i 'vertici della Regione che avrebbero dovuto sapere tutto' sono i funzionari dell'avvocatura regionale". Così ha dichiarato l'ex governatore Formigoni, ora senatore. "Le valutazioni - conclude Formigoni - le lasciamo trarre alle persone veramente oneste e agli osservatori veramente neutrali".
Infrastrutture lombarde, il gip: “I vertici della Regione sapevano”. L’ordinanza dopo l’arresto dell’ex dg Rognoni: «Tutti erano al corrente del clima di illegalità». Il presidente del Consiglio regionale Cattaneo: «Expo a rischio», scrive Paolo Colonello su “La Stampa”. Quella struttura «parallela» che per almeno cinque anni avrebbe pilotato incarichi, soprattutto di consulenza legale e tecnico-amministrativa, relativi ai più importanti appalti di opere pubbliche in Lombardia, compresi alcuni per l’Expo 2015, dialogava con «i vertici della Regione Lombardia» quando era guidata da Roberto Formigoni. Vertici che avrebbero avuto la «piena consapevolezza» che il tutto avveniva in un sistema di «diffusa illegalità». È quanto emerge dalle carte dell’inchiesta della Procura di Milano che ieri ha portato all’arresto di otto persone, tra cui Antonio Rognoni, il dg dimissionario della società interamente partecipata dal Pirellone, Infrastrutture Lombarde. Un rapporto costante quello tra Rognoni e i piani alti della Regione che, tra l’altro, il gip Andrea Ghinetti, che ha firmato l’ordinanza su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Antonio D’Alessio e Paola Pirotta, riconosce anche come pericolo attuale e concreto nelle esigenze cautelari. Le intercettazioni telefoniche, infatti, dimostrano, scrive il gip, come il dg benché dimissionario «continui a occuparsi de facto anche della gestione di Ilspa (Infrastrutture Lombarde, ndr) tenendosi in stretto e costante contatto con i vertici della stessa nonché di Regione Lombardia, come sempre è stato». Da un lato, infatti, negli atti dell’indagine si scopre che Rognoni, assieme al capo dell’Ufficio Gare della società pubblica, Pierpaolo Perez, e ad alcuni professionisti, avrebbe «turbato» circa 25 appalti relativi ad ospedali, autostrade e all’Esposizione Universale per un valore di circa 224 milioni di euro. Dall’altro lato, però, dalle stesse carte traspare anche un contesto più ampio, quello che il gip ha definito una «rete di favori ed amicizie», nell’ambito di un «milieu politico-amministrativo» di cui facevano parte Rognoni e gli altri. Una Rete nella quale risultavano inserite, ad esempio, anche Erika e Monica Daccò (entrambe indagate), figlie del faccendiere Pierangelo, già condannato a 9 anni per il crac del San Raffaele e rinviato a giudizio per il caso Maugeri assieme all’ex Governatore Formigoni. Secondo il gip, inoltre, «non è affatto improbabile», che lo stesso Daccò «potesse avere un certo ascendente pure in Ilspa visti i contenuti di un’intercettazione telefonica» del 24 aprile del 2012, registrata sul cellulare di Perez. Quest’ ultimo «conversa» con tale Cristina Dall’Orto, «della decisione di Rognoni di affidare ad un nuovo consulente esterno la realizzazione del nuovo sito internet della società». E i due ironizzano, chiarisce il gip, «sul fatto che il precedente affidatario sarebbe stato “portato” in Ilspa dai Daccò e che, per tale motivo, il motivo di cambiar consulente avrebbe potuto ingenerare il pensiero che fosse opportuno “cancellare” quanta prima ogni traccia che potesse eventualmente ricondurre a loro». E ciò perché in quei giorni emergevano sulla stampa dettagli sull’inchiesta Maugeri. In quel periodo, si legge nelle carte, Rognoni avrebbe avuto «un atteggiamento ossessivo» volto «ad evitare d’improvviso qualsiasi contatto o rapporto» con le sorelle Dacco’ «per non generare sospetti». E in una telefonata del luglio 2012 il dg «rivela che sarebbe andato a parlare della questione Daccò» all’allora segretario generale del Pirellone, Nicola Maria Sanese. Tra gli indagati anche l’ex militare del Ros, Giuseppe De Donno (noto per il suo coinvolgimento nella cosiddetta trattativa Stato-mafia) nominato dal “presidente Formigoni il 7/8/2009 membro del Comitato per la legalità e la trasparenza delle procedure regionali dell’Expò”. Il gip sottolinea la «capacità» di De Donno «di interagire in contesti ben più vasti ed organizzati di quello in cui si esauriscono» i fatti dell’inchiesta. Indagini che, invece, dimostrerebbero, attraverso alcune e-mail scambiate tra Rognoni e l’avvocato Carmen Leo come negli uffici del Pirellone nel 2008, alla presenza di dirigenti regionali come Maurizio Sala, si sarebbero aggirate le normative per incarichi di consulenza legale. Negli atti anche «manovre occulte», finalizzate «a pilotare gli affidamenti tecnici (...) nell’ambito delle opere di realizzazione della cosiddetta “Piastra Expò”. Intanto l’avvocato Leo al telefono con Rognoni diceva: «Se ciulano all’interno del computer di Perez siamo rovinati!». Gli arrestati saranno interrogati a partire da lunedì. «I vertici della Regione sapevano tutto’, così avrebbe dichiarato la Procura di Milano stando a diverse agenzie in relazione alla vicenda legata ad Infrastrutture Lombarde. Poi si vanno a leggere le carte della stessa Procura e si evince che i `vertici della Regione che avrebbero dovuto sapere tutto´ sono i funzionari dell’avvocatura regionale». Così ha dichiarato in serata l’ex governatore Roberto Formigoni, ora senatore. «Le valutazioni - conclude Formigoni - le lasciamo trarre alle persone veramente oneste e agli osservatori veramente neutrali».
Arresti in Lombardia, indagato anche l'ufficiale della trattativa. Giuseppe De Donno, l'ex colonnello del Ros al centro di trame e misteri per la trattativa Stato-mafia 1992, è tra i dirigenti d'azienda che sono stati sospesi dalla carica nell'ambito dell'inchiesta che ha travolto i vertici di Infrastrutture lombarde, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. C'è anche Giuseppe De Donno, l'ex colonnello del Ros al centro di trame e misteri per la famosa trattativa del 1992 con il politico mafioso Vito Ciancimino, tra i dirigenti d'azienda che sono stati sospesi dalla carica, per ordine dei magistrati di Milano, nell'inchiesta che ha travolto i vertici di Infrastrutture lombarde, il braccio economico del Pirellone per le grandi opere pubbliche. De Donno, dopo aver lasciato i carabinieri, è entrato nel settore della sicurezza privata e ora è sotto accusa come amministratore delegato della società G-Risk, che ha beneficiato di ricchi appalti da Infrastrutture lombarde, in particolare per la «rilevazione e gestione dei rischi ambientali» collegati alle opere autostradali messe in cantiere in Lombardia. Il giudice delle indagini ha considerato provati, nel suo caso, sette capi d'accusa: i dirigenti di Infrastrutture lombarde avrebbero truccato le gare d'appalto proprio per favorire la società di De Donno. Le accuse più gravi hanno colpito Antonio Giulio Rognoni, ex direttore generale, e Pierpaolo Perez, ex responsabile degli appalti, che sono finiti in carcere per ben 66 capi d'accusa. Arresti domiciliari invece per altri sei indagati: avvocati e professionisti accusati di essersi divisi parcelle d'oro assegnate dalla società regionale aggirando le regole sui concorsi. Mentre la misura dell'interdizione da ogni carica ha colpito nove professionisti di varie aziende private, tra cui De Donno. Rognoni era considerato vicinissimo all'ex governatore lombardo Roberto Formigoni. L'inchiesta fino a ieri segreta su Infrastrutture lombarde, condotta da due pm del dipartimento guidato dall'aggiunto Alfredo Robledo, è anche al centro del duro scontro tra quest'ultimo e il capo della procura, Edmondo Bruti Liberati, che verrà deciso dal Csm.
Gli indagati al telefono dicevano: «Sono tutte turbative, tutti abusi». Otto arrestati a Milano per turbativa d’asta. Appalti legati a Expo 2015. I pm accusano Antonio Giulio Rognoni, fino a un mese fa dg di Infrastrutture Lombarde, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. «Ci sono tutti i suoi calcoletti... Se cicciano, se ciulano all’interno del computer di Perez, siamo rovinati!». Giusto. Ma la profezia il 12 luglio 2012 dell’avvocato Carmen Leo al formigoniano direttore generale di «Infrastrutture Lombarde», Antonio Rognoni, si era avverata già un mese prima, quando la Guardia di Finanza di Milano aveva sequestrato il computer appunto di Perez e iniziato a incrociare la cronologia dei vari «salvataggi» del pc con le intercettazioni. Come quelle in cui Rognoni si infuria («Non deve scrivere quelle str... lì») perché, negli studi di qualche avvocato di quelli beneficiati dall’affidamento esterno di incarichi per servizi legali del valore di 8,7 milioni nel 2008-2012, un ingenuo fa girare una mail che candidamente accenna all’artificioso spacchettamento e frazionamento di contratti per scendere sotto soglia, e assegnare senza gara una commessa in realtà da 400.000 euro («poi ce la gestiamo io e te, ti faccio un po’ di affidamenti sotto i 40...»): e l’interlocutrice di Rognoni concorda, «una roba del genere non è il caso... vedi è come se gli dicessimo sì, non vi preoccupate, non facciamo la gara, facciamo 10 incarichi da 400.000 euro». La predilezione per i ricchi incarichi a professionisti legali esterni, che per il gip «lavoravano in rapporto di “parasubordinazione” presso gli stessi locali degli enti pubblici, profumatamente pagati col pubblico denaro, con buona pace della libertà di toga e dei principi deontologici», origina dal fatto che - come l’ingegnere Primerano racconta a un conoscente il 17 aprile 2012 - «persone troppo rigide alla fine trovano qualche difficoltà», invece «Infrastrutture solitamente si contorna di persone che capiscono e che sanno che se c’è un problema si affronta, ma non si mettono il bastone tra le ruote perché tu ad esempio sei il collaudatore...». Ancor più chiaro è Rognoni stesso il 2 agosto 2012 ammonendo Perez e Leo: «Non riuscite più ad ascoltare il mio parere come vincolante! Io pretendo che sia vincolante!». Il che spaventa qualche avvocato come Leo: «Allora tutte le forzature che lui ci impone di fare... peggio per lui! Qui facciamo le cose così, perché lui ce le dice e vuole la mia sigla?». Oltre allo spreco di soldi e alla violazione delle regole, l’indagine mette a nudo negli avvocati alcuni casi di «clamoroso e spudorato conflitto di interessi, ben noti ai pubblici ufficiali delle stazioni appaltanti». Lo studio dell’avvocato Magrì, ad esempio, nel 2009-2011 riceve incarichi per 3 milioni di euro dal mondo della Regione ma lavora anche per «Impregilo», la quale controlla il «Consorzio Torre» incaricato proprio da «Infrastrutture Lombarde» di realizzare il nuovo Palazzo Lombardia. Lo studio dell’avvocato Leo, 2 milioni di incassi dal mondo della Regione nel 2009-2012, guadagna 900.000 euro assistendo la «Cooperativa CMB» di Carpi che, «tramite la partecipata Progeni spa, è concessionaria per la realizzazione del nuovo ospedale Niguarda di Milano, la più grande opera sanitaria in project financing, per la quale Infrastrutture Lombarde ha ufficialmente funzione di supporto alla committente azienda ospedaliera». Di più: per i pm, l’avvocato consulente della coop «CMB» (aderente al consorzio aggiudicatosi le opere di viabilità e accessibilità a Expo 2015) «carpisce senza sforzo informazioni riservate grazie alla sua appartenenza al contesto delittuoso in Infrastrutture Lombarde». Per i pm, poi, le «manovre occulte» di Rognoni «finalizzate a pilotare gli affidamenti tecnici presso le direzioni dei lavori nelle opere di realizzazione della “Piastra Expo”» sarebbero state motivate dalle ambizioni politiche dell’allora presidente Formigoni. Quando infatti la «Mantovani» vince l’appalto, alcuni commentatori e organi di stampa giudicano eccessivo il ribasso, e anche Formigoni esprime perplessità. Il suo sottosegretario Paolo Alli il 23 luglio 2012 spiega a Rognoni che la critica di Formigoni «non può restare lettera morta, cosa che lui non tollera... Inventatevi due o tre cose che si vendono mediaticamente, qualche controllo in più... bisogna che lui ne esca a testa alta dicendo “io ho segnalato un problema reale”». A quel punto, ricostruiscono i pm, «Rognoni esige dai più fidati collaboratori iniziative tese a ottenere forzatamente dall’appaltatore garanzie accessorie manifestamente non dovute». Tanto che l’avvocato Leo commenta intercettata: «Son tutte turbative, son tutti abusi... Il problema è che vogliono ricattare Mantovani...”se non mi fai le garanzie io non ti aggiudico”». E anche Perez il 2 agosto 2012 riporta il concetto: «Sembra che vogliono ricattarlo, cioè “se non fai così non ti aggiudico la gara”... siamo al delirio mistico». Dalla pubblicazione il 19 aprile 2012 sul Corriere di una lettera «aperta» di Carla Vites, moglie di Antonio Simone arrestato nell’inchiesta Maugeri con Pierangelo Daccò (dispensatore di 8 milioni di benefit a Formigoni), ora si scopre che sono partiti accertamenti sul fatto che le figlie di Daccò, Erika e Monica, usassero con la loro società «Poliedrika» il 31° piano del Pirellone per eventi: i pm contestano che il contratto annuale da 48.000 euro, più un 40% su quanto ricavato dai clienti, dovesse essere affidato con procedure pubblicistiche, anziché con «palesi violazioni» del limite per l’affidamento diretto che all’epoca era 20.000 euro. Un miracolo che le intercettazioni riconducono alla «”vicinanza” delle sorelle Daccò agli ambienti della Presidenza della Regione, in virtù della quale riuscivano a imporre i loro interessi».
Arrestato l'ex dg Infrastrutture Lombarde: chi è Antonio Giulio Rognoni. Antonio Giulio Rognoni, l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza di Milano, nel 2007 approdò a "Concessioni Autostradali Lombarde" nel ruolo di ad. Antonio Giulio Rognoni, l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza di Milano nell'ambito di una inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dal pm Antonio D'Alessio. Insieme a lui, sono destinatarie di una misura cautelare altre sette persone. L'accusa è quella di associazione per delinquere e truffa ai danni della Regione. Classe 1960, Rognoni si laurea in Ingegneria Civile nel 1985 per poi conseguire un Master in Economia. Dopo diverse esperienze maturate nel ruolo di amministratore delegato per importanti aziende nel marzo del 2007 approda alle "Concessioni Autostradali Lombarde" ( società costituita il 19 febbraio 2007 in modo paritetico da Regione Lombardia, attraverso Infrastrutture Lombarde e dal Ministero delle Infrastrutture con Anas) con l'incarico di amministratore delegato.
Infrastrutture Lombarde, il colosso regionale degli appalti varato ai tempi di Formigoni. La società per azioni è totalmente controllata dalla Regione Lombardia e ha preso vita nel 2004, non senza proteste da parte dell'opposizione per la nascita di quella che fu definita una sorta di Iri regionale, scrive “La Repubblica”. Dagli ospedali, al restauro della Villa Reale di Monza, passando per le autostrade fino alla nuova sede della Regione Lombardia: Infrastrutture Lombarde - al centro dell'inchiesta milanese che ha portato all'arresto di otto persone - si occupa (e si è occupata) di buona parte delle opere pubbliche realizzate in Regione. Ideata dalla giunta guidata da Roberto Formigoni, è una società per azioni totalmente controllata dalla Regione Lombardia che ha preso vita nel 2004, non senza proteste da parte dell'opposizione per la nascita di questa sorta di Iri regionale. I suoi compiti nel tempo si sono definiti e includono non solo la valorizzazione del patrimonio immobiliare della Regione, ma anche l'ideazione di start up e acceleramento della realizzazione di nuovi progetti infrastrutturali e il ruolo di soggetto aggiudicatore di appalti pubblici. Nel 2011 è stata, per esempio, stazione appaltante della gara per il sistema di collegamento stradale al sito di Expo 2015 (è proprio questo l'ultimo comunicato pubblicato sul sito). Fra i progetti che ha seguito ci sono la costruzione e il collaudo del nuovo palazzo della Regione (di cui gestisce alcuni spazi) e il restauro della Villa Reale a Monza, ma anche le opere di edilizia sanitaria (come le nuove strutture ospedaliere). E, si legge sul sito della società, attraverso un protocollo d'Intesa tra la Regione Lombardia e la Regione Abruzzo, Infrastrutture Lombarde ha realizzato in soli 87 giorni la nuova Casa dello studente a L'Aquila, due scuole primarie e un asilo, contribuendo alla ricostruzione resasi necessaria e al sostegno della formazione locale. Infrastrutture Lombarde possiede inoltre il 50 per cento di Cal, la società Concessioni autostradali lombarde, posseduta per l'altra metà da Anas, che è ente concedente di alcune autostrade in costruzione come Brebemi, Tem (la tangenziale est esterna di Milano) e Pedemontana. Alla guida della società Antonio Rognoni era arrivato nel novembre 2004, pochi mesi dopo l'avvio dell' attività. Dalla carica di direttore generale ha presentato le dimissioni lo scorso gennaio, mentre ha mantenuto la carica di amministratore delegato di Cal. Di lui si era parlato negli ultimi tempi come possibile subcommissario a Expo 2015.
Dissipare le ombre di un’eredità malata. L’intreccio tra politica e affari, scrive Giangiacomo Schiavi su “Il Corriere della Sera”. Non era finita con la sanità corrotta,la ‘ndrangheta e le bonifiche truccate, c’era un’altra anomalia di sistema all’interno del potere che per anni ha governato la Regione Lombardia: una struttura blindata nata ai tempi di Roberto Formigoni e usata per risucchiare appalti e spazzolare investimenti distribuendo favori e milioni a imprese amiche e professionisti a loro collegati. Una ragnatela che si è spinta fino all’Expo e lascia oggi un’ombra pericolosa sul cantiere, un’ombra da dissipare al più presto per evitare derive illegali e non sporcare l’immagine di un evento al quale è stato affidato il ruolo di motore di rilancio per il Paese . Dietro la gestione domestica degli appalti di Infrastrutture Lombarde, la società regionale che pilota cantieri e lavori pubblici c’è, secondo la Procura di Milano, la commistione neanche tanto occulta tra politica e affari, conflitti di interesse e favori truffaldini, coperti da una catena di pelose complicità. Passava (e passa ancora) sui tavoli di Infrastrutture lombarde ogni grande opera sul territorio lombardo, dalle scuole, agli ospedali, alle strade, alla realizzazione del secondo grattacielo della Regione; anno dopo anno la holding ha consolidato ricavi e bilanci sfruttando una condizione di assoluto privilegio: funzionava da controllore e da controllato. In questa anomalia sono cresciute le ambiguità, con incarichi assegnati fuori dalle regole, procedure falsate, contratti retrodatati. Illeciti di un sistema che non si è mai distinto per trasparenza e ha dimostrato, prima con i politici indagati e arrestati, e poi con la decapitazione della vecchia maggioranza, tutta la sua fallibilità. Le accuse dei magistrati alla catena di comando di Infrastrutture Lombarde sono pesanti: se saranno dimostrate avremo l’ennesima prova che negli appalti pubblici resistono le regole truccate per cui non vince mai il più bravo, il più corretto, il più pulito, ma c’è un campo ristretto in cui giocano (e si premiano) gli amici degli amici. Colpisce che un sistema così opaco non sia stato toccato per tempo da un rinnovamento ai vertici: l’ex direttore generale arrestato ieri era ancora attivissimo in tutti i campi. Anche in Expo, nel cantiere che va messo subito in sicurezza dall’eredità malata di quelle pratiche illecite. A questo punto non ci sono vie di mezzo: devono essere le istituzioni a creare una rete protettiva contro ogni illegalità, garantendo quella trasparenza che un ex colonnello dei Ros, indagato anche lui dalla Procura, non è riuscito a dare.
MILANO: IL PALAZZO DI GIUSTIZIA, DEI VELENI E DEGLI INSABBIAMENTI.
La giustizia italiana ultima in classifica. Secondo un rapporto europeo siamo gli ultimi. E nessuno ne parla, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ultimi in classifica, secondo il Rapporto sullo stato della giustizia nei Paesi membri dell’Unione Europea. In tutta l’Europa non esiste un paese nel quale il numero dei processi civili pendenti sia più alto che in Italia. E in tutta l’Europa solo Malta ci batte (in negativo) quanto a lungaggine della giustizia civile. Ne vogliamo parlare o dobbiamo tenere a distanza il problema perché anche solo evocarlo significa essere berlusconiani? Vogliamo parlarne o dobbiamo lasciare a don Mazzi la scomodità di sostenere tesi politicamente scorrette e paradossali come la disponibilità a perdonare gli assassini ma non i persecutori di Berlusconi e questo viene preso come odio verso le toghe? Ne vogliamo parlare o è vilipendio anche solo accennare alla “casta” della magistratura, che non è un potere dello Stato, non è elettiva come negli Stati Uniti, e tuttavia si autogoverna come una corporazione medievale spostando le pedine e deliberando promozioni sulla base di una lottizzazione politico-correntizia che grida vendetta se di mezzo c’è la vita delle persone? Ne vogliamo parlare o dobbiamo ancora sopportare che l’Italia sia così ingessata, incapace di attrarre investimenti stranieri anche perché non in grado di garantire la certezza del diritto e la giustizia del processo nel settore civile e amministrativo? Ci sarà o no qualche responsabilità dell’alta burocrazia giudiziaria nel fatto che i grandi processi politici o le iniziative clamorose come gli scontri fra magistrati nei palazzi di giustizia o la militanza politica di alcune toghe facciano passare in secondo piano la miriade di casi giudiziari comuni che assillano i cittadini qualunque, con dispendio di risorse per inchieste atte quasi soltanto a promuovere l’immagine di singoli magistrati? Ci sarà o no una responsabilità del Csm nella fatica o difficoltà di sanzionare i giudici per le uscite inopportune e la sovresposizione mediatica, per le interviste sui motivi delle sentenze che anticipano il deposito delle motivazioni, per gli errori e per le gravi negligenze per le quali in Italia, a dispetto di un referendum che si è celebrato senza conseguenze normative, i magistrati non sono civilmente responsabili come negli altri paesi europei? Ci sarà una responsabilità della casta delle toghe se l’Europa condanna l’Italia per i privilegi concessi dalla legge (o dalla sua assenza) a PM che per i loro errori, o per accanimento, abbiano rovinato la vita delle persone? Insomma, possibile che dal 2010 al 2012 la media di giorni necessari per portare a termine un procedimento civile sia diventata da 500 addirittura 600? E possibile che a pagare per la divulgazione di notizie coperte dal segreto istruttorio siano sempre solo i cronisti e non chi allunga i fascicoli selezionando anche i bersagli? Possibile che ci sia in Italia una congiura del silenzio su questo bubbone della giustizia ingiusta e inefficiente?
Appalti e tangenti, terremoto Expo. Arrestati Greganti, Frigerio e Paris. Le accuse:corruzione e turbativa d’asta. I pm: cupola con coperture politiche. L’inchiesta divide la Procura di Milano, Robledo non firma: non l’ho condivisa, scrive Paolo Colonello su “La Stampa”. Nuovo terremoto sugli appalti Expo. Un blitz che ha visto impegnati oltre 200 uomini della Guardia di Finanza, ha portato in carcere sei persone più una agli arresti domiciliari accusate a vario titolo di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra questi vecchi e nuovi volti dell’affarismo e della politica italiana. Tra i “nuovi” Angelo Paris, direttore della pianificazione acquisti di Expo e l’ex parlamentare di Forza Italia Grillo. Tra i “vecchi” Primo Greganti, il famoso “compagno G” già arrestato durante l’inchiesta Mani Pulite per le tangenti al Pci e Gianstefano Frigerio, l’ex parlamentare della Democrazia cristiana già arrestato e condannato per Tangentopoli. Da quanto si è appreso l’inchiesta vedrebbe al centro una serie di fatti di turbativa d’asta e corruzione relativa all’Expo e alla città della salute. L’inchiesta è coordinata dai pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio è coordinata dalla Dda di Ilda Boccassini e seguita personalmente dal procuratore Edmondo Bruti Liberati. Alla base dell’indagine ci sarebbero intercettazioni e riscontri di rapporti tra ambienti della sanità lombarda e uomini legati alla ’ndrangheta. Un troncone dell’indagine aveva già portato all’arresto dell’ex consigliere regionale Massimo Guarischi, considerato molto vicino all’ex governatore Formigoni. Ora il salto di qualità dell’inchiesta arriva fino agli appalti per Expo 2015, già finiti nel mirino con l’arresto del direttore generale di Infrastrutture Lombarde avvenuto un mese fa. Inchieste che s’intrecciano e definiscono un quadro inquietante di appetiti attorno all’evento più importante per Milano nel prossimo anno. I pm hanno spiegato che in Lombardia agiva una vera e propria «cupola per condizionare» gli appalti. Questa «cupola» avrebbe promesso «avanzamenti di carriera» a manager e pubblici ufficiali grazie a «protezioni politiche». Il pm Antonio D’Alessio ha parlato di una associazione che aveva la «capacità di avere ramificazioni in diversi settori dell’alta amministrazione, nonché appoggi e agganci di carattere politico istituzionale che hanno assicurato la possibilità di avvicinare con successo pubblici ufficiali». Sempre stando alla ricostruzione di D’Alessio, quando c’era una procedura di gara, l’associazione «interveniva cercando di avvicinare il pubblico ufficiale competente usando gli agganci che aveva anche in ambito politico». In una delle intercettazioni citate dal pm Claudio Gittardi il manager Angelo Paris prometteva, parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere: «Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera». Nelle carte dell’inchiesta compaiono anche i nomi di Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Cesare Previti (che non risultano indagati). «Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera». È quello che in sostanza avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 arrestato oggi, in un’intercettazione agli atti, parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere. Poi c’è Primo Greganti. Il suo ruolo era «coprire e proteggeva le cooperative», hanno spiegato i pm in conferenza stampa, sottolineando anche che la «saldatura» tra Greganti e Gianstefano Frigerio, ex parlamentare Dc, «proteggeva le imprese riconducibili a tutti gli schieramenti politici». Il quadro tracciato dai magistrati è di estrema gravità. In Lombardia sarebbe quindi esistita una vera e propria «cupola per condizionare gli appalti». Una cupola che prometteva «avanzamenti di carriera» grazie a «protezioni politiche» a manager e pubblici ufficiali. Abbiamo reciso nel più breve tempo possibile i rami malati, proprio per consentire ad Expo di ripartire al più presto», ha spiegato il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. «Non c’è nessun politico nazionale indagato, allo stato». «Non c’è nessun politico nazionale indagato, allo stato», «Non c’è nessun politico nazionale indagato, allo stato», ma la «pericolosità» dell’associazione per delinquere consisteva proprio nel fatto di avere «agganci politici e istituzionali ad alto livello per intervenire sui pubblici ufficiali». La “sede sociale” dell’associazione per delinquere che avrebbe “inquinato” una serie di appalti era un’associazione culturale intitolata a Tommaso Moro, lo scrittore umanista autore di “Utopia”. «Neanche la sua fantasia sarebbe arrivata a tanto», ha affermato Edmondo Bruti Liberati. L’associazione culturale era riferibile secondo i pm, a Gianstefano Frigerio. L’ex parlamentare Dc era il «presidente del Centro Culturale “Tommaso Moro”» e alcuni imprenditori, secondo i pm, avrebbero anche dato «soldi per una pubblicazione riferibile al figlio di Frigerio». Nel centro, secondo il pm Gittardi, «c’era una viavai continuo di imprenditori, dg di aziende ospedaliere, personaggi di rilievo politico» e poi una serie di incontri si svolgevano anche «in alberghi, ristoranti, nel corso di cene a Milano e Roma». Gli incontri si svolgevano, come ha spiegato il pm D’Alessio, «anche a Roma ogni mercoledì». La «struttura» associativa, come ha sottolineato Bruti Liberati, «ruotava attorno a Frigerio, Greganti, Grillo come organizzatori dell’associazione» e aveva per «partecipi Cattozzo, Paris e Maltauro». Secondo le indagini, la «cupola degli appalti» sarebbe riuscita anche a condizionare un appalto con al centro la società Sogin per lo smaltimento di scorie nucleari. Frigerio, invece, aveva a disposizione, in particolare, una «squadra» di dg di aziende ospedaliere lombarde. Questa, hanno sottolineato i pm, «non è un’indagine sull’Expo, ma è anche un’indagine sull’Expo». Ma l’inchiesta divide la Procura di Milano. Bruti Liberati ha spiegato che il procuratore aggiunto Alfredo Robledo «non ha condiviso l’impostazione e non ha vistato». Ilda Boccassini ha spiegato che l’indagine è «una delle numerose costole» dell’inchiesta contro le cosche della ’ndrangheta “Infinito-Crimine” del luglio 2010, che vedeva coinvolto l’ex direttore della Asl di Pavia Carlo Antonio Chiriaco, poi condannato e «in contatto con una serie di personaggi politici e manager di ospedali». A questo, ha proseguito, «si è aggiunto poi il troncone relativo al suicidio» del dirigente settore appalti dell’ospedale San Paolo di Milano, Pasquale Libri, «imparentato con un’importante famiglia mafiosa». Le indagini «sono state delegate al pm Gittardi, anche per la sua esperienza passata nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione». Poi, sempre secondo Boccassini, «sono venute alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione» e «io le ho segnalate a Bruti per una sinergia con il secondo dipartimento», coordinato dall’aggiunto Robledo. «Ed è stato affiancato il pm D’Alessio», ha aggiunto Boccassini. D’Alessio è proprio del secondo dipartimento. Da queste indagini è scaturita l’inchiesta che ha portato nei mesi scorsi all’arresto dell’ex consigliere Massimo Guarischi e poi a quest’ultimo filone sull’Expo. Secondo Bruti Liberati, «Robledo non ha condiviso l’impostazione e non ha vistato, ma prima c’erano state numerose riunioni» e poi l’indagine è rimasta a chi la seguiva, ma io «ho informato e ho seguito quotidianamente le indagini».
Expo, Bruti Liberati: "Robledo non c'è perché non ha condiviso l'inchiesta", scrive “Libero Quotidiano”. Nell'inchiesta Expo c'è spazio anche per un nuovo atto della guerra in corso nella Procura di Milano. L'inchiesta è stata guidata da un pm del pool guidato da Ilda Boccassini, il sostituto procuratore Claudio Gittardi, e da uno del gruppo diretto da Alfredo Robledo, Antonio D’Alessio. Tuttavia Robledo non era presente alla conferenza stampa perché ha spiegato il procuratore Edmondo Bruti Liberati, "l’indagine non è firmata anche da lui in quanto non ha condiviso l’impostazione: per questa ragione oggi non è qui con noi". Insomma un altro gesto forte di rottura, segno evidente della frattura che si è creata nel Palazzo di giustizia milanese. Robledo è lo stesso procuratore aggiunto che ha presentato un esposto al Csm per segnalare irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli. Come quello relativo al caso Ruby, assegnato a Ilda Boccassini che, secondo lui, come capo dell'antimafia non aveva alcuna competenza specifica. Robledo ha segnalato anche il caso della privatizzazione di una quota della Sea da parte della giunta di sinistra che governa Milano affidato al pool reati finanziari e poi dimenticato in cassaforte per mesi. Il fatto che questa mattina Robledo non è sfuggito ai cronisti ai quali lo steso procuratore capo ha spiegato le motivazioni della sua assenza. Nessun commento. Ma mai come in questo caso, parlano i fatti.
Tribunale di Milano, Robledo: "Così l'inchiesta Ruby finì alla Boccassini", scrive “Libero Quotidiano”. Tra le mura della procura di Milano lo scontro tra i magistrati ormai è fuori controllo. Davanti al Csm il 15 aprile scorso il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo ha ampliato le accuse che aveva rivolto al capo dell'ufficio Edmondo Bruti Liberati nell'esposto inviato a Palazzo dei marescialli, al pg del capoluogo lombardo Manlio Minale e che è ora all'attenzione anche del Pg della Cassazione Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Robledo nelle sue accuse è un fiume in piena e punta il dito contro Bruti Liberati soprattutto per due processi, quello a carico dell'ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni e quello su Silvio Berlusconi per il caso Ruby. Formigoni e il caso Ruby - Le prime accuse nei confronti dell'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni nell'ambito dell'inchiesta sul San Raffaele "erano state mosse da testimoni nel luglio del 2011 ma l'iscrizione per corruzione è avvenuta con il ritardo di un anno", ha dichiarato Robledo, nonostante si trattasse di indicazioni "dettagliate". Secondo Bruti invece gli "elementi sufficienti per iscrivere i reati di corruzione" emersero quasi un anno dopo l'avvio dell'indagine, mentre l'aggiunto avrebbe voluto procedere "sulla base di un articolo di giornale". Poi Robledo, come racconta il Corriere della Sera cala il colpo sul processo Ruby. Robledo ha infatti raccontato che fu un altro collega, il pm Ferdinando Pomarici, a definire "una violazione delle regole grave" l'assegnazione del fascicolo Ruby a Ilda Boccassini. Ma per Bruti Liberati non ci fu nessuna irregolarità, piuttosto una decisione condivisa con i colleghi interessati. E ad infuocare lo scontro al palazzo di Giustizia ci pensano le rivelazioni di Robledo raccolte da Repubblica. Robledo riporta i giudizi dell'ex aggiunto Ferdinando Pomarici: "Mi ha detto che era una violazione delle regole grave perché il fascicolo andava assegnato al secondo dipartimento (pubblica amministrazione di Robledo, ndr) e non alla Boccassini". Insomma a quanto pare l'inchiesta Ruby sarebbe finita in mani sbagliate. Il caso è aperto. E a quanto pare Robledo ha tutta l'intenzione di andare fino in fondo.
Ilda la rossa, di vergogna: su Ruby ha imbrogliato. Il pg Minale davanti al Cms conferma: fascicolo scippato ad un altro pm. Forza Italia: abusi e irregolarità pur di colpire Berlusconi. Ilda la rossa, di vergogna: su Ruby ha imbrogliato, scrive Valter Brogino su "Il Giornale d’Italia”. Alla “rossa”, evidentemente, quella storia piaceva tanto. Più per curiosità personale, si direbbe, che per una questione professionale. Sì, a Ilda Boccassini piaceva tanto, quella storia della ragazzina che poi sarebbe stata indicata come massima espressione di una “furbizia orientale” (nonostante fosse ben più occidentale di noi italiani, visto che viene dal Marocco: ma la geografia non dev’esser materia d’esame al concorso per la magistratura). Tanto da andare ad indagare anche se non aveva ancora la titolarità del fascicolo. Ora la storia finalmente viene a galla, emerge dalle paludi della Procura di Milano, lentamente, più della madeleine di Proust, ma altrettanto inesorabilmente. Merito della tenacia con cui Alfredo Robledo, procuratore aggiunto di Milano, ha dato l’assalto ad un apparato che a Palazzo di Giustizia ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo. Da settimane Il Giornale d’Italia dà conto puntualmente ai suoi lettori della natura estremamente grave delle accuse che Robledo porta avanti. Alla fine, una conferma indiretta a quelle accuse è arrivata dal procuratore generale di Milano, Manlio Minale. Ieri 7 maggio 2014 la cosa è divenuta pubblica, ma è ormai da un mese che Minale l’aveva riferita, nella sua audizione davanti al Consiglio superiore della Magistratura. Audizione avvenuta il 14 aprile. La verità viene a galla, insomma, e per Minale Ilda Boccassini non "aveva titolarità" dell'inchiesta su Ruby quando sentì il capo di gabinetto della questura di Milano, Pietro Ostuni, dal cui interrogatorio scaturì l'iscrizione di Silvio Berlusconi con l'accusa di concussione. Il titolare del fascicolo era, con il pm Pietro Forno, il sostituto Antonio Sangermano che ai primi atti di indagine lavorava al Settimo Dipartimento della procura di Milano, ma che in seguito passò alla Dda diretta da Ilda Boccassini, portandosi dietro il fascicolo. Particolare, questo, che a detta di Minale non poteva comunque autorizzare in sé che la Boccassini assurgesse al ruolo di "procuratore aggiunto di coordinamento". Insomma, la “rossa” era o no autorizzata a compiere l'interrogatorio di Ostuni e del funzionario Giorgia Iafrate, che era di turno la notte in cui Ruby fu portata in questura per via di un furto? Non si sa, sostiene Minale, perché potrebbe anche aver chiesto un’autorizzazione in tal senso. Ma carte che suffraghino un tale assenso, non risultano. E qui Robledo sembra allora potersi assegnare un punto a favore nella battaglia contro il procuratore di Milano Bruti Liberati, che il procuratore aggiunto ha accusato davanti al Csm di irregolarità nell'assegnazione di alcuni fascicoli, a danno del suo Dipartimento che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione. Va da sé che, al di là della battaglia giudiziaria, la cosa riapre anche un’antica ferita sul versante politico: a seguito dei due interrogatori il 21 dicembre del 2010 Berlusconi venne iscritto nel registro degli indagati per concussione. Luca D’Alessandro, deputato di Forza Italia e segretario della commissione Giustizia della Camera, dà fuoco alle polveri. “Quanto sta emergendo dal procedimento del Csm sulla spaccatura interna alla Procura di Milano, è un intreccio di irregolarità, abusi, favoritismi e forzature che dimostrano come fosse in vita una procura nella procura che aveva lo scopo esclusivo di colpire Silvio Berlusconi. Sembra quasi che secondo il capo degli inquirenti, Bruti Liberati, vi fossero magistrati più magistrati di altri specializzati nella caccia sistematica al leader di Forza Italia e del centrodestra. Le parole del dottor Minale rappresentano la prova regina di questo desolante e inquietante quadro, dove pubblici ministeri avrebbero condotto indagini e interrogato testimoni senza neanche averne la titolarità, con la forza esclusiva derivante dal nome che portano e dai galloni e le mostrine conquistate sul campo in qualità di braccio armato della sinistra. Auspichiamo che almeno per una volta il Consiglio superiore della magistratura sappia mettere da parte il suo corporativismo dilagante e il timore reverenziale verso l’ufficio giudiziario milanese per intervenire in modo chiaro, netto e severo”. Si avrà questo coraggio?
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Robledo, Bruti Liberati e gli schiaffi tra pm nella procura anti Berlusconi. Cominciamo dalla fine, e diciamo subito che alla Procura di Milano - abituata, più di altre, a lavarsi in casa i panni sporchi - denunciare il proprio capo significa bruciarsi. A un procuratore aggiunto che denuncia il procuratore capo, cioè, la cosa più probabile che possa capitare è che incorra presto o tardi in un «promoveatur ut amoveatur», e cioè che il Csm che lo trasferisca ad altro più prestigioso incarico. Si tratta di capire in che misura il procuratore aggiunto Alfredo Robledo soffrirebbe per questo. Ora però ricominciamo dall’inizio. Il procuratore Robledo ha denunciato il suo capo, Edmondo Bruti Liberati, per via di presunte irregolarità nell’assegnazione dei fascicoli. La denuncia è stata inoltrata al Csm (che non l’ha ancora ricevuta) e alla procura generale e al consiglio giudiziario. Robledo ha scritto di «non più episodici comportamenti» coi quali Bruti Liberati «ha turbato e turba la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio». Ne ha dato notizia il Corriere della Sera, ma prima di addentrarci va detto subito che gli interrogativi, in linea generale, sono tutt’altro che nuovi. Del tipo: di che cosa è capo, un procuratore capo? Può deviare l’assegnazione di un’inchiesta per indirizzarla a chi pare a lui? Lo può fare una volta, due volte, tre volte, sempre? Viceversa: sin dove può arrivare l’indipendenza di un procuratore? È tenuto a dialogare col suo capo, ad avvertirlo di ogni cosa? Ha ragione di pretendere che ogni inchiesta gli venga automaticamente recapitata solo per l’argomento che tratta? Eccetera. Diciamo subito anche un’altra cosa: che no, lo scontro alla procura di Milano - nostro parere - non è per niente «una lotta tra bande con al centro lo strapotere di Magistratura democratica», come si è scritto in giro: si tratta fondamentalmente di impicci tra magistrati, guerricciole interne a un potere che non ha più argini - la magistratura - e che diventano il paradosso di una corporazione che di indipendenza rischia di morirci. Vediamo i dettagli. Secondo Robledo, il suo capo Bruti Liberati avrebbe svuotato il pool anticorruzione, nel senso che avrebbe destinato ad altri - cioè a Ilda Boccassini e a Francesco Greco - alcuni fascicoli che Robledo avrebbe accolto più che volentieri: per esempio il Rubygate berlusconiano, il fallimento dell’ospedale San Raffaele e la conseguente accusa di bancarotta a Pierangelo Daccò, poi sfociata anche in un’accusa di corruzione all’ex presidente della Lombardia Roberto Formigoni. Già in passato, quando capo e vicecapo della Procura erano Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio, Robledo era giunto a denunciare un’asserita «violazione dei criteri di organizzazione sulla competenza interna vigenti nell’ufficio» per l’inchiesta riguardante l’asta Sea-Comune di Milano, quella riguardante il manager Vito Gamberale. Per dirla male: quando ci sono inchieste delicate o scottanti, i capi hanno teso a preferire Ilda Boccassini e Francesco Greco, e questo è un fatto. C’è qualche retroscena? Probabilmente no, ma Robledo ha offerto il fianco a qualche suggestione per via di un’intervista rilasciata tempo fa all’Espresso: «Le correnti della magistratura sono diventate soffocanti al di là delle buone intenzioni di tanti giudici onesti e capaci... Oggi purtroppo la struttura preponderante è una macchina da nomine. In una società liquida, in piena crisi di valori, servirebbe una nuova idea di giustizia». Oppure servirebbe dare i fascicoli a lui: in ogni caso c’è chi ha forzatamente letto l’intervista a Robledo come una nota polemica contro Magistratura democratica. Il lungo esposto di Robledo (pubblicato su giustiziami.it) si fa forte di tabellari e risoluzioni del Csm, ma la sostanza resta chiara. Il procuratore aggiunto lamenta che vari fascicoli sono stati deviati al primo distretto (reati finanziari) per non darli al secondo distretto (quello di Robledo per i reati contro la pubblica amministrazione). Si parla apertamente di «non consentiti spazi di discrezionalità» giungendo a scomodare un «insanabile contrasto con il dettato costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale» a proposito del fascicolo Sea, rimasto in cassaforte per settimane per poi essere assegnato al solito pool per i reati finanziari coordinato da Francesco Greco. Era e rimane l’unico caso eclatante: quel fascicolo non solo andò al procuratore «sbagliato», ma rimase in sonno per mesi; da capo del pool per i reati societari, Greco dapprima iscrisse il fascicolo a modello 45 (non costituenti notizie di reato) e poi l’affare passò al suo fidato Eugenio Fusco, che si pose il problema della competenza perché si configurava una turbativa d’asta per un’amministrazione pubblica, cioè il comune di Milano. Quando Bruti Liberati annunciò a Robledo che gli avrebbe finalmente consegnato il fascicolo, infine, passarono altri mesi senza nessun atto: il fascicolo planò sulla scrivania di Robledo solo nel marzo 2012, dopo un articolo dell’Espresso. Non che, di lì in poi, l’inchiesta abbia registrato progressi dirompenti. Altre lagnanze di Robledo paiono più forzate. Come detto, c’è il caso Ruby, affidato a una come la Boccassini (capo dell’antimafia) e a uno come Piero Forno (capo del pool reati sessuali) e a uno come Antonio Sangermano (in passaggio all’antimafia) e insomma non a Robledo: ma era fisiologico. Ilda Boccassini ha certamente spintonato per occuparsene - il personaggio è fatto così - ma il destinatario naturale era comunque il procuratore Forno: il quale, essendosene occupato in primo grado, è prassi che se ne occupi anche nei successivi. Ma è una prassi che a Robledo non piace. E denunciarlo al Csm equivale a uno sfregio.
Caso Ruby, la Boccassini non aveva la titolarità a indagare. Pur non essendo assegnataria del fascicolo su Ruby la pm Boccassini interrogò il capo gabinetto della Questura, Piero Ostuni, e Giorgia Iafrate, la funzionaria di polizia che affidò Ruby a Nicole Minetti, scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Ilda Boccassini "non aveva titolarità" per interrogare Piero Ostuni (all’epoca capo di gabinetto della questura di Milano) e Giorgia Iafrate (la funzionaria di polizia che affidò Ruby a Nicole Minetti) nell’ambito della vicenda Ruby. L'ha detto il pg di Milano, Manlio Minale, nel corso della sua audizione al Csm del 14 aprile scorso, davanti alla prima e alla settima commissione che hanno avviato un’indagine a seguito dell’esposto presentato dall’aggiunto Alfredo Robledo su presunte irregolarità alla Procura di Milano. "I magistrati sostituti trascinano i procedimenti - afferma Minale, in riferimento al fatto che il pm Sangermano, titolare del fascicolo Ruby, passò dal pool guidato dall’aggiunto Nobili a quello della Boccassini - ma se sono di materia specializzata devono riferire al loro che è addirittura il procuratore aggiunto di riferimento che mette il visto". Quindi, Ilda Boccassini "non essendoci stata un’assegnazione diretta fino al provvedimento di iscrizione dobbiamo ritenerla non assegnataria di quel procedimento, sempre che - aggiunge Minale - non si ritenga che il procuratore, annotando procedimento assegnato a Boccassini, Forno e Sangermano, nel dicembre 2010, al momento dell’iscrizione del reato di concussione, "non abbia voluto coprire, sanare la precedente situazione". Secondo il pg "è un punto che fino a quel provvedimento di iscrizione la collega Boccassini non era assegnataria perché si è inserita, ha ritenuto di assistere, di lavorare insieme al sostituto che era del suo dipartimento ma in un procedimento che non era di Dda". "Quanto sta emergendo dal procedimento del Csm sulla spaccatura interna alla Procura di Milano - sottolinea Luca D’Alessandro, deputato di Forza Italia e segretario della commissione Giustizia della Camera - è un intreccio di irregolarità, abusi, favoritismi e forzature che dimostrano come fosse in vita una Procura nella Procura che aveva lo scopo esclusivo di colpire Silvio Berlusconi. Sembra quasi - aggiunge - che secondo il capo degli inquirenti, Edmondo Bruti Liberati, vi fossero magistrati più magistrati di altri specializzati nella caccia sistematica al leader di Forza Italia e del centrodestra". "Le parole del dottor Minale - prosegue D'Alessandro - rappresentano la prova regina di questo desolante e inquietante quadro, dove pubblici ministeri avrebbero condotto indagini e interrogato testimoni senza neanche averne la titolarità, con la forza esclusiva derivante dal nome che portano e dai galloni e le mostrine conquistate sul campo in qualità di braccio armato della sinistra. Auspichiamo - conclude - che almeno per una volta il Consiglio superiore della magistratura sappia mettere da parte il suo corporativismo dilagante e il timore reverenziale verso l’ufficio giudiziario milanese per intervenire in modo chiaro, netto e severo".
Boccassini non poteva indagare su Ruby. L'ex procuratore capo di Milano al Csm: "Non aveva i titoli per interrogare il capo di gabinetto della Questura", scrive invece Luca Fazzo su “Il Giornale”. Tre anni di difese d'ufficio e di arrampicate sugli specchi vanno a sbattere ieri pomeriggio contro la solidità di poche e semplici parole, che trapelano dagli atti del Consiglio superiore della magistratura e certificano quello che già si poteva vedere a occhio nudo: l'indagine su Silvio Berlusconi per il caso Ruby è nata fin dal primo giorno fuori dalle regole. A condurla è stato un magistrato che non aveva il titolo per farlo. Quel magistrato si chiama Ilda Boccassini, il procuratore aggiunto della Repubblica che si è poi presa l'incarico di condurre in aula il processo all'ex presidente del Consiglio, chiedendo e ottenendo la sua condanna per concussione e prostituzione minorile. Ma quell'inchiesta non poteva farla lei. Non lo dice Berlusconi e non lo dicono i suoi legali. Lo dice un magistrato al di sopra di ogni sospetto: Manlio Minale, ex procuratore capo di Milano, che nell'autunno del 2010 era, come oggi, procuratore generale. Minale è stato interrogato dal Csm nell'ambito dell'inchiesta scaturita dall'esposto di Alfredo Robledo, procuratore aggiunto, sulla gestione dei fascicoli di inchiesta della Procura milanese. Nell'elenco dei casi che sarebbero stati gestito non secondo le regole della giustizia ma secondo quelli della opportunità politica, Robledo ha inserito anche il caso Ruby, un fascicolo di cui Ilda Boccassini si sarebbe impossessata senza averne titolo. E Minale conferma integralmente: Ilda Boccassini interrogò «senza titolarità», il 30 ottobre 2010, il capo di gabinetto della questura di Milano Pietro Ostuni, che quel giorno rivelò per la prima volta di avere ricevuto una telefonata di Silvio Berlusconi la notte in cui Ruby si trovava in questura. La testimonianza di Ostuni si è poi rivelata decisiva per la condanna del Cavaliere per concussione. Peccato che fino a quel momento titolare del fascicolo fosse un altro magistrato, il pm Antonio Sangermano, coordinato dal procuratore aggiunto Pietro Forno, specialista in reati sessuali. Dal luglio precedente, erano Forno e Sangermano a condurre gli interrogatori di Ruby, nella comunità che la ospita. Ma a ottobre irrompe in scena la Boccassini, che ha saputo non si sa come che l'indagine sta toccando Berlusconi. E che si fa avanti, forte di meriti e esperienze acquisiti in tre lustri di indagini sul Cav. In quel momento la «Rossa» non ha alcuna competenza in materia, perché è a capo del pool antimafia, mentre l'indagine spetterebbe a Forno per il lato «sessuale» e per il reato di concussione al pool guidato da Robledo. Ma accade il miracolo. Il 28 ottobre, Bruti accoglie improvvisamente la richiesta di trasferimento al pool antimafia del pm Sangermano, che da quel momento fa così parte della squadra di Ilda. E due giorni dopo avviene l'interrogatorio di Ostuni, con la Boccassini che assume il controllo dell'inchiesta come coordinatrice di Sangermano. Così, almeno, ha sempre spiegato Bruti, parlando di una prassi costante in uso nella Procura di Milano, di chi però non si trova traccia in alcun altro caso. Ora a certificare che le regole furono violate è Minale, un magistrato difficilmente sospettabile di berlusconismo. Per le sorti del processo poco cambia, le prove raccolte dalla Boccassini restano valide, e varranno nel processo d'appello che si aprirà il 20 giugno. Ma se si vuole capire in che modo e con che obiettivi sia stata condotta la caccia al Cavaliere, la testimonianza di Minale scioglie i dubbi residui. La Boccassini, dice Minale, «non aveva titolarità». Ma sapeva delle indagini su Ruby, e nei due giorni successivi all'ingresso di Sangermano nella sua squadra ebbe la conferma che quella era l'occasione giusta per incastrare Berlusconi. «Questa inchiesta devo farla io», disse. E Bruti abbozzò. Ora il Csm gliene chiederà conto.
Ruby, il pg di Milano: "Ilda Boccassini non aveva la titolarità dell'indagine", scrive “Libero Quotidiano”. Un siluro sganciato da un collega contro Ilda Boccassini, la pm anti-Cav che "non aveva la titolarità" per interrogare Piero Ostuni (all'epoca capo di gabinetto della questura di Milano) e Giorgia Iafrate (la funzionaria di polizia che affidò Ruby a Nicole Minetti). Secondo quanto affermato dal pg di Milano, Manlio Minale, la Boccassini "non aveva la titolarità" dell'inchiesta che ha portato alla condanna in primo grado di Silvio Berlusconi. Le parole di Minale sono relative allo scorso 14 aprile, quando parlò in audizione al Csm, davanti alla prima e alla settima commissione che avevano avviato un'indagine a seguito dell'esposto presentato dall'aggiunto Alfredo Robledo su presunte irregolarità commesse dalla procura di Milano. Minale, in relazione al fatto che il pm Sangermano, titolare del fascicolo Ruby, passò dal pool guidato dall'aggiunto Nobili a quello delle Boccassini, afferma: "I magistrati sostituti trascinano i procedimenti, ma se sono di materia specializzata devono riferire al loro che è addirittura il procuratore aggiunto di riferimento che mette il visto". Le presunte pressioni - Dunque, la Boccassini, poiché non c'era "stata un'assegnazione diretta fino al provvedimento di iscrizione, dobbiamo ritenerla non assegnataria di quel procedimento, sempre che non si ritenga che il procuratore - annotando procedimento assegnato a Boccassini, Forno e Sangermano nel dicembre 2010, al momento dell'iscrizione del reato di concussione - non abbia voluto coprire, sanare la precedente situazione". Secondo Minale, dunque, "è un punto che fino a quel provvedimento di iscrizione la collega Boccassini non era assegnataria perché si è inserita, ha ritenuto di assistere, di lavorare insieme al sostituto che era del suo dipartimento ma in un procedimento che non era di Dda". Delle rilevazioni, quelle sulle presunte insistenze di Ilda la rossa per indagare su Berlusconi, che hanno scatenato la reazione di Forza Italia. A parlare è il deputato Luca D'Alessandro, segretario della commissione Giustizia della Camera: "Quanto sta emergendo dal procedimento del Csm sulla spaccatura interna alla Procura di Milano è un intreccio di irregolarità, abusi, favoritismi e forzature che dimostrano come fosse in vita una Procura nella Procura che aveva lo scopo esclusivo di colpire Silvio Berlusconi". "Caccia sistematica" - D'Alessandro continua nella sua accusa: "Sembra quasi che secondo il capo degli inquirenti, Edmondo Bruti Liberati, vi fossero magistrati più magistrati di altri specializzati nella caccia sistematica al leader di Forza Italia e del centrodestra. Le parole del dottor Minale - prosegue D'Alessandro - rappresentano la prova regina di questo desolante e inquietante quadro, dove pubblici ministeri avrebbero condotto indagini e interrogato testimoni senza neanche averne la titolarità, con la forza esclusiva derivante dal nome che portano e dai galloni e le mostrine conquistate sul campo in qualità di braccio armato della sinistra. Auspichiamo - conclude il deputato azzurro - che almeno per una volta il Consiglio superiore della magistratura sappia mettere da parte il suo corporativismo dilagante e il timore reverenziale verso l’ufficio giudiziario milanese per intervenire in modo chiaro, netto e severo".
Milano, il pm anticorruzione denuncia il capo della Procura, scrive “Libero Quotidiano”. Il vice che denuncia il capo. Accade per la prima volta alla Procura di Milano dove il procuratore aggiunto Alfredo Robledo ha denunciato al Csm il capo Edmondo Bruti Liberati perché, a suo avviso, avrebbe compiuto delle irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli. Secondo quanto scrive il Corriere della Sera, Robledo accusa il capo di aver svuotato il pool reati contro la pubblica amministrazione, privilegiando invece l'assegnazione dei fascicoli più delicati in questa materia ad altri due procuratori aggiunti: Ilda Boccassini e il capo del pool reati finanziari Francesco Greco. Tutti i casi - In particolare Robledo fa riferimento al processo Ruby a Silvio Berlusconi per concussione, l'indagine su Formigoni-San Raffaele per corruzione e il fascicolo sulla turbativa d'asta Sea-Gamberale. Robledo, 50 anni, napoletano, contesta anche che l'iscrizione di Belrusocni il 14 gennaio 2011 per concussione e prostituzione minorile sia avvenuta in un fascicolo assegnato non al dipartimento competente sul più grave reato di concussione ma ai pm Boccassini e Sangermano. E evidenzia che lo stesso sta accadendo anche per il fascicolo sulla falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari scaturito dalle motivazioni delle sentenze Ruby (riguardo 30 testimoni Berlusconi) e i suoi legali che è stato assegnato al pool sui reati sessuali. Non solo Berlusconi, sotto la lente del Consiglio Superiore della magistratura Robledo mette anche l'intercettazione di Vito Gamberale del 14 luglio del 2011 sull'asta Sea-Comune di Milano che i pm fiorentini hanno inviato a Milano nel mese di ottobre dello stesso anno per competenza territoriale. Il fascicolo fu assegnato a Greco che lo registrò nel modello "atti non costituenti notizie di reato" e lo coaffidò anche al pm Fusco che poi segnalò al capo che poteva trattarsi di turbativa d'asta, un reato di competenza di Robledo. Ma, stando a quanto sostiene Rbvledo nonostante il 9 di dicembre Bruti Liberati lo avesse chiamato per annunciargli l'assegnazione del fascicolo, lui lo ricevette solo nel mese di marzo quando alcuni organi di stampa aveva parlato del fascicolo sparito. Robledo, sempre secondo quanto scrive il Corriere sostiene che, quando lui andò a chiedere ragione dal suo capo, questi gli rispose di averlo "dimenticato in cassaforte".
Ecco l'esposto di Robledo contro Bruti Liberati, scrive “Panorama”. A Palazzo di Giustizia di Milano è ormai guerra aperta tra il Procuratore Capo ed il suo vice che denuncia irregolarità nell'assegnazione dei casi. "Nella mia qualità di procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Milano, avverto ormai l'obbligo di comunicare alcuni fatti e comportamenti posti in essere dal Procuratore della Repubblica, Edmondo Bruti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione..." Comincia così l'esposto denuncia al Consiglio Superiore della Magistratura del pm Alfredo Robledo contro il suo superiore, Edmondo Bruti Liberati. Pagine in cui Robledo attacca senza mezze misure il capo della Procura di Milano che a suo dire avrebbe preferito affidare alcune indagini scottanti sulla corruzione (reato di cui Robledo sarebbe proprio l'incaricato) ad altri colleghi come Ilda Boccassini e Francesco Greco. Tra le indagini che secondo Robledo sarebbero spettate a lui ma che Bruti Liberati ha affidato ad altri ci sono quella sulla vendita di quote della Sea (la società che controlla e gestisce gli aeroporti milanesi), quella su Ruby e quella sul fallimento dell'ospedale San Raffaele di Milano.
Il pm anti corruzione accusa il capo della procura e scrive al Csm. Robledo contro Bruti Liberati: si ostacolano due nuove inchieste su tangenti. Irregolarità nell’assegnazione dei fascicoli, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Nella Procura di Milano il vicecapo «denuncia» al Csm il capo. E nella gestione di due segrete nuove inchieste di tangenti, che si starebbero danneggiando a vicenda a causa della violazione dei criteri organizzativi di specializzazione tra i pool di pm, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo indica l’ultimo dei «non più episodici comportamenti» con i quali, a suo avviso, il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati «ha turbato e turba la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio». Come? Svuotando il pool reati contro la pubblica amministrazione di Robledo, e privilegiando invece l’assegnazione dei fascicoli più delicati in questa materia (tra i quali il processo Ruby a Silvio Berlusconi per concussione, l’indagine su Formigoni-San Raffaele per corruzione, e il fascicolo sulla turbativa d’asta Sea-Gamberale) ad altri due procuratori aggiunti di sua maggior fiducia, il capo dell’antimafia Ilda Boccassini e il capo del pool reati finanziari Francesco Greco. Al punto che Robledo, con una iniziativa senza precedenti nella Procura che fu di Borrelli e D’Ambrosio, giunge a denunciare l’asserita «violazione dei criteri di organizzazione vigenti nell’ufficio sulla competenza interna» al Consiglio superiore della magistratura vicepresieduto da Michele Vietti, alla diramazione distrettuale milanese e cioè al Consiglio giudiziario guidato dal presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, e al capo della Procura generale di Milano, Manlio Minale. Un profluvio di circolari e risoluzioni del Csm, complesse tabelle e dettagliati criteri organizzativi d’ufficio sono il denominatore comune della missiva in cui Robledo di fatto lamenta l’aggiramento o la violazione delle regole che dovrebbero far passare da lui le notizie di reato rientranti nella competenza specializzata del suo dipartimento. È il caso ad esempio del difetto di coordinamento che Robledo addita appunto in una nuova misteriosa inchiesta avviata dall’antimafia nell’aprile 2012, poi coassegnata a due pm dei pool di Boccassini e Robledo, ma (lamenta Robledo) fatta «per opportunità» coordinare da Bruti a Boccassini benché ad avviso di Robledo sembri riguardare nulla di mafia e tutto invece di corruzione. E siccome il pool di Robledo avrebbe in corso una precedente indagine su persone nel mirino anche di quella di Boccassini, «evidente è il rischio che importanti informazioni, quali quelle emerse da intercettazioni telefoniche e ambientali, non potranno essere utilizzate ove non confluiscano nel medesimo procedimento». Ma a ben vedere il vero motivo di attrito con Bruti appare una differente concezione dei limiti entro i quali abbiano asilo considerazioni di opportunità nelle tempistiche e modalità di trattazione dei fascicoli. Lo si intuisce dal riassunto delle divergenze nel luglio 2011 all’inizio del procedimento sul dissesto del San Raffaele di don Verzé, partito come fascicolo di bancarotta su Daccò e sfociato poi nel processo per corruzione al presidente della Regione Formigoni, sempre ad opera del pool finanziario di Greco. Robledo, di fronte ad articoli di stampa che già nel luglio 2011 collegavano un giro di fatture false alla creazione di disponibilità per un importante politico, dice che propose al pool di Greco di coordinarsi subito per indagini urgenti, ma che Bruti, preoccupato che esse potessero influire sulle trattative economiche in corso per scongiurare il fallimento dell’ospedale e il licenziamento di migliaia di persone, il 25 luglio gli ingiunse di non indagare alcuno e di non svolgere alcun atto di indagine «nel frattempo», e cioè «fino a una riunione in settembre» (poi non più fatta). Questa scelta per Robledo si è posta «in insanabile contrasto con il dettato costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale», aprendo a «valutazioni di opportunità estranee allo specifico ruolo istituzionale del pm»: soprattutto perché questi «non consentiti spazi di discrezionalità» avrebbero potuto «contribuire a creare zone di opacità», a loro volta passibili di «consentire una strumentalizzazione del ruolo del pm, sia pure involontariamente subìta». Robledo contesta anche che l’iscrizione di Berlusconi il 14 gennaio 2011 per concussione e prostituzione minorile nel processo Ruby sia avvenuta in un fascicolo assegnato (senza motivazioni) non al proprio dipartimento competente sul più grave reato di concussione, ma ai pm Boccassini (capo dell’antimafia), Forno (capo del pool reati sessuali) e Sangermano (che dal pool criminalità comune stava passando all’antimafia). E contesta che lo stesso stia accadendo adesso anche per il fascicolo (falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari) scaturito dalle motivazioni delle sentenze Ruby riguardo 30 testimoni, Berlusconi e i suoi avvocati, e assegnato ai pm Forno e Gaglio (pool reati sessuali). Infine c’è il già noto (Corriere della Sera 16 marzo 2012) caso dell’intercettazione di Vito Gamberale il 14 luglio 2011 sull’asta Sea-Comune di Milano, che i pm fiorentini Turco e Mione inviarono per competenza a Milano il 25 ottobre 2011 perché pareva captare un tentativo di far disegnare il bando su misura per il fondo F2i di Gamberale. È già noto che il 27 ottobre 2011 Bruti lo assegnò a Greco, il quale lo registrò nel modello «atti non costituenti notizie di reato» coaffidandolo il 2 novembre nel proprio pool al pm Fusco, che il 9 dicembre (sei giorni dopo le indiscrezioni di Reuters e Sole 24 Ore ) segnalò a Bruti che poteva trattarsi di un’ipotesi (turbativa d’asta) di competenza del pool di Robledo. Quello che invece ora Robledo aggiunge al Csm è che, sebbene il 9 dicembre Bruti lo avesse chiamato per anticipargli che gli avrebbe girato il fascicolo (anche perché l’asta da cui potevano dipendere i conti del Comune di Milano del sindaco Pisapia si teneva di lì a poco, il 16 dicembre), egli ricevette il fascicolo solo a distanza di tre mesi, il 16 marzo 2012, dopo che l’ Espresso online e i quotidiani avevano scritto del fascicolo desaparecido. E Robledo afferma che, quando ne chiese la ragione, Bruti il 23 marzo gli avrebbe risposto di averlo «dimenticato in cassaforte».
Robledo, il pm "contro" il suo capo, scrive “Libero Quotidiano”. Alfredo Robledo, 50 anni, napoletano è sostituto procuratore che alla procura di Milano si è sempre occupato di coordinare inchieste con reati relativi alla politica e alla corruzione. Tra le più recenti quelle sulla Lega Nord e su Formigoni. Ha concluso la maturità classica al prestigioso liceo napoletano Sannazzaro, si è laureato in giurisprudenza con tutti 30 e molte lodi. Nel suo ritratto pubblicato da L'Espresso il procuratore aggiunto racconta di aver cominciato a lavorare a vent'anni per mantenersi all'università: vende libri dell'Einaudi porta a porta."Il nostro gruppo andava tanto bene che Giulio Einaudi ci chiamò a Torino per conoscerci". Poi vince una borsa di studio, diventa assistente e insegna per quattro anni diritto civile. Superato il concorso in magistratura, fa il pm a Monza e poi il capo della pretura di Desio ed è qui che comincia a scoperchiare l'esistenza di affari malavitosi anche al Nord.. In Procura a Milano dal '95, ha seguito inchieste delicatissime come quella sul sequestro di Alessandra Sgarella i fondi neri Fininvest, e moltissimi casi di tangenti in politica.. Estraneo ai salotti e alle tessere di correnti, nella stessa intervista a L'Espresso ha detto: "le correnti della magistratura sono diventate soffocanti: al di là delle buone intenzioni di tanti giudici onesti e capaci, hanno esaurito la loro spinta propulsiva alla partecipazione. Oggi purtroppo la struttura preponderante è una macchina da nomine. In una società liquida, in piena crisi di valori, servirebbe una nuova idea di giustizia".
Tra una rogatoria internazionale e un'intercettazione scottante, si ritempra leggendo Marziale in latino, scrive Paolo Biondani su "L'Espresso". Cita a memoria le più belle quartine di Omar Khayyam, filosofo, matematico e poeta persiano dell'Undicesimo secolo, «uno dei libri che mi hanno cambiato la vita». I suoi fidati ufficiali di polizia giudiziaria vanno fieri dei trofei conquistati sui campi giudiziari di mezzo mondo: «Il dottore ha ricevuto lettere di elogi e solenni ringraziamenti da personalità come il procuratore di New York o l'ex governatore della banca centrale americana Paul Volcker». Ma lui tiene tutto in un cassetto, tra le infinite librerie di casa, minimizza e ci scherza sopra, in greco antico: «Panta rei, tutto scorre». Forse ci voleva proprio questo magistrato intellettuale napoletano per smascherare le ruberie padano-tanzaniane della Lega ladrona. Alfredo Robledo, classe 1950, procuratore aggiunto senza tessere di corrente, è il capo dei pm milanesi che indagano sulle nuove Tangentopoli. Il presunto patto tra Pdl e Carroccio per spartirsi le mazzette milionarie dell'urbanistica e della sanità lombarda. Lo scandalo dei rimborsi elettorali incamerati dal cerchio magico di Bossi. L'ex assessore regionale berlusconiano Nicoli Cristiani arrestato con una bustarella da 100 mila euro che puzza di discarica d'amianto. Il giallo dell'asta per la Sea che imbarazza la giunta Pisapia. I conti esteri con i fondi neri del tesoriere ciellino Alberto Perego, convivente del governatore Formigoni. E molte altre inchieste ancora segrete, che promettono nuovi colpi di scena. Mani pulite, vent'anni dopo: cosa è cambiato? «Posso fare solo una riflessione generale, delle indagini non parlo», risponde Robledo, sfilandosi il casco della rombante moto nera con cui sfida ogni giorno il traffico di Milano e quando ha fretta anche i vigili: «Probabilmente stiamo peggio di prima. I danni economici della corruzione sono più gravi. E abbiamo un problema ulteriore: non c'è più la politica». Il suo ufficio al palazzo di giustizia è come sempre sotto assedio. Per chiudere un discorso, bisogna aspettare la fine di un diluvio di telefonate, vertici con finanzieri e carabinieri, visite di avvocati e viavai di cancellieri con pacchi di carte urgenti. «Mani pulite è stata un grande inizio, ma è rimasta incompiuta. È stata fermata da un sistema processuale inadeguato. Che si è voluto lasciare inadeguato. Già prima della prescrizione breve che dal 2005 rende quasi certa l'impunità, sono state approvate leggi che di fatto hanno reso inutilizzabili prove già acquisite favorendo l'impunità per certi reati. Il risultato è che la vecchia classe dirigente non è stata sostituita da una nuova. Scomparso il sistema di Tangentopoli, c'è stata una frammentazione che ha moltiplicato i livelli di corruzione. Da una parte ritroviamo personaggi che sapevano fare solo quel mestiere e continuano a farlo per rafforzare la propria posizione di potere all'interno di un partito, corrente o movimento. Dall'altra si sono creati diversi sotto-sistemi di corruzione, paralleli e coesistenti: in un Paese che, come dice il sociologo De Rita, ha "un'innata vocazione all'illegalità minuta", oggi non è più sufficiente un solo protettore». Quali sono i settori a più alto tasso di corruzione? «Edilizia, rifiuti e sanità». Perché parla di sotto-sistemi? «Edilizia, rifiuti e grandi appalti formano un ciclo. L'imprenditore inserito nel sistema acquista sottoprezzo terreni inquinati, paga tangenti su permessi e controlli, finge di bonificare e nasconde i rifiuti sotto palazzi, centri commerciali o grandi opere. L'importante è fare affari, arricchirsi individualmente a danno dell'intera collettività: finiti i lavori, chi va a vedere cosa c'è sotto il cemento? In alcuni cantieri delle nuove autostrade lombarde rischiamo di ritrovarci con gli stessi guai della Salerno-Reggio Calabria». Il danno, «il costo sociale della corruzione», per Robledo è una fissazione: i suoi genitori erano funzionari pubblici e gli hanno insegnato «il senso dello Stato». «Ho sempre voluto fare il magistrato: la giustizia come utilità sociale». Sono le due del pomeriggio. Robledo deve affrontare un dramma esistenziale: la dieta. Per scoprire la trattoria con il più straordinario rapporto qualità-prezzo, basta pedinare il pm buongustaio. Inflessibile sul lavoro, spassoso a tavola. Un decennio fa, dopo una sparata di Bossi contro i magistrati meridionali «delinquenti razziali in camicia nera», l'Anm non reagiva e a quel punto così parlò Robledo: «È un concetto ormai acquisito nella coscienza occidentale che non esistono razze inferiori. Ce n'è invece una superiore: quella napoletana». Nato e cresciuto a Napoli, maturità classica al Sannazzaro, laurea in giurisprudenza con tutti 30 e molte lodi, l'attuale procuratore aggiunto di Milano inizia a lavorare a vent'anni per mantenersi all'università: vende libri dell'Einaudi porta a porta. «Il nostro gruppo andava tanto bene che Giulio Einaudi ci chiamò a Torino per conoscerci». Poi Robledo stravince una borsa di studio, diventa assistente e insegna per quattro anni diritto civile. E perché ha mollato l'Einaudi? «Guadagnavo troppo per la mia età. Volevo più libertà e responsabilità». Superato il concorso in magistratura, fa il pm a Monza e poi il capo della pretura di Desio, dove ottiene le prime condanne di politici per traffici di rifiuti. In prima pagina ci finisce, con l'ex poliziotto Achille Serra, quando risolve il sequestro di Simonetta Lorini (1980), figlia di un industriale, segregata in Calabria: ostaggio libero, arrestati e condannati otto capi e gregari dell'ex banda Vallanzasca. In Procura a Milano dal '95, è lui, con il pm Alberto Nobili, a incastrare i rapitori di Alessandra Sgarella: 15 condanne definitive che rilanciano l'allarme 'ndrangheta al Nord, a lungo inascoltato. Il suo «maestro assoluto» è il procuratore Saverio Borrelli, «magistrato eccezionale e uomo straordinario, sempre coerente tra ciò che dice e ciò che fa». Ancora Robledo, con Fabio De Pasquale, indaga sui fondi neri della Fininvest e scopre la lettera-confessione dove l'avvocato inglese David Mills rivelava di non aver detto la verità su Berlusconi ai tribunali italiani, in cambio di 600 mila dollari. Nel 2002, quando il centrodestra vara la legge ammazza-rogatorie, sono quei due pm a convincere tribunali e Cassazione che va «disapplicata», perché non rispetta il diritto internazionale e rischia di distruggere le prove raccolte all'estero da tutte le procure italiane. Ai politici che sparlano di toghe rosse, replica così: «Rosse sì, ma del sangue di tanti magistrati uccisi». Estraneo per natura a salotti e circoli di potere, Robledo si è convinto che «anche le correnti della magistratura siano diventate soffocanti: al di là delle buone intenzioni di tanti giudici onesti e capaci, hanno esaurito la loro spinta propulsiva alla partecipazione. Oggi purtroppo la struttura preponderante è una macchina da nomine. In una società liquida, in piena crisi di valori, servirebbe una nuova idea di giustizia». Un esempio? «Di solito alla corruzione si contrappone l'etica. Bernard De Mandeville, nella "Favola delle api", fece un paradossale elogio di una ricchezza creata con mezzi illeciti, ma redistribuita. Oggi la corruzione aggrava la disuguaglianza: la ricchezza resta intrappolata in cricche e nicchie del segmento più alto della società, a fronte dei problemi di sopravvivenza e povertà di tanti, anzi di troppi». Dal caso Telecom alle maxi-elusioni fiscali, Robledo ha indagato a fondo anche sul malaffare economico: con l'inchiesta-pilota sui derivati ha spinto quattro banche internazionali a restituire 455 milioni di euro al Comune di Milano. La crisi servirà almeno a riformare l'economia? «Ciò che si profila dalle indagini è l'assoluta autoreferenzialità delle grandi banche. Se sono troppo grandi per fallire, significa che non avvertono più limiti nell'assumere rischi. Neppure l'amministrazione Obama è riuscita a regolare i derivati. Sarebbe necessario discutere rimedi netti come la separazione tra banche commerciali e d'affari». Insomma, alla base del diritto dovrebbe esserci un'economia più giusta. «Prendiamo la retorica sulle spese per le intercettazioni. L'inchiesta del pm Tiziana Siciliano sulla clinica Santa Rita è costata 98 mila euro , ma ha fatto recuperare più di 17 milioni. Le intercettazioni sono indispensabili: perché non cominciamo a considerarle un investimento?». E per uscire da Tangentopoli, oltre a rafforzare la giustizia, da dove si parte? «Dalla riforma elettorale. La legge attuale elimina il rapporto tra cittadini ed eletti, minando le basi della democrazia. E senza responsabilità politica, restano solo gli interessi e l'arroganza di pochi a danno di tutti».
Milano, la procura isola il pm: "Nessuna inchiesta insabbiata". L'aggiunto Robledo contro Bruti, la parola al Csm, scrive Piero Colaprico, su “La Repubblica”. L'ingresso del Tribunale di Milano MILANO - Si sente danneggiato nel suo lavoro. Teme che alcune indagini siano "a rischio" di fallimento. E, in nome di questo, Alfredo Robledo, procuratore aggiunto di Milano, è andato all'attacco, in una guerra senza possibilità di ritorno, con il suo capo, Edmondo Bruti Liberati. "Ma quello che rischia il posto è lui, Robledo", si sente ripetere praticamente da tutti, al quarto piano del palazzo di giustizia. Il procuratore aggiunto di lungo corso elenca in dodici pagine fitte cinque episodi, che, a suo parere, "hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione dell'ufficio". Attraverso l'"arma letale" giudiziaria dell'esposto-denuncia, invia la sua protesta a tre indirizzi: il Consiglio superiore della magistratura, il consiglio giudiziario, il procuratore generale di Milano. Un paio di giornali e siti cominciano a pubblicare stralci e il caso, più che esplodere, sembra implodere. Nessun commento ufficiale si registra, com'è scontato, ma le voci che si raccolgono ieri in procura sono molto simili l'una all'altra e tendono ad accreditare un Robledo isolato e perdente: "Ma perché, ci sono forse a Milano inchieste insabbiate o fatte sparire? No, e allora, che vuole?"; ""Le procure dal 2006 sono uffici gerarchici, chi comanda è uno, in questo caso Bruti, e non i suoi aggiunti, a prescindere dalle ambizioni o dai risultati, buoni o scarsi, che hanno raggiunto". Se questo è dunque il clima, esattamente di che cosa si è lamentato il magistrato Robledo?
CASO SAN RAFFAELE. Robledo si occupa del secondo dipartimento, e cioè dei delitti contro la pubblica amministrazione. Sostiene di aver appreso dalla stampa, il 25 luglio 2011, notizie sulla "contabilità nera" al San Raffaele. Di aver chiesto una riunione con il procuratore aggiunto Francesco Greco (responsabile del primo dipartimento) e con Bruti Liberati, "sottolineando la necessità d'iniziare il prima possibile" l'indagine. Bruti, invece, ordinando di non iscrivere nessuno nel registro degli indagati, chiede la massima prudenza. Robledo resterà così fuori dalle indagini su Roberto Formigoni. Il quale, però, come sappiamo, si trova oggi rinviato a giudizio, con vari presunti complici. Quindi, aver affidato l'inchiesta al pool di Greco - è la domanda dei magistrati della procura - è stata una scelta che ha sfavorito in qualche modo l'accertamento della verità?
CASO SEA. La procura di Firenze manda a Milano un fascicolo con atti d'indagine che riguardano Vito Gamberale, il manager che vuole acquisire quote della società milanese Sea. Il fascicolo spettava al secondo dipartimento e ci arriva, sì, ma dopo essere passato dagli uffici di Greco (se ne spogliano il 9 dicembre 2011) e solo il 16 marzo. Robledo chiede spiegazioni del ritardo, Bruti "mi rispose che aveva dimenticato il fascicolo in cassaforte". Come si vede, questione di mesi: ma se Bruti ha commesso uno sbaglio, il fascicolo è scomparso? No: e lo stesso Robledo, domandano altri suoi colleghi, non avrebbe potuto farsi parte attiva? Inoltre: dal 16 marzo 2012 ad oggi, che cosa ha ottenuto Robledo dal fascicolo tanto agognato?
CASO BOCCASSINI. Ilda Boccassini, capo della distrettuale antimafia, indagando sul crimine organizzato s'imbatte nel 2012 in alcuni casi di corruzione politica. Si tratta di un'indagine che sinora era segreta. Inoltre, sempre Boccassini, viene incaricata del fascicolo sulla "concussione" di Silvio Berlusconi (il caso Ruby), che sarebbe toccato - dice sempre Robledo - a lui. Infine, il famoso processo Ruby-ter, che riguarda le false testimonianze, per Robledo sarebbe ancora una volta roba sua. Senza tediare con discorsi giuridici che spettano al Csm, anche questi tre episodi possono aver infastidito Robledo e instillato dubbi, però possiedono spiegazioni logiche e formali non peregrine. A cominciare dal Ruby-ter: "in violazione dei criteri organizzativi (...) in assenza di qualsivoglia motivazione", protesta Robledo, il fascicolo è andato a Pietro Forno e al sostituto Luca Gaglio. Viceversa, fanno notare in procura, è il codice di procedura penale che affida i "seguiti" delle indagini "per attrazione" a chi le ha iniziate e conosce le carte. Come Forno. Quando c'è un ricorso del genere, al di là delle strumentalizzazioni pro o contro magistrati, un fatto è certo: qualcuno, molto probabilmente, dovrà lasciare per ordine del Csm il quarto piano del palazzo di giustizia. Chi? Lo si saprà nei prossimi mesi e, mentre passerà il tempo, si vedrà giorno dopo giorno se Milano resterà immune, come sinora è stato, dai "veleni" e dai corvi.
Scontro alla procura di Milano: sotto accusa lo strapotere di Md. Robledo al Csm: "Irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli". Secondo l'esposto, il procuratore capo Bruti Liberati avrebbe privilegiato i pool di Boccassini e Greco, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Nervi tesissimi alla procura di Milano. È in atto un braccio di ferro senza precedenti tra il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e il "suo" vice Alfredo Robledo. Al centro di questa lotta tra bande c'è l'indiscusso strapotere di Magistratura democratica. Robledo ha, infatti, denunciato al Consiglio superiore della magistratura una serie di "non più episodici comportamenti" con i quali Bruti Liberati "ha turbato e turba la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio" svuotando il pool anticorruzione. Una denuncia politica per mettere in dubbio la tentacolare gestione di quella magistratura rossa che negli ultimi anni ha messo le mani su fascicoli scottanti come il Rubygate e il fallimento dell'ospedale San Raffaele. Alla procura di Milano non si era mai visto uno scontro tanto duro. Come riporta il Corriere della Sera, Robledo ha denunciato al Csm Bruti Liberato accusandolo di violare "i criteri di organizzazione vigenti nell'ufficio sulla competenza interna" assegnando i fascicoli più delicati agli aggiunti Ilda Boccassini e Francesco Greco. Dal Rubygate, che il 14 gennaio 2011 portò all'iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati per concussione e prostituzione minorile, al fallimento dell'ospedale San Raffaele, che dall'accusa di bancarotta a Pierangelo Daccò è finito nel processo per corruzione all'allora presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. E ancora: l'asta Sea-Comune di Milano che, dopo l'intercettazione di Vito Gamberale, aveva fatto ipotizzare ai pm di Firenze un bando su misura per il fondo F2I. Al punto che Robledo, con un’iniziativa senza precedenti nella procura che fu di Borrelli e D’Ambrosio, giunge a denunciare l’asserita "violazione dei criteri di organizzazione vigenti nell’ufficio sulla competenza interna" al Csm. Dietro alla denuncia di Robledo, che accusa il capo di aver svuotato il pool reati contro la pubblica amministrazione, c'è uno scontro durissimo tra correnti. O meglio: tra chi ne fa parte e chi, invece, vorrebbe combatterle. "Le correnti della magistratura sono diventate soffocanti - aveva denunciato il viceprocruratore capo in una intervista all'Espresso - al di là delle buone intenzioni di tanti giudici onesti e capaci, hanno esaurito la loro spinta propulsiva alla partecipazione. Oggi purtroppo la struttura preponderante è una macchina da nomine. In una società liquida, in piena crisi di valori, servirebbe una nuova idea di giustizia". Basta dare un'occhiata ai fascicoli contestati a Bruti Liberati per capire che alla procura di Milano la gestione delle inchieste è prettamente politica. Adesso la parola passa al Csm di Michele Vietti. Che subito ha messo le mani avanti: "Al Consiglio non risulta pervenuto, allo stato, nessun esposto".
Magistratura democratica e la faida tra magistrati che divide la procura di Milano. La mossa di Robledo porta allo scoperto divisioni profonde sorte con la nomina a procuratore di Bruti Liberati, leader storico di Md, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Una miscela di rivalità professionali, politiche e financo personali, che da anni segna ormai in profondità la procura della Repubblica di Milano: è questo il contesto in cui è diventata possibile una iniziativa dirompente come quella di Alfredo Robledo, procuratore aggiunto e capo del pool anticorruzione, che accusa il capo Edmondo Bruti Liberati di violare le regole di funzionamento della Procura. Di mugugni e brontolii, in un organismo complesso come la procura milanese, ne sono circolati sempre in quantità. Ma sempre sotto traccia, e sempre tutelando all'esterno una immagine di apparente unità dell'ufficio. Invece ora la mossa di Robledo porta allo scoperto divisioni profonde. Sarebbe stato impensabile che una iniziativa del genere avvenisse ai tempi in cui Francesco Saverio Borrelli, dall'alto di un carisma oggettivamente inarrivabile, governava la procura con pugno di ferro, parlando con tutti, ascoltando tutti, ma poi decidendo con fermezza e in modo inattaccabile. Quando il capo decideva, i pm - anche i più testardi, come Antonio Di Pietro e Ilda Boccassini - abbozzavano. Sono passati più di vent'anni, e il clima è radicalmente cambiato. Un passaggio cruciale è stata la nomina a procuratore della Repubblica di Edmondo Bruti Liberati, leader storico di Magistratura democratica, che quattro anni fa sconfisse nella corsa al vertice un conservatore come Ferdinando Pomarici: ma, paradossalmente, lo sconfisse grazie al l'appoggio decisivo in senso al Csm da parte del centrodestra. Ne uscì una nomina bipartisan, che di fatto ha costituito in questi anni la forza ma anche la debolezza di Bruti, accusato spesso e volentieri dagli ultra-giustizialisti di una gestione dell'ufficio troppo attenta alle esigenze della politica. Questa debolezza esterna ha condizionato una gestione per il resto complessivamente efficiente e si è inevitabilmente riverberata anche negli equilibri interni della procura. In una serie di posizioni chiave della giustizia milanese si trovano in questo momento esponenti di Magistratura democratica: oltre a Bruti, sono di Md il capo del pool reati finanziari Francesco Greco, il vice capo dell'ufficio gip Claudio Castelli, molti dei presidenti di sezione del tribunale civile e penale. Si aggiunga che Ilda Boccassini, anche lei procuratore aggiunto, non fa più parte da molti anni di Magistratura democratica, ma è oggi in ottimi rapporti con Bruti che ha più volte esplicitamente preso le sue difese. Insomma, esisterebbe una sorta di "cerchio magico" da cui alcuni magistrati di esperienza si sentono, a torto o a ragione, esclusi. Robledo, (esponente della corrente più moderata, quella di Magistratura indipendente) non fa mistero da tempo della sua scontentezza. Difficile, se si esaminano i casi uno per uno, stabilire chi ha ragione e chi ha torto: la mancata assegnazione a Robledo dell'indagine Sea appare oggettivamente ingiustificata, mentre più comprensibile è che l'inchiesta Ruby ter sia stata affidata, anziché a Robledo come avrebbero previsto gli automatismi, a un procuratore aggiunto come Piero Forno, che conosce già perfettamente tutta l'inchiesta sul bunga bunga. Ma anche Forno è di Magistratura democratica, e così anche la scelta sul caso Ruby ha rinfocolato le polemiche interne. Non è, si badi, un problema di rigore investigativo o di antiberlusconismo più o meno acceso: basti pensare che il conservatore Robledo ha al suo attivo l'avvio dell'unica inchiesta contro Berlusconi approdata alla condanna definitiva del Cavaliere, quella sui fondi esteri sfociata nel processo per i diritti tv. La vera spaccatura passa invece nelle visioni giuridiche ma anche nelle solidarietà di corrente, figlie di comuni appartenenze culturali e a volte politiche. E poi, dentro un microcosmo come quello della procura milanese, affollato di personalità forti e dall'ego spesso ingombrante, finisce giorno dopo giorno anche con il logorare i rapporti umani.
Ma dove va la Procura di Milano? Celebrato per 20 anni come motore di tante grandi inchieste, da Tangentopoli ai processi berlusconiani, l'ufficio giudiziario è a una svolta cruciale, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Nessuno può dire, oggi, come andrà a finire il ricorso aperto il 12 marzo a Milano dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati , che Robledo ha accusato davanti al Consiglio superiore della magistratura di avere attribuito con eccessiva discrezionalità ad altri magistrati una serie di delicati e importanti fascicoli giudiziari. Se ci si dovesse limitare a un rapporto di pesi «politici», è improbabile che Bruti subisca danni dall'iniziativa del suo vice: ex presidente della corrente di Magistratura democratica , ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), ex consigliere dello stesso Csm che lo dovrà giudicare, Bruti è quel che si dice un peso massimo; Robledo ha un ottimo curriculum professionale, ma non è nemmeno sostenuto da una corrente (anche se i moderati di Magistratura indipendente sembrano aver preso a cuore il suo «j'accuse»). Resta comunque il segnale, grave e anomalo. E resta anche la possibilità che il ricorso non cada proprio per nulla: ma non nella prima commissione del Csm, che adesso sarà chiamata a valutarlo; bensì nella settima commissione, cioè quella che più in là dovrà occuparsi della «valutazione di anzianità» di Bruti. Il procuratore di Milano, infatti, ha preso possesso dell'ufficio il 9 giugno 2010. Per legge, e per regolamento stabilito dal Csm, ogni procuratore può restare nell'incarico al massimo per 8 anni, ma alla metà del periodo, cioè dopo 4 anni, è previsto una giudizio sul suo operato, affidato proprio alla quinta commissione. In quella sede le accuse di Robledo potrebbero trovare qualche orecchio disposto ad ascoltarle con qualche attenzione. Anche per la delicatezza «politica» del momento, visto che nel successivo mese di luglio si svolgeranno le elezioni per il nuovo Csm. Va detto che la mancata riconferma di un alto dirigente di ufficio giudiziario alla metà del suo incarico non è pratica frequente. Si ricordano pochi casi. Il più eclatante fu forse quello accaduto nel settembre 2012 al presidente del tribunale di Civitavecchia, Mario Almerighi. Nei suoi confronti le accuse al Csm avevano riguardato le troppe assenze (ma Almerighi si difese dimostrando di non avere mai consumato per intero le ferie che gli spettavano, godendo di 94 giorni su un totale di 1.460), le troppe deleghe che avrebbe affidato, e una certa disorganizzazione nel lavoro del tribunale. Ottimo magistrato, una consolidata fama di «duro e puro», Almerighi venne rimosso senza alcun riguardo: presentò ricorso al Tar e al Consiglio di Stato, ma per lui non ci fu nulla da fare. Eppure, proprio come Bruti, anche Almerighi era un «peso massimo»: leader storico della corrente di Movimento per la giustizia (detto anche i Verdi, accanto a Md l'altra corrente giudiziaria di sinistra) era stato eletto nel 1976 al Csm, e nel 1998 era salito al vertice dell'Anm. Si vedrà ora come finirà il contrasto Robledo-Bruti. Resta comunque un dato di fatto che la Procura di Milano, a partire da Tangentopoli motore di tante grandi inchieste, nonché l'ufficio che il Fatto quotidiano anche pochi giorni fa celebrava letteralmente come «trincea» nelle guerre giudiziarie contro Silvio Berlusconi, non sta proprio attraversando uno dei suoi momenti migliori. Altri due importanti procuratori aggiunti milanesi hanno domandato al Csm di essere trasferiti ad altro incarico, ed entrambi hanno ottime chanche di riuscita: Ilda Boccassini ha fatto richiesta per diventare procuratore di Firenze; Armando Spataro vuole andare a occupare lo stesso posto a Torino. Le loro uscite sguarnirebbero due uffici importanti, rispettivamente alla Direzione distrettuale antimafia e all'antiterrorismo. Insomma, non è improbabile che, da questa serie di svolte, la Procura di Milano esca trasformata in profondità. C'è chi sostiene, con qualche velenosità, che anche questa è «rottamazione»...
Bruti Liberati ammette: "Ho dimenticato il fascicolo nel mio ufficio", scrive “Libero Quotidiano”. Il Consiglio superiore della magistratura ha aperto una pratica sull'esposto a carico del Procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, inviato dall’aggiunto Alfredo Robledo che denuncia irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli. Sull'esposto Bruti Liberati non ha niente da dire. Il procuratore di Milano preferisce non commentare la vicenda che riguarda cinque inchieste che per Robledo, a capo del II Dipartimento che si occupa di reati contro la Pubblica Amministrazione, sarebbe dovute approdare sul suo tavolo e invece sono state assegnate al I Dipartimento, che si occupa di reati finanziari, guidato da Francesco Greco, che ha preferito no commentare, alla Dda, coordinata dall'aggiunto Ilda Boccassini e al III Dipartimento che si occupa di reati contro la famiglia, coordinato dall'aggiunto Pietro Forno. Le inchieste al centro del l'esposto sono quella sui conti del San Raffaele, assegnata al dipartimento di Greco. Tra i casi citati nella lettera, anche le indagini relative al reato di concussione a carico di Silvio Berlusconi nell'ambito dell'inchiesta Ruby finite sul tavolo di Ilda Boccassini, Piero Forno e Antonio Sangermano, prima al VII dipartimento e poi alla Dda; il caso Ruby ter per le ipotesi di casa testimonianza commesse da alcuni testimoni (tra cui lo stesso Berlusconi, i suoi legali Longo e Ghedini e alcune Olgettine) dei processi Ruby e Ruby bis; una indagini per corruzione condotta dalla Dda invece che dal dipartimento reati contro la Pubblica Amministrazione; e l'inchiesta per turbativa d'asta sulla vendita di alcune quote di Sea al fondo F2I di Vito Gamberale che sarebbe stata assegnata a Robledo in ritardo. Bruti Liberati non vuole parlare. Ma proprio su questo ultimo caso segnalato al Csm da Robledo, il procuratore capo di Milano già aveva ammesso le sue responsabilità. In una lettera scritta il 23 marzo 2012, resa nota da Affari Italiani, proprio da Bruti a Robledo si legge: "Purtroppo non avendo provveduto io alla riassegnazione immediatamente dopo il “ponte”, successivamente, per una mia deplorevole dimenticanza, il fascicolo è rimasto custodito nel mio ufficio". Bruti ricostruiva che "nell'imminenza della festività di S.Ambrogio/Immacolata, stante la chiusura festiva dei nostri uffici amministrativi, ho trattenuto il fascicolo nel mio ufficio", dopo che in una riunione si era deciso di affidarlo appunto a Robledo per competenza interna. È una assunzione di responsabilità costosa per il procuratore, di cui però si scorge una puntuta ironia nell’aggiungere "tu (Robledo ndr ) non mi hai più chiesto notizie dopo, immagino per discrezione". Affari italiani ricostruisce l'intera vicenda. Il 25 ottobre 2011 i pm fiorentini Turco e Mion avevano trasmesso a Milano una intercettazione nella quale il 14 luglio 2011 Gamberale (fondo F2i) e il suo manager Maia parevano prefigurare tentativi di farsi cucire addosso il bando del Comune. La doglianza di Robledo è che il fascicolo avrebbe dovuto subito conclamare una turbativa d’asta di competenza del suo pool, mentre Bruti il 27 ottobre 2011 lo iscrisse nel modello degli atti "non costituenti notizie di reato" e lo assegnò al capo del pool reati finanziari Greco: questi il 2 novembre lo coassegnò al pm Fusco, che il 6 dicembre (dopo indiscrezioni di Reuters e Sole 24 Ore ) segnalò a Bruti l’opportunità di riassegnarlo al pool di Robledo per competenza sulle turbative d’asta. Mancavano solo dieci giorni all’asta, che il 16 dicembre andò deserta dopo la bizzarra presentazione fuori tempo massimo dell’offerta di una società indiana, col risultato che il fondo di Gamberale si aggiudicò le azioni Sea offrendo 1 euro più della base d’asta di 385 milioni. Ma il fascicolo, annunciato da Bruti in arrivo a Robledo il 9 dicembre 2011, a Robledo arrivò davvero solo il 16 marzo 2012, dopo articoli di Espresso online e Corriere della Sera sul fascicolo desaparecido. Al Csm Robledo sostiene che, quando ne chiese ragione, Bruti gli parlò di una dimenticanza. Possibile? Sì, come ora prova la lettera del marzo 2012.
Ed a proposito ancora di magistrati….
Milano, le cause del fisco le giudica il magistrato evasore. Si tratta di Maria Rosaria Grossi, assolta dalle accuse di tangenti perché ha dichiarato che i soldi erano frutto dell'affitto in nero delle sue case. E adesso è arbitro dei procedimenti per evasione nel capoluogo lombardo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Chi può fare il giudice nei difficili processi contro gli evasori fiscali? In un Paese come l’Italia può farlo anche un ex magistrato che, ritrovatosi imputato in una storiaccia di tangenti e consulenze d’oro, è riuscito a conquistare una meritata assoluzione spiegando di essere solo un evasore delle tasse. Questo straordinario caso di specializzazione giudiziaria ha per protagonista una regina del diritto italiano, Maria Rosaria Grossi, per lunghi anni giudice della prima sezione civile e poi del tribunale fallimentare di Milano. Dopo aver gestito centinaia di procedure milionarie, nel 2009 la sua carriera sembrava stroncata: inquisita per tentata concussione e abuso d’ufficio, denunciata e accusata da una dozzina di giudici e avvocati, era stata sospesa dalla magistratura, prima in sede penale e poi per ordine del Csm. Nell’ottobre 2012, il colpo di scena: Maria Rosaria Grossi viene scagionata dal tribunale di Brescia «perché il fatto non sussiste». In novembre, però, i giudici di Brescia (presidente Roberto Spanò) pubblicano le motivazioni della sua assoluzione, che si rivelano molto imbarazzanti. La sentenza di assoluzione svela che l’allora giudice Grossi ha innegabilmente evaso le tasse, incassando «affitti in nero» su svariati immobili di sua proprietà, addirittura «per quasi un quarto di secolo». Ma ora si scopre che la signora Grossi, dopo aver evitato la condanna con quella motivazione, ha potuto tornare a fare il giudice della Commissione tributaria di Milano. Che è quella specie di tribunale a cui la legge italiana affida le cause per evasione fiscale, che nella capitale degli affari raggiungono importi elevatissimi. L’ex giudice civile, in particolare, fa tuttora parte della sezione numero 40, competente su Milano e provincia. “L’Espresso” ha scoperto tra l’altro che, nel decidere le vertenze tributarie, si è scontrata più volte con altri magistrati: il problema è che, dopo tutte le ingiustizie che ha passato, lei proponeva di annullare le accuse di evasione anche quando i togati del suo collegio erano invece fermamente colpevolisti.
Il giudice con i conti in Svizzera, la Grossi nei guai per la lista Falciani. Magistrato fallimentare, era indagata per gli incarichi a professionisti amici. Dal Lodo Mondadori a Villa Certosa, le sue cause si sono incrociate con gli affari di Berlusconi, scrivono Walter Galbiati ed Emilio Randacio su “La Repubblica”. La zarina del Tribunale fallimentare di Milano, finita sotto inchiesta (e dimessa dal ruolo) per il giro di consulenze e incarichi assegnati a professionisti amici o ai quali era affettivamente legata, aveva i conti in Svizzera. Il nome di Maria Rosaria Grossi compare tra i 7mila nominativi della lista che la polizia francese ha sequestrato a Hervé Falciani, francese, ingegnere informatico ed ex dipendente della Hsbc Private Bank di Ginevra. Una lista di potenziali evasori del Fisco che la Guardia di finanza e l'Agenzia delle entrate stanno passando al setaccio. La posizione della Grossi è attiva fino al 2003 e probabilmente, grazie a scudi, condoni e prescrizioni, non determinerà conseguenze di carattere penale. Eppure quella sola presenza getta un'ombra in più sull'operato del giudice, la cui condotta è descritta minuziosamente nei verbali del procedimento bresciano, nel quale è accusata di concussione (per un episodio, mentre il pm Fabio Salamone ha chiesto e ottenuto l'archiviazione dal gip Roberto Gurini per il reato di abuso d'ufficio). L'udienza per decidere sul rinvio a giudizio è fissata per il 15 marzo. A parlare negli interrogatori è Mauro Vitiello, magistrato in servizio al Tribunale di Milano, sezione fallimentare e dunque ex collega della Grossi: "Era sospettata di scambiare favori di natura economica con professionisti vari utilizzando il sistema della loro nomina nelle procedure concorsuali. Altra voce che correva sul conto della Grossi era relativa al fatto che avesse avuto relazioni sentimentali con avvocati e professionisti che lavoravano nello stesso settore dove lei svolgeva attività di giudice". Vitiello fa riferimenti espliciti: "La Grossi si occupò della vicenda lodo Mondadori (...) In particolare aveva fatto scalpore la circostanza che la causa fosse stata assegnata proprio alla Grossi, che a quel tempo aveva una relazione con l'avvocato Bruno Giordano, a sua volta avvocato, credo, in ambito assicurativo del gruppo Berlusconi". È poi un commercialista, Giovanni La Croce, a raccontare come la Grossi abbia chiesto a Marina Giordano, sorella di Bruno, di sostenere davanti alla procura che "i movimenti di denaro tra loro (i Giordano ndr) e la sorella del giudice, pari a circa 100mila euro, erano riferibili a prestiti non meglio precisati della Grossi". Marina Giordano, invece, aveva sostenuto che tali somme erano state affidate a lei in custodia dal giudice - e non in prestito - e che a un certo momento la Grossi ne aveva chiesto la restituzione. "La Grossi - spiega La Croce nei suoi verbali - sarebbe riuscita, a suo dire, a dimostrare agli investigatori bresciani che le somme raccolte nel 2008 pari a circa 100mila euro, proverrebbero dall'incasso di suoi affitti in nero e non invece, come sosteneva l'accusa, dall'incasso di ipotetiche tangenti". La Grossi sembra portar fortuna al gruppo Berlusconi anche nella trattativa che condusse all'acquisto di Radio 101 da parte del gruppo Mondadori. La "zarina" partecipò alle riunioni e alla formulazione del contratto. "L'avvocato Gatti - riporta La Croce - si disse meravigliato della partecipazione della Grossi che gli apparve anomala in quanto il ruolo del giudice sarebbe dovuto essere quello di mero controllo dell'attività degli organi preposti e non quella di diretta partecipazione alla trattativa". Lo zampino della Grossi compare anche nel fallimento dell'Arcado, dove rivestiva il ruolo di giudice delegato: alla Arcado, società dei Donà delle Rose, facevano capo i terreni adiacenti a Villa Certosa, che, attraverso la mediazione di una società delle British Virgin Island riconducibile al fiduciario Filippo Dolfuss, finirono poi alla Idra del gruppo Berlusconi.
Clientele, abusi, incarichi ad amici, la zarina del tribunale fallimentare. Chiusa l’inchiesta sul giudice Maria Rosaria Grossi: “Responsabile di favoritismi e centinaia di irregolarità”. Il magistrato stava per diventare presidente del suo ufficio: avrebbe anche fatto revocare nomine sgradite, scrive Emilio Randacio su “La Repubblica”. Il record spetta al professor Alberto Jorio. Nel solo triennio 2005-2008 è stato lui, il docente di diritto fallimentare, a beneficiare maggiormente di incarichi al tribunale milanese. Ma i presunti abusi, clientele, magheggi messi in atto da Maria Rosaria Grossi, 64 anni, si sarebbero anche spinti oltre. Premendo su alcuni docenti universitari, in cambio di altre nomine, avrebbe fatto ottenere al figlio un contratto per un dottorato di ricerca. Questo andazzo sarebbe andato avanti per anni. E per chi non conoscesse Maria Rosaria Grossi, è bene spiegare che si tratta di quel giudice che, nell'estate dello scorso anno, era in procinto di diventare il presidente del tribunale fallimentare. Ma la sua promozione è stata stoppata da un'inchiesta avviata dal procuratore aggiunto di Brescia, Fabio Salamone, dopo un esposto presentato dagli stessi colleghi della Grossi. E appena la magistratura ha scavato sul modus operandi del giudice, l'interessata ha deciso di abbandonare definitivamente la toga, dimettendosi. Eppure, nella sua carriera la Grossi si è anche occupata di casi importanti: come nel 1990, quando in veste di pretore bloccò il sequestro preventivo ottenuto dalla Cir di Carlo De Benedetti (editore del Gruppo Espresso) sulle azioni della Mondadori. In questi giorni, Salamone ha scoperto le carte della sua inchiesta, avviata quattordici mesi fa. E ha informato l'indagata che è sua intenzione chiedere il processo per abuso d'ufficio e per tentata concussione. Dalle carte, Maria Rosaria Grossi emerge come una vera e propria "zarina" del tribunale fallimentare. Capace di assegnare incarichi oppure revocarli a seconda della propria discrezione, o del proprio personale tornaconto. Il lavoro di Salamone parte dal 2005, ma è bastato poco per scovare centinaia di irregolarità e scarsissima trasparenza nella gestione di un ufficio tra i più importanti d'Italia. Innanzitutto all'ex giudice fallimentare viene contestato di aver violato "le disposizioni del suo ufficio" che, proprio per garantire la massima trasparenza, aveva deciso di limitare il "conferimento degli incarichi legali nelle procedure fallimentari". Per cui i singoli professionisti non avrebbero potuto ottenere "più di 15 incarichi per un valore complessivo delle cause superiore ai 5 milioni di euro". Ma ecco spuntare fuori gli ottanta incarichi nel triennio solo per Jorio; i sessantacinque per il professor Giorgio Zamperetti; i sessanta per l'avvocato Marco Scicolone. La Grossi, secondo le conclusioni delle indagini, "nel periodo che va dal luglio del 2006", e "abusando dei propri poteri", decideva anche "la scelta e la nomina rispettivamente del difensore e del tecnico co-adiutore cui affidare un incarico nell'ambito del fallimento, allo scopo di procurare agli interessati un ingiusto vantaggio patrimoniale". All'ex "zarina" viene anche contestato di aver fatto "ottenere un dottorato di ricerca al proprio figlio". Prima la Grossi ci aveva provato con un docente della Bicocca, senza successo. Poi, finalmente, era riuscita nella missione "presso l'Università del Sacro Cuore, ove insegna il professore Pietro Abbadessa del foro di Catania". Abbadessa è padre dell'avvocato Maria, "del foro di Milano, assegnataria di diversi incarichi da parte della dottoressa Grossi". Le richieste, secondo l'accusa, venivano "avanzate direttamente dalla Grossi ai docenti in occasione e nel corso di udienze tenute nel proprio ufficio". Bisognava assecondarla, anche perché sarebbe stata lei a "intervenire direttamente anche presso i curatori, impedendo le nomine e facendo revocare quelle già intervenute", di fatto "azzerando gli incarichi" di due altri professori e di almeno tre legali a lei sgraditi. Nell'avviso di conclusione indagini, vengono elencati i nomi di almeno tre avvocati e due professori, che sarebbero finiti sulla lista nera del giudice, e a cui sono stati "azzerati" gli incarichi da un giorno all'altro. A parte c'è l'accusa di tentata concussione. Tra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008 l'ex giudice fallimentare, "nel corso di un colloquio intrattenuto nel suo ufficio", avrebbe richiesto al professor Stefano Ambrosini "di impegnarsi di lì a qualche tempo ad associarla nel suo studio, rafforzando la sua pretesa con l'offerta al professionista di "riempirlo di incarichi" durante il periodo in cui avrebbe continuato a svolgere le sue funzioni di giudice".
Scrive il giudice Maria Rosaria Grossi a “Rightreporter” e smentisce tutte le voci sul suo conto. A seguito dell’articolo “Conti in Svizzera per il giudice amico di Berlusconi” ci ha scritto la dott.ssa Maria Rosaria Grossi precisando alcune importanti cose e smentendo nel modo più categorico qualsiasi coinvolgimento con il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, oltre che nelle altre questioni riportate dall’articolo. Come è giusto che sia noi pubblichiamo la rettifica impegnandoci a verificare con la diretta interessata le informazioni che circolano a mezzo stampa sul suo conto e, nel caso, a contribuire a dipanare completamente la questione anche e soprattutto per difendere il Diritto della dott.ssa Grossi e di tutte le persone che si trovano nella sua stessa condizione, a non essere sbattute in prima pagina come se fossero dei mostri. E’ uno degli obbiettivi che ci siamo preposti con la nostra associazione e con la creazione del progetto Free Italian Press. Quelle di seguito sono le precisazioni fatteci pervenire dalla dott.ssa Grossi che ringraziamo per la cortese collaborazione.
Comunicato di rettifica
“La dott.ssa Grossi smentisce categoricamente di intrattenere rapporti con il Presidente Berlusconi e soprattutto di essere stata da lui “comprata”. Il reato di corruzione non le è mai stata contestato ed ogni ipotesi accusatoria formulata al riguardo è stata ritenuta infondata dalla Guardia di Finanza, dal P.M. e da due GIP. La stessa esclude nel modo più categorico di avere detenuto danaro all’estero e di essere sotto inchiesta per evasione fiscale. Chiarisce che il P.M., dott. Salamone, ha chiesto l’archiviazione per tutti i reati ascrittile e che il GIP, dott. Gurini, ha accolto la richiesta per il reato di abuso d’ufficio, fissando udienza per discutere dell’archiviazione anche del reato di “tentata” concussione, non di concussione consumata. Chiarisce di non essere stata nel “mirino degli inquirenti” per i suoi rapporti con Berlusconi. Precisa, in proposito, che non è vero che la vicenda Mondadori le sia stata assegnata (da chi, poi?) perché aveva una relazione con l’avv. Giordano, poiché lo ha conosciuto nel 1991 e la vicenda Mondadori risale al gennaio 1990. Quanto alla vendita alla Mondadori della Radio 101, questa (e il relativo prezzo) è stata decisa dalla Procura della Repubblica di Milano all’esito di una gara telematica. La presenza della dott.ssa Grossi alle trattative relative non alla vendita, bensì al versamento del prezzo alle procedure danneggiate dalla famosa dott.ssa Gocini, aveva la precisa funzione di garantire le procedure ed era stata voluta dal presidente della sezione fallimentare di Milano. Quanto ai terreni adiacenti a Villa Certosa, è stato un Collegio composto da tre giudici, e non la sola dott.ssa Grossi, a decidere all’unanimità che la società Arcado restasse proprietaria dei suoi beni. Sia la dott.ssa Grossi che il Tribunale di Milano sono completamente estranei ai passaggi successivi dei terreni”.
Questo sui magistrati. E poi sulle altre istituzioni?
MILANO: MA CHE SUCCEDE?
Le mostra il dito medio dopo l'ennesima multa: arrestato a Milano un vigile urbano. L'agente di polizia locale, quarant'anni, è accusato di violenza privata, ingiurie e minacce ai danni della donna, che era da tempo nel suo mirino. E c'è anche il sospetto che le abbia tagliato le gomme dell'auto, scrive “La Repubblica”. Si è accanito contro una donna che spesso parcheggiava in divieto di sosta davanti a una scuola di Milano e, malgrado fosse in borghese, è riuscito a farla multare ancora una volta dai suoi colleghi e poi le ha mostrato il dito medio. Per questo e altri episodi un vigile urbano è finito agli arresti domiciliari su richiesta del procuratore aggiunto Nicola Cerrato e del pm Tiziana Siciliano. C'è il sospetto che il vigile abbia anche tagliato le gomme dell'auto della donna. L'ordinanza di custodia cautelare a carico del vigile, che ha quarant'anni, è stata firmata dal gip Maria Cristina Mannocci a seguito delle indagini condotte dagli agenti di polizia locale. La donna si è decisa a rivolgersi alla giustizia nell'autunno scorso, ma già nel 2011 tra lei e il vigile c'erano state discussioni e liti sempre davanti alla scuola e lei l'aveva denunciato per lesioni. L'inchiesta è stata poi archiviata. Il 24 settembre aveva parcheggiato in divieto di sosta in via Emilio De Marchi per andare a prendere la figlia a scuola: mentre tornava, ha notato che le avevano fatto ancora una volta la multa. Ha subito riconosciuto un uomo vicino a un muretto, anche se era in borghese: era quel vigile che aveva un conto aperto con lei ormai da anni. L'uomo, come si legge nell'ordinanza, ha mostrato il "dito medio" alla donna, soddisfatto di essere riuscito a multarla ancora una volta: contravvenzione fatta dai colleghi che lui aveva chiamato. Non contento, il vigile ha iniziato a inseguire in bici la donna che si allontanava in macchina con la figlia e lei spaventata per "avere protezione" si è fermata e si è diretta verso un' autofficina insieme con la bambina, mentre il vigile le gridava "brutta p..., brutta t...". E prima di andarsene: "Io non ho paura di nessuno, te la farò pagare". A quel punto la donna è andata a sporgere querela alla polizia locale e - "circostanza singolare", come scrive lo stesso gip - il giorno dopo ha trovato le ruote della sua auto tagliate e il cofano rigato. Fatto questo non contestato al vigile, arrestato per violenza privata, ingiuria e minacce, ma su cui ci sono sospetti da parte degli inquirenti. E' emerso fra l'altro, che nel 2011 all'epoca della prima denuncia, il vigile avrebbe detto: "Ah sì, chiami la polizia? La polizia sono io". Dalle indagini è risultato che il vigile, che era ancora in servizio fino all'arresto, aveva già subito in passato una serie di richiami e provvedimenti disciplinari per altri scontri con automobilisti. L'8 maggio 2009, fra l'altro, è stato condannato per calunnia dopo un diverbio con un uomo durante un controllo di routine. Ed era stato anche trasferito dal Comune di Agrate Brianza, dove lavorava, per le "difficoltà relazionali" e la "scarsa propensione all'incarico assegnatogli". Inoltre, aveva anche subito un addebito disciplinare perché girava con una rivista gay (Pride) bene in mostra sul cruscotto dell'auto di servizio, spiegando che lo faceva "al fine di combattere l'omofobia". Il gip ha disposto gli arresti domiciliari per il pericolo di reiterazione di "delitti della stessa specie", come dimostra "tutta la storia personale e professionale" del vigile, favorita dal suo "ruolo" e dai suoi "poteri" che si concretizzano in "abusi" con atteggiamenti "arroganti". La stessa bidella della scuola in cui la donna andava a prendere la figlia l'ha definito a verbale "particolarmente zelante" nel fare le multe in quella zona.
Rimborsati torroni, provole e sushi. Sotto accusa 64 politici lombardi. Chiuse le indagini su ex consiglieri e assessori del Pirellone, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Dal gratta e vinci ai giornali, dalla consulenza al biglietto del tram, dalle fettine al caffè: è un campionario inquietante di spese personali fatte passare come legate al mandato politico quello che la procura di Milano compone chiudendo le indagini nei confronti di 64 consiglieri regionali lombardi, tra cui cinque assessori, accusati di peculato per rimborsi illegali da quasi tre milioni di euro. Sono le due legislature precedenti all’ultima a finire sotto l’osservazione dei pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Antonio D’Alessio che hanno chiesto anche l’archiviazione per 22 posizioni di altri assessori e consiglieri. A rischiare il rinvio a giudizio sono 31 consiglieri del Pdl, 23 della Lega, 5 del Pd, due dell’Udc e uno ciascuno di Sel, Idv e Partito dei pensionati. Sotto accusa dopo le indagini della Gdf di Milano migliaia di rimborsi chiesti e ottenuti dai politici che talvolta sembrano avere una vera passione per l’elettronica, visto che acquistano smartphone, tablet, macchine fotografiche e tv a profusione, specie all’approssimarsi del Natale. In questo modo, dalle casse della Regione dal 2008 al 2011 sono usciti illegalmente 2.941.721,29 euro tra cui i 61,50 spesi in macelleria da Alessandro Marelli (Lega) o i 162 ottenuti da Giovanni Bordoni (Pdl) per prodotti della Valtellina. Renzo Bossi, figlio del senatùr Umberto, ha ottenuto rimborsi per 15.757,21 euro, per pagare anche una spremuta d’arancia e brioche farcite (3,30 euro), caramelle e salatini (18,05), una Red Bull e le sigarette (17,85), ma anche un tv color da 32 pollici (428,90 euro), iPad, iPhone e accessori vari (1.515), un rilevatore di autovelox, tutor (188,90), «due spazzolini con nome» un frigorifero (159) e invitare undici persone al «Ristorante del bolognese » (850 euro). Nei guai anche alcuni capigruppo per le spese dei rispettivi gruppi. Giulio Boscagli, che ha guidato il Pdl fino al 2008, tra le curiosità, risponde delle ricariche di caffè del distributore automatico dell’ufficio pagate centinaia di euro e del «necrologio Berlusconi», costo 189 euro, presumibilmente fatto pubblicare a febbraio 2008 alla scomparsa della madre dell’allora leader pdl Silvio Berlusconi. Anche l’opposizione ha la sua parte di problemi. Il capogruppo Guido Galperti finisce indagato per i 41.612,27 euro andati al Pd, di cui 21mila spesi per un progetto di comunicazione, quasi 600 per «pasticceria e dolciumi» e 15mila per una consulenza in «materia di politiche abitative» nel 2008. Carlo Porcari, altro capogruppo Pd (239.870,68 di rimborsi), liquida spese per cene con centinaia di commensali, ma anche spese per 24,1 kg di salami e 14 di cotechini (391 euro) e perfino 8,62 euro per le aspirine, cui si aggiungono 16 mila euro per due ricerche sulla situazione economica e sociale del cremonese. Chiara Cremonesi di Sel (quasi 85mila euro di rimborsi) mette in lista mille euro per iscrivere otto persone alla «Scuola di cultura politica» e la benzina, i biglietti del treno e del tram dei collaboratori. L’unica consigliera del Partito Pensionati, Elisabetta Fatuzzo, ha una passione per il sushi e per il pesce in generale: spende 200 euro per un pranzo con «tagliata di aragosta». L’elenco pare infinito: Giovanni Rossoni, ex assessore pdl all’istruzione, paga 15.589 euro per regali di Natale «istituzionali» 2008-2010 tra cui torrone, provolone «Auricchio » e latticini; Carlo Spreafico (Pd) tra i rimborsi mette anche i 100 euro per la quota dell’ordine dei giornalisti del 2008 e 9,40 euro per un «ombrello mini automatico»; sono ormai famosi il libro «Mignottocrazia» da 16 euro di Nicole Minetti (Pdl) o le munizioni da caccia (720) del leghista Pierluigi Toscani. Due i casi di truffa. Del primo è accusato l’ex assessore Davide Boni (poi presidente del Consiglio regionale) che avrebbe comunicato alla Regione di essere residente a Sabbioneta (Mantova) mentre dal 2003 si era trasferito a Milano, ottenendo così 27mila euro per spese di viaggio cui non aveva diritto. Dopo aver rinunciato all’autista, ricevendo quasi 70mila euro, usava con la stessa mansione un collaboratore esterno della Regine costato tra il 2005 e il 2010 160mila euro. Infine, il caso del leghista Stefano Galli che fece avere una consulenza da 196 mila euro al genero, Corrado Paroli, anche lui indagato, che non aveva i requisiti. Galli mise in nota spese 6.183 euro per il banchetto del matrimonio tra Paroli e la figlia.
Le spese pazze del Pirellone: la Procura verso la richiesta di processo per 65 indagati. Chiuse le indagini sui rimborsi utilizzati in maniera illecita da consiglieri ed ex consiglieri lombardi: i pm hanno quantificato la somma in 3 milioni e mezzo di euro. Fra gli indagati anche Renzo Bossi e Nicole Minetti, scrive Emilio Randacio su “La Repubblica”. Novanta provole di Auricchio per 3mila 405 euro spesi il 18 dicembre 2008 dall'ex assessore lombardo pdl Giovanni Rossoni come omaggio della vicepresidenza. Lo stesso Rossoni due anni dopo, sempre sotto Natale, ha pagato 4mila 273 euro di "latticini come regali istituzionali". Sono queste alcune delle spese contestate dalla Procura di Milano nella chiusura dell'inchiesta sui rimborsi illeciti al Pirellone che prelude alla richiesta di processo per 65 fra ex assessori ed ex e attuali consiglieri della maggioranza e dell'opposizione e un collaboratore di uno di loro. Per 63 l'accusa è peculato e per due truffa aggravata. Totale: 3,4 milioni di euro tra il 2008 e il 2012. L'avviso di conclusione indagini, dalla guardia di finanza, è stato firmato dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Antonio D'Alessio, i quali hanno anche chiesto l'archiviazione per 20 ex assessori: nonostante alcune delle loro spese di rappresentanza siano "connotate da circostanze anomale, singolari" e "caratterizzate da inopportunità, sproporzione o incongruenza contabile" sono state ritenute "coerenti" con le disposizioni di legge. Tutt'al più, osservano i pm, si può configurare una responsabilità contabile. Alcuni degli ex assessori rimangono però indagati per i rimorsi percepiti indebitamente quando erano consiglieri. Le spese ritenute illegittime sono in gran parte già note dal dicembre 2012 e gennaio 2013, quando vennero inviati una raffica di inviti a comparire, come a Renzo Bossi - detto 'il Trota - e a Nicole Minetti. Sebbene le migliaia di euro contestate a ciascuno siano in parte lievemente calate (gli inquirenti hanno fatto una scrematura). moltissime riguardano cene e pranzi tanto da sembrare, leggendo le carte, che la politica regionale si sia svolta in ristoranti, pizzerie, enoteche, bar e fast-food. Nella lista della spesa del Trota sono tante le voci sospette. Si va dalle caramelle alle patatine Fonzies e ancora a focacce, spazzolini, i-Pad e molto atro ancora, per un totale di 15mila 757,21 euro. Lungo è anche l'elenco di scontrini e ricevute presentati dalla Minetti, alla quale vengono contestate spese per 19.651 euro. Tra le voci anche l'acquisto del libro Mignottocrazia, pranzi e cene (soprattutto in ristoranti giapponesi). La Procura di Milano ha chiesto di archiviare la posizione di 20 ex assessori, tra cui Raffaele Cattaneo (Infrastrutture), Romano La Russa (Industria) e Stefano Maullu (Protezione civile), ritenendo che "le spese" da loro sostenute fossero "da un punto di vista formale sostenute da giustificazioni adeguate fornite dall'amministratore prima della presentazione di richiesta del rimborso". Fra gli indagati dell'inchiesta sul Pirellone per i rimborsi dei consiglieri regionali lombardi c'è anche Nicole Minetti, che utilizzò 16 euro di soldi pubblici per acquistare il libro Mignottocrazia di Paolo Guzzanti. Poi un aperitivo da 832 euro all'hotel Principe di Savoia, una cena da Giannino a 400 euro e un iPad da 750 euro comprato nonostante la Regione Lombardia ne avesse già fornito uno a ogni consigliere. Le spese della Minetti con i fondi del Pirellone ammontano a decine di migliaia di euro. In copertina di Mignottocrazia c'è un'opera del vignettista e illustratore Giuseppe Veneziano, intitolata 'Novecento', in cui alcuni protagonisti della storia politica del Novecento (Hitler, Stalin, Mussolini, Berlusconi) si accoppiano con eroine dei fumetti e pornostar. Fra gli indagati dell'inchiesta sul Pirellone per i rimborsi dei consiglieri regionali lombardi c'è anche Nicole Minetti, che utilizzò 16 euro di soldi pubblici per acquistare il libro Mignottocrazia di Paolo Guzzanti. Poi un aperitivo da 832 euro all'hotel Principe di Savoia, una cena da Giannino a 400 euro e un iPad da 750 euro comprato nonostante la Regione Lombardia ne avesse già fornito uno a ogni consigliere. Le spese della Minetti con i fondi del Pirellone ammontano a decine di migliaia di euro. In copertina di Mignottocrazia c'è un'opera del vignettista e illustratore Giuseppe Veneziano, intitolata 'Novecento', in cui alcuni protagonisti della storia politica del Novecento (Hitler, Stalin, Mussolini, Berlusconi) si accoppiano con eroine dei fumetti e pornostar. L'ex presidente del consiglio regionale Davide Boni, come si legge nelle carte, sebbene "dal 2003 avesse trasferito la sua dimora abituale e il suo domicilio a Milano", avrebbe fatto credere alla Regione di vivere ancora a Sabbioneta (Mantova) "e da quel comune di raggiungere abitualmente il consiglio". Per tanto si è fatto liquidare a titolo di "spese trasporto" fra il 2003 e il 2011 oltre 32mila 300 euro. E poi "dichiarando in data 2/11/2010, contrariamente al vero, di aver fatto rinuncia al servizio di autista fornito da Regione Lombardia, si faceva liquidare, in virtù di una delibera di presidenza emanata dallo stesso Boni, 6mila 484 euro per il 2010 e il 2011". Giulio Boscagli, come consigliere ed ex capogruppo del Pdl, è accusato per spese per oltre 20mila euro, tra cui 250 euro per "una corona di fiori per defunta", 2mila 800 euro per 120 bottiglie di vino acquistate in due round e in due anni diversi, probabilmente come doni natalizi, 164,40 euro per "il necrologio di Rosa Bossi Berlusconi", la madre dell'ex presidente del consiglio, e anche 6,45 euro per "spesa alimentare (tonno-insalata- mais e Coca-Cola)". E se le persone sotto inchiesta sono in gran parte dell'allora maggioranza di centrodestra, l'avviso di conclusione indagine riguarda anche qualcuno dell'opposizione di centrosinistra. A Chiara Cremonesi, allora capogruppo di Sel, sono state contestate spese per 84.839: si va dai Waferini e Viennesi Armonia, a 101 euro per salumi vari; da un necrologio per 353,40 a fiori per 50 euro fino a molti rimborsi per il carburante o biglietti ferroviari e per pranzi. Luca Gaffuri, ex capogruppo del Pd, risponde di spese per circa 10mila euro. E il suo compagno di partito Carlo Spreafico di rimborsi non dovuti per 40mila 737 euro. Nella richiesta di archiviazione, infine, sono spuntate anche le spese dell'Ufficio di presidenza di quando a governare la Lombardia c'era Roberto Formigoni (che non è indagato). Per "un incontro tra il presidente e la consulta degli architetti Bie" avvenuta l'11 marzo del 2009 per un "menù degustazione e vini per 14 coperti" sono stati spesi 2mila 520 euro. Lo stesso giorno al Ristorante Riccione per "un incontro con due parlamentari, un capogruppo di FI, un consigliere della IV commissione e due esperti del mondo accademico" per discutere sull'"inquinamento atmosferico" il conto è stato di 1.067 euro. Il 17 febbraio del 2010 è stata presentata una richiesta di rimborso di 14,50 (come riporta lo scontrino fiscale) "per l'acquisto di olio, aceto e stuzzicadenti per il bar di rappresentanza del presidente" e il 14 giugno 2011 di 1 euro e 59 centesimi sotto la voce "acquisti urgenti" sempre per "il servizio bar di rappresentanza e per l'ufficio del presidente". Gli altri ex assessori per i quali il procuratore aggiunto Robledo e i pm Paolo Filippini e Antonio D'Alessio hanno chiesto l'archiviazione sono Valentina Aprea (Istruzione), Viviana Beccalossi (Agricoltura), Daniele Belotti (Urbanistica), Giulio Boscagli (Famiglia); Luciano Bresciani (Sanità), Massimo Buscemi (Pubblica utilità), Romano Colozzi (Risorse), Alessandro Colucci (Paesaggio), Andrea Gibelli (Industria), Franco Nicoli Cristiani (Commercio), Lionello Marco Pagnoncelli (Qualità ambiente), Pier Gianni Prosperini (Sport e turismo), Marcello Raimondi (Ambiente), Monica Rizzi (Giovani). Domenico Zambetti (Artigianato) e Massimo Zanello (Cultura). Per nove di questi, tuttavia, la Procura ha chiuso le indagini per le spese effettuate in qualità di consiglieri. "E' una rapina ai lombardi quella che emerge dai risultati dell'indagine su ex consiglieri e assessori che hanno fatto man bassa di risorse pubbliche non giustificate", afferma in una nota Paola Macchi, portavoce del Movimento 5 Stelle in consiglio regionale. Macchi sostiene che "per spendere illecitamente oltre 3 milioni di euro ci vuole un certo impegno e altrettanta dedizione", mentre per il M5S "la politica si può fare meglio e con meno risorse e su questo stiamo dando il buon esempio. Abbiamo rifiutato oltre 2 milioni di euro di contributi elettorali e restituiremo l'extrastipendio: attendiamo che la casta restituisca ai cittadini il bottino di anni di illeciti".
Ed ecco l'Italia dei paradossi.
La Finanza chiude il bar per 7 euro di evasione. Nel Milanese un bar è stato chiuso per un'evasione di 7,20 euro in 5 anni. Solidarietà dagli abitanti del paese, scrive Ivan FranceseDino Tucci di 64 anni e suo figlio Massimiliano di 32, si sono visti chiudere il locale con tanto di cartello affisso in vetrina, ma hanno raccolto la solidarietà degli abitanti del paese, che in centinaia hanno espresso vicinanza. Per protestare contro la fiscalità della Finanza, i gestori del bar hanno affisso sulla serranda una lettera di risposta indirizzata all'Agenzia delle Entrate: "Lo scopo principale è portare in cassa i soldi, ad ogni costo. A questi signori non importa se lavoriamo 16 ore al giorno, non importa se per onorare il lavoro trascuriamo anche gli affetti familiari o se qualcuno viene un infarto per stress", scrivono i due commercianti. In poche ore, in calce al foglio che esprimeva la loro protesta, sono apparse decine di firme e dichiarazioni di solidarietà.
“Il Giornale”. Un'evasione di sette euro e venti centesimi. In cinque anni. Con questa accusa è stato chiuso un bar a Bresso, in provincia di Milano. Serranda abbassata per tre giorni per l'equivalente di pochi caffè e qualche brioches, al "Tre Portici" di Bresso. I due proprietari,Invece per latri non è riservata stessa sorte.
L’ex-presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni è stato rinviato a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte tangenti della Fondazione Maugeri, scrive “Il Corriere della Sera”. La prima udienza è stata fissata per il prossimo 6 maggio davanti alla decima sezione penale del tribunale di Milano. Le ipotesi di reato contestate all’attuale senatore di Ncd, che ha sempre respinto ogni addebito, sono corruzione e associazione a delinquere. Secondo l’accusa, la Fondazione Maugeri per anni sarebbe stata favorita, così come l’ospedale San Raffaele, da delibere della Giunta regionale per un totale di circa 200 milioni di euro di rimborsi per prestazioni sanitarie. Formigoni è stato rinviato a giudizio insieme ad altre nove persone . Prosciolto, invece, l’avvocato Mario Cannata, consulente della Fondazione Maugeri. Oltre al senatore del Nuovo Centrodestra e presidente della Commissione agricoltura Roberto Formigoni, il gup di Milano ha rinviato a giudizio, nell’ambito della vicenda Maugeri, anche l’uomo d’affari Pierangelo Daccò già condannato a 10 anni per il crac del san Raffaele, l’ex assessore regionale alla Sanità Antonio Simone, sua moglie Carla Vites, e lo «storico» amico e collaboratore di Formigoni Alberto Perego. Dei 200 milioni, 61 milioni sarebbero stati distratti dalle casse della Maugeri, tramite Daccò e Simone. In cambio delle delibere, Formigoni sarebbe stato ricompensato con benefit per oltre 8 milioni di euro: viaggi, vacanze ai Caraibi, l’utilizzo di tre yacht, un maxi sconto sull’acquisto di una villa in Sardegna, finanziamenti per cene e soggiorni al meeting di CL, e 270 mila euro in contanti. Rinviati a giudizio anche Nicola Maria Sanese, ex segretario generale della Regione Lombardia, Carlo Lucchina, ex direttore generale dell’assessorato alla Sanità del Pirellone e l’ex dirigente regionale Alessandra Massei. Un’organizzazione, si legge nel capo di imputazione, finalizzata a «commettere plurimi delitti di corruzione di pubblici ufficiali per atti contrari ai doveri di ufficio, frode fiscale, trasferimento fraudolento di valori, appropriazione indebita pluriaggravata ai danni della Fondazione Salvatore Maugeri, riciclaggio e reimpiego di denaro di provenienza illecita, attraverso una collaudata e stabile organizzazione interna, un’articolata struttura di società di comodo italiane ed estere, e una precisa ripartizione di funzioni». In questa ripartizione di funzioni, a Formigoni è contestato in particolare che «in qualità di presidente della Regione Lombardia, garantiva alla Fondazione Salvatore Maugeri, a fronte delle illecite remunerazioni, una `protezione globale´ e si adoperava affinché fossero adottati da parte della Giunta, in violazione della legge e dei doveri di imparzialità ed esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico, di anno in anno, provvedimenti diretti ad erogare consistenti somme di denaro e procurare agli altri indebiti vantaggi economici alla Fondazione». Formigoni è poi accusato di corruzione, «perché in qualità di presidente della Regione» insieme al segretario generale Nicola Sanese; al direttore generale della Sanità, Carlo Lucchina; alla dirigente regionale Maria Alessandra Massei; e ad Albergo Perego, definito dai magistrati «persona di fiducia di Formigoni con cui convive», «si accordavano, fin dal 1997 e sino al 2011», affinché il presidente della Fondazione Umberto Maugeri; il direttore amministrativo Costantino Passerino e un collaboratore di quest’ultimo, Gianfranco Mozzali, «corrispondessero negli anni ingenti somme di denaro, per un complessivo importo di oltre 61 milioni di euro, agli intermediari Simone e Daccò e, per loro tramite, a Formigoni per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio e in particolare per l’adozione, in violazione della legge, di provvedimenti amministrativi della Giunta della Regione Lombardia, presieduta da Formigoni, diretti a trasferire ingenti risorse pubbliche, ulteriori rispetto ai rimborsi dei drg e, comunque, a procurare alla Fondazione Salvatore Maugeri indebiti vantaggi, con il sistematico asservimento della funzione pubblica agli interessi della Fondazione, così da assicurarle una protezione globale, in relazione, tra l’altro, all’adozione delle delibere annuali della Giunta regionale cosiddette di remunerazione di funzioni non tariffabili, di provvedimenti di accreditamento di strutture sanitarie quali quelle di via Camaldoli e via Dardanoni a Milano, all’attivazione di posti di letto nell’ambito di sperimentazioni sanitarie, al finanziamento di progetti non profit ai sensi della legge regionale 34/2007, all’adozione di bandi di gara redatti in modo da assicurarne l’aggiudicazione alla Fondazione Maugeri, all’indebita comunicazione alla Fondazione di informazioni riservate sulla politica sanitaria della Regione Lombardia, a transazioni vantaggiose e ad altri eventuali provvedimenti di competenza regionale comunque finalizzati a privilegiare la Fondazione anche nel rapido pagamento di rimborsi e altre erogazione». Di questi 61 milioni di tangenti, che secondo la procura sono state «calcolate quale percentuale delle erogazioni riconosciute alla Fondazione dagli organi della Regione Lombardia, 8 secondo gli inquirenti sono serviti «per procurare a Formigoni, suoi familiari e amici, nonché a Perego, utilità economiche», quali 270mila euro in contanti e «spese di viaggio, vitto e alloggio relative» a cinque vacanze di capodanno in Sudamerica e ai Caraibi, altri viaggi aerei, l’uso esclusivo di tre imbarcazioni, l’organizzazione di cene e convention, il finanziamento della campagna elettorale del 2010, l’acquisto di una villa in Sardegna «a un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato». Si definiscono «amareggiati ma non sorpresi» gli avvocati di Roberto Formigoni per la decisione del gup di Milano di mandare a processo l’ex governatore della Lombardia e altre persone per corruzione e associazione per delinquere nell’ambito del caso Maugeri. L’esito dell’udienza preliminare, affermano in una nota gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni, «non ci toglie l’assoluta convinzione di un’accusa che non regge al vaglio critico, non solo e non tanto priva di fondamento quanto frutto di una forzatura del buon senso, delle prove e del diritto».
Caso Maugeri, Formigoni sarà processato per associazione a delinquere e corruzione, scrive “La Repubblica”. L'ex governatore dovrà rispondere dei finanziamenti per quasi 200 milioni alla Fondazione pavese. Insieme a lui andranno a processo altri 9 indagati, dal faccendiere Daccò all'ex assessore Simone. Una sola assoluzione. Associazione per delinquere e corruzione. Con queste accuse l'ex governatore della Lombardia, ora senatore di Ncd, Roberto Formigoni, è stato mandato a processo per il caso Maugeri assieme all'ex assessore regionale Antonio Simone, al faccendiere Pierangelo Daccò e ad altre sette persone. Accuse che il Celeste ha sempre respinto. Lo ha deciso il gup di Milano Paolo Guidi dopo circa cinque ore di camera di consiglio. Il giudice, che ha in sostanza accolto la richiesta dei pm Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta, ha solamente prosciolto Mario Cannata, avvocato ed ex consulente della Fondazione, e ha dichiarato il non luogo a procedere per alcuni fatti legati alle false fatturazioni avvenuti prima del luglio 2013. Il prossimo 6 maggio 2014 , davanti ai giudici della decima sezione penale del tribunale, si aprirà un dibattimento che si annuncia lungo e delicato. Alla sbarra, oltre a Formigoni (che è indagato anche per la vicenda Guarischi e per quella con al centro la discarica di cappella Cantone), Daccò e Simone, ci saranno anche Costantino Passerino, ex direttore amministrativo della struttura di riabilitazione di Pavia, Carlo Lucchina, ex direttore generale dell'assessorato alla sanità, Nicola Maria Sanese, ex segretario generale del Pirellone, Alberto Perego, amico storico del Celeste nonchè suo convivente con altri 'Memores Domini' nella casa in via Villani di proprietà di Salvatore Ligresti, Alessandra Massei, ex dirigente regionale, Carla Vites , moglie di Simone (solo per riciclaggio), e Carlo Farina, il legale rappresentante di una società che, secondo le indagini, si sarebbe prestato per sottoscrivere contratti di consulenza fittizi con la Maugeri per giustificare il presunto dirottamento di fondi dalle sue casse verso conti esteri. Dirottamento che, come hanno ricostruito le indagini, si sarebbe aggirato attorno ai 61 milioni in una decina di anni, cifra che avrebbe costituito la cosiddetta 'provvista' per pagare, tramite Daccò e Simone e sotto forma di benefits di lusso e utilità per circa 8 milioni, anche l'allora Presidente lombardo e ai suoi amici e familiari. Viaggi aerei, vacanze ai Caraibi o a bordo di maxi-yacht, fino a un maxi sconto per l'acquisto di una villa in Sardegna e, tra l'altro, finanziamenti elettorali, in cambio di delibere di giunta ad hoc che assicurassero alla Fondazione rimborsi 'indebiti' per le funzioni non tariffabili (quindi extra Drg) e che, in base agli accertamenti, sono arrivati a sfiorare i 200 milioni di euro. Un meccanismo questo che per l'accusa ha riguardato anche il San Raffaele, sebbene i fondi sottratti ammonterebbero a una cifra inferiore (per il crac dell'ospedale Daccò, in carcere dal novembre 2011 è già stato condannato a 9 anni in appello), e che ha portato i tre pm a ritenere che Formigoni sarebbe stato tra i promotori di un'associazione per delinquere che avrebbe operato all'ombra del Pirellone per 14 anni, tra il 1997 e il 2011. Tanto che la Regione Lombardia, ora guidata da Roberto Maroni, si è costituita parte civile a fianco dell'Agenzia delle Entrate. La Fondazione Maugeri imputata in qualità di persona giuridica, nei mesi scorsi ha patteggiato, con il versamento di un milione di euro a titolo di sanzione pecuniaria e la confisca di immobili per un valore di 16 milioni di euro mentre altre sei persone hanno chiesto di patteggiare a pene che vanno da un anno e 10 mesi a 3 anni e 4 mesi. La richiesta di due di loro sarà valutata dal gup il prossimo 16 aprile. I difensori di Formigoni, gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni, in una nota, si sono definiti a processo l'ex governatore. L'esito dell'udienza preliminare, affermano i due legali, "non ci toglie l'assoluta convinzione di un'accusa che non regge al vaglio critico, non solo e non tanto priva di fondamento quanto frutto di una forzatura del buon senso, delle prove e del diritto".
L'INCHIESTA
I favori di Formigoni alla Maugeri: "Oltre 40 milioni di euro nel 2010". Le accuse del Pd al governatore lombardo: "Fondi decuplicati dopo i contributi elettorali elargiti da Daccò". Ottenuti anche grazie alla legge regionale sulle maggiorazioni tariffarie, scrive Alessandra Corica su “La Repubblica”. Oltre 20 milioni di euro, assegnati dal Pirellone alla Maugeri nel 2010 in aggiunta ad altri 20 per le 'funzioni speciali'. Sono i nuovi fondi che ballano nella vicenda dell’Irccs di Pavia, al centro dell’inchiesta in cui è indagato anche il governatore Roberto Formigoni. Si tratta di finanziamenti assegnati alla clinica Maugeri come 'maggiorazioni tariffarie', per coprire i costi di prestazioni ordinarie come visite ed esami. Un escamotage, secondo il gruppo consiliare del Pd, usato dal Pirellone per favorire ulteriormente l’istituto pavese, già ampiamente foraggiato dalla Regione con i rimborsi per le funzioni non tariffate che dal 2001 al 2011 hanno fruttato alla clinica oltre 196 milioni. Grazie alla maggiorazioni tariffarie assegnate in base a tre indicatori: l’ampiezza dei casi clinici trattati, il numero di ricercatori nella struttura e la quantità di pazienti extra regione la Maugeri nel 2010 ha incassato 20.395.867 milioni di euro, dieci volte di più rispetto al 2009, quando per le stesse prestazioni aveva guadagnato poco meno di 2 milioni. Un fiume di denaro «grazie a una norma regionale - denuncia il Pd - scritta ad hoc per favorire la Fondazione nel febbraio 2010, poche settimane dopo il contributo di 600mila euro dato da Daccò per la campagna elettorale del governatore». Da qui, la richiesta dell’opposizione: «Formigoni - dice il capogruppo Pd Luca Gaffuri - deve riferire in aula».
Ricapitoliamo. Il 5 febbraio 2010 la Regione approva la norma sulle cosiddette maggiorazioni tariffarie: il provvedimento stabilisce che i poli universitari e gli istituti di ricerca abbiano diritto a rimborsi più alti rispetto alle altre strutture, con percentuali che per i primi vanno dal 6 al 25 per cento e per gli Irccs dal 7 al 19. Le maggiorazioni cambiano in base alla classificazione delle strutture sulla base dei tre indicatori che, fino al 2009, rientravano tra quelli delle 'funzioni non tariffate'. La legge confluisce nella delibera 350 del 28 luglio 2010 che stabilisce il totale dei fondi a disposizione: 130 milioni di euro, ripartiti tra le strutture sanitarie con un decreto del 29 ottobre successivo emanato dalla Direzione generale della Sanità e firmato da Carlo Lucchina. Il documento comunica la fascia in cui i vari istituti sono stati classificati, e la percentuale di aumenti a cui hanno diritto. La Maugeri finisce in fascia C (la più alta) con una maggiorazione del 19 per cento. Da qui, i 20,4 milioni di euro incassati dalla clinica di lì a poco: considerando i tre indicatori (case mix, pazienti extra regione e didattica universitaria) usati per assegnare i finanziamenti, la Fondazione da un anno all’altro incrementa gli introiti del 925 per cento: praticamente li decuplica. Al San Raffaele gli aumenti sono del 103 per cento, all’Humanitas del 110. «Le assegnazioni per le maggiorazioni tariffarie - denuncia il consigliere Pd Alessandro Alfieri - vengono effettuate con atti dirigenziali, e non con delibere di giunta: questo sistema è ancora più discrezionale e meno trasparente di quello che regola le funzioni non tariffate. Sommando i due tipi di finanziamenti, la Maugeri nel 2010 ha incassato dalla Regione oltre 40 milioni di euro, 15 in più rispetto all’anno precedente». Netta la replica del Pirellone: «Questa legge è stata introdotta per riconoscere i costi aggiuntivi che gli Irccs pubblici e privati e le strutture di ricovero convenzionate con la facoltà di Medicina devono sopportare in virtù delle loro specificità. Nel 2010 il 60 per cento dei fondi è stato assegnato a strutture pubbliche, e solo il 40 per cento ai privati».
Tegola dai giudici di Milano: Formigoni sarà processato. Il senatore Ncd a giudizio nell'inchiesta su sanità lombarda e fondi neri della fondazione Maugeri, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci sono i suo fedelissimi, ad ascoltare il giudice che manda tutti sotto processo. C'è Carlo Lucchina, il direttore generale della Sanità lombarda, glabro e distaccato. C'è Nicola Sanese, l'uomo chiave del Pirellone. È andato via da poco Antonio Simone, compagno di scuola e di militanza ciellina fin dagli esordi, che si è fatto la galera preventiva senza mai cambiare versione. E c'è, su una panca, portato in ceppi dai secondini, sempre più spettrale, Piero Daccò, il munifico anfitrione di mille vacanze, ridotto da quasi due anni e mezzo di carcere a un ombra dell'uomo di un tempo. Lui, Roberto Formigoni, non c'è. Ma è come se ci fosse, per quanto la sua presenza incombe sull'aula e sull'intero processo. Perché quello che si aprirà il prossimo 6 maggio non sarà solo il processo a un gruppo di amici che la Procura accusa di essere diventati una banda. È il processo a un sistema: il sistema della sanità lombarda, quella del doppio canale pubblico-privato, che per Formigoni ha dato ai lombardi e non solo a loro cure di eccellenza. Ma che per la Procura milanese si è trasformata in una macchina da affari, da favori, da tangenti. E tutto ruotava intorno a lui, il Celeste, «capo e promotore» dell'associazione a delinquere. Rinvio a giudizio quasi scontato, viste le premesse. Arriva adesso, quando l'era che sembrava interminabile (quasi diciott'anni!) del regno di Formigoni sulla Lombardia è ormai chiusa, e all'ultimo piano del grattacielo voluto dal Celeste siede Bobo Maroni. Tecnicamente fu un'altra inchiesta, quella sui rapporti tra la 'ndrangheta e l'assessore alla casa Zambetti, a decretare la fine della giunta Formigoni, nell'ottobre del 2012. Ma era chiaro che a scavare giorno dopo giorno il terreno sotto i piedi del governatore erano le indagini sul sistema sanità, sul San Raffaele, sulla Fondazione Maugeri, sui suoi amici Daccò e Simone divenuti lobbisti ben pagati. Formigoni, fino all'ultimo, ha ostentato sicurezza, picchiando soprattutto su un tasto: tutte le delibere che hanno portato decine e decine di milioni delle casse degli ospedali amici erano figlie di scelte condivise dalla Giunta e dalla maggioranza. Ma più dei sotterfugi veri o presunti, tra prestazioni non tariffabili e altre astruserie tecniche, a segnare la fine imminente ed inevitabile erano i racconti che venivano a galla delle vacanze sibaritiche in giro per il mondo, delle barche prestate a costo zero o usate come proprie, delle ville in Sardegna passate di mano sottocosto, dei biglietti aerei a spese di chissà chi, insomma tutto un tenore di vita a scrocco che apparterrebbe alla sfera dei costumi privati e non del codice penale se non fosse per un piccolo dettaglio: a pagare era sempre Daccò, oggi uomo ombra di se stesso, ma allora per la Procura ombra di lui, del Presidente. Pagare Daccò, per i signori della sanità privata, voleva dire pagare Formigoni: questa è la tesi dei pm, che ieri il giudice preliminare fa propria rinviando a giudizio dieci imputati su undici. Esce di scena solo un imputato minore, Mario Cannata, accusato di avere emesso le fatture false necessarie per creare i fondi neri. Per Formigoni, Daccò, Simone, Lucchina e gli altri sei - compresi i presunti elargitori delle stecche, i vertici della fondazione Maugeri - l'accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione internazionale. Non è il primo processo che il Celeste deve affrontare, e finora è sempre stato assolto, o persino prosciolto in istruttoria. Ma erano piccole storie, almeno in confronto a questa. Qui - più della singola delibera, di questo o quel regalo - sotto accusa c'è il sistema su cui si è fondato e mantenuto il suo potere. Ma il rinvio a giudizio, dicono i suoi legali, «non ci toglie l'assoluta convinzione di un'accusa che non regge al vaglio critico, frutto di una forzatura del buon senso, delle prove e del diritto».
Dall’altra parte c’è Penati.
L’ ex ds Filippo Penati era ieri, e resta anche dopo ieri, imputato di due ipotesi di corruzione (tra cui quella politicamente più sensibile attorno all’ affare Serravalle) e altre due di violazione della legge sul finanziamento dei partiti per le quali continuerà a essere processato almeno fino al 2016-2017, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Ma intanto ieri in Tribunale a Monza è venuto meno alla parola data: alla parola che proprio lui aveva sbandierato a giornali e tv, assicurando che non si sarebbe giovato - come effetto indotto dalla legge Severino del 2012 sul segmento più antico del suo processo - della prescrizione di altre 3 accuse inquadrate come concussione. È inutile che Penati fuori dall’aula ora prometta avventurosi ricorsi in Cassazione contro una prescrizione asseritamente non voluta, ma che gli sarebbe bastato rifiutare al momento giusto (ieri) nel posto giusto (in aula), dove invece è andata in scena la surreale telefonata a vuoto del suo legale davanti ai giudici in attesa di una risposta dell’ imputato. Peraltro nella sostanza del processo, come già si era rilevato prima dell’ approvazione della legge, anche per Penati non cambia tantissimo, proprio come per Berlusconi nel caso Ruby, dove infatti i pm hanno potuto fare le loro richieste di condanna (scadenza 2020) senza quei disastri che opposte tifoserie per mesi profetizzavano come conseguenza e anzi motivo della nuova legge. I due episodi contestati a Penati per l’ area ex Ercole Marelli a Sesto risalgono al 2000 e già con le vecchie regole non sarebbero mai arrivati in Cassazione; e onestà intellettuale impone di ricordare che la terza concussione (nel 2003 per l’ area ex Falck) era già stata bocciata sia dal gip sia dal Tribunale del Riesame, che avevano riqualificato i fatti come corruzione, dunque anche con le vecchie norme già prescritte addirittura nel 2011. Ma ciò non cancella la figuraccia di Penati. E, soprattutto, non deve fare dimenticare il vero difetto della legge Severino. Che non sta negli inventati salvaBerlusconi o salvaPenati, ma in ciò che non contiene e che neppure il nuovo governo sembra volere: una generale riforma della prescrizione almeno dopo la prima sentenza, l’ introduzione dell’ autoriciclaggio, norme più serie su falso in bilancio e voto di scambio.
Tutte le balle di Penati sulla prescrizione, scrive di Gianni Barbacetto su “Il Fatto quotidiano”. Aveva detto: “Rinuncerò alla prescrizione”. Ora la prescrizione è arrivata e Filippo Penati l’ha acchiappata al volo. Ma senza metterci la faccia, anzi, mostrando di non volerla, di subirla come una sciagura che chissà come gli è capitata sulla testa. Per tre anni ha ripetuto: “Non la voglio”. Ora però è arrivata e non può far altro che incassarla. Tutto comincia quando scoppia lo scandalo di Sesto San Giovanni. Una storiaccia di aree industriali ormai inutilizzate, a un passo dal confine nord di Milano, trasformate in preziose aree commerciali e residenziali. Con relativo pagamento di tangenti all’ex sindaco di Sesto, ex Stalingrado d’Italia: questo, almeno, è ciò che raccontano due imprenditori che hanno avuto a che fare con quelle aree, Giuseppe Pasini e Piero Di Caterina. Penati viene indagato e poi rinviato a giudizio per concussione: secondo l’accusa, avrebbe preteso soldi e aiuti per far andare avanti i lavori sulle aree. Mazzette milionarie, che sarebbero state pagate in Lussemburgo e in Svizzera. I fatti avvengono tra il 2000 e il 2004. La concussione è un reato grave, con pena alta e prescrizione lontana: punisce severamente il pubblico ufficiale che costringe un imprenditore o un cittadino a pagargli una tangente o un’altra utilità. O meglio: puniva. Perché nel novembre 2012 il ministro della giustizia Paola Severino fa approvare una nuova norma che smonta come fosse di Lego una legge che funzionava benissimo. Distingue il comportamento di chi “costringe” a pagare (concussione per costrizione), da quello che lo “induce” a un comportamento illegittimo, senza pressioni o violenze (concussione per induzione). In questo caso, non solo si apre un caos interpretativo per distinguere quando finisce l’“induzione” e comincia la “costrizione”; ma le pene sono ridotte, così la prescrizione galoppa e arriva ad azzerare tanti processi. Uno di questi, quello più noto e segnalato fin da subito, è proprio quello di Penati. Ma lui giura solennemente: “Rinuncerò alla prescrizione”.
30 agosto 2011: “Ristabilire la mia onorabilità significa per me uscire da questa vicenda senza ombre e senza macchie. Se, al termine delle indagini in corso, tutto non verrà chiarito, non sarò certo io a nascondermi dietro la prescrizione. Intendo ristabilire il mio onore non certo evitando il processo, ma rispettando le regole all’interno del contesto processuale, la giustizia arriverà a ristabilire la verità”. Le indagini procedono, Penati resta nel processo e il ministro Severino avvia la sua “riforma” ammazza-concussione.
8 ottobre 2012: “Se il testo finale del disegno di legge anticorruzione avrà effetto su qualche reato, rinuncerò alla prescrizione”.
13 maggio 2013: inizia il dibattimento a Monza e Penati non si presenta in aula. “È mia intenzione essere presente in aula durante il processo. Oggi non lo sono stato perché non era necessaria la mia presenza, in quanto le questioni erano di carattere tecnico e queste erano di competenza dei miei legali”. Tra le questioni “tecniche” c’è la richiesta di prescrizione che, in assenza dell’imputato, scatta automaticamente. Penati annuncia: “Ho dato fin d’ora mandato ai miei legali di ricorrere in Cassazione al fine di ottenere lo svolgimento del processo”.
27 febbraio 2014: la sesta sezione penale della Cassazione non può far altro che stabilire che il ricorso è inammissibile e dichiarare l’estinzione del reato. Penati è prescritto: a sua insaputa.
ANTIMAFIA ALLA MILANESE.
Il «ritratto» nella relazione annuale della Dna, scrive Luca Fazzo e Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. In fondo, non è cambiato nulla da quando Francesco Saverio Borrelli la cacciò dal pool antimafia accusandola per iscritto di «una carica incontenibile di soggettivismo, una mancanza di volontà di porre in comune risultati, riflessioni, intenzioni». Sono passati ventitrè anni, e Ilda Boccassini non è cambiata. Anche adesso, ad accusarla non è un inquisito ma un suo stesso collega, un magistrato come lei. Stavolta si tratta di Filippo Spiezia, sostituto procuratore nazionale antimafia, chiamato a stendere la parte dedicata a Milano della relazione annuale sullo stato della lotta al crimine organizzato. La relazione è stata divulgata dal capo della Direzione nazionale antimafia Franco Roberti - sbarcato nel luglio scorso sulla poltrona lasciata libera da Piero Grasso, approdato alla presidenza del Senato - e dà atto dei successi della direzione distrettuale antimafia di Milano, il pool diretto da Ilda Boccassini, nella lotta al crimine organizzato. Ma poi arrivano le dolenti note. Perché Spiezia lancia accuse esplicite contro il pool di Ilda, colpevole di non raccontare a nessuno quello che fa, e di non condividere le informazioni neanche al proprio interno. Sono accuse gravi, perché la legge prevede il contrario: i pool locali hanno l'obbligo di comunicare alla Direzione nazionale le proprie attività, in modo da permettere a Roma di svolgere la funzione di coordinamento; e all'interno dei pool è previsto lo scambio di notizie sui fascicoli, per individuare i punti di contatto. Va ricordato che a prevedere questi obblighi fu la legge istitutiva della Dna voluta da Giovanni Falcone, che la Boccassini ha sempre considerato una sorta di padre spirituale. E invece ecco quanto si legge nella relazione della Dna: esistono «perduranti criticità nei rapporti con la Dda di Milano, che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa Dna». Queste difficoltà di dialogo impediscono di «cogliere tempestivamente e in modo sostanziale i nessi e i collegamenti investigativi tra le altre indagini in corso sul territorio nazionale» che presentano «profili di collegamento» con quelle in corso nel capoluogo lombardo. E non si tratta di dimenticanze, di distrazioni: da parte del pool di Ilda c'è «la preclusione posta a conoscere specificatamente gli atti relativi ad indagini in corso e, tanto meno, le richieste cautelari avanzate, essendo state quest'ultime rese conoscibili solo dopo l'esecuzione delle misure» di custodia cautelare. Dei suoi colleghi romani, insomma, la Boccassini non si fida. Il guaio è che a quanto pare non si fida neanche degli stessi pm del suo pool: le problematiche «riguardano lo scambio informativo all'interno dello stesso ufficio», perché «le notizie relative alle indagini dei singoli procedimenti non risultano essere patrimonio comune di tutti i magistrati componenti della Dda». È la traduzione di quanto a Milano era affidato finora ai brontolii da corridoio della Procura: quello di una squadra cruciale, il pool antimafia, affidato a un magistrato famoso per la sua determinazione investigativa e la capacità di lavoro, ma altrettanto nota per fidarsi solo di se stessa e di pochi e selezionati pm. Forse aveva paura che, se l'avesse raccontato ai romani, i colleghi avrebbero avvisato Berlusconi che stava indagando su di lui.
"La Dda di Milano non condivide le informazioni". Il rapporto della Direzione nazionale antimafia non ha risparmiato critiche a Ilda "la rossa". Ma il giudice Filippo Spiezia, autore della relazione, è stato subito spostato dal suo incarico...Tutti gli anni la Direzione nazionale antimafia è chiamata a dare un giudizio sull'operato delle direzioni distretturali dislocate sul territorio italiano. Ogni relatore ha la competenza su un certo territorio. Negli scorsi giorni, in coda alla relazione annuale 2013, è arrivato il parere sulla Dda di Milano. A occuparsi della sede milanese è stato il napoletano Filippo Spiezia, sostituto della Dna. Spiezia dà un giudizio positivo sul lavoro della sede milanese: "Il dato quantitativo che si espone va integrato con l'analisi qualitativa dei singoli procedimenti trattati dalla D.D.A. di Milano, risultati spesso di elevata complessità, per numero di indagati e difficoltà di acquisizione probatoria, con esiti quasi sempre favorevoli per la pubblica accusa". Ma poi arrivano le note dolenti per Ilda Boccassini: "I temi del collegamento investigativo e del coordinamento di indagini evidenziano perduranti criticità nei rapporti con la D.D.A. di Milano" attacca Spiezia "che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa D.N.A., non sempre messa nelle condizioni di operare secondo il modello d'azione che si evince dall'art. 371 bis c.p.p. e dalle altre norme in materia. Se infatti la D.D.A. di Milano procede a forme di collaborazione ed allo scambio di informazioni e atti con altre Procure distrettuali, non altrettanto può dirsi con riguardo al flusso informativo verso la D.N.A". Ma dopo le critiche, scrive Libero, Spiezia è stato allontanato dal suo posto. La competenza su Milano gli è stata tolta, anche in seguito al dietrofront contenuto in un comunicato della procura. Un tema, quello della collaborazione, su cui la Boccassini era entrata in collisione anche con il suo ex capo Borrelli e con Giancarlo Caselli, suo procuratore capo ai tempi di Palermo. E c'è chi sostiene che sia stato lo stesso Spiezia, impossibilitato a lavorare in sintonia con la Dda milanese, a essersi fatto da parte...E’ utile al riguardo ricordare che in base ad una condivisa ricostruzione degli aspetti funzionali della D.N.A., il Procuratore nazionale antimafia è investito di due nuclei di funzioni: funzioni di impulso al coordinamento e funzioni di impulso alle investigazioni. Orbene, nonostante le citate disposizioni e le successive indicazioni contenute nelle circolari e risoluzioni adottate dal CSM, l' Ufficio distrettuale milanese non ha garantito sinora un adeguato flusso informativo in favore della D.N.A. In primo luogo non è assicurato il tempestivo inserimento degli atti nella banca dati nazionale. Nel periodo di riferimento risulta disposto l'inserimento solo di 4 atti rispetto ai 100 nuovi procedimenti».
ECCO LO STRALCIO "INCRIMINATO".
I temi del collegamento investigativo e del coordinamento di indagini evidenziano perduranti criticità nei rapporti con la D.D.A. di Milano» attacca Spiezia «che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa D.N.A., non sempre messa nelle condizioni di operare secondo il modello d'azione che si evince dall'art. 371 bis c.p.p. e dalle altre norme in materia. Se infatti la D.D.A. di Milano procede a forme di collaborazione ed allo scambio di informazioni e atti con altre Procure distrettuali, non altrettanto può dirsi con riguardo al flusso informativo verso la D.N.A. E’ utile al riguardo ricordare che in base ad una condivisa ricostruzione degli aspetti funzionali della D.N.A., il Procuratore nazionale antimafia è investito di due nuclei di funzioni: funzioni di impulso al coordinamento e funzioni di impulso alle investigazioni. Orbene, nonostante le citate disposizioni e le successive indicazioni contenute nelle circolari e risoluzioni adottate dal CSM, l' Ufficio distrettuale milanese non ha garantito sinora un adeguato flusso informativo in favore della D.N.A. In primo luogo non è assicurato il tempestivo inserimento degli atti nella banca dati nazionale. Nel periodo di riferimento risulta disposto l'inserimento solo di 4 atti rispetto ai 100 nuovi procedimenti.
Osa criticare Boccassini: pm cacciato. Il giudice Spiezia, autore della relazione contro Ilda "la rossa", è stato subito allontanato dal suo posto, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. É durata poco la messa in stato di accusa di Ilda Boccassini, procuratore aggiunto della Repubblica e capo del pool antimafia di Milano. Neanche il tempo di asciugare l'inchiostro sui giornali che riportavano la relazione della Procura nazionale antimafia che attribuisce alla dottoressa con i capelli rossi una lunga serie di violazioni degli obblighi di collaborazione con i colleghi e con i suoi stessi sostituti: e dai vertici della Procura nazionale parte un comunicato che, sconfessando la relazione della stessa Procura, tesse le lodi di Ilda e del suo pool. Ma la notizia è soprattutto un'altra: l'autore della relazione contro la gestione della Boccassini viene allontanato dal suo posto. Non sarà più lui a occuparsi di quanto accade a Milano. Il magistrato che paga col cambio di mansioni le critiche alla Boccassini è Filippo Spiezia, napoletano, 51 anni, in forza come sostituto alla Direzione nazionale antimafia (che è il nome ufficiale della superprocura). Alla Dna, ognuno dei sostituti ha la competenza su una determinata area del paese: mantiene i contatti con i pool antimafia di quel territorio, riceve le notizie, coordina le indagini. Spiezia aveva la competenza ad occuparsi di Milano. É in questa veste che ha dovuto occuparsi del pool diretto da Ilda Boccassini, seguendone le inchieste, venendo spesso a Milano, dialogando con i componenti del pool del capoluogo lombardo. Quando è venuto il momento di mettere nero su bianco, nella relazione annuale della Dna, le sue valutazioni sulla situazione milanese, Spiezia ha dapprima dato atto dei numerosi successi incassati dal pool di Ilda nella caccia al crimine organizzato. Ma poi ha, senza tanta diplomazia, indicato anche le «criticità» della interpretazione del suo ruolo da parte della Boccassini, sia nei rapporti con la Dna che all'interno del pool stesso. «Perduranti criticità nei rapporti con la Dda di Milano, che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa Dna», impedendo di «cogliere tempestivamente e in modo sostanziale i nessi e i collegamenti investigativi tra le altre indagini in corso sul territorio nazionale», «preclusione posta a conoscere specificatamente gli atti relativi ad indagini in corso e, tanto meno, le richieste cautelari avanzate». D'altronde «le notizie relative alle indagini dei singoli procedimenti non risultano essere patrimonio comune di tutti i magistrati componenti della Dda». La relazione di Spiezia andava dunque a toccare un tasto dolente del profilo professionale della Boccassini, cui spesso i suoi capi, pur riconoscendone le capacità professionali, hanno accusato di essere refrattaria al lavoro di squadra, di non fidarsi di nessuno che non la pensi esattamente come lei. In passato, sia Francesco Saverio Borrelli, suo capo a Milano, che Giancarlo Caselli, che lo fu a Palermo, si erano scontrati con lei proprio su questi temi, e Ilda ne era uscita sconfitta. Stavolta invece a perdere è il collega che ha osato accusarla: il nuovo capo della Dna, Franco Roberti, di fronte alla arrabbiatura di Ilda - sostenuta apertamente dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati - ha disposto che d'ora in avanti ad occuparsi di Milano non sarà più Filippo Spiezia ma un altro sostituto nazionale, Anna Canepa. Motivo, come si spiega lo stesso Roberti, le «difficoltà di dialogo» tra Spiezia e il pool milanese, ovvero con la Boccassini. Davanti a queste difficoltà, sarebbe stato lo stesso Spiezia a gettare la spugna: dopo avere messo per iscritto il suo pensiero sulla famosa collega.
Boccassini nei guai: i colleghi la denunciano al Csm. Ilda la rossa disse che le toghe di Provincia "non capiscono nulla". Esposto dei "provinciali" al Consiglio superiore della magistratura, scrive “Libero Quotidiano”. "I giudici di provincia non capiscono nulla di mafia". Le considerazioni di Ilda Boccassini, espresse l'11 ottobre scorso durante un convegno su una ricerca della Bocconi dedicata alla criminalità organizzata, non sono assolutamente piaciute ai colleghi. Tanto che hanno lasciato passare due settimane e alla fine hanno deciso di intervenire con un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura. La rivolta - Gli autori del documento inviato al Csm sono i giudici penali del Tribunale di Busto Arsizio, giudici "di provincia" appunto, (Bossi, Bovitutti, Frattini, Guerrero, Lualdi, Novick, Zoncu) che chiedono all'organo di autogoverno delle toghe, secondo quanto rivelato dal Corsera, di valutare le affermazioni a loro avviso "gratuite", "denigratorie" e "generiche" pronunciate da Ilda la rossa. I magistrati di Busto vogliono sapere dal Csm, da un lato "se esse siano deontologicamente corrette" per un pm, e dall'altro "se non deleggittimano i giudici" proprio mentre costoro, riporta l'articolo di Luigi Ferrarella, trattano processi con detenuti di criminalità organizzata nei quali l'accusa è rappresentata dal pool milanese di Boccassini. Secondo il pm il fatto che "non siano mai stati istituiti i tribunali distrettuali rappresenta un problema serio". Boccassini, al convegno, aveva spiegato che "le indagini sono accorpate dalla Dda mentre il processo viene polverizzato". "Dobbiamo andare a fare i processi a Pavia, a Como, a Lecco, a Busto Arsizio e a Palmi - ha osservato -: non si può dare in mano un processo a giudici di provincia che, con tutto il rispetto, non sanno nulla" di questi argomenti. "Questo è un problema molto serio", aveva concluso non immaginando che quelle parole sarebbero diventate un problema molto serio. Ma per lei.
Facci: così la Boccassini smaschera 20 anni di balle dell'antimafia. La Boccassini e l'antimafia: "Già nel '94 scrissi che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm non mi hanno voluto ascoltare...", scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. È vero, Ilda Boccassini l’aveva detto che il pentito Vincenzo Scarantino era un falso pentito che mentiva e depistava: lo scrisse in una relazione del 12 ottobre 1994, come Libero ha ricordato più volte. Ma altri segnali certo non erano mancati, anche se i campioni dell’antimafia - ora santificatori del pm Nino Di Matteo - hanno fatto finta di niente per quasi vent’anni. L’altro giorno, in ogni caso, il procuratore Boccassini ha testimoniato al millesimo processo per la strage di via D’Amelio e ha puntualizzato per bene: «Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, forse non saremmo a questo punto. Perplessità sulla caratura del personaggio ne avemmo da subito... stava raccontando un sacco di fregnacce, ed era pericoloso». Parla di Vincenzo Scarantino, falso pentito che per infiniti anni fu accreditato da investigatori e giudici - in particolar modo dal pm Nino Di Matteo - ma che si era inventato tutto e cercò pure di ritrattare, ma gli fu regolarmente impedito. Un depistaggio? Un’oscura manovra di cui furono vittime, oltre alla verità, anche Di Matteo e gli altri pm che indagavano su via D’Amelio? Un complotto, cioè, ordito in primo luogo dall’allora questore Arnaldo La Barbera, investigatore morto nel 2002 e oggi obliquamente accusato? «Il dominus dell’indagine resta sempre il pm, mai l’investigatore», ha detto la Boccassini ai giudici, «e sono i pm che devono aver deciso di andare avanti con Scarantino». Peraltro La Barbera, ha fatto capire il procuratore, di dubbi su Scarantino ne aveva a sua volta.
I DUBBI
Dunque vediamoli, questi dubbi e segnali che sono stati ignorati per anni - dai pm, dai processi e dalla stampa antimafia - al prezzo di undici processi inutili e di ergastoli affibbiati a innocenti.
1993. Compare Vincenzo Scarantino, meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con transessuali, ritenuto credibile anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera diranno che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrerà che Scarantino fu da subito un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia, quella che uccise Paolo Borsellino. Ma fu lo stesso Scarantino, già nel 1993, a raccontare che i poliziotti l’avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi...’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare...». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto, e poi me lo hanno fatto firmare. Ma fa niente. Il processo di primo grado seguirà comunque il suo corso e Scarantino sarà condannato a 18 anni, con l’ergastolo per i complici che aveva dapprima indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano.
1994. Ilda Boccassini, pm applicata per due anni in Sicilia, scrive la citata relazione dopo aver personalmente interrogato Scarantino: è un mentitore, non c’è da fidarsi - scrive assieme al collega Roberto Saieva. Durante l’estate il pm si rende disponibile a cercare i riscontri che potessero smascherare definitivamente Scarantino, ma il procuratore Capo Giovanni Tinebra le risponde che non è necessario. Un vertice per valutare le incongruenze di Scarantino viene rinviato di continuo, e non ci sarà mai. Sinché la Boccassini riparte per Milano e le sue indagini sono continuate da Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo.
1995. Alla giornalista Silvia Tortora venne recapitata una vecchia lettera poi diffusa dall’allora onorevole Tiziana Maiolo: l’aveva scritta la moglie di Scarantino e si accusava gravemente il questore Arnaldo La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. La prospettiva che possa crollare il castello istruttorio costruito attorno a Scarantino, tuttavia, sembra terrorizzare la procura palermitana retta da Gian Carlo Caselli: è lui, in luglio, a convocare i giornalisti e a parlare di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». La difesa del «superpoliziotto» La Barbera, quel giorno, è spettacolare e vi partecipa anche il prefetto Achille Serra: «Conosco La Barbera da tanti anni, è un funzionario leale e un grande investigatore». Aggiunge il procuratore generale Antonino Palmeri: «Barbera ha tutta la nostra solidarietà». Insiste Caselli: «È inaccettabile e calunnioso... il dottor La Barbera quotidianamente dimostra la sua trasparenza e il suo coraggio». Sempre in luglio, il 26, la procura di Caltanissetta ordina di distruggere una duplice intervista che Studio Aperto aveva appena fatto a Scarantino: un’intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. Il falso pentito aveva raccontato ai giornalisti che fu torturato nel carcere di Pianosa e la sua deposizione fu tutta una montatura. Notevole che Scarantino fu costretto a rivolgersi a una tv Mediaset perché tutta la stampa «antimafia» era in linea con le procure e i loro sostituti: in ogni caso l’intervista sparì perché la magistratura la fece sequestrare. Non solo. La Procura di Caltanissetta ordinò di distruggere le cassette e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione. Scarantino lo fece. Fu aperta addirittura un’inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare». La verità morì quel giorno, con la collaborazione decisiva delle procure: misero a tacere ciò che si sarebbe scoperto - ufficialmente - quasi vent’anni dopo.
1998. Ogni dubbio su Scarantino viene tacitato assieme ai suoi tentativi di ritrattare. Dice il pm Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia... Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Dice il pm Antonino Di Matteo in una requistoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni... L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra... Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario». Eppure altri dubbi saranno palesati anche dal giudice Alfonso Sabella, dall’informatico Gioacchino Genchi e dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale - reso da Scarantino nel 1994 - che era pieno di annotazioni e correzioni poi regolarmente recepite. Non ebbe risposta. Eppure, sempre nel 1998, Scarantino mette ancora a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura».
2008. Per far luce su via D’Amelio, 17 anni dopo la strage, compare il pentito Gaspare Spatuzza: e cambia tutto. L’uomo dimostra di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. In pratica tutti i processi già celebrati - Borsellino primo, Borsellino bis, Borsellino ter, vari appelli e cassazioni - diventano spazzatura, un pattume avvalorato soltanto dalla testimonianza di un uomo che pure, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava e che c’erano in carcere degli innocenti condannati all’ergastolo. La Corte d’Appello di Catania dovrà liberarli tutti nell’autunno 2010.
2009. Ma intanto un sodale di Scarantino, Salvatore Candura, racconta ai pm di Caltanissetta che il questore La Barbera, prima di un interrogatorio con Ilda Boccassini, gli aveva intimato di continuare a incolpare Scarantino: in cambio, La Barbera gli avrebbe fatto avere degli aiuti. Pochi mesi dopo, in luglio, un altro teste, Francesco Andriotta, conferma tutto. Nel settembre successivo tocca a Scarantino a rimettere ancora una volta a verbale che lo avevano seviziato perché dicesse il falso. Va ricordato che nel frattempo La Barbera, nel 2002, era morto. Nel frattempo il fronte mediatico-giudiziario dell’antimafia corre ai ripari. Scarantino viene progressivamente indicato come uno strumento innestato dai «trattativisti» di Stato per depistare la verità dalle indagini su via D’Amelio: anche se, come visto, la patente di affidabilità di questo personaggio fu rilasciata proprio da chi ora denuncia il depistaggio: e uno è paradossalmente il pm Di Matteo, che oggi istruisce il processo sulla «trattativa» e forse dovrebbe interrogare se stesso.
CLEAN CITY. TANGENTI A COLOGNO MONZESE.
Arrestati vicesindaco e assessore cologno monzese per tangenti appalto smaltimento rifiuti. Raffaele Cantalupo, vicesindaco ed assessore all’ambiente del Comune di Cologno Monzese e l’assessore all’edilizia, Maurizio Diaco, sono stati arrestati con l’accusa di aver intascato tangenti per pilotare l’appalto per lo smaltimento rifiuti. I due politici, secondo le indagini della Finanza di Monza, avrebbero pattuito con la “Sangalli & C.” (sotto inchiesta per corruzione negli appalti in Lombardia, Lazio e Puglia) una tangente da 300.000 euro, per affidare a Sangalli un appalto da oltre 28 milioni. Trecentomila euro per far invalidare un appalto, rifare la gara e far vincere «Sangalli & C». Era questo, secondo quanto spiegato dalla Guardia di Finanza, l’accordo tra il vicesindaco di Cologno Monzese (Milano) Raffaele Cantalupo, e l’assessore all’edilizia Maurizio Diaco, per far vincere una gara da 28milioni di euro all’azienda brianzola (già al centro delle indagini per un sistema corruttivo in ambito appalti pubbici, in Lombardia, Lazio e Puglia). Arrestati ma ai domiciliari sono finiti anche Michele De Girolamo di «Area Sud» Milano Spa, attuale affidataria del servizio di igiene urbana a Cologno, e Fortunato Deleidi, dipendente della Sangalli. A tutti viene contestato di essere complici di un preciso piano, insieme al vicesindaco Cantalupo, l’assessore Diaco e Giorgio Sangalli: riuscire ad annullare la gara per l’affidamento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti bandito dal Comune di Cologno Monzese, indirne una nuova, per un valore superiore, favorendo la vittoria della Sangalli. Il meccanismo era prossimo alla riuscita. Coinvolta, secondo quanto si è appreso, anche la San Germano srl di Pianezza (Torino). Fonte ANSA.
Cologno Monzese, tangenti per appalto rifiuti: arrestati vicesindaco e assessore. Secondo la Guardia di finanza, una mazzetta di trecentomila euro sarebbe stato il premio per far annullare la gara precedente e assegnare la nuova, di importo superiore, all'impresa Sangalli, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. I finanzieri del Comando provinciale di Milano hanno arrestato Raffaele Cantalupo, vicesindaco ed assessore all'ambiente del Comune di Cologno Monzese e l'assessore all'edilizia privata e pubblica, Maurizio Diaco. Per loro l'accusa è aver ricevuto dai Sangalli una mazzetta da 50 mila euro, quale acconto dei 300 mila pattuiti, per favorire l'impresa monzese nell'affidamento dell'appalto. I provvedimenti, firmati dal gip del Tribunale di Monza Claudio Tranquillo, su richiesta dei pm Salvatore Bellomo, Manuela Massenz e Giulia Rizzo della Procura di Monza, sono la prosecuzione dell'indagine Clean City, che lo scorso dicembre aveva svelato l'esistenza di un collaudato sistema corruttivo per ottenere appalti pubblici grazie al pagamento di tangenti, con protagonista l'impresa Sangalli di Monza. Gli investigatori stanno indagando su una tangente di 300 mila euro. Il prezzo per affidare alla Sangalli l'appalto del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti del Comune di Cologno Monzese, per un valore di oltre 28 milioni di euro. Una vicenda che ha fatto emergere la complicità tra amministratori comunali, accusati di corruzione ed imprenditori privi di scrupoli, pur di ottenere i loro illeciti scopi. Agli arresti domiciliari, invece, sono finiti Michele De Girolamo di Area Sud Milano Spa, attuale affidataria del servizio di igiene urbana a Cologno e Fortunato Deleidi, dipendente della Sangalli. Coinvolta anche la San Germano Srl di Pianezza (To), azienda che opera in diversi comuni della Brianza. A tutti viene contestato di essere complici del vice sindaco Cantalupo, dell'assessore Diaco e di Giorgio Sangalli, in un preciso, illecito piano: fare in modo di annullare la gara per l'affidamento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti bandito dal Comune di Cologno Monzese, in quanto non remunerativa, indirne una nuova, per un valore superiore, favorendo la vittoria della Sangalli. Sulla vicenda avevano iniziato ad indagare la Procura di Monza ed i Carabinieri del Noe di Milano, dopo aver raccolto una denuncia su presunte anomalie nella procedura per l'assegnazione del servizio in questione. Una svolta decisiva, però, si è avuta quando Giorgio Sangalli, ormai alle strette, ha deciso di collaborare con gli inquirenti, confessando di aver pagato una tangente al vice sindaco Cantalupo, per assicurarsi l'appalto. A quel punto il fascicolo è confluito in quello già aperto, relativo all'operazione Clean City e le indagini sono state affidate ai finanzieri del Gruppo Monza. Sono stati ricostruiti tutti gli incontri avvenuti nel tempo tra il vice sindaco Cantalupo, l'assessore Diaco, Giorgio e Giancarlo Sangalli, serviti a pianificare, nei dettagli, la strategia per truccare la procedura di gara. E' stato individuato il giorno ed il luogo dove e? avvenuta la consegna dei 50 mila euro in contanti al vicesindaco. Sono state trovate le prove per sostenere che la Sangermano si era prestata, per conto della Sangalli - che non doveva figurare - a promuovere un ricorso sul bando di gara. In questo modo l'Amministrazione comunale di Cologno ha potuto annullare la procedura, per indirne una nuova. Scoperte anche le modalità che avrebbero permesso alla Sangalli di vincere la nuova gara. Questa volta la turbativa non sarebbe avvenuta con il solito bando "cucito" su misura, per sbaragliare la concorrenza, ma attraverso il suggerimento di ben specifiche migliorie da inserire nell'offerta tecnica. Così, all'apertura delle buste, la società di Monza avrebbe avuto un punteggio più alto rispetto alle altre aziende. In quest'ultimo contesto investigativo avrebbero avuto parte attiva e sono indagati oltre al vicesindaco Cantalupo, anche Michele De Girolamo della società Area Sud Milano e Fortunato Deleidi, dipendente e consulente della Sangalli.
L’indagine Clean City, che lo scorso dicembre 2013 aveva svelato l’esistenza di un collaudato sistema corruttivo per ottenere appalti pubblici grazie a l pagamento di tangenti, con protagonista l’IMPRESA SANGALLI di Monza, si arricchisce di un nuovo capitolo, scrive “Il Punto a Mezzogiorno”. I Finanzieri del Comando Provinciale di Milano, coordinati dai Pubblici Ministeri Salvatore Bellomo, Manuela Massenze Giulia Rizzo della Procura di Monza, stanno indagando su una tangente di 300 mila euro. I l prezzo per affidare alla SANGALLI l’appalto del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti del Comune di Cologno Monzese (MI), per un valore di oltre 28 milioni di euro . Una vicenda che ha fatto emergere la complicità tra amministratori comunali, accusati di corruzione ed imprenditori privi di scrupoli, pur di ottenere i loro illeciti scopi . Sono stati raggiunti da un ordine di carcerazione, firmato d a l GIP del Tribunale di Monza – Claudio Tranquillo -, Raffaele Cantalupo, vicesindaco ed assessore all’ambiente del Comune di Cologno Monzese e l’assessore al l’edilizia privata e pubblica, Maurizi o Diaco . Per loro l’accusa è pesante: aver ricevuto dai SANGALLI una mazzetta di 50 mila euro, quale acconto d e i 300 mila pattuiti, per favorire l’ impresa monzese nell’affidamento dell’appalto . Agli arresti domiciliari, invece, sono finiti Michele De Girolamo di AREA SUD Milano Spa, attuale affidataria del servizio di igiene urbana a Cologno e Fortunato Deleidi, dipendente della SANGALLI. Coinvolta anche la SAN GERMANO Srl di Pianezza (TO), azienda che opera in diversi comuni della Brianza . A tutti viene contestato di esser e complici del vice sindaco Cantalupo, del l’assessore Diaco e di Giorgio S angalli, in un preciso, illecito piano: fare in modo di annullare la gara per l ’affidamento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti bandito dal Comune di Cologno Monzese, in quanto non remunerativa, indir n e una nuova, per un valore superiore, favorendo la vittoria della SANGALLI . Sulla vicenda avevano iniziato ad indaga re la Procura di Monza ed i Carabinieri del NOE di Milano, dopo aver raccolto una denuncia su presunte anomalie nella procedura per l’ assegnazione de l servizio in questione . Una svolta decisiva, però, si è avuta quando Giorgio Sangalli, ormai alle strette, ha deciso di collaborare con gli inquirenti, confessando d i aver pagato una tangente al vice sindaco Cantalupo, per assicurarsi l’appalto. A quel punto il fascicolo è confluito in quello già aperto, relativo al l’operazione Clean City e le indagini sono state affidate ai finanzieri del Gruppo Monza. In meno di due mesi di intensa attività investigativa, attraverso numerose intercettazioni telefoniche ed ambientali, diversi servizi di pedinamento ed appostamento, registrazione filmata di incontri, indagini bancarie e documentali, è stato possibile fare luce sul l’intero iter amministrativo dell’appalto incriminato, trovare i riscontri alle dichiarazioni accusatorie dei Sangalli ed individuare il ruolo e le responsabilità delle persone coinvolte. Sono stati ricostruiti tutti gli incontri avvenuti nel tempo tra il vice sindaco Cantalupo, l’assessore Diaco, Giorgio e Giancarlo Sangalli, serviti a pianificare, nei dettagli, la strategia per truccare la procedura di gara . E’ stato individuato il giorno ed il luogo dove è avvenuta la consegna dei 50 mila euro in con tanti al vicesindaco . Sono state trovate le prove per sostenere che la SANGERMANO si era prestata, per conto della SANGALLI – che non doveva figurare – a promuovere un ricorso sul bando di gara. In questo m odo l’Amministrazione comunale di Cologno ha potuto annullare la procedura, per indirne una nuova. S coperte anche le modalità che avrebbero permesso alla SANGALLI di vincere la nuova gara . Questa volta la turbativa non sarebbe avvenuta con il solito bando “cucito” su misura, per sbaragliare la concorrenza, ma attraverso il suggerimento di ben specifiche migliorie da inserire nell’offerta tecnica. Così, all’apertura delle buste, la società di Monza avrebbe avuto un punteggio più alto rispetto alle altre aziende. In quest’ultimo contesto investigativo avrebbero avuto parte attiva e sono indagati oltre al vicesindaco Cantalupo, anche Michele De Girolamo della società Area Sud Milano e Fortunato Deleidi, dipendente e consulente della SANGALLI. I militari della Guardia di Finanza di Monza sono in azione dalle prime ore di questa mattina per eseguire i provvedimenti cautelari emessi dall’Autorità Giudiziaria, per acquisire in Comune, a Cologno, la documentazione relativa al bando e soprattutto le buste presentate dalle società contenenti le offerte tecniche ed economiche.
La Giustizia pallosa, scrive Massimo Zamarion su “Giornalettismo”. Milano, vicenda Maugeri: la procura: «processate Formigoni». Roma, vicenda polizza vita: la procura: «processate Gasparri». Napoli, vicenda compravendita senatori: nuovo filone di indagini (mentre è già iniziato il processo contro il Berlusca, quello col Senato che si è costituito parte civile). Napoli, vicenda rimborsi facili: arrestato l’ex braccio destro del governatore Caldoro. Verona, l’accusa è corruzione: arrestato Vito Giacino, ex vice-sindaco della giunta Tosi. Palermo, trattativa stato-mafia: il pm Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio. Piemonte, elezioni regionali 2010: il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Cota contro la sentenza del Tar che le aveva annullate. Sant’Agata di Militello (Messina), associazione a delinquere: indagato l’ex sindaco e attuale senatore di Ncd Bruno Mancuso. E’ tutta roba degli ultimi giorni. Ma non pensate anche voi che sia venuto il momento di chiedere alla magistratura di bastonare con calda passione, feroce determinazione, per davvero e non per finta, come fa da vent’anni, pure i sinistrorsi? Non per amor di giustizia, che ci è antropologicamente estranea, ma così, per capriccio, per il gusto del nuovo, per puro estetismo, e soprattutto per non farci morire di noia?
I CUTRI'. MORIRE D'INGIUSTIZIA.
Era rimasto ucciso durante l'agguato per liberare Domenico, ergastolano evaso e poi catturato. Centinaia di persone alle esequie, amici e parenti calabresi. La fidanzata, agli arresti domiciliari, è scortata dalle forze dell'ordine. Lascia una corona con la scritta: "Carlotta, tua per sempre", scrive Ester Castano su “Il Fatto Quotidiano”. Il 13 febbraio 2014. E’ don Erminio a celebrare la messa. L’eucaristia funebre risuona solenne nella chiesa di piazza San Martino. Inveruno, 8600 abitanti nell’hinterland milanese: si svolgono qui le esequie dell’ultimo omicidio legato alla malavita calabrese impiantata al Nord. Si tratta di Antonino ‘Nino’ Cutrì, classe 1982, fratello dell’ergastolano Domenico, accusato di omicidio, evaso lunedì 3 febbraio a colpi di kalashnikov mentre veniva trasportato al tribunale di Gallarate (Varese) e poi catturato dalle forze dell’ordine. Ferito a morte durante l’agguato, secondo gli inquirenti era stato proprio Nino ad organizzare la fuga. Dei trentadue colpi esplosi uno lo raggiunge al collo e muore pochi istanti dopo con ancora il caricatore pieno addosso. “Pensiamo a quando il Cristo è stato arrestato per essere crocifisso, aveva attorno i suoi affetti che per proteggerlo volevano tirare fuori la spada. Ma Gesù disse loro: non è questa la via. Beati coloro che costruiscono la pace”, dice il parroco. Parole che sembrano legare le vicissitudini del messia cristiano a quelle dei due fratelli Cutrì. In chiesa più di duecento persone: padre, madre e sorella in prima fila. Le due donne, Antonella Lantone e Laura Cutrì, prendono per prime la comunione dalle mani del prete. Il fratello più giovane, Daniele, non è presente perché trattenuto in carcere. La navata è gremita di gente, poche le sedie vuote sul fondo, tutte piene le panche in legno delle file centrali. Presenti molti amici del ragazzo, che si asciugano gli occhi stretti nelle loro felpe scure, e giovani venuti dai paesi limitrofi: Arconate, Legnano, Castano Primo. Alcuni di loro nei giorni scorsi avevano espresso parole di stima sui social network verso l’amico ucciso mentre liberava il fratello condannato all’ergastolo, frasi che si sono poi rivelate fondamentali per le forze dell’ordine per procedere con l’arresto di Domenico dopo i sei giorni di latitanza. Presenti i parenti venuti da Melicuccà, 997 anime in provincia di Reggio Calabria, comune d’origine della famiglia. Nell’estate del 1989 i Cutrì, costretti al soggiorno obbligato per aver appoggiato un omicidio mafioso, si trasferiscono al Nord. Carlotta Di Lauro, fidanzata di Nino, arriva in chiesa scortata dalle forze dell’ordine, sei uomini la circondano per impedire eventuali tentativi di fuga: capelli scuri raccolti, collo di pelliccia nera e rossetto rosso. Voleva posare la fede nuziale sulla bara del fidanzato comprata poche settimane fa: i due giovani dovevano sposarsi entro l’anno e trasferirsi col bambino di lei di cinque anni a Cellio, in Valsesia. La donna, che attualmente si trova agli arresti domiciliari nella casa dei genitori a Cuggiono, nel milanese, lascia una corona di fiori: “Carlotta tua per sempre”. Durante il corteo che accompagna il carro funebre al cimitero le persone escono dalle abitazioni e dai cancelli delle ville residenziali salutano i tanti inverunesi presenti al funerale. La bara viene tumulata mentre i parenti si stringono sotto la pioggia che si fa insistente e piangono in silenzio. Si sente solo la voce della madre: “Non c’è più niente, non c’è Dio, non c’è Gesù, non c’è niente”. Delle ragazze lasciano volare dei palloncini bianchi. E dicono in coro: “Ciao Nino, ciao Nino”.
Le notizie non arrivano perché «la televisione rimane spenta. Siamo in lutto», scrive Andrea Galli su “Il Corriere della Sera”. In casa Cutrì, mamma Antonella e papà Mario giurano di non aver saputo dei quattro fermati dai carabinieri, e ugualmente giurano d’ignorare che la caccia al fuggiasco Domenico, il primogenito da lunedì latitante, stia vivendo le sue ore decisive. Ignorano gli sviluppi dell’inchiesta, ripetono i due. Una cosa soltanto aggiungono. Dopo l’appello di martedì della madre («Mimmo scappa, non consegnarti, altrimenti il sacrificio di tuo fratello sarà inutile»), ecco con il padre una riflessione, una presa d’atto, forse un affidarsi al caso: «Adesso Domenico agisca secondo coscienza». Vada come vada il finale di partita. L’importante, dicono i genitori, è che «l’Italia intera sappia che l’ergastolo dato a Mimmo è ingiusto». La sentenza, che attende il passaggio in Cassazione, ha visto Domenico Cutrì responsabile dell’omicidio d’un ragazzo, ucciso per apprezzamenti e sguardi di troppo a una sua amica. «Nelle indagini, nelle tesi dell’accusa e nelle decisioni dei giudici ci sono stati molti punti oscuri. L’assassino materiale è in libertà. Per quale motivo? Mio figlio all’epoca era un incensurato, uno che lavorava. Non era un balordo eppure non ne hanno tenuto conto. L’ergastolo è stato eccessivo». Com’è ora eccessivo, dice Mario Cutrì, «il fatto che magistrati e carabinieri neghino a mia moglie di vedere il cadavere di Nino. Stanno giocando allo scaricabarile, gli uni dicono di rivolgersi agli altri. Mi domando io cosa vogliano dimostrare... Perché negare questo diritto a una mamma? Perché questo ulteriore supplizio?». A Inveruno, nell’appartamento dei Cutrì, ci sarebbe (ma agli investigatori non risulta) anche il terzo figlio maschio, Daniele, che inizialmente era scomparso. Anzi no. Raccontano i genitori: «Daniele non è mai scappato. Abbiamo sentito in giro strane voci. Per esempio che abbia dato una mano a organizzare l’evasione... Falsità. È vero che ha trascorso fuori due giorni. Ma quanto accaduto lo aveva spaventato, lo aveva sconvolto. Lui ha unicamente avuto bisogno di allontanarsi un po’ per stare da solo. .. L’avvocato dice che non rischia nulla... Ora Daniele è tornato. Noi siamo una famiglia molto unita. Molto unita». E i Cutrì non sono e non mai stati, tengono a precisare, «una famiglia di ‘ndrangheta. Non siamo un clan, non siamo mostri e di criminali». A chi replica loro elencando i precedenti di questo o di quel componente della famiglia oppure ricordando le storie di droga e di armi, di regolamenti di conti e di vendette che vengono addebitate, Mario Cutrì racconta l’episodio di Milano. Era il maggio del 2012. Dalle parti della stazione Centrale. Una sparatoria, una macchina piena di armi e degli uomini arrestati. Due di loro sono fra i fermati dai carabinieri; un terzo era Nino Cutrì, ucciso dalla polizia penitenziaria nel corso della liberazione e ideatore del progetto di fuga. «Ma mio figlio è stato giudicato innocente per non aver commesso il fatto. Lo difendeva l’avvocato Taormina e avevamo vinto la causa». Non è il primo legale famoso che assiste i Cutrì. Lo stesso fuggiasco Domenico, per un periodo, era stato difeso da Giulia Bongiorno.
Nessun appello, per ora: né in un senso né nell'altro, scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica”. Nessun incitamento alla fuga o alla latitanza. Solo lo sfogo di una madre disperata, e un po' confusa, che dice "ho perso due figli. Uno, Nino, è su un tavolo di marmo all'obitorio; l'altro, Mimmo, comunque andrà a finire questa storia, l'ho perso per colpa di una sentenza ingiusta. E quello che è successo l'altro giorno è frutto di questa sentenza". Maria Antonietta Lantone, 50 anni, da Melicuccà, prima di diventare madre dell'ergastolano in fuga Domenico Cutrì - liberato da un "commando familiare" e fuggito lungo una scia di spari e sangue - è figlia emigrata di un paesino di mille anime incastonato dentro una conca ai piedi dell'Aspromonte reggino. La Maria Antonietta "lombarda", invece, è madre di famiglia: in casa è l'unica che lavora (è dipendente di una cooperativa che fa assistenza agli anziani: turni di giorno e di notte); e quando al processo per l'omicidio di Trecate si è trattato di coprire il figlio Domenico ("Mimmo"), è stata lei e nessun altro, non il marito Mario, non gli altri due figli, Antonino ("Nino") e Daniele, a far mettere a verbale un alibi inventato.
Perché si era esposta in questo modo?
"L'ho fatto solo per cercare di salvare un figlio accusato di un omicidio che non ha mai commesso".
Adesso è scappato. È un ergastolano evaso...
"Provo un grande dolore per quello che è successo, un dolore che merita rispetto. E provo tanta rabbia. Nino è morto per liberare il fratello, era disposto a tutto, lo diceva sempre, anche se noi ogni volta cercavamo di scoraggiarlo".
Non vi ha ascoltato.
"L'ho visto morire sotto i miei occhi. L'hanno ammazzato. Mimmo, invece, l'ho perso per un ergastolo che non esiste. Sono preoccupata per quello che gli potrà succedere".
Ma lei lo incita a scappare, o no?
"Ho solo detto che capisco la sua disperazione, che cosa si prova a essere giudicato colpevole quando sei innocente. Si può arrivare anche a dei gesti estremi. E comunque Nino non voleva fare del male a nessuno, voleva solo fare un'azione eclatante per suo fratello, per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica su un'ingiustizia, visto che il 4 aprile 2014 è in programma la Cassazione".
Ma c'è stato un assalto armato, un piano organizzato. E uno dei suoi figli è morto per liberare l'altro.
"L'hanno ammazzato Nino. Vogliamo capire bene come sono andate le cose. Chi ha sparato, chi ha sparato per primo. Se Nino ha sparato oppure gli hanno solo sparato. I miei figli nella loro vita hanno commesso degli errori ma non sono né boss, né killer, né collegati alla 'ndrangheta. Ne hanno dette di tutti i colori sui miei figli".
Dunque, da parte sua, nessun incitamento a scappare o alla latitanza di Domenico?
"No. Soffrivo a vederlo in carcere per un fatto che non ha compiuto. Sapere che adesso è libero, visto che era dentro per una sentenza ingiusta, da una parte mi fa piacere. Ma quello che è successo a Gallarate è una doppia tragedia. Frutto di un ergastolo confermato in appello, che non fa giustizia".
Lei sostiene che è innocente. Perché?
"Ci sono troppe cose che non tornano, per quell'omicidio hanno indagato a senso unico. Mimmo non ha commesso quel delitto e non l'ha ordinato. Quando poi si è visto incastrato ha provato a difendersi, e io ho cercato di aiutarlo, ma non è servito a niente".
Adesso è diventato tutto inutile. Non è meglio consigliargli di tornare?
"Basta, non dico più niente. In questo momento penso a mio figlio morto. Nino è arrivato a fare questa cosa perché come tutti noi credeva nell'innocenza di suo fratello".
A breve la Lantone dovrà rispondere di falsa testimonianza in tribunale a Torino. Assieme al figlio Domenico (stessa accusa), che però adesso è in fuga. A difenderli è Roberto Grittini, il legale di fiducia della famiglia Cutrì. L'altro giorno aspettava Domenico in aula a Gallarate. "Ho sentito gli spari, è stata una follia. Attendiamo l'autopsia e i rilievi balistici per capire da che parte sono partiti i primi colpi". Oltre ai processi di Torino e Gallarate (in quest'ultimo caso per truffa e ricettazione), Grittini difende l'ergastolano anche a Milano, dove è accusato di appropriazione indebita. Il 4 aprile, al processo in Cassazione per l'omicidio di Trecate, Cutrì sarà invece difeso dall'avvocato Armando Veneto, decano del Foro di Palmi e politico dell'Unione di Centro. Chissà dove sarà quel giorno l'imputato.
Se proprio doveva esserci un motivo per un’evasione da film, scrive Paolo Colonnello su “La Stampa”, quello scelto dalla signora Antonella Cutrì per l’assalto di lunedì davanti al tribunale di Gallarate, è spettacolare: «Tutta colpa del processo Meredith» dice, mentre attende nei corridoi della Procura di Busto Arsizio di poter parlare con il pm che coordina le indagini sulla fuga di suo figlio Domenico, il sostituto procuratore Raffaella Zappatini. Spieghi meglio, signora. «Ma sì, è stata quella la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la sentenza Meredith. Ma come, a quella che ha scannato una povera ragazza nel letto hanno dato 28 anni, mentre al mio Mimmo, che è innocente, l’ergastolo? È per questo che Nino ha deciso di liberare Mimmo». La signora Cutrì ne fa insomma una questione di giustizia. E non fa niente se alla fine il bilancio è stato di un figlio morto, un altro latitante e un altro ancora, il più piccolo, Daniele, che non si sa bene che fine abbia fatto, sospettato pesantemente di aver organizzato la fase logistica per la latitanza di Domenico in Calabria. In una dichiarazione dell’altro ieri, riportata dal Corriere della Sera, Antonella si è spinta a dire una cosa che più che un messaggio sembrava un ordine: «Mimmo, ascoltami: non ti costituire. Tuo fratello si è sacrificato per te. Non ti consegnare, Mimmo. Scappa, scappa Mimmo. Altrimenti Nino è morto per niente». Cosa che ha fatto infuriare più di un inquirente anche se in fondo è sembrata una conferma di ciò che fin da subito gli investigatori hanno pensato: e cioè che la cruenta evasione dell’ergastolano Domenico, sarebbe stata tutto un affare di famiglia, dove ciascuno ha avuto un ruolo. Allargato probabilmente a qualche amico fidato visto che i Cutrì non sono affatto organici alla ’ndrangheta ma vantano sicuri appoggi e conoscenze «altolocate» negli ambienti delle ’ndrine calabresi. Consapevole dell’esposizione, la signora Antonella ieri in Procura ha fatto un po’ marcia indietro: «Io sono sicura che se Mimmo avesse la garanzia di un processo giusto, si costituirebbe». Poi, di nuovo un acuto: «Comunque, avessi potuto, lo avrei fatto scappare anch’io!». Quindi, una correzione: «Questa l’ho detta grossa...». Sì ma, le guardie assalite, le armi, gli spari? «Volevano fare solo un’azione dimostrativa per far parlare dell’ingiustizia che ha subito Mimmo». E meno male che era solo «dimostrativa», perché sull’asfalto davanti al piazzale del tribunale di Gallarate, i carabinieri hanno contato ben 32 bossoli, di cui 28 calibro 9, attribuiti ai banditi, e 4 calibro 7,65, attribuiti alle guardie. Ma per Antonella Cutrì questi, in un certo senso, sono dettagli. Al di là di ciò che dice davanti ai giornalisti, rimane pur sempre una madre devastata dal dolore della perdita di un figlio che ha visto morire sotto i suoi occhi. Così, quando alle 10 e mezzo del mattino arriva nella Procura di Busto per chiedere di poter rivedere il corpo di Nino, lo sguardo fiero lascia il passo alle lacrime che ogni tanto le riempiono gli occhi. E dopo il colloquio con il magistrato, Antonella Cutrì deve rassegnarsi ad aspettare ancora a lungo. Perché il pm Zappatini, che ora procede oltre che per l’evasione anche per tentato omicidio e lesioni gravi verso le guardie, ha disposto anche una Tac oltre all’autopsia: si vuole capire se a colpire al collo Antonino Cutrì sia stato un proiettile sparato dagli agenti, come sembrano convinti i suoi familiari, oppure dagli stessi banditi. Intanto proseguono le ricerche dell’evaso e dei suoi complici. Gli inquirenti hanno accertato che il fratello minore, Daniele, 24anni, domenica era effettivamente a Napoli e poi si sarebbe spostato in Calabria. Quindi non avrebbe partecipato alla liberazione del fratello a Gallarate. «Questo però - dice un investigatore - non fa di lui un estraneo all’azione».
"Lo diceva sempre, darei la vita per mio fratello e alla fine è quel che è successo, scrive Sarah Crespi su “Prealpina”. Un figlio me l’hanno ammazzato con l’ergastolo, l’altro con i proiettili": Maria Antonietta Lantone ha ancora una mano sporca del sangue perso dal figlio Antonino, morto per liberare il fratello Domenico Cutrì dal carcere a vita. Prelevata dai carabinieri dall’ospedale dove aveva accompagnato Nino in fin di vita, è stata ascoltata in caserma a Gallarate fino alle 7 di martedì 5 febbraio, poi la corsa al Fornaroli per poter vedere il corpo del trentunenne, nemmeno un istante per sedersi e metabolizzare il trauma. "Nino si sentiva in colpa nei confronti di Mimmo, credeva di essere stato lui a portare i carabinieri in casa per colpa di un incidente, episodio dopo il quale Mimmo venne arrestato. Nino non si dava pace, continuava a ripetere di voler liberare suo fratello. Ma ora è tutto inutile, non c’è più niente da fare. Nessuno più mi chiamerà mammicedda. Non oso immaginare come possa sentirsi Mimmo, mai avrebbe voluto una cosa del genere". Maria Antonietta non ha dubbi: la tragedia di lunedì pomeriggio ha un’unica causa scatenante, "ed è l’ingiusto ergastolo che avevano dato a Mimmo, perché lui con quella terribile storia non c’entrava niente". Dalle parole della mamma trapelano così le reali intenzioni di Nino Cutrì e la sua ossessione di dimostrare l’innocenza di Mimmo. "Nino voleva richiamare l’attenzione di tutta la stampa nazionale sul caso di mio figlio. Il gesto di liberarlo secondo lui sarebbe servito a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’ingiustizia che stavamo vivendo da quando l’Appello aveva confermato l’ergastolo. Ma ora è tutto inutile". Domenico Cutrì a breve avrebbe dovuto affrontare il processo in Cassazione, dal quale si attendeva un rinvio all’Appello per avere una nuova possibilità di difendersi dall’accusa dell’omicidio del polacco Lukasz Kobrzeniecki. L’appuntamento era fissato al 4 aprile prossimo. "A questo punto però non so come andrà a finire". Stando alla cinquantenne, negli ultimi giorni Nino era molto nervoso, come se qualcosa gli ribollisse nell’animo. "Aveva quel chiodo fisso e in più non sentiva l’appoggio della famiglia, perché noi siamo sempre stati contrari al progetto di liberarlo, forse soffriva della mancanza di appoggio", spiega la donna mentre con il cagnolino passeggia davanti a casa, in via Leopardi. E poi, riflettendo ad alta voce: "Forse l’avrei fatto io, è troppo doloroso vedere un figlio in carcere per un fatto che non ha compiuto. Oggi non saremmo arrivati a questi estremi se la giustizia fosse stata davvero giusta. Io per difendere Mimmo, durante il processo, detti anche un alibi inventato. Lo feci perché a loro volta gli inquirenti non furono corretti nelle indagini. In questo momento mi chiedo se la condanna e tutto quello che è successo non sia anche colpa mia". Maria Antonietta Lantone è infatti imputata a Torino per falsa testimonianza, il gup lo scorso 14 gennaio ha disposto il rinvio a giudizio e a breve inizierà anche il suo processo. Alla donna però sembra non interessare più, la sua anima è come svuotata dalla rapida successione di tragedie che si è abbattuta su di lei. Ha solo una domanda: "Voglio sapere chi ha sparato a mio figlio, prendendolo alla base del collo senza lasciargli scampo. Tutto qua".
"Volevano fare solo un'azione dimostrativa per far parlare dell'ingiustizia che ha subito Mimmo condannato all'ergastolo (per l'uccisione di un giovane che avrebbe fatto apprezzamenti poco graditi alla donna di Cutrì ndr), quando invece è innocente, scrive “Qui Cosenza”. Non volevano fare del male". In cuor suo vorrebbe sentire il figlio, ma si augura che non "lo faccia e non voglio sapere nemmeno dove è, e non si deve nemmeno costituire, deve scappare, in memoria del fratello morto per liberarlo. Sono contenta che ora sia libero, mi auguro che ora non faccia sciocchezze". E lancia il suo appello: "Mimmo non ti costituire. Tuo fratello si è sacrificato per te, altrimenti è morto per niente". La mamma di Domenico Cutrì, Antonella, questa mattina è andata in procura a Busto Arsizio per chiedere di poter vedere il figlio, Antonino, morto durante il blitz che ha consentito a Cutrì di evadere. Il permesso, tuttavia, le è stato negato perchè gli inquirenti devono ancora disporre l'autopsia. "Scappa, scappa Mimmo" ripete ossessivamente mamma Antonella. "Nemmeno mi fanno vedere il cadavere - dice commosso Mario Cutrì, il padre arrivato a Milano di corsa dalla Calabria - gli hanno piantato un proiettile alle spalle, a tradimento, ne sono sicuro. Lui - ricostruisce l'uomo - ha usato lo spray. Nino non ha sparato. Avesse voluto li avrebbe ammazzati tutti quanti". D'altronde Nino era davvero pronto a tutto pur di liberare suo fratello Mimmo. "Era pazzo di lui - racconta Antonella - erano come gemelli. Aveva frequentato addirittura un corso da elicotterista". Tutto per far scappare suo fratello, in carcere - secondo il padre - quasi ingiustamente. "L'hanno accusato d'essere il mandante dell'omicidio di un tizio che faceva apprezzamenti a una sua amica - ricorda il signor Mario - Ora, chi ha sparato è fuori, libero. Comunque l'obiettivo non era uccidere ma inviare un avvertimento. Ho chiesto al giudice se avesse figli. L’ergastolo è uguale alla sedia elettrica. Ventidue, ventisei anni di galera li accetti. Hai la prospettiva che uscirai, e combatti, come contro una malattia grave che forse si può curare". Una "malattia" che ora, dopo l'evasione e la morte di un fratello, è molto più difficile curare.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
GIUSTIZIAMI.IT. OMERTA’ GIUDIZIARIE SVELATE DA GIORNALISTI LIBERI.
Condannato un giudice: ubriaco in bicicletta, scrive Salvatore Garzillo su “Libero Quotidiano”. Nel tribunale di Milano c’è un magistrato condannato a due mesi e venti giorni di carcere (e 800 euro di multa) perché pedalava su una bicicletta in stato di ebbrezza. Chi sia il protagonista non è dato saperlo visto che in procura vige «il più stretto riserbo», espressione vieppiù utilizzata ma alla quale non siamo abituati nemmeno per casi eclatanti quali omicidi e inchieste politico-finanziarie, mentre in questo caso pare reggere. Un silenzio per tutelare il condannato, non le indagini in corso.
La notizia è stata pubblicata ieri su «Giustiziami.it», un sito gestito da esperti giornalisti giudiziaristi del tribunale di Milano che hanno deciso di raccontare anche le storie che (spesso) sfuggono al circuito dell’informazione ufficiale. Vicende talvolta comiche (come il magistrato che frequenta così spesso la Coin da essere scambiata per una commessa da una cliente). Lei è molto graziosa, elegante e sempre ben vestita. Con quel sorriso scintillante potrebbe venderti qualsiasi cosa. Attratto dalla sua allure, un cliente del Coin, il grande magazzino di piazza Cinque Giornate che dista pochi metri dal Tribunale, le si avvicina fiducioso per chiedere informazioni sulla merce: “Posso chiedere a lei?”. “No, io non lavoro qui”, si schernisce. “Ah, mi scusi – ribatte quello – la vedo sempre qui, pensavo fosse una dipendente”. Lei è un magistrato. E poi ancora. L’uomo ‘cavia’ in cella con Kabobo che ‘stava meglio’. Va premesso come punto di partenza e dato di fatto, appurato in esclusiva da Giustiziami.it, che quel povero detenuto non aveva il numero di telefono di Anna Maria, Cancellieri ovviamente. Non possiamo sapere, invece, cosa ha pensato quando ha scoperto che avrebbe condiviso una cella di San Vittore con Adam ‘Mada’ Kabobo, il ghanese che lo scorso maggio ha ucciso a colpi di piccone tre passanti a Milano, mentre tre riuscivano a salvarsi. Non avendo telefonate illustri da giocarsi, si sarà rincuorato quando qualcuno, magari di passaggio, gli ha detto “guarda che non è proprio matto, stai tranquillo”. Una perizia psichiatrica, d’altronde, solo qualche settimana fa aveva accertato che la persona che gli inquirenti descrivevano come un ‘meteorite’ caduto sulla Terra non era totalmente infermo di mente quando compiva una strage. “Ah ok, allora posso stare tranquillo”, avrà pensato il detenuto, un immigrato come Kabobo rinchiuso nel reparto psichiatrico del carcere milanese che scoppia di presenze e anche per quello, forse, ogni buco è buono da riempire. Fatto sta che quell’oggetto non identificato, considerato processabile dai periti (la perizia è consultabile nella sezione ‘Documenti’) anche perché le cure stavano avendo effetto, ha offerto una buona prova che le terapie stanno davvero funzionando, tentando di strangolare il malcapitato compagno di cella. In nome di quelle ‘voci’, pure ‘di Dio’, che continua a sentire. Pare che nemmeno i legali del ghanese che l’avevano incontrato nelle scorse settimane credessero davvero al fatto che, in quelle condizioni, fosse stato messo in cella con un’altra persona. A questo punto non resta che cercare di capire chi sia più ‘marziano’, dopo Kabobo ovviamente: chi ha deciso di infilare un altro uomo da dargli in pasto nella sua cella o chi ha accertato che il ghanese è schizzato, ma non del tutto. (Roger Ferrari). Altre soltanto sussurrate, come quella del giudice ubriaco. Ebbene, su di lui neppure i validi cronisti di Giustiziami sono riusciti a scoprire molto. Sconosciuto il nome e il giorno della condanna, che è arrivata dal tribunale di Brescia in quanto non avrebbe potuto essere giudicato dai suoi colleghi milanesi. Si sa soltanto che è stato «protagonista di importanti inchieste» e che ora sulla sua fedina penale compare una macchia di due mesi e venti giorni di carcere. Condannato a due mesi e venti giorni di arresto e a 800 euro di multa per essere stato sorpreso ubriaco in sella alla sua bicicletta. La nemesi della Giustizia si è presentata a un bravo magistrato, già protagonista di importanti inchieste, con la divisa dei vigili, categoria di per sé poco flessibile ma che nel caso sembra avere manifestato uno zelo d’acciaio. Il ciclista togato stava procedendo un po’ alticcio sul marciapiede a ora tarda quando è stato avvicinato dagli uomini della legge stradale, pronti a punirlo perché non pedalava in strada. Quello però se ne stava buono sul marciapiede forse per una scelta di prudenza, consapevole che la scarsa lucidità da troppo alcol avrebbe potuto nuocere a sé e ad altri. Niente, gli agenti non hanno voluto sentire spiegazione: guida in stato di ebbrezza, e denuncia all’autorità giudiziaria, che in questi casi è quella di Brescia perché un magistrato meneghino non può essere giudicato dai suoi colleghi. Qui si è consumata la piccola ‘odissea’ del magistrato, con qualche colpo di scena degno di indagini di maggior peso. La Procura bresciana ha chiesto di archiviare il suo caso non ritendolo colpevole, il giudice dell’udienza preliminare si è opposto chiedendo l’imputazione coatta e alla fine la toga è stata condannata in primo grado a due mesi e venti giorni di arresto e 800 euro di multa, in base alla legge del 2010 che disciplina i reati stradali. (Manuela d’Alessandro e Frank Cimini). E dunque, Mister X pedalava di notte sul marciapiede, contravvenendo così a un divieto tutto sommato trascurabile, soprattutto considerando l’ora. Ma due inflessibili vigili lo hanno notato e gli hanno chiesto spiegazioni, per nulla intimoriti dalla sua professione. Gli hanno ricordato che il marciapiede è per i pedoni e subito dopo si sono accorti che il ciclista togato non era in perfetta forma. Insomma, era ubriaco. Forse ha scelto di evitare la strada perché consapevole del suo stato e dei rischi che avrebbe corso e avrebbe potuto causare, ma la premura non è stata apprezzata dagli agenti della polizia locale, che lo hanno denunciato all’autorità giudiziaria per guida in stato di ebbrezza. Il fascicolo passa a Brescia (per il motivo di cui sopra), dove la Procura decide di archiviare il caso non ritenendo il soggetto colpevole. Poi, però, il colpo di scena: il giudice per l’udienza preliminare si oppone e chiede l’imputazione coatta, portando alla fine alla condanna a due mesi e venti giorni più 800 euro di sanzione amministrativa, in base alla legge del 2010 che disciplina i reati stradali. La storia si conclude qui e - ci rendiamo conto - di elementi ne mancano un bel po’, a partire dal dato temporale e geografico. È la prima lezione di ogni giornalista, ricordare sempre le cinque W anglosassoni, ovvero chi, che cosa, quando, dove, perché. A volte si riesce a rispettarla perfino quando si tratta di efferati omicidi, dove c’è di mezzo la vita delle persone, o in caso di maxi processi politici. Altre volte - e ce ne rammarichiamo - è difficile anche con una multa da 800 euro.
“La Procura non indaga”, tolte sette indagini a Greco, scrive ancora “Giustiziami.it”. Sette inchieste tolte a uno dei magistrati più quotati della Procura di Milano, Francesco Greco, che, secondo un giudice e la Procura Generale, non avrebbe indagato su vicende di evasione fiscale, scuotono il Palazzo di Giustizia. Da aprile a settembre il procuratore leader del pool che combatte la criminalità economica, che ha ‘firmato’ inchieste come quella sulla scalata ad Antonveneta ed è stato citato ieri anche da Enrico Letta come possibile futuro consulente di Palazzo Chigi, si è visto bocciare dal gip Andrea Salemme sette richieste di archiviazione. Fin qui, nulla di strano: capita che un giudice non condivida l’orientamento della pubblica accusa. Quello che appare davvero inedito, tanto che nessuna statistica e nessuna ‘toga’ di lungo corso lo ricordano, è l’intervento della Procura Generale, l’organo a cui spetta il controllo su tutti i magistrati del distretto milanese. Di solito, quando un giudice non vuole archiviare, ordina allo stesso pm che ha ricevuto la notizia di reato di riapplicarsi sulle indagini. Il pg Carmen Manfredda, su delega del suo ‘capo’ Laura Bertolé Viale (pubblica accusa nel processo d’Appello Mediaset a Berlusconi), si é invece sostituita a Greco sulla base di un articolo del codice di procedura penale, finora rimasto ‘sulla carta’, che gliene da’ facoltà (‘avocazione delle indagini per mancato esercizio dell’azione penale’). Una di queste inchieste, tutte partite da segnalazioni dell’Agenzia delle Entrate, riguarda una maxi frode da quindici milioni di euro messa a segno attraverso una società estera da un’azienda brianzola attiva nel campo degli arredamenti. Greco, stando a quanto riferito da fonti del Palazzo, avrebbe archiviato la pratica nel giro di pochissimi giorni, sostenendo che la frode esisteva, ma non era possibile provarla per un’interpretazione giuridica. Una scelta ritenuta troppo precipitosa dalla Procura Generale visto che, si fa notare, nemmeno un atto d’indagine è stato compiuto per cercare eventuali prove. In queste settimane, la polizia giudiziaria sta raccogliendo informazioni e documenti che poi verranno valutati dalla Procura Generale. La replica della Procura è affidata ai numeri. Viene sottolineato che nei primi cinque mesi di quest’anno sono state inoltrate all’ufficio gip circa 1600 richieste di decreto penale di condanna per reati fiscali e si è indagato su importanti società fino ad arrivare a sequestri imponenti, come gli 1,2 miliardi di euro ‘congelati’ alla famiglia Riva dell’Ilva di Taranto. (Manuela D’Alessandro).
Magistrati e pm a braccetto coi terroristi rossi? Tutto normale, siamo in Italia, scrive Cristiano Puglisi su “Milano Post”. Può un’associazione che riunisce magistrati e pubblici ministeri in attività pubblicare in un’agenda ufficiale frasi di uno scrittore dichiaratamente vicino a gruppi terroristici? Si, in Italia questo può accadere. L’associazione è Magistratura democratica, che, per capirci, è la corrente che riunisce quella fetta di magistrati prossimi alle posizioni del centrosinistra. Fatto di per sè già abbastanza anomalo in un Paese in cui non vige una separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti e soprattutto in cui i primi non vengono eletti, ma semplicemente assunti. Ebbene è accaduto che nelle agende per il 2014 fatte stampare da questa corrente come dono natalizio per i colleghi è apparso un brano dello scrittore e attivista No Tav Erri De Luca, tratto dalla sua opera “Euridice”. Ma non un brano qualsiasi, bensì un testo in cui l’autore descriveva l’attività terroristica di estrema sinistra degli anni settanta, cui ha ammesso di essere stato vicino, in questo modo: “Ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”. Ovviamente tale scelta non poteva non suscitare clamori. Neppure in Italia. Così è successo anche che uno degli esponenti più in vista di quella corrente, il Pm torinese Giancarlo Caselli, tra l’altro apparentemente nel mirino dei No Tav, abbia comprensibilmente deciso di abbandonare il gruppo. Se sconcertante è la presenza di simili frasi all’interno di un documento prodotto da magistrati, altrettanto sconcertante però è stata la reazione di Magistratura democratica all’uscita del noto collega. “Siamo profondamente convinti – hanno commentato i magistrati “rossi” in una nota ufficiale sul proprio sito web – che la scelta di Giancarlo, motivata dalla pubblicazione sull’Agenda 2014 di un brano dello scrittore Erri De Luca, non sia giustificata”. Ricapitolando: i No Tav ti minacciano ma se i tuoi colleghi pubblicano sul proprio organo ufficiale brani di un loro esponente la tua scelta di abbandonare il gruppo “non è giustificata”. Tutto chiaro? Chiarissimo.
LE RAGAZZE DOCCIA, LA BABY PROSTITUZIONE E LA SOLITA INDIFFERENZA.
Le chiamano «ragazze doccia» e sono adolescenti, in genere di famiglie benestanti, che si prostituiscono nei bagni delle scuole in cambio di oggetti, scrive Amalia De Simone su “Il Corriere della Sera”. Il fenomeno è stato scoperto dall’equipe del prof. Luca Bernardo, direttore del reparto di pediatria dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Secondo il dossier le ragazzine hanno tra i 14 e i 16 anni, vengono perlopiù da scuole private. «Abbiamo individuato per ora otto ragazze ma ci risulta che il fenomeno sia molto più esteso – spiega – Le chiamano ragazze-doccia perché così come ci si fa la doccia tutti i giorni, loro quotidianamente fanno sesso. I maschietti–clienti vengono scelti in base a ciò che possono dare in cambio alle ragazze. Durante le lezioni delle prime ore sui telefonini gira il menù con prestazioni, richieste e orari per gli appuntamenti nei bagni, dove avvengono i rapporti sessuali. Le ragazze offrono le loro prestazioni anche a più persone. Per loro è una specie di gioco, un gioco molto pericoloso nel quale pensano di dominare e irretire i loro clienti. Finora abbiamo accertato i otto casi, sette di ragazze di “famiglia bene” del centro di Milano e una invece proveniente dalla periferia. Le scuole coinvolte nel “giro” sono prevalentemente istituti privati. Nessuna di queste minorenni ha parlato subito e liberamente della cosa. La confessione è arrivata sempre all’interno di un percorso di assistenza relativo ad altri tipi di problematiche come la droga o il bullismo». Il professor Bernardo - che è riuscito a realizzare un reparto di pediatrico di eccellenza costruendo un ambiente colorato e sereno con vari programmi di assistenza ai ragazzi -, sta approfondendo il fenomeno perché il sospetto è che con il tempo la pratica si sia addirittura evoluta: «Non posso pensare che in questi ambienti non girino anche soldi. Inoltre sembra che ora ci siano dei ragazzi, dai diciassette anni in su che fanno da procacciatori di clienti e il timore è che nel giro, già molto preoccupante, stiano entrando anche dei clienti adulti».
Se l’articolo è stato pubblicato l’8 di novembre del 2013, il Giornale già il 1 settembre 2009 dava conto del fenomeno. Scuola, prostitute 15enni per un iPod: su internet le liste delle baby-escort. Sul web e sui cellulari liste di baby-escort che per l’ultimo modello di iPod o iPhone sono disposte a vendersi. Scuole pubbliche o private, l'ultima frontiera del sesso a pagamento. Concedere il proprio corpo a 15 anni per avere l’ultimo modello dell’iPod o dell’iPhone. Succede nelle scuole milanesi, senza distinzione tra i prestigiosi licei del centro e gli istituti professionali della periferia, tra le scuole pubbliche e quelle private. Ci sono le liste di baby-escort che circolano via internet o sui cellulari dei ragazzi, il ragazzino ne contatta una via sms e le dà appuntamento in un angolo appartato della scuola. Rigorosamente al di fuori dell’intervallo quando l’attenzione di docenti e personale scolastico è più alta. Prostituirsi tra i banchi di scuola È più o meno questa la prassi diffusa nelle scuole del territorio milanese su cui ha fatto scattare l’allarme l’ambulatorio per le vittime del bullismo del Fatebenefratelli, il primo esempio in Italia di osservatorio pubblico sul mondo giovanile. La prima segnalazione si è avuta nel 2008, ma è nel corso di quest’anno che il fenomeno ha assunto una rilevanza preoccupante con 12 segnalazioni giunte dagli adolescenti in cura presso la struttura milanese. "Quasi mai un adolescente viene da noi per denunciare questi episodi - spiega il professor Luca Bernardo responsabile dell’ambulatorio - noi abbiamo avuto notizie di questi episodi attraverso alcuni adolescenti che volevano uscire da storie di bullismo e alcol. È molto difficile che a quell’età parlino di sessualità". Lo "scambio" di beni Finora, dalle testimonianze raccolte tra gli adolescenti, non si sono scoperti episodi di sesso in cambio di denaro, mentre è prassi "ricambiare" la prestazione con oggetti di valore come può essere un lettore mp3. "Si tratta - racconta il professor Bernardo - di uno scambio di atti sessuali tra ragazzi in cambio di oggetti di pregio che una volta sono l’iPod un’altra un capo di abbigliamento firmato. Per ora non ci sono segnali di giri di denaro: stanno molto attenti a non entrare nell’illegalità". E non si provi a relegare il sesso a scuola, ennesima espressione del disagio giovanile, come un fenomeno di degrado sociale. Un fenomeno trasversale Perché dalle testimonianze raccolte dall’ambulatorio milanese emerge l’analisi di un fenomeno socialmente trasversale: le segnalazioni riguardano tanto i prestigiosi licei del centro quanto gli istituti più periferici, nè c’è distinzione tra la scuola pubblica e quella privata. "Lo fanno per noia, per apparire, per voler essere sempre più oggetto del desiderio - prosegue il medico - di sicuro non sono storie di degrado. E nessuna scuola può chiamarsi fuori". Per questo è necessario uno sforzo corale da parte di istituzioni, scuole e famiglia per affrontare con gli adolescenti un tema come quello della sessualità. In particolare le "famiglie hanno il compito primo di parlare con i figli di questi argomenti - dice Bernardo - non è facile: spesso le ragazzine hanno un doppio abbigliamento, riescono a tenere nascosti ai genitori indumenti intimi piuttosto che scarpe molto vistose. Certo i segnali ci sono: magari abbandonano lo sport, o cominciano ad avere disturbi legati all’alimentazione". Le responsabilità dei genitori Il problema è che in alcuni casi i genitori preferiscono chiudere un occhio, fiduciosi che una volta superata l’adolescenza il problema svanisca. "Noi abbiamo parlato con i genitori - spiega ancora il medico - alcune famiglie avevano avvertito qualcosa, ma molte altre non volevano crederci o ci sono apparse addirittura infastidite come nel caso di una famiglia della Milano bene che ci ha chiesto esplicitamente di stare fuori dalla loro vita privata. Noi ci sentiamo solo di dire che quando si hanno delle avvisaglie è fondamentale parlare con i ragazzi e non soprassedere".
Baby prostitute, tra ingenuità e arrivismo. Come in Taxi Driver, sono candide ma spregiudicate le teen che vendono il proprio corpo in cambio di una non ben chiara spinta, scrive Marco Cubeddu su “Panorama”. Baby prostitute. 14, 15 anni. C’è chi finge stupore e indignazione. Ma la verità è che la sessualizzazione è un processo che oggi, dopo lunghi decenni in cui avveniva in un’età più matura, è tornata precoce. Certo, qui si tratta di prostituzione. Di un giro d’affari dietro a delle ragazzine. Ma oltre alle questioni legali, che sono questioni che riguardano i tribunali, restano le questioni morali. Che sono sempre da maneggiare con le pinze. Perché se gli sfruttatori devono essere giustamente puniti, e su questo non ci sono dubbi, sulla consapevolezza o meno delle baby prostitute, il dibattito è aperto. Se da una parte è “l’orrore” pensare che ragazzine così piccole si mettano in vendita per comprarsi la droga (ci sono anche vie intermedie che offrono sesso orale o spettacolini per poche decine di euro di ricarica del telefonino) dall’altra solo in virtù di un’ingenua miopia si può pensare che le vittime siano solo vittime totalmente inconsapevoli. Nei Paesi poveri c’è una certa disinvoltura da parte di ragazzine molto piccole nel vendere i loro corpi per mantenersi o per mantenere la famiglia. E purtroppo non ha niente a che fare con l’ingenuità. Semplicemente, il corpo, come la vita, non ha ovunque quella sacralità che è stata raggiunta solo nell’ultimo secolo nelle sacche di benessere occidentale. L’adolescenza non solo non è storicamente sempre esistita, ma ancora oggi è un lusso geograficamente ben localizzato. Se non l’indigenza, anche in questi tempi di crisi difficilmente pensabile come scusa, perché difficilmente si tratta di reale indigenza, è probabile che la spinta alla prostituzione venga da un altro tipo di fame. Una fame di futuro? Una fame di soldi? Una fame di identità? Di potere? Di rivalsa? Cercare di dare un giudizio generazionale sui fenomeni teen è sempre un esercizio stucchevole. Anche perché, a fronte di un certo libertinaggio, anche fra i teenager di oggi non mancano radicali moralismi. L’unica cosa certa è che lo stupore non è né proponibile, né credibile. Piaccia o non piaccia dobbiamo fare i conti con la dicotomia incarnata da queste ragazzine, in cui convivono un’ingenuità e un arrivismo stratosferico, una superficialità e un candore che le fanno sembrare la versione italiana della piccola Jody Foster in Taxi driver. Tra i mille interrogativi di un mondo in cui tutto crolla, dall’occupazione giovanile alle tradizioni, tutto ruota attorno all’alienazione da una realtà che è sempre più sfuggente, sempre un passo avanti alle grandi narrazioni che hanno raccontato il disagio di ieri. La domanda è: quando arriverà un Robert De Niro a far fuori i colpevoli e liberare le vittime le vittime vorranno ancora essere liberate?
Le baby prostitute e il corpo come merce. La psicoterapeuta adleriana Inest Staletti: "Il sesso, nella nostra società, è diventato una scorciatoia per il successo", scrive Paolo Papi su “Panorama”. «La prima domanda la faccio io: secondo lei che cos'è la sessualità?». «Innanzittutto è un istinto naturale». «Sbagliato. Per lo meno non sufficiente: il sesso è anche una relazione tra due persone». Inizia così, con un breve scambio di battute, la chiacchierata con Ines Staletti, psicologa e psicoterapeuta milanese di formazione adleriana, alla quale chiediamo che cosa è accaduto, tra i giovani e le giovanissime italiane, se il corpo e la sessualità sono diventate solo merce di scambio per ottenere qualcosa: un gadget, una ricarica del cellulare, una scorciatoia per un abito griffato o per fare soldi facili, come è emerso dal caso delle baby prostitute dei Parioli a quello delle cosiddette ragazze doccia milanesi che si offrivano ai compagni di scuola, con tanto di tariffario, durante le ore di intervallo.
«Il dubbio, dottoressa, è che queste cose sono sempre esistite ma solo ora, proprio perché c'è una accresciuta sensibilità nei confronti dei minori, se ne parla di più».
«Non esattamente. Storicamente la prostituzione minorile è figlia del degrado materiale in cui versavano le famiglie. Oggi non è più così. Guardi le ragazze milanesi di cui si occupano oggi i quotidiani. Non avevano alle spalle situazioni di disagio, di povertà estrema, come nei romanzi dickensiani. Vivevano la loro attività, chiamiamola così, come la cosa più normale del mondo. E del resto, se tutto è mercificato, se anche il sesso è sganciato dalle relazioni affettive, il corpo diventa una merce come un'altra. Lo usi per comprarsi un abito, una ricarica, per avere soldi facili, per avere tanti soldi in tasca».
«Un problema culturale».
«Appunto. Oggi la sessualità non è più un tabù come lo era per le generazioni precedenti. Non è più legato al peccato. Il fatto è che rischia di diventare un semplice strumento di scambio commerciale, il modo più rapido e meno faticoso per avere successo, per non essere emarginate, per essere vincenti. È la vittoria della società dell'apparire su quella dell'essere, come diceva Fromm. E del resto, le chiedo: se i modelli vincenti, dalla tv alle famiglie, sono quelli della bellezza e della ricchezza e non - come ci avevano insegnato i nostri genitori - della fatica e del sacrificio, quale risultato possiamo ottenere?»
«Ci sono storie di abusi dietro queste storie di prostituzione che ci raccontano i giornali?»
«Non necessariamente. Non sono, queste, storie di costrizione materiale o di povertà, come in passato. Né di violenze subite durante l'infanzia. C'è probabilmente, nel vissuto psicologico e familiare di queste ragazze, l'idea di valere poco, di non essere amate, di essere svalorizzate. Il vuoto affettivo delle famiglie e degli educatori - sempre più subalterni al dominio dell'apparenza - produce guasti come questi: c'è chi si prostituisce, chi finisce nel gorgo delle dipendenze e chi, tra gli adulti, va a fare turismo sessuale senza pensare che sia una cosa sbagliata. Le ripeto: è un problema CUL-TU-RA-LE della nostra società consumistica. Se non partiamo da qui queste storie diventeranno quotidiane. E mi lasci dire che anche la diffusione della chirurgia plastica cui ricorrono sempre più giovanissimi è figlia di questo degrado: il bisturi come semplice medium per cambiare il proprio corpo-merce».
Questo è un fenomeno avulso o è lo specchio dei tempi dei tempi.
Indifferenza, indisponenza, insofferenza. A questi sentimenti ci siamo ridotti. Ecco la fotografia che fa vergognare la Milano arancione. È stata scattata in Stazione Centrale alle 17. Racconta una città persa fra proclami e indifferenza, scrivono Marta BraviAlberto Giannoni Milano, pomeriggio di novembre, via Tonale (stazione Centrale). Sono le 17 e sta per calare la sera. Una giovane donna è sdraiata per terra, ha la testa appoggiata su quello che sembra un giaccone o uno zaino. Dorme. Probabilmente non è lucida. È nuda, ha il seno scoperto e si trova in mezzo a un cumulo di cartacce. Non sappiamo come e perché si sia adagiata così in mezzo ai rifiuti. E non sappiamo se sia arrivata prima o dopo di lei quell'auto rossa che, per via della prospettiva, sembra schiacciarla contro il muro. Per coincidenza è stato il coordinatore cittadino di Fratelli d'Italia, Massimo Girtanner, ad accorgersi della scena. Ha chiamato i soccorsi ed è stato subissato di domande, come accade a chi per primo segnala qualcosa di insolito o rilevante. «Eppure - dice - era davanti a un albergo e alla fermata dell'autobus. La gente passava e faceva finta di niente. Come se fosse normale». «La Centrale - aggiunge - è in balia di tutti. Noi andremo in piazza per dire basta». Via Tonale in effetti è quella di uno dei sottopassi. Risse e scippi non si contano. È così da anni. Ma questa foto parla anche di altro. Ci sono immagini che dicono più di quel che rappresentano. Vanno oltre la cronaca. Restano nell'immaginario collettivo perché catturano un clima particolare o un momento storico. Questa foto può essere il simbolo della Milano di oggi. Una città in cui una donna - chiunque essa sia - può restare sola, nuda e abbandonata in mezzo a una strada frequentatissima a due passi dal centro e dai nuovi quartieri. Ma non c'è spazio per la retorica su emarginazione e nuove povertà. Non si può girare la frittata col buonismo, ne abbiamo sentito fin troppo. La stazione, dopo i lavori, oggi al suo interno è un'ottima galleria commerciale. Ma basta mettere il naso fuori e si fa i conti con il peggior degrado che si sia visto da tanti anni a questa parte. E il degrado è insieme causa ed effetto del degrado sociale. Certo, buttarla in politica è sbagliato. Ma la zona era stata recuperata, almeno dal punto di vista della sicurezza e dell'ordine estetico, e quel recupero è stato vanificato in pochi mesi. Ora sarà forse strumentale stabilire un nesso di causa-effetto fra il ritorno del degrado diffuso e questa immagine di abbandono, solitudine e miseria. Però qualcuno deve dirci qual è la ricetta, qual è la linea, cosa si sta facendo e perché. Ieri si è chiuso il bando per le ronde sociali del Comune e hanno risposto in 12. Bene? Meglio di niente. Ma la sinistra ha vinto le elezioni anche con il no alle politiche «securitarie e repressive». Sosteneva e sostiene che la sicurezza produce «pesanti effetti di criminalizzazione e di stigmatizzazione di persone e categorie sociali». Avvertiva che «a furia di etichettare un quartiere o una periferia come luogo pericoloso e insicuro lo si trasforma in ghetto, in una trappola da cui è difficile per chiunque uscire». Aveva promesso misure per «combattere il degrado, rivitalizzare strade, piazze, quartieri», per permettere a cittadini e associazioni di «riappropriarsi degli spazi». Per ora abbiamo visto smantellare quel che era stato fatto prima. Ma l'arcobaleno di una città più buona e più giusta che era sorto come un presagio in un venerdì preelettorale di maggio sembra tramontato intorno alle 17 di un pomeriggio di novembre, in via Tonale.
LA DIFFAMAZIONE, I GIUDICI, I GIORNALISTI ED ALTRE COSE.
Caso Messineo-Panorama: Come una scheggia impazzita. L'editoriale di Alessandro Sallusti direttore de "Il Giornale" su “Panorama”, sulle novità legate al caso Messineo-Panorama, dopo la richiesta di trasferimento del procuratore avanzata dalla prima commissione del Csm. Due colleghi di Panorama, il direttore Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro, sono stati condannati al carcere per aver pubblicato un articolo in cui si raccontava la politicizzazione, in un clima di veleni, della procura di Palermo, quella di Ingroia per intenderci. Quel Pm e quel giudice che hanno chiesto e concesso le manette dovrebbero leggere, per poi ingoiarlo, chiedere scusa e dimettersi, il documento con cui il Csm ha messo ieri sotto accusa il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. C'è da rabbrividire, in confronto l'inchiesta di Panorama è stata una carezza. Messineo, secondo i colleghi del Csm è uomo debole, succube del sottoposto Ingroia che lo manovrava a suo piacimento. Si parla di fughe di notizie pilotate, di intercettazioni imbarazzanti su Messineo che Ingroia ha imboscato, di tempo speso a inseguire teoremi politici a scapito della lotta alla mafia, tanto da fare fallire la cattura del nuovo capo dei capi Matteo Messina Denaro. È anni che noi del Giornale sosteniamo la tesi della giustizia politicizzata a Palermo (e non solo) e per questo siamo stati oggetto di ogni genere di angherie: campagne mediatiche per delegittimarci da parte della cricca di colleghi (Travaglio e soci) che ha tenuto bordone a questa sorta di associazione segreta e deviata, condanne a risarcimenti milionari e più di recente alla galera. Ora che la verità sta venendo a galla, come la mettiamo? Qualcuno ci restituirà soldi ed onore? C'era, e c'è tuttora, uno Stato nello Stato che non si capisce a chi risponde. A Palermo, come a Milano e Napoli, le procure e i tribunali sono fuori controllo, che è altra cosa da una sana indipendenza. Molti Pm hanno goduto, e godono, di protezioni politiche e mediatiche che li hanno fatti apparire come eroi del diritto e unici paladini della Costituzione quando in realtà si tratta solo di servitori dello Stato infedeli al servizio di chi, dentro e fuori il Paese, vuole sovvertire la volontà popolare. Di loro ci mettono solo megalomania e spocchia figlie di un'impunità totale che hanno ottenuto con il ricatto e l'inganno. Pensavano di mettere le mani pure sul Quirinale, coinvolgendo Napolitano in una delle tante patacche spacciate per verità giudiziarie. Hanno esagerato e ora pagano. Spero che questo da oggi accada anche di fronte ai loro soprusi nei confronti di comuni cittadini e di chi ha osato, come noi e i colleghi di Panorama, svelare i loro altarini e criticare il loro modesto lavoro.
Sul caso-Mulé e la legge sulla diffamazione ecco l'intervento di Guido Salvini, oggi gip alla Procura di Cremona. Questo articolo di Guido Salvini è stato pubblicato sul sito online Getta La Rete, ma anche su “Panorama”. Salvini oggi è giudice per le indagini preliminari a Cremona. Non iscritto a nessuna corrente della magistratura, negli anni Ottanta e Novanta da giudice istruttore a Milano ha condotto grandi inchieste su Gladio e sul terrorismo nero e rosso, e ha riaperto l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana.
LA DIFFAMAZIONE, I GIUDICI, I GIORNALISTI E ALTRE COSE…. di Guido Salvini. Repetita iuvant si sentiva a scuola. Vale anche le sentenze. Ma talvolta ripetere non serve a risolvere un problema, piuttosto a porlo con più forza. Si era appena concluso il caso Sallusti grazie all’intervento del presidente della Repubblica: una semi-grazia, tecnicamente una commutazione della pena detentiva in pecuniaria in base all’art. 87 della Costituzione, provvedimento non frequente che aveva suonato come una autorevole critica all’attuale legge sulla stampa e come un invito a modificarla il più presto possibile. Sembrava ragionevole pensare che da quel momento fosse in vigore una tacita intesa, non più condanne alla reclusione per i giornalisti, tanto più condanne senza la sospensione condizionale della pena, in attesa della nuova legge. Una riforma che, nelle diverse proposte di tutte le parti politiche, avrà comunque come minimo comun denominatore l’eliminazione della pena detentiva. Ed ecco a Milano la condanna per diffamazione a 8 mesi di reclusione senza condizionale per il direttore di Panorama Giorgio Mulè, a 1 anno del giornalista Andrea Marcenaro, sempre senza condizionale, e 1anno di un secondo cronista. L’accusa? Panorama aveva descritto in un articolo del dicembre 2009 il procuratore di Palermo Francesco Messineo come inadatto a gestire il suo ufficio, quasi plagiato dal suo aggiunto Antonio Ingroia e forse reso più debole, un procuratore «discusso» si legge nel capo d’imputazione, da alcune indagini che coinvolgevano suoi parenti. Gestione «senza carisma», che aveva provocato la spaccatura della procura in due campi in aperto e ormai pubblico conflitto. Un articolo quindi non incentrato su una notizia falsa o decisamente sbagliata; non un articolo di cronaca, ma un articolo di critica, un diritto che in un paese democratico non può che avere confini molto larghi. Ho letto l’articolo e anche la sentenza: l’articolo di Andrea Marcenaro non fa rizzare i capelli. Non ci sono accuse volgari, personali, gratuite ma una critica, che può essere anche del tutto sbagliata e fuorviante, alle dinamiche interne di uno degli uffici più importanti d’Italia, uno di quelli, due o tre, le cui scelte processuali pesano, lo leggiamo ogni giorno, sulle scelte politiche del paese. Risulta nella sentenza, tra gli addebiti principali a titolo di colpa o meglio di dolo, che nell’articolo non si fosse citato che le originarie accuse rivolte dal Consiglio superiore della magistratura a Messineo e le indagini che coinvolgevano alcuni suoi parenti si fossero chiuse qualche mese prima. Un commento quindi non completo. Ma, a parte il fatto che ciò modificava ben poco in termini d’immagine di un capo e di conseguenze dell’appannamento del suo prestigio, la sentenza contro Panorama è stata pronunziata in un momento sfortunato. Per un singolare caso di sincronicità, che piacerebbe allo psicoanalista Carl Gustav Jung, il giorno in cui la sentenza di Milano è stata resa pubblica, il 14 giugno, ha coinciso con la formale apertura da parte del Csm nei confronti del procuratore Messineo del procedimento di incompatibilità ambientale, in pratica il trasferimento punitivo di ufficio. E le incolpazioni sono del tutto simili a quelle originarie, citate nell’articolo, parenti compresi, i cui processi erano stati archiviati nel 2009 solo in parte, con in più la presunta rivelazione di segreti di indagine ad un amico. Con il risultato di far così scoprire che non si era concluso proprio nulla e che la perdita di prestigio del procuratore e, conseguenza di essa, l’azione del Csm erano più che attuali. Il procedimento d’incompatibilità ambientale - la morte civile per un giudice - è un procedimento, sia detto per inciso, odioso perché il Csm vi ha la duplice veste di accusatore e di giudice, secondo le migliori tradizioni illiberali e per l’accusato le possibilità di difendersi sono ridotte al minimo. L’ho subito anch’io negli anni Novanta. Firmatario dell’incolpazione fu allora il prof. Giovanni Fiandaca, membro laico di sinistra al Csm, che oggi, forse meno condizionato rispetto a quando stava al Consiglio, dissente in un’intervista a Panorama dalla sentenza milanese. L’azione partì a causa di gelosie di magistrati più potenti di chi scrive, milanesi e non, guarda caso molti poi finiti in politica, e il martellamento del Csm, durato 6 anni, ebbe allora un ruolo non secondario nell’ostacolare le indagini su Piazza Fontana. Comunque sia l’atto di accusa contro Messineo di oggi ripropone lo stesso scenario, sudditanza a Ingroia, indagini avvenute nei confronti di suoi parenti con l’imbarazzo che ne è derivato, incapacità del procuratore di impedire lo scontro tra gruppi e fazioni interne all’ufficio sino ad esserne travolto. E, addebito più grave, la mancata cattura, come conseguenza di queste spaccature, di Matteo Messina Denaro. Non penso nulla, non ne avrei titolo, sull’azione avviata del Csm che contiene comunque sul procuratore Messineo giudizi anche più severi rispetto all’articolo di Panorama. Ma non si può non registrare che esista, in incubazione da molto tempo dopo accertamenti e l’audizione di parecchi sostituti di Palermo. Nessuno può pronunciarsi per ora sulla fondatezza di tali accuse, che giungono direttamente dall’organo di «autogoverno» dei giudici, ma si tratta nella sostanza di molte delle critiche che erano presenti nell’articolo di Panorama, segno che l’attenzione verso la gestione di Messineo dal 2009 a oggi non si era mai interrotta (anche se l’azione iniziale era stata momentaneamente archiviata) e forse la chiusura della parabola di Ingoia ne ha accelerato l’esito. A nessuno quindi può sfuggire l’aperta dissonanza (ma la legge non sempre coincide con la giustizia e a volte nessuna delle due con la storia) tra una sentenza che giudica ai livelli massimi di diffamazione, sino a irrogare il carcere, un articolo che offre una scenario, e l’intervento dell’organo che ha potere supremo sui magistrati che fa proprio quello stesso scenario sino a prospettare l’allontanamento di colui che nel processo milanese era nella posizione di vittima ingiustamente offesa. È anche difficile disgiungere la sentenza contro Panorama e l’iniziativa del Csm: non solo tra di esse ma dal triste finale che ha avuto la doppia militanza di Ingroia. Con le sue acrobazie è riuscito a giudicare indegne della sua presenza due realtà tanto diverse come il Guatemala e la Valle d’Aosta, mancando di rispetto a entrambe come se l’impegno internazionale assunto per collaborare nel campo della giustizia potesse essere disdetto come una vacanza in un hotel e come se la Valle non fosse una sede giudiziaria come le altre ma un ricovero per giudici-pensionati che, per usare la sua malaccorta espressione, «scaldano la sedia». Alla fine le acrobazie di Ingroia si sono concluse con un salto nel vuoto, e l’ex procuratore ha finito, senza rendersene conto, a tirare la corda sino a spezzarla riuscendo nella non facile impresa di perdere persino l’appoggio, in genere sollecito e protettivo, della magistratura associata e del Csm. La temporanea candidatura al Parlamento di magistrati non era in sé una novità. Sin dal dopoguerra il Pci, ma anche altri partiti, avevano usufruito di magistrati candidati nelle loro liste ma in genere come «indipendenti», (Cesare Terranova, poi vittima della mafia, per fare un nome ) e con un ruolo tecnico e limitato nel tempo. La presenza dei magistrati in politica aveva negli anni Ottanta cominciato a snaturarsi con la scelta di magistrati già ritenuti «vicini», in genere romani, destinati a giocare un ruolo già ben diverso, collocati in posizioni chiave accanto ai ministri o addetti all’elaborazione di proposte di leggi finalizzate e utili in quel momento, le note leggi ad personam, scritte a somiglianza di casi specifici. Ma non era mai accaduto che un procuratore in attività fondasse un partito di opposizione in pratica a suo nome e vissuto come continuatore della sua attività giudiziaria e, mancata la vittoria e terminata anche l’aspettativa, continuasse a occuparsi di ricostruirlo e ad animare congressi, dibattiti e cortei. Con il risultato, di questo e di altri casi noti, come quello di Luigi De Magistris, di porre all’attenzione dell’opinione pubblica più il problema della separazione della carriera giudiziaria dalla carriera politica che quello della separazione della carriera dei pubblici ministeri da quella dei giudici. Subito dopo la sentenza contro Panorama Il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, come già nel caso Sallusti, quando d’improvviso aveva allargato le maglie del suo ufficio – sino a quel momento contrario - nell’applicazione della sospensione delle pene detentive definitive, ha fatto una mossa «politica» abbastanza tipica del suo stile di gestione della procura. Ha deciso di accentrare su di sè le indagini di diffamazione, forse al fine di evitare altri casi da cui dover poi trovare un’impervia via di uscita e prevenire cattiva stampa, proprio per reati di stampa, su un ufficio, sarebbe un paradosso, più abituato all‘appoggio dei media e anche alla piaggeria di qualche cronista embedded che alle critiche. Ma certamente interventi singoli di messa al riparo di questo genere non bastano. Serve una riforma della legge sulla stampa che risale al 1948, quando i quotidiani si strillonavano nelle strade e internet era una parola sconosciuta. Non auspico l’uscita della diffamazione dal diritto penale, la sua completa decriminalizzazione e la riduzione ad un affare civile. Non è così nella maggior parte dei Paesi europei e il processo penale pubblico ha un valore simbolico. L’onore e la reputazione restano beni essenziali spesso non solo per l’offeso, ma anche sul piano degli equilibri sociali e la diffamazione quando di fatto si trasforma in calunnia può anche uccidere. Non si può confinare l’offesa all’onore solo a un processo civile. Un tempo, nelle classi alte, l’offesa all’onore si risolveva addirittura con il duello e lo scontro virtuale in aula fa parte quindi del processo di civilizzazione. Spesso i processi per diffamazione hanno significati e conseguenze su più piani. Emile Zola infatti scrivendo il suo famoso J’accuse si fece processare proprio poter far riaprire, con quello che avrebbe detto in aula, il processo Dreyfus. In un processo civile mancherebbe buona parte del significato pubblico e simbolicamente diretto all’intera collettività di una sentenza penale e tra l’altro le stesse ragioni della difesa, per motivi intrinseci all’accertamento del danno civile, manca infatti il fair trial, rischierebbero di trovare meno spazio. Il processo non può quindi che rimanere nelle aule penali ma ridefinito, con estinzione in caso di completa rettifica, maggior impegno nello svolgimento da parte delle procure di qualche indagine senza fermarsi ai dati formali, pubblicazione dei dispositivi di condanna davvero con lo stesso risalto e forse una responsabilità amministrativa aggiuntiva per l’editore ai sensi della legge 231|2001. Non sarebbe nemmeno uno scandalo la sanzione accessoria della sospensione temporanea dell’attività per il giornalista nei casi più gravi e se recidivo: il diritto generale di manifestazione del pensiero non sarebbe compresso inibendolo per qualche tempo sui giornali ad un falsario. Ma di sicuro il carcere non serve. Tornando a Panorama, una sentenza di primo grado è ancora materia semigrezza, adatta più alla riflessione che alla critica Nei giudizi di Appello e di Cassazione non potrà non influire, in termini di rivalutazione della portata offensiva di molti passaggi dell’articolo, l’apertura del procedimento dinanzi al Csm e forse si svolgeranno in presenza di una nuova legge sulla stampa. Ma le pene detentive e senza sospensione per diffamazione, riapparse quando il querelante è un magistrato che a differenza dell’imputato «gioca in casa», legittimano il sospetto di autoreferenzialità e della presenza di qualcosa che, con una brutta parola oggi in voga, si chiama casta e che può esprimere il suo potere con l’Anm e le correnti per le quali «la magistratura ha sempre ragione». Due sentenze sono ancora un indizio, direbbe un investigatore, una terza sarebbe una prova. La «guerra civile» tra giustizia e parte della politica è aperta da quasi 20 anni. Sono guerre che alla fine nessuno vince. Non condannare al carcere i giornalisti del campo opposto sarebbe forse un primo passo per iniziare a chiuderla. E forse in casi simili vince davvero solo chi fa il primo gesto.
IL GIUDICE SENZA CORRENTI E IL FABBRO FANTASMA DEL PALAZZO DI GIUSTIZIA. Ho letto qualche giorno fa da qualche parte, non importa in quale giornale, un articolo in cui si immaginava la vita quotidiana in Tribunale di un giudice che avesse assolto, giudicandolo in coscienza non colpevole, un potente inviso a molti, è facile indovinare quale, scrive Guido Salvini su “ Getta la Rete”. Nel racconto dell’autore, che ha alcuni passaggi divertenti e che sintetizzo in poche parole, quel giudice si sarebbe trovato d’improvviso emarginato nel proprio ambiente, destinato a condurre una vita di relazione stentata, divenuto quasi invisibile, con il vuoto intorno, nei corridoi e in ascensore, e la carriera sbriciolata. Non è un capolavoro ma è un articolo che usa in piccolo lo stesso strumento del paradosso del pamphlet con cui Jonathan Swift proponeva di ingrassare i bambini irlandesi denutriti per darli da mangiare ai ricchi inglesi e ridurre così povertà e sovrappopolazione. Non esprimo alcun opinione sui processi che si sono svolti nei confronti di questo potente, non ho titolo per farlo e, pur ammettendo di essere un po’ reticente, non so a cosa andrebbe incontro, promozioni o una vita ai margini, un giudice che l’avesse assolto. Quello che posso dire, per esperienza personale, è che in un Tribunale si può incontrare l’“isolamento sociale” anche per molto meno. Ad esempio criticare il sistema delle correnti ed esprimere, come facevo dalle colonne dello scomparso quotidiano Il Riformista, quindi in pubblico e non in privato che è molto facile, opinioni non ortodosse sulla ANM, sulle riforme della giustizia, sulla autoreferenzialità della magistratura che a volte diventa arroganza. Nell’articolo si immaginano stanze, computer e fotocopiatrici negate al giudice “proscritto” e la sua rinuncia forzata a qualsiasi aspirazione di carriera. L’autore dell’articolo, lavorando di fantasia, di sicuro non era informato di quanto è davvero avvenuto a me, da sempre lontano dalla magistratura associata, e mi ha dato, senza saperlo, l’occasione di raccontarlo. Nel 2010 mi ero reso disponibile, unico in tutt’Italia, ad un’applicazione temporanea a Cremona, allora del tutto sguarnita di magistrati. Sapevo di essere poco gradito a Milano ma non lo era nemmeno, chissà perché, questa mia libera scelta di dare una mano altrove. Tanto poco gradita che il Consiglio Giudiziario, espressione delle correnti, aveva dato parere contrario, con buona pace delle esternazioni sull’aiuto alle sedi disagiate. Una tarda sera di gennaio sono tornato al mio ufficio di Milano dopo una giornata di lavoro, ancora con atti da scrivere e mandare a Cremona, non robetta ma omicidi, provvedimenti di libertà personale, Calcio-scommesse e intercettazioni urgenti. Ho trovato la serratura dell’ufficio magicamente cambiata da un fabbro fantasma, di nascosto, con tutto, fascicoli e computer dentro. Sono rimasto fuori, in cortile, con la borsa in mano. Qualche giorno dopo, sempre in segreto, un ordine dai piani alti ha fatto disattivare la mia linea telefonica che faceva funzionare il fax: non assegnata ad altri proprio “congelata” e da quel giorno rimasta inutilizzata. L’importante era forse che non la usassi io. Per completare mi è stato inibito di usare la fotocopiatrice. Ho girato per mesi le copisterie intorno al Tribunale con in mano i fax da mandare Cremona nello stupore di chi, avvocati che mi conoscono da trent’anni, mi incontrava in coda come un privato qualsiasi che manda un ordine ad una ditta di lampadari. “Isolato” quindi in senso metaforico e in senso proprio tramite un fabbro e un elettricista. Ho cercato vanamente di protestare per questa situazione e subito è partito il procedimento disciplinare. Contro di me, non contro chi aveva mandato, e non era un mistero che richiedesse l’intuito di Sherlock Holmes per scoprirlo, il fabbro fantasma. Sono stato poi, e non poteva essere diversamente, assolto ma dopo viaggi a Roma, spese tutt’altro che indifferenti, patimenti indicibili, sofferenze familiari, tempo e lavoro sottratti alla giustizia e ai cittadini. Tutto ciò in singolare coincidenza temporale con i concorsi per i posti di Presidente a Milano in cui io non “allineato”, ero in posizione favorevole in concorrenza con altri “correntizi”, ma il tempestivo disciplinare mi aveva ormai escluso automaticamente dalla corsa. Quando ho potuto rientrare in campo l’arbitro aveva già fischiato la fine della partita. Di qualcuno che in quei concorsi ha vinto, ipercorrentizio poi nominato addirittura coordinatore organizzativo del Tribunale, si è scoperto in seguito che aveva perso fascicoli e causato gravi ritardi nel deposito di sentenze: evidentemente il CSM che lo aveva nominato aveva scelto bene e in modo imparziale, peccato che se lo è poi ritrovato a doversi difendere da accuse disciplinari, queste sì piuttosto serie. Avevo anticipato, guarda caso, la scoperta di questa falla, a lungo rappezzata, in uno mio articolo del luglio 2010, ora pubblicato nel libro “Office at night”. Casi di questo genere, imbarazzanti e sempre censurati, per questo ho voluto parlarne, non sono frutto di disattenzione ma nascono da una distorsione profonda. La magistratura si occupa molto, e spesso non a torto, della “autonomia esterna”, cioè dalla politica e da altri poteri, ma tace accuratamente, per rafforzare il proprio, sul valore che dovrebbe essere per primo tutelato, soprattutto nell’interesse dei cittadini, e cioè l’autonomia interna, la libertà di pensiero del singolo giudice dalla sua corporazione. L’articolo di Libero, questo è il quotidiano, giusto o no che sia lo spunto di partenza, evoca situazioni di discriminazione alcune delle quali sembrano solo curiose o tratte da una pièce teatrale. Ma non sono curiosità, sono uno sguardo oltre una porta sempre chiusa. E non sono problemi personali di questo o di quel singolo giudice ma possibili rischi per tutti i cittadini. Le nostre “divergenze interne” si regolano a volte con concorsi che qualche intervento velenoso o qualche improvviso “incidente” contribuisce a condurre verso un esito già comunque scontato o anche con atti che sembrano dispetti da condominio ma sono in realtà messaggi molto mirati. Questo nel compunto silenzio dell’ANM cui, tra i pochi, non sento il bisogno di essere iscritto.
“Office at night. Appunti non ortodossi di un giudice” è il libro del giudice Guido Salvini ricco di riflessioni e scritti pensati “quasi sempre a tarda sera nel Palazzo ormai deserto”. Gli appunti di Salvini vanno dal caso Tobagi al caso Ruby, dal famoso terrorista Battisti, di cui dice "l’ho indagato e so che è indifendibile", a Breivik, il sanguinario mostro di Oslo, fino ad arrivare al caso Sallusti e alla sentenza di Eluana Englaro, ed ovviamente alla strage delle stragi, piazza Fontana. Le fotografie sono del fotografo cremonese Mauro Gaimarri.
Recensione Cremona Oggi 6 luglio 2013. Guido Salvini è stato Giudice istruttore dal 1989 al 1997 nella nuova inchiesta milanese sull'eversione di destra e su piazza Fontana. L'indagine ha ricostruito l'attività di Ordine Nuovo nel Veneto e si è ampliata ad Avanguardia Nazionale, al golpe Borghese e ai Nuclei di Difesa dello Stato. Ha messo così in luce trame, alleanze, coperture politiche e militari che hanno portato alla strage del 12 dicembre 1969, quella ormai definita "la madre di tutte le stragi". Salvini, nella funzione di Gip, si è occupato più recentemente di terrorismo internazionale, delle nuove Brigate Rosse e dell'infiltrazione della 'ndrangheta nel Nord. Dal 2010 come Gip a Cremona si occupa dell'inchiesta sul Calcio-scommesse. All'attività professionale affianca un impegno storico e culturale sui temi della giustizia, della "memoria". In questa veste tiene lezioni e dibattiti in scuole, università e associazioni culturali e giovanili. Dal 2003 al 2005 è stato consulente della Commissione Parlamentare d'inchiesta sull'occultamento dei fascicoli sulle stragi nazifasciste del 1943-1945. E' uno dei pochi magistrati fortemente impegnati sui temi della giustizia che, per ragioni di indipendenza personale, non aderisce ad alcuna corrente organizzata della magistratura.
Facce sotto il casco e facce di casco. Peggio dei Black bloc, di Er Pelliccia e dei fanatici che hanno aggredito Marco Pannella sono la Bindi e i suoi sodali della Santa Alleanza antiberlusconiana, che li hanno caricati a molla solo per usarli e adesso tacciono. Ecco il testo integrale della lettera con cui il giudice Guido Salvini denuncia le riunioni segrete nel Palazzo di giustizia di Milano per far fuori il gip Clementina Forleo. Il Csm ha aperto un procedimento disciplinare sui presunti “congiurati”, Salvini è stato convocato a per essere sentito, nessuna procura d’Italia ha aperto alcun procedimento per eventuali reati commessi e tutti i giornali e le tv, sebbene sappiano tutto, non danno la notizia, scrive Carlo Vulpio.
“Caro Cosimo e cari colleghi, anch’io sono contento, anche sul piano umano, per la sentenza del Consiglio di Stato (quella che conferma la pronuncia del Tar del Lazio e annulla la decisione del Consiglio superiore della magistratura di trasferire da Milano a Cremona, per “incompatibilità ambientale”, il gip Clementina Forleo, che quindi ora può tornare a Milano). Non conosco a fondo il caso UNIPOL e dintorni ma avevo letto la sentenza redatta dal consigliere Fabio Roia e l’avevo trovata povera sul piano giuridico e riferita a fatti del tutto inconferenti per un giudizio di “incompatibilità ambientale” che per un giudice è quasi la morte civile. Una sentenza di quattro paginette, concepita con la supponenza con cui di frequente il CSM motiva decisioni importanti ritenendo di aver comunque sempre ragione. Aggiungo che sono stato testimone diretto dello sviluppo dell’azione “ambientale” contro la collega (cioè, la Forleo – ndr) dato che all’epoca ero anch’io GIP presso il Tribunale di Milano. Ho assistito a scene desolanti quali l’indizione con passa parola di riunioni pomeridiane in alcune stanze per discutere la “strategia” contro la collega, guidate dai maggiorenti dell’ufficio tra cui un paio di colleghi “Verdi” più rancorosi di tutti, come spesso accade, anche se del tutto estranei al caso. Da simili iniziative, che mi ricordavano le “Giornate dell’odio” descritte da George Orwell nel romanzo “1984″, mi sono dissociato. Non ci si comporta così tra magistrati ed è facile e privo di rischi accerchiare una persona in un ufficio e magari in questo modo anche portarla a sbagliare, visto anche il carattere poco “diplomatico” della vittima. L’incompatibilità ambientale, che si ignora cosa in realtà sia di preciso, e che spesso è semplicemente l’accanimento dell’ “ambiente” contro una singola persona, è quasi sempre una procedura barbara e prettamente inquisitoria. Il suo raggio d’azione, per fortuna, con le modifiche che conosciamo, si è ridotto, ma dovrebbe esserlo ancora di più, sopratutto nella pratica, sino a quasi scomparire come dovrebbe scomparire la prassi, in qualche modo speculare, delle ”pratiche a tutela”. Un caro saluto a tutti.
Guido Salvini (domenica 19 giugno 2011, 23:09).
La lettera che avete appena letto si commenta da sola. I fatti sono gravi e la testimonianza è “diretta”. Cos’altro posso aggiungere io, se non ciò che potete ascoltare nei video inseriti nel post precedente? O serve forse che ripeta – come un disco rotto – che tutto questo, come lo so io, lo sanno anche tutti i giornali e le tv, compresi quelli che a voi lettori del blog piace citare di più, e cioè Travaglio, Minzolini, Grillo, Belpietro, Santoro ecc. ecc.? Oddio, in verità una cosa posso aggiungerla. Questa. Speriamo che adesso Salvini, sentito dai colleghi del sinedrio, faccia i nomi dei partecipanti a quelle che lui stesso definisce “le giornate dell’odio” e non smussi, non smosci, non ridimensioni, non addomestichi le sue gravi accuse. Quanto poi alla possibilità – in realtà, un dovere – che qualche procura italiana apra un fascicolo per le evidenti ipotesi di reato configurabili in questa vicenda, ecco, la mia opinione è che non accadrà nulla. Primo, perché il potere giudiziario, allo zenit della sua egemonia, non azzannerà mai se stesso. Secondo, perché il popolo bue, adesso, non va distratto dal safari in corso, la caccia grossa a Berlusconi. E infatti, vedrete che anche su questo blog libero (non libero per finta, come quelli dei noti “paladini” della libertà di espressione) arriveranno i soliti anonimi a sviare l’attenzione: da Forleo e dalle porcherie giudiziarie alle festicciole del Berlusca e alla nostra “presentabilità” internazionale. Ma va da via i ciapp, come direbbero a Tropea.
La stessa cosa succede per i sindaci? Per la prima volta in Lombardia un consiglio Comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sedriano, 11 mila abitanti. Ma il sindaco in carica, Alfredo Celeste (Pdl), 60 anni, professore di religione, eletto nel 2009 e oggi indagato per corruzione, non accetta la decisione di Palazzo Chigi, scrive Giovanna Maria Fagnani su “Il Corriere della Sera”.
Professor Celeste, entrate nella storia con un’onta. Non si sente in colpa?
«No, non mi rimprovero niente, perché questa accusa è infondata e lo dimostreremo. Chiederemo al Tar e poi al Consiglio di Stato la sospensione e poi l’annullamento del provvedimento. Io resto qui a governare fino all’arrivo della commissione che mi sostituirà. Questo scioglimento è un atto politico, serviva a conclamare che in Lombardia la mafia c’è e di questo anch’io ne sono convinto. Ma non c’è in Comune a Sedriano. E’ un’accusa infamante nei confronti dei cittadini sedrianesi in primis, poi nei confronti dei funzionari comunali, che sarebbero corrotti o comunque succubi nei confronti delle richieste della criminalità organizzata».
Lei è indagato di corruzione da un anno a questa parte. Perché non si è dimesso né dopo l’arresto, né dopo l’insediamento della commissione prefettizia e neppure quando la Procura ha chiesto per lei la sorveglianza speciale?
«Perché l’accusa non è fondata e lo dicono le carte e perché io sono stato indagato come sindaco, nelle mie funzioni. Sia ben chiaro, il ricorso al Tar lo pagherò di tasca mia, il Comune non spenderà un euro. Io non sono corrotto, lo scrivono i carabinieri e anche il pm. Io resisto e mi difendo nei confronti di un’ingiustizia. Sarei felice di mandare tutto all’aria e di mandare quel paese i miei denigratori, ma qui siamo in presenza di un’ingiustizia conclamata. Attendo le motivazioni che saranno pubblicate insieme al decreto di scioglimento e poi mi difenderò, come è mio diritto. Questo clamore darà la forza di continuare a farlo anche ad altre persone nella mia stessa situazione».
Chiedendo per lei la sorveglianza speciale, il pm Alessandra Dolci scrive che lei non ha denunciato il tentativo di corruzione da parte di Eugenio Costantino, imprenditore legato al clan Di Grillo, e questo non è accettabile da un pubblico amministratore.
«L’episodio a cui si riferisce la Procura avvenne qui nel mio ufficio, nel 2011. Costantino mi fece capire che se gli avessi affidato dei lavori lui mi sarebbe stato riconoscente. L’ho allontanato subito dall’ufficio e poi non ho più avuto rapporti con lui, se non sporadici. Non dimentichiamo che lui era il referente politico di zona di un partito alleato con il Pdl, la Democrazia cristiana per le autonomie. Ma soprattutto io non sapevo che lui appartenesse a un clan mafioso e anche questo lo scrive il pm nella richiesta di rinvio a giudizio».
Perché non ha denunciato il tentativo di corruzione in ogni caso?
«Forse è stata leggerezza, ma in quel momento pensavo che bastasse metterlo alla porta. D’altronde non mi ha offerto soldi o altro. Se l’avesse fatto sarei andato subito a farlo. Al tribunale del riesame ho poi riferito questo episodio ».
Perché in un’intercettazione lei dice a Costantino «Tu sei il mio idolo»? E perché gli chiede di venire a una serata - madrina Nicole Minetti - a fronteggiare i contestatori?
«Ma la prima era una chiara presa in giro, una battuta. Quanto alla Minetti, quella sera io feci almeno altre 50 telefonate perché volevo che alla premiazione ci fosse pubblico, lui era un esponente politico e per questo era stato invitato come tanti altri. Chi era presente sa che quella sera non c’era nessun servizio d’ordine di picciotti mafiosi o simile, come alcuni hanno millantato».
Secondo l’accusa, a governare in Comune non era lei, ma Eugenio Costantino e Marco Scalambra, chirurgo e accusato di essere un collettore di voti della ‘ndrangheta per il Pdl.
«Questo è assolutamente falso. Intanto queste persone non frequentavano gli uffici comunali. E comunque ogni pratica qui segue gli iter legislativi, con i pareri degli uffici, della segreteria, del legale a seconda di quali atti si tratta. E dove sarebbe questa mia sottomissione, se Costantino in un’altra intercettazione si sfoga dicendo che io non gli do mai i lavori? E precisiamo, per legge i lavori vengono affidati dagli uffici con le gare, non direttamente dagli amministratori».
La procura definisce persone come lei «qualificati ausiliatori dell’organizzazione (mafiosa). In particolare costoro sono espressione di una pericolosità sociale intensa e ancora più insidiosa in quanto apparentemente invisibile». Come si sente nell’esser definito in questo modo?
«Provo grande indignazione e sento ancora di più la necessità di affermare la verità. La mia vita è stata rivoltata come un calzino e non hanno trovato uno straccio di elemento che mi colleghi alla mafia. Mi trovo a difendermi non da qualcosa che ho detto nelle mie telefonate, ma da cose dette da altri. E ci sono errori grossolani. Costantino mi avrebbe portato voti? Ma quando, se per l’elezione a sindaco di un paese sotto a 15 mila abitanti non ci sono preferenze. E mi avrebbero fatto eleggere a Roma? Col Porcellum? Cose da pazzi».
Sabato in piazza del Seminatore la Carovana Antimafia e i gruppi di opposizione organizzano una manifestazione antimafia....
«Per loro sono già condannato, anche se non sono ancora stato neppure rinviato a giudizio. E’ stato così fin dal mio arresto. La costituzione e il principio dei tre gradi di giudizio a loro avviso vale per tutti, tranne che per me».
Che ci sia mafia e mafia?
In Sicilia, con lo stesso materiale probatorio e gli stessi pentiti, possono fare o - spesso - non fare qualsiasi cosa. Prendete Claudio Martelli, l’ex guardasigilli socialista, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. La sentenza che ha assolto il generale Mario Mori dall’accusa di non aver voluto catturare Bernardo Provenzano - ne avete letto ieri - spiega che Martelli ha avuto dei ricordi «non sempre limpidi» che paiono «largamente influenzati da quanto appreso a posteriori nonché, probabilmente, da un’inclinazione a rappresentarsi come un puro paladino dell’antimafia». Bene: ma come aveva fatto, uno come Martelli, a rappresentarsi come un puro paladino dell’antimafia? Spieghiamo meglio la domanda. Durante il processo Borsellino bis (1997) il pentito Cristoforo Cannella parlò di rapporti tra Martelli e il boss Leoluca Bagarella. In un’altra udienza (1997) il pentito Angelo Siino disse che ebbe un incontro con Martelli e che Cosa Nostra nel 1987 l’aveva votato. Durante lo stesso processo (2001) il pentito Giovanni Brusca parlò di un accordo tra Martelli e Cosa Nostra attraverso intermediari, con Riina che aveva dato indicazione di votarlo. E così dissero anche i pentiti Marino Mannoia a Salvatore Cancemi: accuse pesantissime che avrebbero potuto stroncare ogni aspirante «paladino dell’antimafia». Come mai non è accaduto? Semplicissimo: nessuno ha approfondito. Non ci sono stati processi. Martelli non interessava. Vedi titolo.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco su "Il Giornale". Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". “Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.
VENDEVA PROCESSI PER UN POKER
Punta sul rosso, bluffa con una doppia coppia..., scrive Enzo D’Errico su “Il Corriere della Sera”. C' è una serata che fila per il verso giusto e altre, tante altre, in cui va tutto storto: le carte non entrano, i numeri non escono... E alla fine, quando si tratta di tirare i conti, t'accorgi che in rosso ci sei finito tu. E' capitato così anche a Nicola Boccassini, procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, un paesino dell'entroterra salernitano. Aveva trovato il modo di turare le falle, il magistrato: quel che perdeva al gioco, lo riguadagnava vendendo processi, condoni edilizi e provvedimenti d'ogni tipo. Si faceva addirittura pagare soggiorno e scommesse a Saint Vincent, dove era cliente fisso del casinò. E, come se non bastasse, in cambio dei suoi servigi chiedeva favori: un posto di lavoro per una figlia, una perizia tecnica da assegnare al genero, un appalto per qualche parente. Però, gli agenti della Dia di Napoli l'hanno arrestato su mandato del Gip Luigi Esposito. Le accuse: corruzione, concussione, favoreggiamento e abuso d' ufficio. Con lui sono finite in galera altre 6 persone, coinvolte a vario titolo nel giro d'affari del procuratore. Sarebbero stati emessi anche 7 avvisi di garanzia, uno dei quali riguarderebbe Anacleto Dolce, procuratore aggiunto a Vallo della Lucania e fratello di un altro magistrato, Romano Dolce, arrestato a Como nelle scorse settimane. Il sospetto è che il numero due della procura abbia spalleggiato gli imbrogli di Boccassini. Nella rete degli investigatori, comunque, è caduto l' avvocato Mario Siniscalco, ex consigliere comunale socialista di Salerno: era lui, secondo gli inquirenti, a fare da mediatore fra il magistrato e i suoi "clienti". Avevano messo in piedi una piccola ma efficiente società del malaffare. Siniscalco, tra l'altro, è stato a lungo presidente della commissione edilizia di Salerno, organismo di cui ha fatto parte anche Boccassini. E lì dentro i due hanno concesso più di un condono sospetto. L'inchiesta prende il via dalle dichiarazioni di Mario Pepe, un pentito della camorra, e dell'imprenditore Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino, coinvolto tempo fa nello scandalo delle "lenzuola d' oro". L' industriale ha raccontato che, sborsando una trentina di milioni, ottenne dal procuratore il condono edilizio per la sua villa. E che Boccassini, all' epoca sostituto a Salerno, aggiustò un processo d'appello in cui Graziano era imputato di omicidio colposo per la morte in fabbrica di un operaio: condannato in primo grado, assolto in seconda istanza. L'imprenditore pagò l' intercessione assumendo una figlia del magistrato e scucendo altri milioni. "C'erano giorni in cui Siniscalco mi chiamava e mi diceva: "Prenotaci una stanza a Saint Vincent" ed io ero costretto a pagare albergo e casinò", ha detto in sostanza Graziano. Manette anche per i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia. Si vantavano di poter condizionare i processi e furono messi sott'inchiesta da Boccassini per millantato credito. Sembra, però, che quell' indagine servì solo ad accordarsi coi due e coinvolgerli nel giro d'affari. Arrestate, infine, Laura e Liliana Clarizia, titolari dell' agenzia pubblicitaria "First Agency", di cui era socia un' altra figlia del procuratore. L'azienda, grazie a Boccassini, ricevette dalla comunità montana Lambro Mingardo la fornitura di 20 mila depliant pubblicitari. Non a caso, in cella è finito pure il sindaco di Ascea, Angelo Criscuolo, ex presidente della comunità montana.
Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all' intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l'industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l'istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.
ATTACCO AI GIUDICI DI MILANO
Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell' accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.
BRESCIA, TORNA L' INCHIESTA 'AUTOPARCO'
Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l' autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov' era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano". Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico. Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti. Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.
1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.
2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.
3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.
4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:
1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);
2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!
A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.
5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.
6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.
Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.
Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.
Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.
Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.
7. L’effettivo stato di
cose. Il
reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione
possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro
sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul
lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi
chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi
diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti?
Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato?
Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad
entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata
che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un
poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un
giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il
lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti
l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior
parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche,
cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli
ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre
parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo
strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare
i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col
sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda
sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto
in questo modo:
L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.
8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:
- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;
- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;
- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;
- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.
- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.
- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.
- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.
9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
«Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che, nelle sue tre legislature alla Regione Veneto, nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo. - Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ai microfoni de "La Zanzara" su Radio 24. - Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male. Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista». Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi. Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.
E poi c’è quello che non ti aspetti.
LA LEGA MASSONICA.
Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
Il misterioso uomo della tensione, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. Sconosciuto all'opinione pubblica grazie alla copertura dei servizi segreti, Berardino Andreola compare in tutti gli episodi misteriosi degli anni di piombo: dai delitti Calabresi e Feltrinelli fino a Piazza Fontana e alla morte di Pinelli. Un libro inchiesta rivela la sua storia. Ci sarebbe un unico uomo dietro a tanti dei misteri che hanno messo in ginocchio l'Italia negli anni Sessanta e Settanta. Dietro la strategia della tensione, i delitti Calabresi e Feltrinelli, la morte di Pinelli, il tentato sequestro dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Una abile spia dal passato troppo nero che a un certo punto, protetta dai Servizi segreti tedeschi, difesa da alcuni potenti rappresentanti delle istituzioni italiane e tutelata dal ricorso quasi schizofrenico a travestimenti e ad alias differenti, si sarebbe abilmente mescolata con il rosso al fine di depistare, insabbiare. E uccidere. Il suo nome è Berardino Andreola, nato a Roma nel 1928 e morto a Pesaro nel 1983, indagato varie volte - con le fittizie generalità, a seconda dei casi, di Giuseppe Chittaro, Umberto Rai, Günter, Giuliano De Fonseca - per le morti di Feltrinelli e di Calabresi e per la bomba alla questura di Milano; e infine condannato - con il nome autentico - per il solo tentativo di sequestro a scopo di estorsione dell'ex presidente dell'Ente minerario siciliano, il veneto Graziano Verzotto, compare d'anello del boss catanese Giuseppe Di Cristina. A collocare Andreola sotto una luce nuova e più articolata, svelandone l'incredibile storia, alcuni movimenti, collaborazioni, appartenenze e vicinanze inaspettate (l'Ufficio affari riservati,il vertice dell'Ufficio politico della questura di Milano, l'Aginter Press, il segretissimo gruppo Alpha, probabile mandante del delitto Calabresi), illustrandone i numerosi depistaggi e i raggiri e ipotizzando nuovi contatti, è lo studioso padovano Egidio Ceccato nella documentatissima inchiesta da poco pubblicata per Ponte alle Grazie, "L'infiltrato". Ceccato, tanto per cominciare: chi è Berardino Andreola. "E' un personaggio che ha più volte fatto capolino, con vari alias - penso a Giuseppe Chittaro Job, Giuliano De Fonseca, Umberto Rai, Günter, Francesco Miranda Sanchez, tanto per ricordarne qualcuno - in diverse inchieste di quegli anni, ma che alla fine è stato processato e condannato solo per aver diretto il tentato sequestro ai danni di Verzotto nel gennaio 1975. Proprio a seguito di questo fallito rapimento di natura politica - non estorsiva, come hanno invece stabilito le sentenze -, eseguito da tre soggetti probabilmente arrivati da Berlino, erano emersi per la prima volta il suo vero nome e la sua qualifica: "Agente segreto appartenente ad una organizzazione ideologica d'estrema sinistra (Gruppo Feltrinelli)". Agli sbigottiti inquirenti siciliani Andreola aveva spiegato, mentendo, di essere arrivato sull'isola per "infiltrarsi negli ambienti mafiosi" e per "studiare i sistemi operativi della mafia allo scopo di utilizzarli nell'ambito dell'organizzazione di cui faceva parte". In verità la spia era sbarcata in Sicilia un mese dopo i fatti accaduti alla questura di Milano: con ogni probabilità ci era arrivato per seguire il caso Verzotto, per impedire all'ex senatore padovano di rivelare segreti collegati all'assassinio di Mattei. A ogni modo Andreola (noto in questo caso come Chittaro, anarco-maoista friulano) viene indagato per l'attentato alla questura". Erede di una famiglia fascista con un padre maresciallo in servizio presso l'Ovra, l'ex brigata nera Berardino Andreola era stata addestrata nei campi delle Ss in Germania, dove aveva imparato un fluente tedesco. Finito per qualche tempo in carcere per reati legati alla criminalità comune, negli anni Sessanta l'uomo si era messo a professare idee "anarco-maoiste" e antiviolente, diventando il braccio destro di Feltrinelli nei Gap (con il nome fasullo di Günter); un informatore importante di Calabresi (con quello di Chittaro); avvicinandosi a Pinelli, a Valpreda e agli anarchici milanesi prima della strage di Piazza Fontana e facendo al contempo da tramite con la mafia nella fornitura e nel traffico di armi. Come si lega Andreola con le vicende milanesi, in particolare con la "madre" delle stragi: Piazza Fontana?"Alla fine di novembre 1969 Chittaro/Andreola aveva contattato dalla Francia per via epistolare il capo dell'ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra, presentandosi come un anarchico-maoista che prendeva le distanze dalle idee violente dei propri compagni. Ad Allegra aveva preannunciato nuovi fatti di violenza politica dopo la morte dell'agente Antonio Annarumma. La sera del 12 dicembre, dopo la scoppio della bomba alla Banca dell'Agricoltura, il capo dell'Ufficio politico lo contatta immediatamente e gli organizza per l'indomani un incontro con Calabresi nella vicina Svizzera. Il 13, perciò, il commissario lo incontra per tre ore a Basilea. Nessuna delle sue dichiarazioni viene tuttavia messa a verbale".
Andreola sembra essere l'anello che congiunge molti fatti terribili accaduti nel nostro Paese. E diversi documenti citati nel libro lo confermano. Eppure il suo nome è praticamente sconosciuto all'opinione pubblica. Perché?
"Per le fortissime coperture di cui ha goduto, innanzitutto. Penso alle indagini per la morte di Feltrinelli, coordinate dal giovane e inesperto magistrato Guido Viola, che non verbalizza le dichiarazioni rilasciate in proposito da Chittaro/Andreola ritenendole pure e semplici fantasie di un mitomane. Molto più probabilmente, però, la mancata verbalizzazione avviene perché dall'alto qualcuno gli consiglia di lasciarlo fuori dalle indagini. Questo non è l'unico episodio a presentare tali caratteristiche. Mi sono convinto, anche grazie a documenti che ho acquisito dopo l'uscita del libro, che Andreola fosse uno dei burattinai che muovevano i fili della strategia della tensione. Per comprendere questa torbida figura non si può infatti prescindere dal Piano Chaos della Cia e dai punti della guerra non ortodossa stabiliti nel maggio 1965 all'hotel Parco dei Principi a Roma. Di Andreola, legato a quella che io chiamo Internazionale nerazzurra - per i contatti con gli apparati americani della Nato - si è parlato in passato, senza che però fosse collocato in un contesto preciso e senza che venissero forniti alla sua figura quei collegamenti che io ritengo essenziali. Le indagini del tempo si erano concentrate sui singoli personaggi, sui suoi tanti alias. Uno separato dall'altro. Con "L'infiltrato", nato durante le mie ricerche per un saggio sulla morte di Mattei che dovrebbe uscire l'anno prossimo, ho cercato di dare un filo logico, di riunire tutto sotto la stessa persona: gli alias e gli episodi delittuosi. Gli importanti collegamenti con Milano, poi, sono potuti emergere grazie ad alcuni documenti forniti da un giornalista dell'Ansa, Paolo Cucchiarelli. Certo, non c'è la pistola fumante, che invece giace forse assieme ad Andreola, ma su chi è stato e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti".
MILANO E L'EVASIONE FISCALE.
«Esiste anche un’evasione di sopravvivenza»: non passa inosservata l’uscita di Stefano Fassina al convegno della Confcommercio. E non poteva essere diversamente: è forse la prima volta, almeno in questi termini, che un esponente del centrosinistra, per di più viceministro dell’Economia, parla di mancato pagamento delle tassa come di una necessità. «Senza voler strizzare l’occhio a nessuno e senza ambiguità nel voler contrastare l’evasione - ha sostenuto Fassina commentando il balzo record della pressione al 54% - ci sono ragioni profonde che spingono molti soggetti verso comportamenti di cui farebbero a meno». Per il viceministro, insomma, «esiste una connessione stretta tra pressione fiscale, spesa ed evasione». Quanto basta per scatenare la bufera a sinistra.
I moralisti delle tasse che difendono il fisco oppressivo. Fassina ha solo fatto notare la differenza tra evasori accaniti e imprenditori in crisi: una verità che il Pd non riesce a vedere, scrive Giuliano Ferrara su “Il Giornale”. Stefano Fassina si è permesso di dire che non ogni artigiano in lite con il fisco è un avido e un ladro, e lo ha detto da ministro di sinistra e da capocorrente «comunista » nel suo partito, facendo nascere un «caso Fassina». Si conferma così una variazione nella famosa regola stabilita tanti anni fa da Ignazio Silone, scrittore cristiano e capo comunista dissidente nell’era di Stalin e di Togliatti (anni Trenta del Novecento). Diceva Silone: «La battaglia finale sarà tra comunisti ed ex comunisti». Non è da tempo più così. Oggi bisogna riformulare e modificare: «La battaglia finale sarà tra realisti e moralisti». Lo dimostra anche la chiamata alla responsabilità di Giorgio Napolitano, per formazione personale un comunista italiano doc; lo ricorderete,è l’appello al principio di realtà che ha reso possibile la fine degli equivoci nel Partito democratico e la nascita di un governo di larga coalizione tra il centrosinistra e i berlusconiani dopo le politiche, quel governo che è la bestia nera di Carlo De Benedetti e della sua grossa lobby politicoeditoriale. Quel governo che, per quanto debole e deficitario, è potuto nascere solo perché Napolitano appena rieletto, per puro spirito di realismo politico, ha avuto il coraggio di presentarsi alle Camere, sculacciare i lobbisti antiberlusconiani travestiti da utopisti e da moralisti, e dare infine ragione platealmente all’Arcinemico dei moralisti pazzi contro bersanismi e prodismi o rodotarismi o grillismi di ogni tipo. Renato Brunetta, il cui attivismo anche un pochino sconclusionato è sempre più simpatico, premiato com’è dall’agenzia delle comunicazioni che ha finalmente scoperto come le trasmissioni Raitre siano faziosette (atto di realismo minimalista ma apprezzabile), ha detto a Fassina: benvenuto nel club. Il che è giusto. E anche sbagliato. Giusto perché la critica del fisco oppressivo, invadente e incapacitante è un tratto distintivo di tutte le sfumature del pensiero liberale e conservatore. Fassina con quella dichiarazione fatale si è in effetti iscritto a un club che considera comunisti e laburisti degli eccentrici. Ma quel benvenuto è in certo senso sbagliato perché alla radice della rivolta del viceministro dell’Economia contro gli ortodossi del partito e del sindacato, in prima linea la tremenda Susanna Camusso della Cgil, non c’è una conversione al sapido realismo dei conservatori liberali (se lo Stato si prende quasi tutto, l’imprenditore non farà quasi niente), bensì un riflesso, appunto «realista», della vecchia cultura industriale del movimento operaio. Ho sempre sostenuto, in buona compagnia, che per riscuotere le tasse occorrono tre condizioni: ridurle a una quota accettabile del reddito delle persone e delle imprese, rendere conveniente il pagarle in una catena dell’opportunità che è virtuosa solo per il suo benefico effetto e non per bontà d’animo, promuovere un senso della comunità che ha inevitabilmente un carisma politico, civile e perfino religioso (repressione fiscale compresa). Da noi mancano tutte e tre le condizioni. Siamo scettici e individualisti, pagare le tasse non appare quasi mai un gesto fruttifero e incisivo che sia conveniente, le tasse sono bestialmente alte in relazione alla capacità di crescita dell’economia reale. In compenso stiamo diventando anche il Paese in cui la polemica moralistica sulle tasse arriva a invocare lo stato di polizia, investe pericolosamente la mentalità e le abitudini libere delle persone, induce chi ha un’auto costosa o una barca costosa a girare e navigare sempre in presenza della sua dichiarazione dei redditi, stiamo diventando un mondo alla rovescia, stupidamente moraleggiante, francamente grottesco, in cui chi abbia successo e riesca a guadagnare deve giustificarsi, non con la fede, come pretende comprensibilmente il Papa, ma con l’adesione all’etica di Stato, ciò che è meno comprensibile e meno commendevole. Anche un laburista di formazione comunista come Fassina lo ha capito, e vuole giustamente e scandalosamente distinguere tra l’evasore accanito e fraudolento, lo sleale verso la comunità, e il lavoratoreimprenditore oppresso e ingabbiato da tasse inaudite, che mettono in pericolo il suo profitto, e con esso il lavoro suo e di chi gli sta attorno. E questo in nome dei suoi stessi principi di efficacia del welfare state . Giustamente e scandalosamente: è lo stato dell’arte al quale si debbono rifare tutti i «realisti» nella battaglia contro i faciloni «moralisti», perché è sempre più facile e gratificante spiegare al pubblico che cosa si «deve» fare, piuttosto che cercare di capire che cosa si «può» onestamente fare per realizzare il principio senza tradire la realtà.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
La replica di Dolce e Gabbana in un’intervista resa ad Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.
Valeva la pena di piantare tutto questo casino?
«Tante briciole, dice il proverbio, fanno una panetteria», ribatte Domenico Dolce, «Era tutto un vocio fastidiosissimo...». «Ma scusi: come potevamo accettare di essere bollati come evasori? - irrompe Stefano Gabbana -. Noi siamo delle persone perbene. Viviamo in Italia, paghiamo le tasse in Italia, non facciamo finta di vivere all'estero...».
State dicendo che la vostra è una storia tutta diversa da quella di Valentino Rossi o altri?
Gabbana«Noi parliamo per noi. Ci limitiamo a chiedere: vi pare possibile che per gli stessi identici fatti, sulle stesse identiche carte, possiamo essere assolti nei processi penali e condannati in quello tributario? Noi sappiamo fare vestiti. Vogliamo fare vestiti. E invece siamo stati tirati in mezzo in una storia complicatissima di commi e codicilli».
Gli avvocati sanno di questo vostro sfogo?
G. «Sanno che noi siamo dei pazzi. Lo mettono in conto. Ma al di là dell'aspetto legale (non vogliamo neanche parlarne: siamo convinti di non avere fatto niente di scorretto) non ci rassegniamo a essere crocifissi come dei ladroni. Perché non lo siamo».
Dolce «Calunnia calunnia, qualcosa resta. Non ci va bene. Non è solo per noi. È per l'azienda. Parliamo di migliaia di persone, con l'indotto. L'altro giorno ho dovuto incoraggiare io delle sartine. Erano sconvolte. "Ma come! Noi! Noi!" Io dico: guardate la nostra vita...»
Cioè?
G. «Per esempio io ho una barca, si chiama "Regina d'Italia": non la porto mica in Francia o in Croazia! Non la intesto mica a una società! Non batte mica bandiera delle Cayman! Io sono italiano e la barca la tengo in un porto italiano. E batte bandiera italiana».
D. «Vale anche per me. Anni fa Stefano mi regalò un motoscafo Riva. Lo uso pochissimo, ma lo tengo a Portofino e batte bandiera italiana».
Le case in cui vivete? Appartengono a qualche società oppure...
D. «No, guardi. Casa mia è intestata a me, Dolce Domenico, nato a Polizzi Generosa, residente eccetera... Mica fingo di vivere in Svizzera o a Montecarlo. Le mie residenze sono sempre state quelle: Polizzi Generosa, Palermo, Milano».
Eppure in casi come il vostro...
G. «Ma che ci importa di eludere il fisco? Noi vogliamo solo starcene tranquilli a fare vestiti. Punto. D'altra parte, vuole una dimostrazione di quanto siamo ossessionati dal denaro? Fino al 2004 avevamo tutto, diciamo così, "in comunione dei beni».
E allora?
G. «Ma non stiamo insieme, come fidanzati, dal 2000! Se fossimo attaccati ai soldi lei pensa che avremmo tenuto i conti e l'azienda insieme per quattro anni dopo la nostra separazione? Eppure per quattro anni siamo rimasti così, metà a testa: 50 e 50. Con tutti che ci dicevano: chiaritevi, non potete lasciare le cose così, ci va di mezzo l'azienda».
D. «Ci siamo decisi quando cominciammo a ricevere offerte da Vuitton, Gucci, Hdp... Dovevamo darci una struttura aziendale all'altezza di quanto eravamo cresciuti».
E così avete venduto il marchio, cioè il vostro tesoro, alla «Gado».
D. «Esatto».
Ma perché in Lussemburgo?
G. «Scusi, ma noi siamo un marchio mondiale. Non è che possiamo aprire in Cina o in Brasile appoggiandoci, faccio per dire, alla Cassa Rurale di Rogoredo. Una azienda che opera a livello internazionale ha delle società internazionali. Ovvio. Mica era una operazione illegale! Era tutto trasparente».
Niente scatole cinesi?
G. «Macché scatole cinesi! Ecco qua la nostra "Annual Revue 2004-2005". Pagina 27: c'è tutto, sulla nascita della "Dolce & Gabbana Luxembourg S.a.r.l. cui fanno capo la neonata Gado S.a.r.l., titolare dei due marchi, e la Dolce & Gabbana Srl, realtà operativa che integra le realtà produttive..." Non abbiamo mica fatto le cose di notte! Tutto alla luce del sole».
D. «Tanto è vero che né la guardia di finanza né i magistrati ce l'hanno mai contestato».
Dicono però che 360 milioni per quel marchio celeberrimo nel mondo erano pochi.
G. «Ma cosa vuole che ne sapessimo, noi! Avevamo cominciato girando per la pianura padana come consulenti delle aziende di abbigliamento e battendo gli autogrill della Bauli per farci un pandorino o della Fini per mangiarci i tortellini! Ci era scoppiata in mano una cosa più grande di noi. Non eravamo neanche in grado di valutarne il valore. Infatti...».
...Chiedeste una stima a Price Waterhouse Coopers.
D. «Esattamente. Che disse: 360 milioni».
Centottanta a testa: come li avete spesi?
D. «Come vuole che li abbiamo spesi? In azienda. L'azienda è la nostra creatura. La nostra figlia. Tutto va a finire là».
G. «Cosa vuole che ne facciamo dei soldi? Che li mettiamo via per quando saremo morti?»
E qui nasce la grana: la finanza dice che la stima era bassa... Che valeva molto di più e si presume...
G. «Si presume, si presume... "Si presume che Domenico e Stefano si droghino". "Si presume che lavorino in ufficio completamente nudi". Cosa significa, scusi? E poi "chi" lo presume? Noi non ce la siamo fatta in casa: abbiamo chiesto alla Pwc. Loro quante aziende mondiali hanno monitorato per "presumere"? Non si lanciano accuse così su supposizioni».
D. «Tanto più che per l'infedele dichiarazione dei redditi nel penale siamo stati assolti perché "il fatto non sussiste". Lo stesso giudizio del gup per l'omessa dichiarazione: il fatto non sussiste».
Fatto sta che secondo i magistrati il valore del marchio era oltre il triplo: 1.190 milioni. Una stima poi ribassata a 730 milioni ...
G. «Un miliardo! Ma chi l'ha mai visto, un miliardo! È chiaro che, a distanza di anni, dopo che eravamo ulteriormente cresciuti, ci hanno sopravvalutato. Ma noi? Mica potevamo decidere facendoci leggere le carte dalla maga Cloris!».
E se vi confermano la condanna a 400 milioni di multa?
D. «Chiudiamo. Cosa vuole che facciamo? Chiudiamo. Non saremmo in grado di resistere. Impossibile».
G. «Chi immagina un ricatto morale sui dipendenti sbaglia. Se ci meritassimo la condanna, niente da dire. Ma non la meritiamo. E comunque sì, purtroppo dovremmo chiudere».
Avete messo in conto anche di andarvene?
D. «Si fanno tanti pensieri...»
G. «Ma li ha visti i titoloni sui giornali?».
Voi stessi, decidendo di chiudere i negozi per tre giorni, avete forse amplificato quella battuta polemica...
D. «Amen. Ma non potevamo tacere. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo mesi e mesi di sgocciolio...».
G. «Vedesse certi blog... "Boicottiamo Dolce & Gabbana, non compriamo più i loro prodotti!" Per carità, moltissimi sono anche da parte nostra, però...».
D. «Io, meno male, i blog non li guardo proprio. Occhio non vede, cuore non duole».
G. «Per quanto te ne freghi, sono cose che ti feriscono se sei uno che ha sempre pagato le tasse. Così, quando quell'assessore ha detto che non avrebbe concesso spazi "a degli evasori" mi è venuto di getto di twittare: fate schifo. Chi se l'immaginava che venisse fuori tutto quel casino?».
Pentito?
G. «No».
D. «Magari io non avrei scritto "fate schifo" scegliendo parole diverse. Ognuno ha il suo temperamento. Ma sulla decisione di chiudere per indignazione, pagando regolarmente i dipendenti, sia chiaro, siamo stati d'accordissimo. Non ne potevamo più».
G. «Sono andato due giorni al mare e stavo così male che mi sono ustionato anche con la protezione 50! Ci chiamavano dall'America: "Ma fate lo stesso la sfilata o è annullata perché andate in prigione?" E noi a spiegare, spiegare, spiegare... Io domando: chi ti sbatte sulle prime pagine con accuse come queste smentite dalle sentenze penali ha idea del danno che fa?».
Se avete violato la legge...
G. «Ripeto: dall'accusa di infedele dichiarazione dei redditi, per quella contestazione tributaria sul reale valore del marchio, siamo stati assolti, nel penale. E questo addirittura "dopo" che il reato era stato prescritto. Più di così!».
E adesso, col Comune di Milano?
G. «Ma mica ce l'abbiamo col Comune di Milano. Ce la siamo presa con l'assessore. Chi mai gli aveva chiesto qualcosa? Che motivo aveva per tirarci in ballo?».
D. «Il fatto è che non abbiamo mai avvertito intorno l'orgoglio delle istituzioni per quello che rappresenta Dolce & Gabbana nel mondo. Come se la moda fosse una cosa secondaria. Sentiamo l'orgoglio dei milanesi e degli italiani, sì. Ma mai abbiamo avvertito questo orgoglio delle istituzioni. Mai».
G. «Una donna mi ha fermato per strada: "Non ho mai comprato un vostro vestito e non mi piace il vostro stile ma sono con voi". Sia chiaro, non siamo Giovanna d'Arco. E non vogliamo proporci come paladini di una rivolta contro il fisco. Per carità! Ma viviamo questa storia come una ingiustizia».
Che Giuliano Pisapia abbia liquidato la battuta del suo assessore come infelice e abbia ricordato che lui è sempre stato un garantista ha chiuso la ferita?
D. «Mai stati in guerra con lui».
Quindi lo incontrerete?
D. «Al mio paese si dice: ogni fuoco cenere diventa».
IN TRIBUNALE. PROFESSIONISTI SENZA DIGNITA’.
Il pizzino del giudice contro gli avvocati: "Siete degli scemi". Clamorosa gaffe di una toga milanese. Il legale apre il fascicolo del processo e trova il bigliettino offensivo, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci mancava solo questo, in giorni in cui le gaffe fuorionda del ministro della Giustizia Cancellieri e gli scioperi degli avvocati hanno fatto bruscamente salire la temperatura dei rapporti tra chi governa i tribunali e chi ci lavora dalla parte degli utenti. A Milano salta fuori un bigliettino, dimenticato da un giudice nel fascicolo di un processo civile, che racconta meglio di tanti dibattiti la sciatteria e il fastidio con cui agli avvocati capita di sentirsi trattare: come se il ruolo del difensore non fosse essenziale alla giustizia quanto quello del giudice. La storia arriva dalla dodicesima sezione civile del tribunale milanese: sezione che si occupa prevalentemente di assicurazioni e risarcimenti. Materia arida ma affollata, e che per il cittadino «normale» è uno dei casi più frequenti di impatto con le aule di tribunale. Qui, davanti a un giudice, era in corso una causa come tante: un incidente stradale, un motociclista che viene investito e subisce un grave trauma a una gamba. A rendere più complessa e più triste la vicenda, c'è il fatto che dopo le terapie per recuperare la gamba, il motociclista sviluppa un tumore che lo uccide. L'investitore viene condannato, gli eredi dell'investito spiccano un decreto ingiuntivo nei confronti della compagnia di assicurazione per ottenere i 200mila euro di risarcimento. L'assicurazione impugna il decreto. Si arriva davanti al tribunale. E avviene il fatto. Il 28 giugno scorso, nuova udienza. L'avocato degli eredi, Mino Siracusa, apre il fascicolo e rimane di sasso. Appuntato alle carte c'è un biglietto scritto a mano con grafia femminile. É un appunto del giudice, Maria Teresa Zugaro. «Credete di essere furbi a chiedere le somme con decreti ingiuntivi. E invece siete scemi». Siracusa non crede ai suoi occhi. Nell'appunto, il giudice non si limita a far capire chiaramente di avere già deciso a chi dare ragione. Ma insulta i legali di una delle parti. E poco conta che fosse una riflessione che il giudice voleva tenere per sè, e che ha messo per iscritto solo per propria memoria. Quell'appunto fotografa in modo impietoso il modo in cui il giudice affrontava la causa. Così l'appunto sui furbi e sugli scemi è diventato un caso che ha investito i vertici del Palazzo di giustizia milanese. Siracusa ha chiesto un intervento del consiglio dell'ordine degli avvocati. E ha depositato a Livia Pomodoro, presidente del tribunale milanese, una istanza di ricusazione in cui va giù senza diplomazia: «Il sottoscritto avvocato, dopo trent'anni di professione, non intende farsi dare della "scemo" da un giudice che non ha neppure guardato i documenti di causa, non ha capito l'oggetto della medesima né la causa petendi, e intende preservare la propria dignità di professionista di fronte ad abusi così evidenti e oltraggiosi da parte di un pubblico Ufficiale che dovrebbe garantire Giustizia». Caso-limite o spia di un fenomeno? Non è la prima volta che un giudice dimentica in un fascicolo tracce evidenti di una decisione presa anzi tempo. Ma che una toga arrivasse a mettere per iscritto epiteti irriguardosi verso un avvocato non era finora mai successo. Anche questo, a suo modo, è un «fuori onda» eloquente.
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza, scrive Angelo Panebianco su “La Repubblica”. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa. Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra. Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani. Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio. La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia». Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica). Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci. Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri. Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.
IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda?
Altro che rispetto della
magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non
è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e
comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati
non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono
autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono
uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri
mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una
percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali.
Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio,
Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla
magistratura alla politica.
E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che
ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo,
tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club
pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di
una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi)
che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il
nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui
siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che
rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza
ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in
modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della
Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna
sarebbe stato un fatto privato.
SILVIO BERLUSCONI: UN SIMBOLO PER TUTTE LE INGIUSTIZIE.
Un simbolo per tutte le ingiustizie. Con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Gli italiani non avevano un simbolo comune su cui convogliare la rabbia per le ingiustizie patite da ciascuno: i reati subiti e non puniti, i reati puniti e non commessi, le sfacciate disparità di trattamento, i ritardi e le disfunzioni dei processi, le persecuzioni nel nome della Legge e del Fisco, più il vittimismo. Ora la magistratura, dopo un lungo e assurdo percorso, li ha accontentati: con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune. Un paese in ginocchio, con una maggioranza cagionevole, riceve il colpo di grazia. Nessun senso dello Stato e del Bene Comune, nessuno sforzo di chiudere con equilibrio una feroce partita che ha sfasciato l'Italia. Intanto i corvi, le jene e le carogne maramaldeggiano a mezzo stampa. E invece è un dramma per tutti, a cominciare dalla sinistra, surrogata dai giudici nel liquidare con la forza l'era berlusconiana (col rischio di resuscitarla più cazzuta che pria). Ora il Pd si vede costretto a governare con un condannato in via definitiva o a sfasciare il governo e dunque il Paese con una chiamata folle alle urne. E la destra si vede obbligata a stringersi intorno al Capo. Di lui, il condannato, non dirò niente, anzi la butterò sul comico che è l'unica via d'uscita dal tragico kafkiano. Se andrà in carcere, in pochi mesi lo acclameranno direttore del carcere. Se sarà costretto ai domiciliari rifonderà la Casa delle Illibertà. Se sarà affidato ai servizi sociali dovrà aiutare le coetanee ad attraversare la strada. Che pena.
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
Gli italiani non hanno fiducia nella giustizia. La sentenza della Cassazione su Berlusconi non c'entra. Lo dice anche il presidente Napolitano: "Serve una riforma", scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica nella dichiarazione immediatamente seguita alla sentenza: "ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso". Napolitano rappresenta l'Italia. Come il Re fu l'incarnazione dello Stato monarchico il Presidente della repubblica lo è di quello Repubblicano. Infatti non sbaglia. Il 96% degli italiani, cioè tutti, ritengono che “bisogna che il sistema della giustizia funzioni meglio di ora". Questo non significa che non vi sia fiducia nel sistema legale italiano. Anche se il Paese su questo aspetto è dubbioso. La maggioranza dei cittadini (52%) è sfiduciato dall’operato dei giudici, mentre solo il 47% da loro credito. Valori che ci avvicinano di più a paesi europei come la Polonia e Slovacchia che non Germania, Inghilterra o Danimarca e Svezia. Ma si tratta pur sempre di quasi la metà della popolazione. Allora diventa interessante comprendere chi, pur dimostrando fiducia nella giustizia, ne richiede con forza la riforma: si tratta del 30% degli italiani. Sono tendenzialmente in maggior numero fra i maschi, in età tra i 35 ed i 55 anni e con livelli d’istruzione medio-alti. Vengono principalmente dalle “regioni rosse” ed infatti, avere fiducia nella giustizia ma richiederne con forza una riforma, sembra un tema molto più caro a chi si definisce di centrosinistra che non di centrodestra, ambito in cui il favore alla magistratura riscuote molto meno consensi. Tra i partiti, persino la maggioranza, seppur relativa, degli elettori di Sel (46%) o del Pd (45%) è di questa opinione, gli altri o semplicemente non hanno fiducia o hanno in merito opinioni contrastanti. Se più della metà della popolazione non ha fiducia nei magistrati e i due terzi degli altri ne chiedono una riforma, allora la questione sembra andare al di là delle questioni politiche legate ai problemi di Berlusconi. Si va oltre al centrodestra. Con questi numeri, il tema di una riforma dell’ordine giurisdizionale sembra molto più essere legato alla singola esperienza dei singoli cittadini.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste. Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele). Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio. Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva. Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana. E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita. L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari. Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.
Giustizia: non si può più tacere. Nell'editoriale di Panorama in edicola dall'8 agosto 2013 il direttore, Giorgio Mulè, racconta come e perché lui, ed altri giornalisti del settimanale sono stati intercettati dalla Procura di Napoli. Ora tenterò di spiegarvi perché la riforma della giustizia non è un pericoloso argomento usato dall’insurrezionalista Silvio Berlusconi per sistemare i suoi processi (è così bravo a farlo che il risultato s’è visto…), ma una necessità ineludibile per questo Paese. Dovrò raccontarvi una storia che riguarda Panorama. Nell’agosto di due anni fa, notate bene due anni fa, Panorama pubblicò uno scoop: rivelò che la Procura di Napoli aveva concluso un’inchiesta nei confronti di Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per una presunta estorsione ai danni dell’allora premier Berlusconi. Si trattava di una notizia riservata, esattamente come altre centinaia che vengono pubblicate da qualsiasi organo di informazione. La capacità di rivelare notizie riservate spesso scomode, per intenderci, è la cifra che distingue un bravo cronista da un passacarte delle procure. Si dice, non a caso, che il mestiere del giornalista è quello di penetrare (e violare) i segreti. Più ne infrangi, più sei bravo. Molto spesso accade che siano i pubblici ministeri a violare il segreto, lo sanno anche le pietre ma non si può dire. Diremo allora che ai cronisti del Fatto, per esempio, nessun pm da Palermo ad Aosta si è mai sognato né si sognerebbe di soffiare una notizia non ufficiale. E lo stesso discorso vale per i cronisti del Corriere della sera (a cominciare dalla notizia dell’invito a comparire a Berlusconi del ’94) o meno che mai della Repubblica. Torniamo a noi: in quell’agosto di due anni fa il cronista di Panorama fu così bravo da riferire nel suo articolo anche numerosi dettagli dell’inchiesta. In breve fece (e assai bene) il suo lavoro. Alcuni giorni dopo, il giudice ordinò l’arresto di Lavitola e Tarantini. Il primo, però, si rese latitante. Un latitante sui generis tanto da essere intervistato via satellite in diretta televisiva da Enrico Mentana con il contributo speciale del «procuratore aggiunto» Marco Travaglio: nessun pm napoletano osò contestare (e meno male) ad alcuno degli intervistatori il reato di favoreggiamento né (e questa circostanza invece lascia molto perplessi) disturbò Mentana o alcuno dei suoi ospiti per chiedergli da dove il latitante Lavitola fosse collegato. Il faccendiere, infatti, rimase tranquillamente uccel di bosco per altri 8 mesi, finché decise autonomamente di costituirsi. In quegli stessi giorni di agosto 2011, invece, prendeva il via un’inchiesta a carico del giornalista di Panorama autore dello scoop. Alla luce di quello che oggi sappiamo è il caso di parlare di una maxi inchiesta, un’indagine monstre condotta da ben quattro magistrati in servizio a Napoli (Francesco Greco, Henry John Woodcock, Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli) con il dispiegamento di decine di poliziotti. L’inchiesta coinvolge anche il sottoscritto, da almeno un anno. Avevo avuto modo di parlarvene nell’editoriale pubblicato il 4 luglio scorso (il titolo era «Corruzione, mi mancava solo questa») subito dopo aver ricevuto un invito a comparire dalla Procura di Napoli in cui si vaneggiava nei miei confronti il reato di concorso in corruzione: avrei in sostanza pagato qualcuno per avere lo scoop. Un’ipotesi fuori dal mondo, giunta a due anni dai fatti. E parliamo di due anni in cui eravamo già al corrente di una frenetica, dispendiosa e mai interrotta attività istruttoria costellata da varie perquisizioni (al cronista raggiunto di buon mattino a casa da quattro agenti di polizia napoletani venne risparmiata l’ispezione corporale «in quanto - recita letteralmente il verbale - lo stesso si presentava in pantaloncini pigiama»), diverse consulenze e numerosi interrogatori. Ora arriva la ciliegina. Quell’invito a comparire nei miei confronti che contempla un’ipotesi di reato folle somiglia a un’esca, non so come altro definirla. Che la corruzione fosse un’ipotesi campata in aria lo scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari alla procura in un provvedimento del 22 giugno di cui adesso sono venuto a conoscenza laddove in neretto afferma: «Non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione». Eppure, nonostante queste parole non lascino spazio a interpretazioni, cinque giorni dopo (il 27 giugno) la procura emette l’invito a comparire, che mi viene preannunciato l’1 luglio e notificato il giorno successivo, con l’ipotesi non «seria» di corruzione. Un atto urgente e non differibile, avevano specificato i poliziotti incaricati della notifica. E sapete il perché di tanta urgenza? Perché i miei telefoni erano sotto controllo dal 20 giugno. Così come quello del vicedirettore esecutivo, del capo della redazione di Roma, del cronista autore dello scoop, di un collaboratore di Panorama, di un impiegato di banca, di un avvocato e di un cancelliere di Napoli. Sono in tutto la bellezza di 24 utenze telefoniche. Si è trattato di una gigantesca operazione di spionaggio nei confronti del vertice di Panorama, che è stato intercettato per almeno 15 giorni. Numerosi agenti di polizia hanno trascorso il loro tempo ad ascoltare e trascrivere migliaia di conversazioni (anche sul numero di casa del vicedirettore esecutivo) fatte o ricevute da giornalisti non indagati come il mio vice e il capo della redazione di Roma. Anche loro raggiunti da un provvedimento-esca mentre già i loro telefoni erano sotto controllo: esche costituite da convocazioni della Procura di Napoli nella veste di testimoni tra il 25 e il 28 giugno. E che cosa pensavano le brillanti menti investigative partenopee con l’avallo del gip che ha autorizzato questa enorme e inaudita attività di spionaggio? Scrive il giudice: «La ragionevole probabilità che, a oltre un anno dai fatti (in realtà sono due, ndr), le utenze in oggetto possano essere impiegate per comunicazioni utili allo sviluppo delle indagini discende dalla contestuale predisposizione di attività perquirenti che possono stimolare confidenze tra i soggetti coinvolti. Da queste considerazioni discende anche l’urgenza dell’attività intercettiva». Traduco: dopo due anni dai fatti convochiamo i giornalisti per essere interrogati (è l’«attività perquirente», vocabolo sconosciuto al Devoto-Oli) e origliamo al telefono se dicono qualcosa di utile alla nostra indagine. Non fa niente che alcuni di loro non siano sospettati di alcunché, non interessa che siano persone perbene: si intercetti alla ricerca del reato. E si intercettano anche conversazioni personalissime e delicatissime (che magari finiranno nelle mani di giornalisti guardoni), come molte di quelle che transitano sui telefoni di chi dirige un giornale. Cari lettori, questo non è più uno stato di diritto: è, da tempo, uno stato di polizia, come invano ripete il prigioniero politico Silvio Berlusconi. E badate bene: di questa inchiesta partenopea ci sono ancora molte cose da raccontare ed è quello che ovviamente faremo nei prossimi numeri. A cominciare da un dubbio che non ha ancora risposta. Perché si sa, per esempio, che i quattro pm avevano già chiesto di intercettare me, la mia segretaria e il cronista già nel maggio di un anno fa. Con che esito al momento non so. E soprattutto non so per quanto tempo in questi due anni i giornalisti di Panorama siano stati ascoltati nelle loro conversazioni private. Secondo voi, questo spiegamento di forze e di spese avviene per ogni fuga di notizie sui giornali? Non prendiamoci in giro. Se c’è da colpire Berlusconi o chi lo appoggia, la giustizia lenta si fa veloce e non bada a spese. Ora mio rivolgo a Lei, signor presidente della Repubblica, al quale la Costituzione assegna anche la guida del Consiglio superiore della magistratura. Mi rivolgo a Lei perché «ora», dopo la condanna del Cavaliere, ritiene maturi i tempi per una riforma della giustizia. Mi rivolgo a Lei perché anche Lei ha patito la violenza di una indebita e arbitraria intercettazione telefonica. Faccia sentire alta la Sua voce, pronunci parole nette per ristabilire le garanzie elementari nei confronti dei cittadini scolpite nella nostra Carta. Lo faccia prima che sia troppo tardi, prima che questo Paese sprofondi definitivamente nelle tenebre dell’arbitrio giudiziario e della tirannia della magistratura. Non c’è più tempo. Perché un bel tacer non fu mai scritto.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
Scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. Si invoca la riforma della giustizia come priorità assoluta. Silvietto strepita e i giornali riprendono l’accorato appello. Sono assolutamente d’accordo, non con lui, ma con la tesi della priorità assoluta. Lo scrivo da tempo e lo ribadisco. Occorre intendersi con chiarezza, senza il consueto velo di ipocrisia che connota questo Paese. Di “larghe intese” mica per niente. Chi oggi la invoca è volutamente in mala fede poiché postula una riforma tesa a condizionare l’autonomia della magistratura, per consentire alla politica di continuare a gestire impunemente interessi massonici, economici, illeciti, di enorme valore, la cui gestione in questi decenni ha demolito pezzo dopo pezzo la democrazia ed il sistema di tutela dei diritti, relegandoci agli ultimi posti nel mondo quanto a livello di libertà di stampa, efficienza della giustizia, pressione fiscale, corruzione, modernità etc. La finta-destra che invoca tale riforma vuole una magistratura che non intacchi la libertà del “potere politico” (esecutivo, legislativo, amministrativo), libertà che si pretende nel senso più libertario del termine, come libertà della condotta accompagnata da una impunità assoluta. Un tale progetto, riproposto, è eversivo e grave, contrastante il principio della divisione dei poteri che sorregge la nostra democrazia. All’opposto, occorre riflettere attentamente sulle posizioni della finta-sinistra che oppone le barricate ad un tale disegno (riforma in generale), ritenendo intoccabile la giustizia. Come se in Italia avessimo una giustizia degna di cotale nome. Invece abbiamo una melassa mal mostosa che chiunque abbia vissuto in prima persona, può raccontare come sia essa stessa fonte di nocumento e di danni alle parti processuali, soprattutto alla parte che ha subito l’ingiustizia. Sicchè la “giustizia ingiusta” si amplifica fino a stordire ed annichilire i diritti, mostrando una sordità ed una kafkiana presenza tale da scoraggiare di suo un secondo tentativo di accesso. Intendiamoci, la “giustizia ingiusta” è quella lenta (perché il tempo ha un ruolo fondamentale nella soppressione dei diritti), quella immotivata (con motivazioni errate in diritto e in fatto, frutto di errori), quella resa in mala fede o in conflitto di interessi (c’è anche quella, soprattutto per la giustizia amministrativa), quella arrogante (con giudici che non ascoltano, non studiano, non leggono, pieni di pregiudizi, schierata). C’è un sistema giustizia, stratificato ad arte nel tempo, che ostacola l’accertamento dei diritti invece che assumersi il ruolo e la responsabilità di rispondere ad esigenze di giustizia. Dalla complicatissima notifica degli atti (dopo vari anni, ancora oggi non è chiaro se si possa notificare via Pec, come, da chi e a chi!) allo pseudo processo telematico a macchia di leopardo (a pezzi, nel processo e geograficamente); dalla impunità assoluta del personale amministrativo inetto (cancellieri, ausiliari, ufficiali giudiziari) verso il quale avvocati e magistrati neppure presentano esposti, alla impunità assoluta dei magistrati (la c.d. responsabilità indiretta è merce rarissima, contandosi pochi casi a fronte di circa 16.000 giudici tra togati e non togati), sino agli Ordini degli avvocati che invece di sanzionare i propri iscritti per gravi illeciti impediscono pure l’accesso agli atti pur di proteggere l’iscritto (avrei voglia di raccontarvi della condotta di un ordine del Nord-ovest); dalle riformicchie mediocri introdotte in questi anni nel processo civile che invece di adottare un rito snello e celere (ricalcando il rito del lavoro), hanno inserito decine di incomprensibili novità (perché ancora dibattute dagli operatori del diritto), intimidatorie e sanzionatorie (descritte come deflattive, o yes) accostate ad una raffica di aumenti delle spese vive (contributi unificati moltiplicati n volte, marche aumentate per ogni battito di ciglia) finalizzate solo a impedire che si acceda al processo, privilegiando solo i benestanti. Il suggello di tale percorso lo si è veduto nuovamente con la reintroduzione della mediazione obbligatoria (in veste ammiccante, una sorta di squillo con abito bianco), ossia un ossimoro secondo cui i litiganti sono “obbligati a mediare”. Percorso che difatti l’Europa non ha indicato, pur sollecitando le Adr, quali misure alternative alla giurisdizione. La riforma dunque è necessaria e prioritaria ma la finta-sinistra vi si oppone. Ecco perché non si sa più nulla del processo Montepaschi di Siena e di tanti altri processi vitali. Meglio che la giustizia non sia poi così efficiente. Meglio un Paese storto che un Paese “diritto”. Un Paese bipartisan, appunto.
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
Da quanto tempo stiamo aspettando giustizia? «Da tempo immemorabile», dice Massimo Bordin intervistato da Ubaldo Casotto su “Il Foglio”. Carcerazione preventiva, uso politico delle indagini, gogna mediatica. Massimo Bordin, voce dei radicali e veterano della battaglia per la riforma del sistema, squaderna il suo archivio delle bestialità italiane . Parlare di giustizia con Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, è come consultare un archivio, ma senza la fatica della ricerca. Gli diciamo dell’iniziativa di Tempi, “Aspettando giustizia”, e delle persone che vi partecipano: il generale Mario Mori, Ottaviano Del Turco… «Certo. Del Turco, sto seguendo il suo processo». Il caso dell’ex sindacalista, poi dirigente del Pd, arrestato nel 2008 per uno scandalo della sanità abruzzese e dimessosi dalla presidenza della Regione è per i più – anche tra i giornalisti – un fatto di cronaca del passato, finito prima di sapere come è andata realmente a finire. Bordin sta seguendo il processo.
Bordin, da quanto tempo l’Italia è un paese che “aspetta giustizia”?
Da tempo immemorabile. Il problema dell’amministrazione della giustizia e della carcerazione preventiva si trascina almeno dalla famosa legge Valpreda (1972, Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, era in carcere da più di tre anni, fu poi assolto, ndr) che per la prima volta dovette affrontare il tema di una carcerazione preventiva che si andava protraendo oltre ogni logica. Da allora la legislazione sulla custodia cautelare è stata praticamente un elastico, secondo lo spirito del tempo l’hanno ridotta in alcuni momenti o allungata in altri. Ci sono stati casi, come quello del processo “7 aprile” (1979, contro le presunte “menti” delle Br), dove alcuni imputati hanno sopportato una carcerazione preventiva di quasi sei anni, a quel punto una condanna a cinque anni fa sorgere inevitabilmente il dubbio che se ci fosse stata una carcerazione preventiva più breve non si sarebbe giunti a quella condanna. Dopo che hai tenuto in galera uno quasi sei anni senza processo non è che gli puoi dire: mi sono sbagliato, arrivederci e grazie.
I pm d’assalto hanno radici profonde…
Non si è mai trovato un vero equilibrio fra i vari ruoli della magistratura. Gli anni Settanta sono stati anni di riforme in questo senso, ma se prima c’era un eccesso di rigore gerarchico che più che l’attenzione dei magistrati al diritto e al suo rispetto favoriva un ossequio all’ordine, ora quella tendenza è stata invertita dando un colpo di timone dalla parte opposta.
Perché in Italia è difficile definirsi garantisti, e si passa per i difensori dei corrotti, quando non dei mafiosi?
In questi anni è successa una cosa molto singolare, che riguarda i media. Mentre prima il processo, nel senso del dibattimento, era il momento nel quale l’opinione pubblica più direttamente entrava nel vivo e veniva informata delle questioni processuali, oggi l’attenzione al dibattimento è quasi scemata: ci sono grandi vicende giudiziarie che ci hanno appassionato e poi non ci ricordiamo più nemmeno come sono finite. Il massimo dell’attenzione si concentra sulla fase istruttoria durante la quale l’informazione viene quasi drogata. Alla fine, per il concorso di una serie di fenomeni che vanno quasi per conto loro, resta, comunque vada, uno stato di disagio, una certa insoddisfazione per come la giustizia ha funzionato. Già il fatto che si parli di garantismo e giustizialismo è la prova che qualcosa non funziona. Il vero garantista è quello che chiede il rispetto delle garanzie per l’imputato e però anche l’applicazione della legge, non la non applicazione. La distorsione è tale per cui lo scontro è tra due scuole di pensiero che chiedono entrambe l’applicazione della legge e hanno entrambe buone ragioni per mostrare che in alcuni aspetti della faccenda la legge non è applicata. C’è qualcosa che non va nel manico, e la situazione non tende minimamente a migliorare.
Va detto che molti politici quando parlano di legalità non sembrano molto credibili.
Facciamo i nomi: su alcuni punti Berlusconi ha ragione, in altri casi le sue difese sono evidentemente strumentali. D’altro canto sul lato opposto della barricata si ritrovano gli stessi difetti rovesciati. Se quando qualcuno parla di garanzie fa sorridere, quando altri parlano di applicazione della legge mettono paura.
Una tua denuncia costante è che la giustizia opera ormai prima del processo, sui media e nel dibattito pubblico, con la conseguente pena anticipata: carcerazione preventiva e gogna mediatica.
La giustizia opera addirittura fuori del processo, ormai si può, quasi in senso tecnico, parlare di amnistia occulta. La prescrizione è un modo di fatto per depenalizzare e non arrivare nemmeno al dibattimento a causa dell’elefantiasi dei tempi istruttori, per una serie di motivi che non possono sempre essere addebitati a una carenza di risorse. Chi segue queste faccende da una trentina d’anni sa che alla magistratura sistematicamente sono state date risorse in più, molto più che ad altri settori. È innegabile, non si può parlare di un settore trascurato dall’amministrazione, tutt’altro.
Come interrompere il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario per cui finiscono puntualmente sui giornali carte coperte dal segreto istruttorio? Il giudice Marcello Maddalena propone pene amministrative significative per i giornalisti che pubblicano, sei d’accordo?
Perché ci deve andare sempre di mezzo il povero giornalista, che poi alla fine una firma la deve mettere, mentre chi gli passa le carte resta anonimo? È anche poco sportivo. La prima separazione delle carriere da fare nel mondo della giustizia è quella tra certi giornalisti e certi pubblici ministeri, perché sono quelle le carriere intrecciate. Il mio eroe Antonio Ingroia è riuscito addirittura a sommare le due parti nella stessa persona, gli hanno dato pure il tesserino da pubblicista e ha fatto un discorso in cui si definiva magistrato-giornalista. Perfetto, la sintesi ideale. Balza agli occhi pure di un bambino il collegamento tra un network di pubblici ministeri, gruppi inter-procure, e un network di giornalisti giudiziari, basta vedere chi aveva le anticipazioni delle carte e chi no delle indagini sulla “cricca”, sulla P3, sulla P4… quella roba lì… Si fa presto a vedere come funzionano certe filiere, e come si possono interrompere. Ci vorrebbe una parola forte da parte della magistratura nei confronti dei pm, ma anche, se avesse un senso la sua esistenza, dell’Ordine dei giornalisti nei confronti dei giornalisti. Perché non credo che il lavoro del giornalista sia semplicemente quello di fare il passacarte delle procure.
In nome del “se ho un documento lo pubblico” si rischia di diventare una buca delle lettere.
Questo senz’altro, fermo restando che se a me viene data una carta che viola il segreto istruttorio, se è una notizia io la pubblico. Però sta alla mia deontologia – la parola è inutilmente grossa – fare in modo che io non diventi una buca delle lettere, e non lo divento se non mi lego in un sodalizio perverso con chi mi passa le carte. Perché è evidente che chi me le passa ha interesse a vedere pubblicizzato il proprio lavoro, e poi non apprezzerebbe un atteggiamento eventualmente critico, a quel punto potrebbe chiudere i rubinetti delle indiscrezioni. Così il giornalista diventa non solo una buca delle lettere ma un pierre, perché deve in qualche modo anche valorizzare le carte che il pm gli dà apposta. Il circuito è assolutamente perverso.
Dici che è tutto così evidente, eppure sembra difficile denunciarlo. Ci ha provato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, e mal gliene incolse.
Ci voleva l’ennesima uscita di Ingroia per far parlare l’Anm, che in questi anni, diciamo la verità, ha visto di tutto e di più ed è sempre stata zitta. Anche questo è un segnale che non fa ben sperare e rende evidente che ci sono dei comportamenti da cui persino l’Anm deve in qualche modo cercare di dissociarsi.
Tu auspichi un intervento della magistratura, ma chi potrebbe intervenire sembra intimidito. Ci è voluto il ricorso del capo dello Stato alla Corte costituzionale per scuotere in modo deciso le acque.
I poteri del presidente del Csm ci sono, ma sono molto relativi, se uno deve sbattere il pugno sul tavolo, deve alzare i toni. Tutti ricordiamo quando Francesco Cossiga, da presidente del Csm oltre che della Repubblica, arrivò ai ferri corti con quel consiglio, che fra l’altro era un dei più tosti e corporativi, minacciò addirittura di mandare i carabinieri a interrompere la seduta. Se il presidente deve farsi valere, inevitabilmente si arriva a una drammatizzazione dello scontro.
Giorgio Napolitano è stato coinvolto nelle intercettazioni per le indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Voi radicali storicamente non siete certo stati teneri nei confronti delle devianze degli apparati della Repubblica, perché quest’indagine non ti convince?
Perché non sta in piedi. Io non ho alcuna difficoltà a credere che possano esserci state personalità politiche non solo colluse ma addirittura in alcuni casi quasi interne al fenomeno mafioso. Io questo non ho la minima remora a crederlo. Così come penso che possano esserci stati abboccamenti, magari attraverso intermediari, fra politici e mafiosi anche nell’epoca delle stragi. È molto probabile, da cronista dico solo che l’impianto accusatorio della “trattativa” così come finora si è mostrato, nelle carte consegnate al Gip, non regge. La stessa elevazione dei capi di imputazione è discutibile, non c’è bisogno di essere docente di procedura penale per capire la debolezza della contestazione del reato di minaccia al corpo dello Stato a Totò Riina; voglio vedere come ottengono una condanna per un signore che ha concretato quella minaccia in alcune stragi per le quali è già stato mandato all’ergastolo. Poi è assolutamente evidente, secondo il loro impianto accusatorio, il ruolo fondamentale dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso; se è vero quello che dicono, il passaggio decisivo è stato quello delle sue scelte sull’attenuazione del 41 bis a molti mafiosi. Se è così, primo quei magistrati non hanno alcuna competenza, perché se non è un reato ministeriale quello non si vede quale lo sia, e quindi la competenza è del tribunale dei ministri; secondo, appare solo una furbizia quella di stralciare Conso e mantenere aperta l’indagine su di lui mentre la si chiude per gli altri. C’è poi il paradosso denunciato da Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato: ma come, avete detto che il delitto Borsellino è un passaggio fondamentale della trattativa Stato-mafia e poi nella vostra indagine del delitto Borsellino manco ne parlate? Come è possibile? Ci sono incongruenze talmente palesi che mi fanno pensare che, come al solito, questa sia la tipica inchiesta mediatica.
Il sottinteso politico è che il tutto avrebbe spianato la strada alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Riesce difficile vedere l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nelle vesti di promoter dell’uomo che ha poi strenuamente combattuto.
Non ha alcun senso, come molte cose in questa indagine. C’è un altro paradosso: si protrae il periodo delle stragi sino alla fine del 1993, e quindi arrivando in limine alla famosa discesa in campo di Berlusconi, prospettando l’ipotesi di un attentato che praticamente non ha lasciato nessuna traccia: allo Stadio Olimpico di Roma doveva esplodere una macchina uccidendo centinaia di carabinieri e non solo. La macchina non l’hanno mai trovata, ci fidiamo, tra gli altri, della parola di un signore, Gaspare Spatuzza, che dice: la macchina c’era io ho premuto il telecomando, però non ha funzionato. E allora ce ne siamo andati a casa, poi la macchina l’hanno rimossa. L’ultimo attentato che si situa in un momento cronologico fondamentale per il discorso sulla preparazione della discesa in campo di Berlusconi, è un attentato del quale non c’è traccia.
Il circuito mediatico-giudiziario ha dimostrato sin qui di saper funzionare bene. Pensi che la divulgazione della notizia dell’esistenza delle intercettazioni del capo dello Stato sia stato un passo falso?
Hanno esagerato, ma viene il dubbio che non tutto il male vien per nuocere. Non dico che l’abbiano fatto apposta, ma dall’incidente hanno saputo trarre profitto, è stata quella la principale cassa mediatica su un’inchiesta che piano piano si stava sfarinando. Hanno consegnato gli incartamenti al Gip, se non ci fosse stata la notizia delle telefonate, la polemica che ne è nata, la raccolta delle firme… oggi la posizione di chi deve giudicare le carte di Ingroia sarebbe molto più semplice, potrebbe decidere con maggiore serenità.
Che effetto ti ha fatto questa operazione extragiudiziale di raccolta firme a sostegno di un’indagine?
La consegna delle firme è una buffonata senza pari, supera quella della passeggiata in Galleria Vittorio Emanuele a Milano del pool di Mani pulite all’epoca di Tangentopoli. C’è una foto che immortala quella consacrazione popolare, qui siamo oltre. È una evidente pressione sul Gip. Ingroia da questo punto di vista ha un suo palmares, le due inchieste che lui avviò su Berlusconi e Dell’Utri come committenti delle stragi sono state per due volte bocciate dal Gip, non sarebbe clamoroso se succedesse anche questa volta. Certo con questo bailamme sulle telefonate quirinalesche il Gip ha un compito meno facile.
Il palazzo del potere deve essere di vetro per poterci guardare dentro. Come rispondi all’argomento della trasparenza?
È la classica argomentazione che ti costringe alla difensiva, a evocare la necessità di una zona grigia del potere che comunque c’è sempre stata, e fai inevitabilmente la figura di quello che in qualche modo copre l’omertà di Stato o chissà che. E questa è un’altra questione che non si riesce a dirimere. In America è un fatto normale, dopo un certo numero di anni, pubblicare libri con documenti desecretati. C’è una cultura per cui la trasparenza ha delle eccezioni, la riservatezza va difesa, ma non è mai assoluta, o per motivi di tempo o per motivi che la rendono alla fine inutile. Il problema non è trasparenza od oscurità, ma regola. In Inghilterra il sistema dei media funziona anche sulla fiducia, se circolano alcune notizie ritenute relative alla sicurezza nazionale, un funzionario convoca i direttori dei giornali e dice loro: queste notizie non devono uscire. E non escono. Forse che la stampa inglese non è libera?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
Giudici, non diventate 'casta', scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di perdere credibilità. Facendo così il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione. Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale". Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica. L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate. Questi ed altri fattori, non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati). Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese. Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili. E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
Da un paradosso ad un altro.
Le 10 condanne record nella storia degli Usa. Bradley Manning rischia di essere condannato a 140 anni di carcere. Ma quali sono state le condanne più severe in passato? Scrive Michele Zurleni su “Panorama”. Si è salvato dall'accusa più pesante, "complicità con il nemico", il reato che prevedeva l'ergastolo, ma Bradley Manning rischia di dover subire una durissima condanna. Sulla base delle imputazioni, la talpa che ha passato i documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato a Wikileaks, potrebbe non uscire mai più di prigione: la pena potrebbe arrivare fino a quasi 140 anni di carcere. Non un fatto inusuale per la giustizia americana. In passato sono state diverse le condanne record. Questo è l'elenco delle dieci più severe.
1) Charles Scott Robinson, 30.000 anni di carcere
I giurati del suo processo dissero che volevano essere sicuri che non uscisse mai più di prigione. Era il 1994, eravamo in Oklahoma e questa sentenza ha stabilito un record che non è stato ancora eguagliato. La più alta pena mai inflitta in un tribunale statunitense. Robinson era stato arrestato per aver stuprato dei bambini. Per ogni atto di violenza, 5.000 anni di carcere. Il giudice non voleva che l'allora trentenne potesse ottenere la grazia e uscire dal carcere dopo qualche anno, circa 15 anni, come accade in media. Per cui stabilì una pena che, di fatto, lo condannava a vita. Secondo i suoi calcoli, infatti, l'uomo avrebbe potuto fare domanda di perdono solo all'età di 108 anni.
2) Dudley Wayne Kyzer, 10.000 anni di carcere
Nel 1981, per aver ucciso la moglie, l'uomo ebbe questa condanna del tribunale dell'Alabama che lo giudicò. E per aver assassinato la suocera e un ragazzo, la corte decise che Kyzer doveva essere anche condannato all'ergastolo per ognuno dei due omicidi. Due vite intere in carcere più diecimila anni. Un altro record della giustizia americana. Ma il giudice disse che quello che aveva commesso Kyzer era stato troppo crudele per essere più clemente con lui..
3) Darron Bennalford Anderson, 2.200 anni di carcere
Per i reati di sodomia, stupro e rapimento di minore, venne condannato in Oklahoma nel 1994 a più di venti secoli di carcere. Fece appello e stabilì un nuovo record. La sua pena venne aumentata invece che diminuita. Di alcuni secoli. Poi, in un altro appello, venne ridotta di 500 anni. Alla fine, rimase la pena originaria. Anche in questo caso, il giudice voleva essere sicuro che l'uomo non potesse chiedere perdono dopo pochi anni. Ma solo dopo qualche secolo.
4) Peter Malloy, 1000 anni di carcere
L'ex proprietario del canale televisivo TV33 di Lagrange, in Georgia, è stato condannato nel 2013 per sfruttamento e abusi sessuale di minori. Cinquanta i casi accertati, per ognuno dei quali, Malloy ha preso 20 anni di prigione, in totale, dieci secoli di prigione. Era stato arrestato nel 2011 dopo una denuncia. Durante le perquisizioni, gli inquirenti ritrovarono migliaia e migliaia di file di materiale pedopornografico. Poi, il processo e la condanna.
5) Bobbie Joe Long, 28 ergastoli e una condanna a morte
Un serial killer della Florida, che ha avuto una sorta di record di condanne. Per i suoi reati, dieci omicidi, più rapimenti e violenza carnale, Long ha collezionato una condanna a cinque anni di carcere, quattro a novantanove anni di carcere, 25 ergastoli senza possibilità di perdono, 3 con possibilità di grazia e una condanna a morte sulla sedia elettrica, che deve essere ancora eseguita.
6) Ryan Brandt e Jeffrey Kollie, sette ergastoli a testa e 265 anni di carcere per ogni rapina
Non avevano commesso delitti, non avevano stuprato, ma erano dediti alle rapine a mano armata. La giustizia della Georgia non è stata leggera con loro. Nel 1996, dopo la loro cattura, il giudice decise di dar loro una condanna esemplare, che fosse da monito anche agli altri rapinatori. I loro legali, ma non solo, protestarono con forza per quella dura condanna. Voleva dire buttare via la chiave della prigione in cui venivano rinchiusi due persone che altrimenti, sosteneva l'avvocato, avrebbero potuto redimersi. La condanna è arrivata dopo che i due avevano rifiutato un patteggiamento che li avrebbe tenuti 40 anni in carcere.
7) Sholam Weiss, 845 anni di carcere
La sua data di rilascio, in questo momento, è il 23 novembre 2754. Processato nel 2000 per la bancarotta del National Heritage Life Insurance, accusato di frode e di riciclaggio, di aver truffato e sottratto milioni i dollari ai pensionati che avevano investito i loro fondi, Sholam Weiss ha un poco invidiabile record sulle sue spalle: è il “colletto bianco” a cui è stata inflitta la pena più severa.
8) Mark Anthony Beecham, 645 anni di carcere
Rapimento e violenza sessuale su minori Il 25enne dell'Alabama è stato condannato nel 2012 a 99 anni per ogni reato per il quale è stato ritenuto colpevole. Dopo la sentenza, ha protestato, dicendo di non avere avuto un processo equo. Quella do Beecham è stata la seconda condanna più pesante nella storia dell'Alabama dopo quella inflitta a Dudley Wayne Kyzer.
9) Norman Schimdt, 330 anni di carcere
La sua data di rilascio è il 12 settembre 2291. Norman Schimdt è al secondo posto della speciale graduatoria dei “colletti bianchi” condannati con le pene più alte. E'rinchiuso in un carcere in Texas e al processo è stata ritenuto colpevole di aver architettato una truffa milionaria.
10) Bernard Madoff, 150 anni di carcere
Un nome famoso, una truffa clamorosa, una condanna esemplare. L'uomo d'affari newyorchese, protagonista della più grande truffa finanziaria nella storia degli Usa, 65 miliardi di dollari, una vera e propria montagna di denaro, è rinchiuso nel penitenziario di stato di Butner e la sua data di rilascio è il 14 novembre 2139.
E, infine, un altro caso esemplare, quasi da record, non per la lunghezza della pena, ma per le condizioni in cui scontata
10 (ex equo) William Blake, 77 anni di carcere, 26 passati in assoluto isolamento
In una lettera spedita ad un'associazione di carcerati, occasione unica nell'ultimo quarto di secolo, quest'uomo, arrestato per l'uccisione di un poliziotto nello stato di New York, ha raccontato il suo calvario: ventisei anni passati in totale isolamento, per decisione del giudice che l'aveva condannato per l'omicidio a 77 anni di carcere. “Non vedo la televisione dagli anni'80 e non ho mai utilizzato un telefono cellulare” - ha raccontato William Blake. “Tu devi passare il resto dei tuoi giorni all'inferno” gli avrebbe detto il giudice del suo processo nel 1987. Da allora ha vissuto nella sezione d'isolamento della prigione di Elmira: 23 ore in cella, niente televisione, possibilità di telefonare o di fare attività ricreative o sportive. Sepolto vivo.
MILANO: TOGHE SCATENATE.
Tempi ad personam per Berlusconi: già emesso e notificato il decreto di carcerazione. Revocato il passaporto, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che procedura ordinaria. Neanche il tempo che si asciughi l'inchiostro sulla sentenza, e la Cassazione mette il turbo alla macchina destinata a eseguirla e a privare Silvio Berlusconi del seggio di senatore, della possibilità di espatriare e - alla fine, non si sa come né quando - della libertà. Le sentenze sotto i cinque anni di solito viaggiano da Roma a Milano per posta ordinaria, e anche in questo caso tutti si attendevano che la prassi venisse rispettata. Invece alle 20 e 31 di giovedì dalla cancelleria della sezione feriale della Cassazione il fax con la condanna parte per l'ufficio di Manlio Minale, procuratore generale a Milano: dove però a quell'ora non c'è nessuno, proprio perché nessuno si aspettava tanta fretta. Ieri mattina, alle 7 e 59, un cancelliere insolitamente mattiniero della Cassazione rimanda il fax: stavolta al numero dell'ufficio esecuzione della Procura generale. Gli impiegati lo trovano poco dopo, arrivando in sede. È il segnale del via. La macchina dell'esecuzione è partita. Perché tanta fretta? Cinque o sei giorni non avrebbero cambiato niente. L'unica spiegazione possibile è che a Roma o a Milano qualcuno fosse convinto che Berlusconi si preparasse a scappare, e che per questo fosse urgente ritirargli il passaporto. Per questo si è voluto tagliargli le vie di fuga verso una sua personale Hammamet. La Procura di Milano, vista la rapidità d'azione della Cassazione, si mette al passo. Il sostituto procuratore generale Antonio Lamanna legge il fax e lo trasmette al piano di sopra, nelle mani di Ferdinando Pomarici: 71 anni, uno dei grandi vecchi della Procura milanese, il pm dei processi a Prima Linea e del caso Calabresi. Duro era e duro è rimasto. Vicino alla pensione, Pomarici si occupa di un ufficio usualmente defilato, l'ufficio esecuzione. Che però in questo caso diventa un ufficio delicato. Pomarici non perde tempo. Apre un fascicolo intestato a «Berlusconi Silvio». Emette il decreto di carcerazione, e subito dopo il decreto che sospende l'esecuzione della pena per dare il tempo al condannato di chiedere misure alternative. Poi fa partire tre copie del provvedimento. Una è per i carabinieri, che devono mettersi alla ricerca di Berlusconi. Uno è per la questura di Milano, che ha rilasciato il passaporto al Cavaliere e che deve revocarlo. Il terzo, ed è quello che arriva per primo a destinazione, è per il Senato, perché provveda - in applicazione del decreto legge anticorruzione del governo Monti, che porta la firma di Angelo Alfano e che molti avevano accusato di essere troppo morbido - a dichiarare decaduto l'ex presidente del consiglio dallo scranno di Palazzo Madama. Subito dopo è la questura di Milano a dare immediata esecuzione all'ordine della Procura. Il passaporto rilasciato al cittadino Berlusconi viene revocato «su ordine dell'autorità giudiziaria». A farsi riconsegnare materialmente il documento provvederà la questura di Roma, dove - secondo quanto ha verificato in tempo reale la Procura - il Cavaliere ha trasferito da poco la sua residenza. Ma la revoca del passaporto è già stata inserita nel database delle forze di polizia. Se oggi Berlusconi cercasse di espatriare - anche per una vacanza o un impegno politico - si vedrebbe respinto alla frontiera. Anche il passaporto diplomatico di cui gode, rilasciato dal ministero degli Esteri, verrà revocato in queste ore. Sono misure a loro modo burocratiche, ovvie. Ma che segnano una svolta epocale nel percorso giudiziario, umano e politico di Berlusconi. Di visite dei carabinieri il Cavaliere ne ha già ricevute tante, a partire dal giovane ufficiale che il 22 novembre 1994 gli portò a Napoli il primo avviso di garanzia. Ma la visita di ieri del generale Maurizio Mezzavilla a Palazzo Grazioli racconta tutta un'altra storia. Nel foglio che gli consegna il generale gli viene comunicata la sua prima sconfitta. Certo, c'è la sospensione della pena, ci sono trenta giorni di tempo - che poi diventeranno più di settanta per via delle vacanze - per decidere le prossime mosse. Ma il foglio era intestato: «Ordine di esecuzione». Non deve essere stato un bel momento.
Il pm Fabio De Pasquale aggiunge un nuovo "primato" al suo lungo curriculum: fu il primo a ottenere una condanna definitiva per Bettino Craxi, oggi invece è il primo ad ottenere una condanna definitiva per Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Il Cavaliere dopo un assedio durato vent'anni perde il suo status di incensurato, e le brutta nuova arriva al termine di un'inchiesta firmata proprio dalla toga De Pasquale, che anni fa fece incriminare il leader socialista nell'affare Eni-Sai. Erano i tempi di Tangentopoli, De Pasquale agiva all'ombra di Antonio Di Pietro, era il volto semisconosciuto della Procura milanese. Anche oggi non è una delle toghe più celebri, nonostante la lunga indagine su Mediaset, iniziata nel 2001. Di sicuro, a Milano, ben più riconoscibile di lui c'è Ilda Boccassini, la grande accusatrice nel caso Ruby, la toga che ha fatto sfilare le Olgettine in aula e che, per ora, si è dovuta accontentare di una condanna soltanto in primo grado, seppur molto più pesante (sette anni e interdizione a vita per Berlusconi). Che beffa, per Ilda la rossa, bruciata sul traguardo dal collega De Pasquale (che, per altro, può fregiarsi delle migliori stellette anti-Cav: in quattro anni ha istruito tre processi contro l'ex premier).
CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi.
Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.
ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo.
Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), a, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come 'conservatori', quindi nessun problema di 'uso politico' della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.
AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.
ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.
GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.
ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
Chi è Antonio Esposito?
Antonio Esposito è il presidente della sezione feriale. La sua è una famiglia di magistrati. Il figlio Ferdinando, procuratore aggiunto di Milano, ha conosciuto in passato Nicole Minetti, condannata in primo grado nel processo Ruby bis. Una conoscenza che gli ha creato qualche problemino in Procura, visto che è proprio la Procura ad accusare la Minetti di induzione e favoreggiamento della prostituzione.
Un articolo di Esposito conferma l'antipatia verso Berlusconi e il suo governo: "C'è un disegno per intaccare il principio di legalità", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un «disegno volto a intaccare profondamente il principio di legalità». Un'opera «devastante: delegittimazione della magistratura e disarticolazione del sistema giudiziario». Si è tentato di «offuscare il periodo luminoso di Tangentopoli». Non esiste «una magistratura giustizialista e politicizzata» che abbia «eliminato, per via giudiziaria, interi partiti e uomini politici democraticamente eletti». È «sistematico e costante l'attacco lanciato ai magistrati» quando «le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti». La legge Cirielli è stata adottata «imprudentemente». E la riforma della giustizia ipotizzata dal centrodestra è semplicemente da incenerire. Sono frasi scritte dal giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione di Cassazione che ha definitivamente condannato Silvio Berlusconi. Risalgono all'aprile 2011: evidentemente l'antipatia verso l'ex presidente del Consiglio e le riforme giudiziarie attuate o prospettate dai suoi governi è di antica data. L'articolo è stato pubblicato sulla Voce delle voci, il mensile erede della Voce della Campania («fino al 1980 quindicinale del Pci», si legge sulla presentazione online) diretto, tra gli altri, da Michele Santoro. Esposito, che il periodico esalta per aver «recentemente condannato Totò Cuffaro», sotto il titolo «La toga è nobile» attacca Berlusconi benché si guardi bene dal nominarlo esplicitamente. Egli ritiene che «in questi ultimi anni» sia stato avviato un meccanismo per scardinare il rispetto delle leggi, tentando «di ridurre gli spazi di quel controllo di legalità che spetta alla magistratura». E ciò è avvenuto con la «delegittimazione della magistratura» e la «disarticolazione» del nostro ordinamento giudiziario, con «parole d'ordine costruite in modo interessato, attraverso continue interviste, dibattiti politici e mediatici». Annullamenti e prescrizioni non dipendono dalla lentezza della giustizia o da errori giudiziari, ma «dall'aver cambiato le regole in corso di partita, modificando le norme che regolavano i criteri dell'acquisizione e della valutazione della prova». Esposito critica la stessa Cassazione, in particolare «due mai troppo vituperate decisioni delle Sezioni Unite» che applicavano una legge del centrosinistra. E aggiunge: «Non meno sistematico e costante, in questi ultimi anni (cioè con i governi Berlusconi, ndr), l'attacco lanciato ai magistrati ogni qualvolta le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti. Fino al punto di ipotizzare che i magistrati dovevano essere antropologicamente diversi e, quindi, mentalmente disturbati, costituendo essi anche una metastasi per il Paese». Ma i colpi più pesanti riguardano il tentativo di riforma, che «suscita enorme preoccupazione». La separazione delle carriere è tesa a «creare le premesse per un futuro controllo del governo sull'operato della magistratura». La modifica della composizione del Csm «porterebbe inevitabilmente a una sottomissione dell'organo di autogoverno e, quindi, della magistratura, al potere politico e, in particolare, a quello dell'esecutivo in carica». E la famigerata «legge bavaglio» sulle intercettazioni «mette in serio pericolo i principi fondamentali della libertà di pensiero e del diritto dei cittadini all'informazione». Quanto a Berlusconi, per farlo fuori Esposito riesuma il «principio di distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale approvato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1993 con una larghissima e inedita maggioranza (Dc, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete)». Quell'accordo di larghissime intese «stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, consistenti nella stigmatizzazione dell'operato e, nei casi più gravi, nell'allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Bandire i politici senza nemmeno giudicarli: un bel sollievo per il giudice Esposito e i suoi colleghi.
Intervista esclusiva al giudice Esposito rilasciata ad Antonio Manzo su “Il Mattino”: «Berlusconi condannato perché sapeva». Il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione spiega la sentenza: l'ex premier era a conoscenza del reato. Silvio Berlusconi non è stato condannato «perché non poteva non sapere», ma «perché sapeva»: era stato informato del reato. Così il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione, spiega la sentenza di condanna per il Cavaliere in una intervista esclusiva al Mattino. «Nessuna fretta nel processo. Abbiamo solo attuato un doveroso principio della Cassazione, quello di salvare i processi che rischiano di finire in prescrizione». E quello Mediaset sarebbe andato prescritto il primo agosto scorso. «Abbiamo deciso con grande serenità» aggiunge il magistrato. Sulle polemiche che negli ultimi giorni lo hanno colpito dal fronte berlusconiano, il presidente preferisce non replicare: «La mia tutela avverrà nelle sedi competenti». Aggiunge: «Ero per la diretta tv, ma avremmo turbato il processo».
Giudice Esposito, può esistere, chiamiamolo così, un principio giuridico secondo il quale si può essere condannati in base al presupposto che l’imputato «non poteva non sapere»?
«Assolutamente no, perché la condanna o l’assoluzione di un imputato avviene strettamente sulla valutazione del fatto-reato, oltre che dall’esame della posizione che l’imputato occupa al momento della commissione del reato o al contributo che offre a determinare il reato. Non poteva non sapere? Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza».
Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?
«Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere».
Tempesta sul giudice Antonio Esposito dopo l'intervista esclusiva rilasciata al Mattino. All'attacco Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, il segretario della commissione Giustizia della Camera, Luca d'Alessandro, Mara Carfagna, portavoce del gruppo Pdl alla Camera, l'ex ministro Maria Stella Gelmini, Daniela Santanchè e il deputato Elvira Savino. Sulla vicenda intervengono anche gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, scrive “Il Mattino”.
Bondi. «È normale che il giudice Esposito entri nel merito della sentenza della Cassazione con un'intervista rilasciata ad un quotidiano nazionale? È questo il nuovo stile dei giudici della Cassazione? Io credevo che i giudici parlassero attraverso le sentenze, anche se controverse, e che i magistrati fossero "la bocca della legge". Ma vuol dire che mi sbaglio». Così Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, in merito all'intervista rilasciata dal magistrato a "Il Mattino".
Gelmini. L'intervista del giudice Esposito sul Mattino di Napoli presenta «modalità incomprensibili». A dirlo è Maria Stella Gelmini (Pdl), intervenuta a "Radio Anch'io" su Radio1 Rai. «Questo processo nel quale è stato condannato in terzo grado Silvio Berlusconi - sostiene - ha veramente delle profonde anomalie dal fatto che il presidente di Mediaset Confalonieri sia stato ritenuto del tutto estraneo alla vicenda, com'è giusto che sia, ma che allo stesso tempo chi in quel periodo faceva ed era impegnato ad essere presidente del Consiglio sia stato più responsabile di chi lavorava in Mediaset e quindi debba essere condannato: è un qualcosa che non si comprende, una modalità incomprensibile perché Berlusconi non era in Mediaset e in quel momento non era impegnato tanto meno ad occuparsi di diritti televisivi; aveva un ruolo ben preciso, quello di presidente del Consiglio».
D'Alessandro. «L'ineffabile dottor Esposito ha oggi inventato la smentita che non smentisce, anzi che conferma l'intervista rilasciata al Mattino. Al di là dei commenti più espliciti sulla sentenza, che egli dichiara di non aver proferito e sui quali attendiamo curiosi la replica del Mattino, il presidente della sezione feriale della Cassazione conferma non solo di aver ricevuto il giornalista, ma anche di averci parlato e di aver rilasciato l'intervista, il cui testo (leggiamo dalla sua stessa smentita) è stato "debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato"». È quanto afferma Luca d'Alessandro (Pdl), segretario della commissione Giustizia della Camera. «Poichè tutta la conversazione attiene al processo a Silvio Berlusconi e alla sentenza emessa proprio da Esposito, è davvero paradossale e grave che egli sostenga di aver parlato solo in termini generali. Ribadiamo che non è importante ciò che il giudice dice (ancorchè grave), ma è inquietante che egli intervenga pubblicamente e lo faccia anche prima delle motivazioni. Quanto poi al testo che egli avrebbe controllato e approvato, il fatto che non sia reso conto che tutta l'intervista - da lui letta prima della pubblicazione - abbia riguardato il processo a Berlusconi ci fa sorgere più di un dubbio sulle sue capacità di discernimento. E se ha così mal compreso quanto ha scritto il giornalista, da lui sottoscritto, ci chiediamo con terrore se sia stato in grado di comprendere fino in fondo le carte di un processo così delicato per la sorte di un leader politico, che ha un seguito di dieci milioni di elettori, e di un intero Paese», conclude.
Carfagna. «Nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto principio costituzionale del "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", tuttavia esistono dei limiti morali e di opportunità che il buon senso, le circostanze e i ruoli impongono». Così la portavoce del gruppo Pdl alla Camera dei deputati Mara Carfagna, nell'ultimo post del suo blog, ha commentando l'intervista al Mattino. «Un togato - è quanto sottolineato l'esponente del Popolo della libertà - dovrebbe esprimere i propri "giudizi" con le sentenze, che si compongono di un dispositivo e di motivazioni, da depositare nei tempi e nei modi prestabiliti dalla legge. Anticipare queste ultime in forma pubblica, attraverso un'intervista ad un organo di informazione nazionale, appare più come un modo per ottenere visibilità per chissà quale scopo futuro. Gli esempi di Di Pietro e Ingroia sono assolutamente vividi nella mente di tutti, così come la loro parabola politica». «Un togato, ancora di più se della Cassazione, dovrebbe fare della discrezione e del rispetto - formale e sostanziale - nei confronti di chi ha giudicato, degli imperativi categorici. Se ciò non avviene, allora, tutti sono legittimati a "fraintendere", ponendoci delle domande sulla reale terzietà di certi giudici» aggiunge Carfagna.
Savino. «Se il presidente della sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, ha ritenuto di dover concedere una intervista (confermata dal Mattino) per spiegare le motivazioni della sentenza addirittura prima del deposito della sentenza stessa, allora è la conferma che c'è più di qualcosa che non va. Ha voluto mettere le mani avanti, ma, excusatio non petita, accusatio manifesta». Lo afferma Elvira Savino, deputata pugliese del Pdl. «E c'è che ancora qualcuno che ci vorrebbe imporre di non commentare le sentenze, se poi sono gli stessi giudici che le hanno emesse a farlo? C'è ancora qualcuno che sostiene che una riforma della giustizia non è necessaria e urgente? Noi non possiamo accettare, e mai lo faremo, che un leader politico venga estromesso dalla vita pubblica non dalle urne ma da certi tribunali. Per questo - conclude Savino - non smetteremo mai difendere Silvio Berlusconi dagli ingiusti attacchi che subisce da vent'anni».
Santanchè. «Come valuterebbe il giudice Esposito il caso di un imputato che si comportasse come ha fatto lui, ovverossia, dichiarasse palesemente il falso? Complimenti,signor giudice!» afferma Daniela Santanchè, Pdl.
Ghedini. «Solo nei processi nei confronti del presidente Berlusconi possono verificarsi fatti simili», afferma Niccolò Ghedini in una nota. «Prima del deposito della motivazione nel processo cosiddetto "Diritti" - spiega il legale dell'ex premier - il presidente del collegio della sezione feriale della Corte di Cassazione dott. Esposito avrebbe anticipato le motivazioni della sentenza ad un giornalista del Mattino di Napoli che lo ha riportato con grandissimo risalto. Il fatto in sè è ovviamente gravissimo e senza precedenti». Prosegue Ghedini: «Fra l'altro il dott. Esposito avrebbe affermato che il presidente Berlusconi sarebbe stato avvertito delle asserite illecite fatturazioni da "Tizio, Caio e Sempronio" e per ciò meritava la condanna. La tesi in punto di diritto è del tutto errata, ma come qualsiasi controllo degli atti può dimostrare, così non è. Mai nessun testimone ha dichiarato che Silvio Berlusconi conoscesse o si occupasse dell'acquisto dei diritti cinematografici nè in particolare che si occupasse degli ammortamenti o delle dichiarazioni fiscali. Dunque, il presidente Berlusconi doveva essere assolto. Ma sempre il dott. Esposito quest'oggi ha smentito l'intervista affermando di aver parlato in generale. La tesi già di per sè sarebbe assai peculiare poichè è facile cogliere l'inopportunità di tale intervento senonchè il direttore del giornale in questione ha dichiarato che l'intervista al dott. Esposito è stata trascritta letteralmente e vi è la registrazione. Se così fosse tale accadimento è, come è facile comprendere, ancor più grave e dimostrerebbe un atteggiamento a dir poco straordinario. È evidente che gli organi competenti dovranno urgentemente verificare l'accaduto che non potrà non avere dei concreti riflessi sulla valutazione della sentenza emessa».
L'avvocato Coppi. «Ormai di quello che sta accadendo non mi meraviglio più. Se Berlusconi riterrà di dover far qualcosa se la vedrà lui. Certo, normalmente le motivazioni di una sentenza si conoscono con il deposito della sentenza stessa. In genere dichiarazioni in anteprima non si rilasciano». Lo afferma ad Affaritaliani.it l'avvocato Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, a proposito dell'intervista al presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito. Riguardo al modo in cui sconterà la pena, Coppi ha detto che quando Berlusconi «avrà deciso che cosa fare, noi tecnici ci metteremo a disposizione per realizzare quello che è il programma che lui stesso ha delineato. In questo momento non voglio entrare in questo tipo di discorso». La questione della richiesta di grazia per l'ex premier è ancora una strada percorribile? «È una questione di competenza del presidente della Repubblica - risponde Coppi - e vedremo che cosa deciderà di fare. Per il momento noi come legali stiamo soltanto alla finestra. Vedremo quello che succederà». Anche su un eventuale ricorso in Europa, «non abbiamo preso una decisione: comunque bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza. Non possiamo mica fare il ricorso sulla base di quello che ha detto il presidente Esposito».
Antonio Esposito, la toga che ha trasformato Berlusconi un pregiudicato e che, in dialetto campano, anticipava a un giornalista de Il Mattino le motivazioni della sentenza. Esposito, al telefono, alzava l'asticella: "Altro che non poteva non sapere. Berlusconi sapeva". Questo il succo del suo pensiero. Basta questo a renderlo "di sinistra"? No, affatto, anche se un sospetto è legittimo: come è possibile che non abbia neanche un dubbio? Questo non è dato saperlo, attendiamo le motivazioni (quelle vere) della sentenza. A renderlo "di sinistra" - con buona pace dei "ritratti, indiscrezioni e ricostruzioni" sul collegio destrorso - è una nuova indiscrezione, rilanciata da Il Giornale, che ha spedito un inviato a Sapri, provincia di Salerno, il regno del giudice Esposito. La parola all'edicolante della toga che ha crocifisso il Cavaliere: "Compre sempre e soltanto Repubblica e Fatto Quotidiano. Non è un mistero che Berlusconi non gli vada a genio". Avete ancora qualche dubbio al riguardo? La rivelazione via telefono di particolari riguardanti, non solo le sentenze ancora da motivare, ma addirittura i contenuti delle inchieste giudiziarie in pieno svolgimento, sembra un vizio collaudato fra le toghe, scrive Cristina Lodi su “Libero Quotidiano”. Le quali, a differenza di Silvio Berlusconi, alla fine la fanno sempre franca. Sembrano lontani i tempi in cui l’ex Presidente del consiglio veniva messo sotto inchiesta, processato e condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, per avere favorito la pubblicazione su il Giornale della famosa intercettazione («Abbiamo una banca!») tra l’ex capo dei Ds Piero Fassino e Giovanni Consorte. Erano i tempi della scalata del gruppo assicurativo bolognese Unipol a Bnl. Silvio, con questa storia, ha collezionato una condanna che il prossimo settembre 2013 cadrà nell’oblio della prescrizione. Il giudice Antonio Esposito, che invece ha anticipato in un’intervista le motivazioni della sentenza di condanna da lui stesso pronunciata a carico del Cavaliere, rischia (forse) un procedimento disciplinare. E poco importa se nel rivelare che Silvio Berlusconi fosse (secondo la Cassazione) al corrente della frode fiscale a lui contestata, rischi inevitabilmente di condizionare il relatore Amedeo Franco che ora dovrà scrivere quelle stesse motivazioni. Ai giudici sembra tutto concesso. Basta guardare quanto accaduto a Viterbo, dove Aldo Natalini, pm nella famosa inchiesta senese sul Monte dei Paschi di Siena, si sente in diritto di rivelare al telefono a un amico dettagli dell’indagine. Questo amico del pm inquirente si chiama Samuele De Santis, soggetto finito sotto accusa per una storia di estorsione a imprenditori invischiati in una vicenda di appalti e tangenti. Samuele De Santis viene addirittura arrestato per falso ed estorsione. Ma tra febbraio e marzo 2013 raccoglie al telefono le rivelazioni dell’amico e compagno di studi Aldo Natalini, pm dell’inchiesta sulla banca. Il magistrato di Viterbo, Massimiliano Siddi, che indaga sull’avvocato per l’estorsione, intercetta le conversazioni e iscrive nel registro degli indagati il collega togato. Rivelazione del segreto istruttorio, l’accusa. Stando al Giornale d’Italia che ha dato notizia dell’inchiesta, il pm Natalini si sarebbe consultato apertamente con l’amico avvocato sulle strategie legali che si potrebbero intraprendere nel caso nell’inchiesta su Mps venissero coinvolti «anche i vertici del Partito Democratico». Spiegando, da un punto di vista giuridico, «quali sarebbero le eventuali eccezioni cui fare ricorso laddove le indagini andassero a colpire l’alta dirigenza del Pd». Quindi Natalini (stando al Giornale d’Italia) «non solo avrebbe spiegato come si possa difendere Giuseppe Mussari e Fabrizio Viola, ma anche chi direttamente o indirettamente influenza le sorti della Banca “rossa”». David Brunelli, avvocato di Natalini, ha confermato l’iscrizione nel registro degli indagati del suo assistito, ma ha voluto sottolineare che il magistrato «ha già chiarito tutto». E che «quella per cui il pm è stato indagato è una telefonata dai contenuti irrilevanti». Anche la Procura di Siena è scesa in campo in difesa del pm inquisito: «Aldo Natalini non è mai venuto meno ai suoi doveri di riservatezza in ordine alle indagini da lui condotte e, in particolare, alle indagini aventi per oggetto Banca Mps», dice il procuratore capo Tito Salerno, che al magistrato riconosce «la massima serietà e professionalità». Tutto questo nonostante il pm resti indagato e sotto inchiesta per avere violato i segreti dell’inchiesta del più «rosso» degli istituti di credito.
Il giudice Esposito e Felice Caccamo. L'audio dell'intervista al Mattino riporta alla memoria il personaggio cult di "Mai dire gol" piuttosto che un giudice della Cassazione, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. No, non è come pensate. Prestate attenzione: non è la voce di un Felice Caccamo qualunque. Concentratevi sulle singole parole: “Chille nun poteva non sapere”, “Tiziu, Caiu e Semproniu an tit (hanno detto) che te l’hanno riferito. E allora è nu pocu divers’”. Che cosa avranno mai riferito Tizio, Caio e Sempronio? E chi sono costoro? A spiegarcelo non può essere Teo Teocoli nei panni del giornalista ittico-sportivo consacrato alla storia televisiva da “Mai dire gol”, l’allievo prediletto del professore Catrame, esegeta celeberrimo della cultura partenopea. “Gira la palla, gira la palla”, chi se lo scorda più. L’audio della discordia non riguarda i palloni, la voce non è quella di Teocoli in una improbabile giacca azzurra, ma quella dell’ermellino più famoso d’Italia, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi. Ecco a voi Antonio Esposito con la sua inconfondibile cadenza napoletana – non sappiamo se anche sua moglie si chiami Innominata -, una cadenza che va ben oltre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana. “Chille nun poteva non sapere”, scandisce il magistrato al giornalista de Il Mattino, che lo ascolta e prende nota. In quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico. Si tratta proprio di un napoletano strascicato, più spagnolo che “vomeresco”. Un linguaggio che stride con l’ermellino, stride con l’autorevolezza e il decoro di una carica suprema ingolfata in una raffazzonata dizione che se ne infischia del soutenu, della buona immagine, lasciandosi andare a confidenze scomposte in un italiano scomposto. A parlare non è Caccamo, cui tutto è concesso, ma un giudice della Suprema Corte di Cassazione, legato da quarant’anni di amicizia a quel giornalista, dal quale confessa di sentirsi tradito. “Se fa il giornalista lo deve soltanto a me”, dichiara in modo non meno oscuro stamattina su La Repubblica. Ma non chiediamoci che cosa voglia dire, teniamoci sulla forma. E la forma è imbarazzante. Il giudice, che ha pubblicato anticipatamente in edicola le motivazioni di una sentenza, si rende protagonista di una sceneggiata grottesca. Non si tratta di una commedia di Guareschi, ma di una “caccamiata” senza Teocoli, ma con una fulgida maschera napoletana che restituisce un quadro fedele della Napoli di oggi, ai tempi del sindaco ex pm, del lungomare bloccato e delle esequie dei fasti che furono. La maschera napoletana si adombra di tristezza se consideriamo che un attimo dopo la pubblicazione dell’intervista Esposito fa un’altra brutta figura: egli si affretta a smentire, salvo poi essere irrefutabilmente sbugiardato dall’audio diffuso urbi et orbi. Dopo averlo sentito esprimere in libertà nella sua popolaresca napoletanità, possiamo soltanto immaginare che cosa avrà detto al figlio Ferdinando, giovane e aitante magistrato beccato a cena in un ristorante meneghino con l’ex consigliera regionale Nicole Minetti, allora imputata nel processo Ruby-bis. Ma “ogni scarrafone è bello a mamma soia”. E a papà soia. Infatti le accuse nate dalla segnalazione del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati nel maggio del 2012 sono state archiviate, Ferdinando è salvo. C’è da giurarci che anche Antonio ce la farà. In fondo, Partenope perdona sempre. Gira la palla, gira la palla.
Ma c’è un precedente. Impietoso come sa essere, il web sta costruendo un nuovo mito. Si tratta di Mariano Maffei, procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice con il quale da qualche giorno l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella ha incrociato la spada. Chi è Maffei?, scrive Panorama. "Un servitore dello Stato che per ben 44 anni ha amministrato la giustizia con altissima professionalità, con spiccato senso del dovere, con il massimo impegno, con autonomia e indipendenza assoluta". E così si descrive lui stesso, nel corso dell'affollata conferenza stampa in cui, oltre a spiegare i motivi dell'azione giudiziaria ai danni dei Mastella (e di metà Udeur campano), il procuratore ha anche risposto all'ex Guardasigilli: "La polemica sollevata in Parlamento dal ministro è disgustosa". Se non fosse, che accerchiato dai giornalisti e probabilmente poco abituato alle telecamere, l'anziano magistrato ha dato in escandescenze e dopo che il video integrale di quella malgestita comunicazione alla stampa è andato in onda a Matrix, è arrivato YouTube a rilanciarlo come clip più cliccata del momento. Complice quel marcato accento campano e quell’aspetto un po' rigido da personaggio d'altri tempi. Mastella non si è lasciato sfuggire l'occasione di attaccare : "Essere giudicati da uno come lui è malagiustizia. Per carità, massimo rispetto per tantissimi magistrati ma essere giudicati da gente così fa paura ad un cittadini. È sconvolgente" ha aggiunto Mastella "che un giudice incompetente arresti le persone ammazzando così famiglie. Io posso difendermi pubblicamente attraverso voi giornalisti, però gente come questa comporta drammi umani nelle famiglie. Un giudice che è diventato una macchietta su Youtube...".
Ve lo ricordate Mariano Maffei, il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che ottenne l’arresto di Sandra Lonardo, con conseguenti dimissioni del marito e allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella e caduta del governo Prodi? Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Sì, quello dell’intervista alla napoletana, diventata un cult su YouTube, che l’ex Guardasigilli definì «una macchietta». Ecco, il 10 dicembre scorso il pm di Roma Giancarlo Amato ha chiesto il suo rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio e calunnia. E nell’udienza del 19 febbraio 2008, di fronte al giudice per le indagini preliminari Maurizio Silvestri, Maffei dovrà difendersi da accuse pesanti. Di aver, cioè, denunciato per falso e abuso d’ufficio il suo aggiunto Paolo Albano e il sostituto Filomena Capasso, per una storia di indagini inadeguate da parte della polizia giudiziaria legate a un'inchiesta su un medico ospedaliero. Questo Maffei l’avrebbe fatto «in totale assenza di qualsiasi elemento accusatorio» e, scrive il pm, «pur conoscendo l’innocenza dei predetti magistrati» e «cagionando intenzionalmente ingiusto danno». Un comportamento, sempre secondo il magistrato inquirente, che trova «semmai giustificazione in precedenti dissidi personali e professionali» con i suoi colleghi. Della faida interna alle toghe sammaritane si è già molto parlato sia ai tempi dell’esplosiva inchiesta che travolse i coniugi Mastella e mezza Udeur campana sia dopo, quando fioccarono gli esposti contro Maffei e tre suoi «fidati» sostituti, da parte di altri procuratori che denunciavano indagini illecite su di loro, metodi scorretti di gestione dell’ufficio, «un clima insostenibile di sospetti e di comportamenti vessatori». Insomma, una forma di accanimento verso quelle toghe che non erano per così dire in linea con la direzione Maffei. Della guerra fra toghe, con accuse di mobbing, inchieste e denunce, si sono già occupati l’ispettorato del ministero della Giustizia, la Procura generale di Napoli e il Consiglio superiore della magistratura, ma Maffei nel mezzo della bufera se n’è andato in pensione e almeno le ripercussioni disciplinari le ha evitate. Le indagini giudiziarie, però, sono andate avanti e per competenza le ha fatte la procura di Roma. Ora il pm Amato firma una richiesta di rinvio a giudizio di cinque pagine, dalle quali emerge un quadro inquietante di quanto è successo per lungo tempo nella Procura di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza, è convinto che Maffei avesse «punito» per altri motivi i due pm Albano e Capasso, evidentemente non in sintonia con lui, facendoli finire sotto indagine senza motivo e ben sapendo che le sue accuse non poggiavano su nulla di concreto. Una mossa del tutto strumentale, dunque. E un metodo del genere fa pensar male sul modo di Maffei di scegliere gli obiettivi da perseguire e i soggetti da indagare, quindi sul suo modo di gestire l’ufficio. Certi nodi vengono al pettine solo ora che Maffei ha lasciato la magistratura, sbattendo la porta con aspri battibecchi con Mastella, che lo accusava di non essere imparziale e di agire con un mandante politico, sottolineando la sua parentela con il presidente della Provincia Alessandro De Franciscis, che dall’Udeur era passato al Pd. D’altronde, anche nei giorni della tempesta giudiziaria sui Mastella, l’allora procuratore non era stato affatto cauto, facendo dichiarazioni che tradivano il dente avvelenato contro il governo, parlando di «regime dittatoriale» e lamentandosi del fatto che «grazie» alla riforma Mastella, che imponeva una rotazione con il limite massimo di 8 anni per gli incarichi di vertice, doveva lasciare il suo posto e subire un capo sopra di lui oppure andarsene. Sarà interessante seguire gli sviluppi giudiziari della vicenda Mastella, perché già si parla di un testimone secondo il quale a novembre 2007 Maffei l’avrebbe giurata all’ex-Guardasigilli.
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
I due condannati, senza passaporto. Analogie e diferenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema, nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia. Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….». Craxi-Berlusconi: ora c’è anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani, a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate. Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi. Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico. Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no. Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia ndr) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.
Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.
La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”. Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone. “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua". "Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".
GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.
Il senso di Bersani per la musica non è mai stato granché felice, scrive Andrea Scanzi su “Il Fatto Quotidiano”. Qualche anno fa scelse Un senso di Vasco Rossi. Il testo recitava: "Voglio trovare un senso a questa storia/ anche se questa storia un senso non ce l'ha". Praticamente la recensione fulminante del Pd. Bersani, tramite Twitter, ha comunicato il nuovo inno. Che, con originalità guizzante, si chiama proprio Inno. È verosimile che, quando Bersani va al ristorante e gli chiedono che vino voglia bere, risponda: "Vino". Una sorta di eccesso didascalico proletario. L'autrice è Gianna Nannini, brava ma non esattamente un portafortuna: nel 1990, con Edoardo Bennato, interpretò Notti magiche per i Mondiali di Italia '90. Non aveva calcolato le uscite di Zenga (e gli Zenga fuori forma, nel centrosinistra, non mancano). Il rapporto tra musica e politica è conflittuale. Ieri Beppe Grillo ha lanciato sul blog l'inno elettorale dei 5 Stelle: L'urlo della rete, uno vale uno, di Leonardo Metalli e Raffaello Di Pietro: "Vita rubata dai cialtroni vestiti da buffoni che mangiano milioni". La destra, non avendo cantori di riferimento a parte Masini, Tony Renis e Umberto Smaila, si affida a rincalzi. Con effetti raggelanti, da Forza Italia a Menomale che Silvio c'è. In confronto, Valerio Scanu è Robert Plant. Ultimamente vanno di moda Mario Vattani, noto statista nazi-rock con un'idea lievemente sbarazzina di democrazia, e Gianluigi Paragone, che da un giorno all'altro si è messo in testa di strimpellare durante L'ultima parola. Le sue cover sono così personali e ad minchiam che, per contrasto, risultano quasi gradevoli. A sinistra, al contrario, l'affiliazione con i cantautori serve anche a ribadire la superiorità culturale. Giorgio Gaber, saccheggiato da chiunque (gli ultimi sono stati Pisapia e Renzi) per lo slogan "Libertà è partecipazione", ironizzava in Destra-sinistra: "Quasi tutte le canzoni son di destra/se annoiano son di sinistra". Difficilmente confutabile, pensando allo stereotipo un po' cimiteriale della canzone d'autore (Cantacronache, Nuovo Canzoniere Italiano, Vecchioni). Il centrosinistra, nel 1996, scelse La canzone popolare di Ivano Fossati. Portò fortuna, anche se il musicista in seguito parve pentirsi: quando gli chiedevano se avrebbe ridato il brano al centrosinistra, reagiva con lo stesso fastidio esibito all'ennesima domanda su La mia banda suona il rock. La seconda vittoria di Prodi, nel 2006, ebbe per colonna sonora Una vita da mediano di Ligabue. Veltroni, da navigato buonista ilare e sempre giovane, due anni dopo optò per Mi fido di te. Una delle canzoni migliori di Jovanotti. Nel 2008 circolò anche una versione tremebonda, ideata da alcuni militanti milanesi, sulla base di Ymca dei Village People (che reagirono malissimo e chiesero i diritti). Purtroppo per Veltroni, gli elettori non si fidarono di lui. È poi celebre il caso di Bettino Craxi. Adorava Viva l'Italia di Francesco De Gregori, al punto da citarne una strofa a Montecitorio: "L'Italia che soffre, che lavora e che resiste". De Gregori non gradì e, nel '92, si vendicò: "È solo il capobanda/ ma sembra un faraone/ si atteggia a Mitterand/ ma è peggio di Nerone". Craxi (e suo figlio Bobo, oggi amico del cantautore) ci rimasero male. Col tempo, De Gregori è diventato più morbido. Nel 2006 ha dichiarato: "Se ripenso a Craxi credo che intellettualmente sia stato superiore a tanti politici attuali". De Gregori conobbe Craxi. Si videro a Trastevere, nell'appartamento di Lucio Dalla (amico del leader Psi). Craxi continuò a chiedere come facesse quella canzone. De Gregori, recalcitrante, prese la chitarra ed eseguì Viva l'Italia. Ai cori, Bettino. Altri tempi. Forse migliori e forse no.
Francesco De Gregori intervistato da Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”.
Francesco De Gregori, sono sei anni, da quando in un'intervista al «Corriere» lei demolì la figura allora emergente di Veltroni, che non parla di politica. Che cosa le succede?
«Succede che il mio interesse per la politica è molto scemato. Ha presente il principio fondativo delle rivoluzioni liberali, "no taxation without representation?". Ecco, lo rovescerei: pago le tasse, sono felice di farlo, partecipo al gioco. Però, per favore, tassatemi quanto volete, ma non pretendete di rappresentarmi».
Cos'ha votato alle ultime elezioni?
«Monti alla Camera e Bersani al Senato. Mi pareva che Monti avesse governato in modo consapevole in un momento difficile. Sono contento di com'è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari sull'elenco del telefono».
Dice questo proprio lei, considerato il cantautore politico per eccellenza? L'autore de «La storia siamo noi», per anni colonna sonora dei congressi della sinistra italiana?
«Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos'è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell'orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos'è oggi la sinistra italiana?».
Me lo dica lei, De Gregori.
«È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del "politicamente corretto", una moda americana di trent'anni fa, e della "Costituzione più bella del mondo". Che si commuove per lo slow food e poi magari, "en passant", strizza l'occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me».
Alla fine la sinistra si è alleata con Berlusconi.
«Questo governo non piace a nessuno. Ma credo fosse l'unico possibile. Ringrazio Dio che non si sia fatto un governo con Grillo e magari un referendum per uscire dall'euro. Se poi molti nel Pd volevano governare con Grillo e io non sono d'accordo non è un dramma. Ora il Pd è di moda occuparlo, prendere la tessera per poi stracciarla. Non ne posso più di queste spiritosaggini».
Apprezza Letta?
«Le ho detto che seguo poco. Se mi chiede chi è ministro di cosa, magari non lo so. Quando viaggio compro sei giornali, ma dopo dieci minuti li poso e comincio a guardare fuori dal finestrino...».
Colpa dei giornali o della politica?
«Magari è colpa mia. Mi sento, mischiando Prezzolini e Togliatti, un "inutile apota". Comunque nutro un certo rispetto per il lavoro non facile di Letta e di Alfano. Sono stufo del fatto che, appena si cerca un accordo su una riforma, subito da sinistra si gridi all'"inciucio", al tradimento. Basta con queste sciocchezze. Basta con l'ansia di non avere nemici a sinistra; io ho sempre avuto nemici a sinistra, e non me ne sono mai occupato. Ho votato Pci quando era comunista anche Napolitano. Ma viene il momento in cui la realtà cambia le cose, bisogna distaccarsi da alcune vecchie certezze, lasciare la ciambella di salvataggio ed essere liberi di nuotare, non abbandonando per questo la tua terra d'origine. Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo che è anche di sinistra».
Di Berlusconi cosa pensa?
«Berlusconi è stato fondamentalmente un uomo d'azienda. Nel suo campo e nel suo tempo una persona molto abile, non un vecchio padrone delle ferriere. Ha fatto politica solo per proteggere i suoi interessi, senza avere nessun senso dello Stato, nessun rispetto per le regole e, credo, con alle spalle una scarsa cultura generale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È imputato di reati gravi e si è difeso dai processi più che nei processi. Che altro vuole sapere? Aveva ragione l'Economist : Berlusconi era inadatto a governare l'Italia. Mi chiedo però anche se l'Italia sia adatta a essere governata da qualcuno».
Un premier non telefona in questura per far liberare un'arrestata dicendo che è la nipote di Mubarak, non crede?
«Certo. Andreotti non si sarebbe mai esposto così. Però, guardi, ho seguito con crescente fastidio e disinteresse l'accanimento sulla sua vita privata. Forse potevamo farci qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto? Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto credibile di riforma della società e competere con lui su temi concreti, invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano e coltivare l'ossessione di vederlo in galera. Non condivido nulla dell'etica e dell'estetica berlusconiana, ma mi irrita sentir parlare di "regime berlusconiano": è una falsa rappresentazione, oltre che una mancanza di rispetto per gli oppositori di Castro o di Putin che stanno in carcere. E ho trovato anche ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta al sindaco di Firenze per un suo incontro col premier».
Renzi appare l'uomo del futuro.
«Renzi è uno che ha sparigliato. Se il Pd avesse candidato lui probabilmente avrebbe vinto. Ma la scelta del termine rottamazione non mi è mai piaciuta, mi è sempre parsa volgare e violenta. E poi non sono più disposto a seguire nessuno a scatola chiusa».
Quindi non crede in lui? E non voterà alle primarie?
«Il verbo "credere" non dovrebbe appartenere alla politica. Non basta promettere bene e saper comunicare. E poi penso di non votare alle secondarie, si figuri se voterò alle primarie. Il Pd sta passando l'estate a litigare. E magari anche Renzi ne uscirà logorato».
Aveva acceso speranze Grillo e l'idea della rete come veicolo di partecipazione.
«Ho trovato inquietante la campagna di Grillo, il suo modo di essere e di porsi, il rifiuto del confronto, le adunate oceaniche. Condivido i tagli ai costi della politica e la richiesta di moralizzazione che viene da molti e che Grillo ha saputo ben intercettare. Molti elettori e molti eletti del M5S sono sicuramente persone degne e capaci di fare politica. Ma questa idea della Rete come palingenesi e istituzione iperdemocratica mi ricorda i romanzi di Urania».
Con Veltroni avete fatto pace?
«Per quell'intervista mi saltarono addosso in molti, compresi alcuni colleghi cantanti. Qualcuno mi chiese addirittura "Chi ti ha pagato?". Con Veltroni ci siamo incontrati per caso un paio di mesi fa al Salone del Libro a Torino, abbiamo parlato qualche minuto e credo che questo abbia fatto piacere a tutti e due. È sempre una persona molto ricca sul piano umano. Ma non mi andava di essere catalogato tra i Veltroni Boys».
Non c'è proprio nessuno che le piaccia?
«Papa Francesco, la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all'apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante».
Oggi non canterebbe più «Viva l'Italia»?
«Al contrario. Sono convinto che l'Italia abbia grandi chance per il futuro. E ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. "L'Italia che resiste", ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c'entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista "resistere resistere resistere". "L'Italia che si dispera e l'Italia che s'innamora". L'Italia che ogni tanto s'innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l'Italia, e per gli italiani, non è in discussione. Sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy».
Avete presente la storiella del corvo che si lamenta di quant'è nero il merlo? A tanti è venuta in mente ieri leggendo le dichiarazioni di tanti esponenti del Pd dopo che Francesco De Gregori, un'icona storica della sinistra, aveva detto al Corriere: «Non voto più, la mia sinistra si è persa tra slow food e No Tav». De Gregori si iscrive al club degli artisti delusi dalla sinistra. Il cantante volta le spalle al Pd "perso tra slow food e No Tav", ma raccoglie solo critiche: "Incredibile, sei invecchiato così male", scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Irritati, gli hanno mandato a dire: «Non possiamo credere che tu sia invecchiato così male». E poi lo hanno rassicurato (minacciosamente): «Conserveremo l'intervista, la ricorderemo come un errore e una critica eccessiva, tenendo a mente che non è da un calcio di rigore sbagliato che si giudica un giocatore». Mamma mia. In realtà il «calcio di rigore» è forse una delle più lucide e dolorose interviste di Francesco De Gregori negli ultimi anni, quello che con Il generale e La storia siamo noi si è conquistato nei decenni il rispetto di un'intera area politica. Parlando con Cazzullo, ha snocciolato tutti i mal di pancia di chi votava a sinistra e ora anche no. La sinistra? «È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo a tratti incompatibile con la modernità». Berlusconi? Oltre alle solite precisazioni anti Cav, ha sottolineato che «pensare di eliminarlo per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra». La quale, per intenderci, avrebbe fatto meglio a porsi «qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto». Probabile che a far rabbrividire i piddini duri e puri siano state frasi come «sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy», oppure «trovo ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta a Renzi per un suo incontro con Berlusconi» o, infine quel gelido «ho trovato inquietante la campagna di Grillo» proprio poco dopo che il Pd di Bersani ha fatto di tutto per portarselo al governo. Insomma, dopo aver fatto suonare La storia siamo noi a tutti i congressi sin dai tempi della «gioiosa macchina da guerra», ora è la sinistra a farsele suonare dalla propria icona. Oltretutto la base Pd deve pure trangugiare quello che quasi tutti pensano: «Se il Pd avesse candidato Renzi, probabilmente avrebbe vinto». Insomma, la caporetto della salamella. Sarà per questo che le reazioni, specialmente quelle sui social network, sono arrivate al bivio: da una parte gli increduli, dall'altra (più numerosi) quelli che approvavano le parole di un artista nel quale si riconoscono sin dagli anni '70. Di certo, l'enfasi dei commenti legittima lo status di De Gregori ma non la novità delle sue parole. In realtà, seppur autorevolissima, è l'ultima di una sfilza di j'accuse di maestri della musica che parte da quel disco (e spettacolo) Polli d'allevamento di Giorgio Gaber che nel 1978 segnò la sua frattura con il movimento giovanile. Da allora è stato uno stillicidio di cannibalismo: artisti storicamente identificati con la sinistra che ne prendevano drasticamente le distanze, trasformando spesso con il senno del poi il sonno del prima. Nanni Moretti ad esempio. Oppure Francesco Guccini (La locomotiva è un must da lacrimoni di nostalgia per vetero comunisti) che non ha fatto giri di parole quando Prodi è stato trombato nell'ultima corsa al Quirinale. Dopotutto, sul sottile filo che dal disilluso Gino Paoli arriva al De Gregori di oggi, stanno in equilibrio della contestazione a sinistra anche Antonello Venditti («Il Pd è chiuso nel proprio apparato»), Pino Daniele quello che cantava «Questa Lega è una vergogna» e ora dice di «esser deluso dalla sinistra», Giovanni Lindo Ferretti (un genietto nato con un gruppo che si chiamava nientemeno che CCCP) e anche Lorenzo Jovanotti che ha semplicemente detto: «L'opposizione a un vuoto finisce per essere un altro vuoto». Molto bipartisan. Ma molto più doloroso per chi non accetta la cosiddetta autocritica perché, come diceva il pioniere Gaber, è sempre «più comunista degli altri».
Da De Gregori a Guccini: il Pd è rimasto senza voce. De Gregori è solo l'ultimo di una lista di soldati delusi dai generali democratici. Da Guccini a Samuele Bersani, da Jovanotti a Venditti e alla Mannoia: il Pd è rimasto afono, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Il Pd è diventato afono. Le uniche voci rimaste sono quelle degli artisti, pronti a cantare la loro delusione. Sono finiti i tempi dei palchi, delle colonne sonore e del connubio tra musica e politica. Adesso, i democratici sono rimasti senza cantori. Francesco De Gregori è solo l'ultimo di una lista di soldati stufi dell'incapacità dei generali. Non resta che abbandonare il campo. Vuoi perché “la sinistra si è persa tra slow food e No Tav”, vuoi perché le ultime decisioni democratiche hanno fatto traboccare un vaso già pericolante. E così arrivano defezioni che non ti aspetti. Come quella di Francesco Guccini che, all'indomani della pugnalata inflitta dai falchi democratici al suo amico Romano Prodi, arriva a sentenziare affranto: “Non so se il Partito democratico sia ancora il mio partito”. O come quella di Antonello Venditti, che alla vigilia delle amministrative capitoline, suonò note caustiche: “Il Pd non sa che cos’è e che cosa vuole essere, è chiuso nell’apparato, non ascolta e non capisce più Roma”. Pd capoccia. E pensare che nel 2007 il cantautore si diceva convinto che “non credere nel Pd sarebbe come rinnegare me stesso, è la mia storia naturale. Non credo tanto nel partito, penso che il vero partito siamo noi''. Per Samuele Bersani è stato proprio uno spaccacuore. Il cantante riminese non ha avuto remore a esternare tutto il suo malumore davanti al pubblico pagante: “Non mi fido più del Pd, voterò Movimento 5 Stelle”, annunciò prima delle ultime elezioni politiche. Se prima avrebbe affidato le chiavi di casa a Walter Veltroni, adesso Jovanotti al Pd probabilmente non affiderebbe nemmeno un centesimo. “Questo governo fa male all'Italia, un accordo Pd-Pdl non mi sembra rispettoso dell'esito delle elezioni, non mi convince molto”. Cherubini rimane un nostalgico di Veltroni, ma una volta finito il suo progetto, ha dovuto ammettere che “nel Pd sono tornati a galla gli anziani D'Alema, Bersani, Bindi. Li rispetto, ma non si va da nessuna parte con loro”. Adesso non gli resta che puntare su Renzi, sperando di non rimanere l'unico a cantare: "Mi fido di te". Fiorella Mannoia, in tempi non sospetti, ha fatto coming out preferendo Ingroia: “Non ho votato Pd e non sono pentita. Sono di sinistra. È per questo che non li ho votati". Quelle che le donne dicono... L'ultima cantante che ha espresso parole positive nei confronti di un esponente del Pd è stata Gianna Nannini: “Complimenti per la scelta! Finalmente qualcuno che si intende di musica! Inno è il pezzo più bello che ho scritto negli ultimi 20 anni!”, disse la cantante commentando la scelta di Pier Luigi Bersani della nuova colonna sonora del Pd. Adesso il segretario è Epifani e quella musica non ha portato molto bene.
ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.
La sgangherata pattuglia pentastellata non conosce nemmeno il nome dei suoi eroi. La consueta gaffe, questa volta, ce la regala il senatore grillino Nicola Morra, capogruppo a Palazzo Madama. Prende la parola in aula, e nello sventolio di agendine rosse dei movimentisti seduti attorno a lui, ricorda la strage di via D'Amelio. Così Morra: "Dobbiamo ricordare Salvatore Borsellino...". Tra i suoi compagni di "movimento" nessuno dice una parola, nell'emiciclo si leva una voce: "Non sa nemmeno come si chiama...". Quindi prende la parola il presidente di Palazzo Madama, Pietro Grasso, che riprende Morra: "Stiamo ricordano Paolo, perché non credo proprio che Salvatore Borsellino sia nelle condizione di essere ricordato". Salvatore, infatti, è il fratello. Vivo e vegeto. Grillini, analfabeti parlamentari: "Non capiamo che cosa votiamo" Che autogol in diretta streaming...I senatori a 5 Stelle si coprono di ridicolo nella loro assemblea: "Emendamenti incomprensibili, qualcuno ce li traduca". Però incolpano gli altri partiti, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Per giorni e giorni fra marzo e aprile avevano tuonato contro la mancata costituzione delle commissioni parlamentari perché così non li facevano lavorare. Ora dopo quattro mesi di lavoro in commissione il Movimento 5 stelle scopre di annegare in quel lavoro che gran parte dei suoi eletti non sanno fare. La gran confusione e l’esteso dilettantismo è emerso durante la riunione (parzialmente trasmessa in streaming) del gruppo parlamentare al Senato giovedì 25 luglio. A sorpresa la conduzione dell’assemblea è stata affidata a Maurizio Buccarella e non al capogruppo pro-tempore Nicola Morra, che pure gli sedeva a fianco silente. A illustrare l’imbuto in cui il movimento si è infilato è stato invece Maurizio Santangelo, il senatore che si è ritagliato un po’ di notorietà a palazzo Madama perché ogni cinque minuti interrompe la seduta per chiedere la votazione elettronica. Santangelo si è lamentato della scarsa incidenza dei parlamentari del movimento, che spesso fanno lunghi interventi «anche di qualità», che però nessuno ascolta. Forse è meglio - ha sostenuto - utilizzare più delle parole gli emendamenti per migliorare i provvedimenti presentati dal governo e della maggioranza. Ed è qui che è nato lo psicodramma interno al gruppo. A prendere la parola è stata infatti la catanese Ornella Bertorotta, membro della commissione bilancio del Senato: «A proposito di emendamenti», ha esordito, «esco un attimo dal tecnicismo per dire che nella commissione bilancio abbiamo molta difficoltà a difendere i nostri emendamenti, perché proprio non li capiamo». Scritti - come quasi tutte le leggi che si vorrebbero cambiare in modo incomprensibile. «Ci vuole tutto uno studio», ha sostenuto la Bertorotta, «per capire il linguaggio giuridico, e con i tempi che abbiamo non ce le facciamo. Forse potremmo approfittare delle nostre segretarie perché prendano appunti da chi conosce le cose e poi redigano una spiegazione in calce ad ogni emendamento». Semplifica Laura Bignami: «Sì, anche io ho questa impressione: che non capiscono i nostri emendamenti e quindi poi non riescono a difenderli». Di fronte allo smarrimento di gran parte dei senatori a Cinque stelle, va diretto un altro membro della commissione Bilancio, Elisa Bulgarelli: «Guardate, gli emendamenti debbono passare tutti in bilancio. Quando arrivano sono veramente molto tecnici, e non solo a livello giuridico. Gli ultimi che venivano dalla commissione Lavoro erano scritti in modo del tutto incomprensibile. Così non siamo riusciti a difenderli: non capendoli non sapevamo che argomenti trovare con gli altri». Qualcuno fa osservare che gli ultimi emendamenti inviati avevano la loro spiegazione allegata, e la Bulgarelli scuote la testa: «Non dovete scriverci spiegazioni che sono identiche al testo incomprensibile perché ovviamente non capiamo nemmeno quelle». Ai Cinque stelle puoi dire di tutto, salvo che lavorano male. Perché sono molto fieri del proprio presunto sapere e pontificano su tutto. Quindi di fronte alle critiche si offendono. E rigirano la frittata. L’ha fatto subito lo stesso Santangelo: «Loro hanno certo ragione. Però questa problematica nasce dal fatto che il governo e questa maggioranza mettono dei decreti omnibus in cui ci sono delle cose complicatissime e c’è sempre poco tempo per capire e trovare soluzioni. Ecco: quando parliamo di ostruzionismo il vero ostruzionismo è quello che si sta facendo nei confronti dell’unica forza politica nuova, che è la nostra: il Movimento 5 stelle. Noi ancora non siamo pratici, abbiamo bisogno di un po’ di tempo...». Ribaltando la frittata, Santangelo sostiene che «ad esempio nel decreto Iva sia Pd che Pdl avevano presentato molti emendamenti di buon senso che avremmo votato. Appena l’hanno capito hanno fatto ostruzionismo contro noi, decidendo di ritirare tutti gli emendamenti». Siamo alla fantasia più sfrenata. Che nasconde una sola verità, poi ammessa nella riunione: «Dobbiamo imparare e farci furbi. Basterebbe essere un po’ più veloci e presentare emendamenti nostri anche all’ultimo, con la firma di otto senatori. Quelli non li possono ritirare…». E il grande complotto alla fine diventò un auto complotto.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
Liberali? Solo a parole, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. C’è chi confonde l’idea liberale con un’ideologia: un set di regole precise e immutabili. Un dogma. Il fascino liberale è che esso, piuttosto, è un metodo. Prendiamo il caso delle sigarette e del maldestro tentativo governativo (poi annacquato) di vietarne l’uso in auto in presenza di minori. È l’apoteosi dello statalismo. Cioè l’esatto contrario del metodo liberale. La religione di Stato (in alcuni paesi basta togliere il predicato) decide cosa sia buono e giusto per il singolo, usurpando il libero arbitrio. La «violenza» dell’imposizione statuale detta un comportamento o uno stile di vita, che, se non rispettato, procura sanzioni. Molti considereranno la questione delle sigarette una bazzecola. Ma dietro questa pensata c’è un’ideologia pericolosa e che pervade le nostre istituzioni. Che banalmente si può riassumere così: c’è un gruppo di persone (politici e burocrati) da noi retribuite che pretendono di sapere cosa sia meglio per noi. Una roba da far accapponare la pelle. La libertà è pericolosa. È pericoloso aprire un’azienda, è pericoloso concepire un figlio, è pericoloso pensare diversamente, è pericoloso mangiare, bere e fumare. Ma è molto più pericoloso che qualcuno decida per noi riguardo questi affari. Un effetto collaterale di questo diffuso cancro ideologico è la deresponsabilizzazione che provoca dell’individuo. Ci conformiamo alla legge non perché ne siamo convinti, ma perché la trasgressione è punita. In un recente libro dell’istituto Bruno Leoni (Breve storia della libertà) si ricorda l’esperimento psicologico di Milgram. La facciamo breve: i cittadini possono diventare carnefici del prossimo, pur non volendolo, solo perché l’Autorità lo richiede e solo grazie alla pulizia della coscienza che ci fornisce un meccanismo di deresponsabilizzazione. In quanti casi un funzionario pubblico può devastare una vita, una storia, un’impresa solo imponendo il rispetto di una norma? Un ultimo suggerimento non richiesto alla componente governativa che si rifà al centrodestra. E che per di più si dice voglia ritornare allo spirito originale di Forza Italia. Libertà civili e libertà economiche sono strettamente connesse, come insegnava Einaudi, e fare i furbetti sulle prime, rende meno credibili le battaglie sulle seconde.
POPULISTA A CHI?!?
Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema.
LA LOMBARDIA DEGLI SPURGHI.
«Quando devi scaricare, conviene farlo alla luce del sole, davanti alla gente, tanto non rischi e nessuno se ne accorge». Finisce sottoterra. È il racconto di un ex dipendente in un’azienda che a Monza si occupa di rifiuti speciali. Guidava le autobotti, oggi è un informatore dei carabinieri. Ci ha spiegato com’è facile guadagnare in quel settore, scrive Adele Grossi su “Il Corriere della Sera”. «A cominciare dagli spurghi prelevati dai tombini per strada o nei terreni privati con grosse pompe che dovrebbero aspirare lo scarico e invece buttano dentro altri rifiuti». Con questo metodo, in Lombardia, i rifiuti speciali, anziché essere smaltiti, vengono regolarmente riversati nei tombini delle fognature. «Diecimila litri al giorno», racconta in base alla sua esperienza. «Fingi di ripulire le fosse biologiche del giardino di un condominio e ributti lo scarico nel pozzetto del giardino successivo». Gli autisti guadagnano, ripulendo in nero e per conto proprio i pozzetti. I titolari delle ditte li lasciano fare per ricattarli quando il lavoro commissionato è ancora più sporco di uno spurgo e riguarda le terre di spazzamento contaminate da piombo e idrocarburi o rifiuti speciali altamente tossici, come il cromo. Anche quello finisce nei tombini. Oppure sottoterra con il benestare dei proprietari dei terreni. Quando questi non collaborano, si usa la forza, così come è emerso dalle indagini della Dda di Milano. In un’intercettazione alcuni esponenti della ‘ndrangheta parlano di un anziano costretto con le lacrime a subire continui scarichi nelle sue terre. C’è un business sull’ambiente, che in Lombardia è assai redditizio. Anche per la politica è difficile restarne fuori. Tutti gli assessori regionali all’Ambiente dal 1995 al 2010 sono finiti nei guai. In Brianza, l’illegalità è particolarmente diffusa, come dimostrato dall’indagine ‘Infinito’ della procura di Milano e come recentemente confermato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti in Lombardia. Quest’ultima parla di una vera e propria "Gomorra" attiva sul territorio e aggiunge che «il rischio di infiltrazioni criminali nel trattamento dei rifiuti è alimentato dal fatto che gli impianti di smaltimento sono sempre meno». Quando ci sono, chiudono. È quello che è successo a Monza, nel 2010. L’unica stazione di trattamento presente nella zona è stata fatta chiudere dalla Provincia perché individuata come la fonte degli odori insopportabili che da anni affliggono i residenti del quartiere San Rocco. Oggi quegli odori molesti ci sono ancora ma non si sa dove finiscano i rifiuti. Fabrizio Sala, l’allora assessore provinciale all’Ambiente, si era impegnato a trovargli un’altra destinazione. Quest’ultimo, oggi consigliere della Lombardia e nominato recentemente sottosegretario con delega per l’Expo 2015, quando è stato da noi interpellato sulla questione ha detto che di quei rifiuti non ne sa niente. Eppure era stato lui a volere, in un primo momento, la chiusura dell’impianto di trattamento di Monza e a promettere ai cittadini, nel 2010, che entro tre mesi avrebbe reso note le sedi alternative. È certo che da quando hanno chiuso quell’impianto, le ditte di trasporto dovrebbero percorrere in media 20-30 km per portare i rifiuti fuori provincia, spendendo di più. Molti gli indizi che lasciano pensare che qualcuno di loro continui indisturbato a scaricarli altrove. Alla fine, finisce tutto nel Lambro, affluente del Po, quindi nel mare. Oppure, se i rifiuti vengono interrati, nelle falde acquifere. Pecunia non olet e così, sotto i tombini, continua l’affare.
OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE INSABBIATE.
Ma l’esercizio dell’azione penale è veramente obbligatoria? Si chiede Alessio Anceschi. I penalisti lo sanno ... non è così. A quanti cittadini (ed avvocati) capita, e capita sempre più spesso, di vedersi archiviare denunce e querela con le motivazioni più assurde, semplicemente perché, nella pratica (è inutile girarci intorno), i Pubblici ministeri non hanno il tempo, le forze o talvolta "la voglia" di procedere per reati tutto sommato "bagatellari", ancorché (ma questa è una mio opinione) i reati bagatellari non esistono (si suole spesso definire "bagatellari" i reati che capitano "agli altri", fino a quando non coinvolgono NOI). Eppure il dato è allarmante, viene oramai archiviato qualsiasi tipo di denuncia o querela che non rivesta una particolare gravità, con una serialità quasi da "addetti postali al timbraggio". Poi si ci lamenta che tanti reati non vengano neppure più denunciati, soprattutto quando, per sporgere una denuncia, molto spesso bisogna tornare nelle varie caserme almeno 3 o 4 volte di seguito perché una volta manca il maresciallo, un'altra volta ha da fare e la terza non ha la biro. Le motivazioni apposte sono poi le più incredibili e se fossero "serie" allora ci sarebbe ancora più da preoccuparsi. Eppure ... leggo nientemeno che la Costituzione, con la C maiuscola nella quale è scritto che "il Pubblico ministero HA l'OBBLIGO di esercitare l'azione penale"!! Ma si sà, è un obbligo "vuoto", privo di effettiva sanzione. Si ci provi pure a fare opposizione all'archiviazione, con l'obbligo di allegare nuove fonti di prova quando già le prime sono state ignorate. Si aggiungerà una perdita di tempo ad una precedente perdita di tempo (quella di recarsi a far denuncia). Ma si sà, così và il mondo ... quello che finirà presto. Rimane il rammarico, il rammarico di chi crede nella Giustizia (questa sì, con la G maiuscola) e crede che questa serve a difendere il giusto e l'onesto dalle prevaricazioni e dagli abusi altrui, o che i cattivi debbano scontare una qualche tipo di pena. oramai è come credere a babbo Natale!! C'era un tipo, nell'antichità, che si presentò ad un esercito invasore con un libro di leggi in mano. Non vi dico la fine che fece. Speriamo di non fare la stessa !!!
A fronte dell’accoglimento di denunce stupide, si riscontra il fenomeno delle denunce insabbiate. Tralasciando la vicenda del dr Antonio Giangrande, che denunciando dei casi di illegalità territoriale, andando su su in ordine di competenza funzionale giudiziaria, si è scontrato con il fenomeno dell’insabbiamento delle denunce contro i poteri forti: abusi ed omissioni. Questa attività di ribellione lo ha portato sì inascoltato fin alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma gli ha procurato parecchie ritorsioni da parte delle toghe. Esperienza raccontata nei suoi libri. Ma esemplare è il caso del Maresciallo contro i giudici: «Dieci anni di pratiche insabbiate», scrive “Il Giornale”. Ha scritto al presidente Giorgio Napolitano, è andato a parlare con i funzionari del Quirinale, è stato indirizzato al Consiglio superiore della magistratura e si è presentato anche lì. Ma non è servito a nulla. Fabrizio Adornato, maresciallo dei carabinieri e padre separato da dieci anni, non riesce a ottenere che la magistratura gli dia una risposta. Da anni è ormai vittima di una separazione dolorosa dalla moglie e, come tanti altri genitori, vive con incredibili difficoltà quanto imposto dalla sentenza civile. Sia dal punto di vista economico, sia da quello affettivo nei confronti della figlioletta. Ma soprattutto, Fabrizio Adornato in quasi dieci anni di separazione, ha vissuto lunghe battaglie con la ex moglie e la ex suocera, ha sempre provato a rivolgersi ai magistrati, ma non ha trovato soddisfazione. Da uomo di legge qual è, si è affidato alle denunce, alle segnalazioni. Ha denunciato assistenti sociali e psicologi con nomi precisi e registrazioni di colloqui, ma si è visto archiviare l'indagine peraltro avviata contro «ignoti». Non si è spaventato quando ha trovato porte sbarrate. Certo dell'autonomia dei magistrati, si è anche rivolto ad altri magistrati quando riteneva di aver subito torti. In altre parole, Adornato ha denunciato anche sei magistrati, sempre portando a sostegno delle sue tesi tutte le documentazioni che poteva. Le sue vicissitudini le ha raccontate su un blog senza timore di scrivere anche tutti i nomi dei giudici con i quali si è scontrato. Ma per l'appunto, non ha ancora avuto risposte alle sue richieste di giustizia. Tuttora non riesce a sapere che fine hanno fatto le sue denunce contro i magistrati. Sente dire che gli stessi non sono al di sopra della legge e che anche loro possono essere perseguiti dai colleghi se sbagliano, ma non è ancora riuscito neppure a farsi dire se esiste un procedimento a carico di quei magistrati che lui ha denunciato. Nel novembre scorso ha scritto a Napolitano e un funzionario del Quirinale spiegandoli che colui che presiede il Csm non ha titolo per intervenire, ma che ha girato la pratica all'organo di autogoverno dei giudici. Lì Adornato è andato e si è sentito rispondere che «ci vorrà del tempo» per capire che fine hanno fatto le sue denunce, per verificare se per caso ci siano state omissioni da parte di magistrati. Da mesi aspetta anche questa risposta e ora ha deciso di mettere in atto proteste anche clamorose. «Farò uno sciopero della fame a Roma - spiega il maresciallo dei carabinieri - Qualcuno dovrà almeno chiedersi perché sto protestando. Resto convinto che la magistratura sia in larga parte sana, ma sono preoccupato se nessuno interviene quando ci sono violazioni. Il cittadino si trova a sbattere contro un muro di gomma quando prova a contrastare con i mezzi che gli offre la legge questo potere». Dopo dieci anni, solo silenzi.
Ma la realtà taciuta va oltre ogni ordinaria immaginazione. Ogni giorno a Milano quattro donne denunciano di essere vittima di maltrattamento, scrive Paola D’Amico su “Il Corriere della Sera”. Un numero piccolo, sottostimato, se lo analizziamo dalla prospettiva delle operatrici dei centri antiviolenza, secondo le quali è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno tanto diffuso quanto sottaciuto, trattenuto come un segreto di cui vergognarsi o una verità che non si vuole accettare da molte donne, giovani e meno giovani, italiane e straniere, povere e ricche. Un numero che, invece, s’ingigantisce enormemente se pensiamo, poi, al ruolo che ciascuna donna ha nella società, come figlia, madre, nonna, come lavoratrice, calata nella sua rete amicale, che può come può non essere coinvolta nell’intimità di un tale dramma domestico. Ma le cifre della violenza sulle donne sono anche quelle delle denunce che si chiudono troppo in fretta con richieste di archiviazione dalle Procure, quella di Milano in testa. I dati diffusi dalle volontarie della Casa di accoglienza delle donne maltrattate (Cadmi) di Milano suonano come un grido d’allarme: nell’ultimo anno 945 uomini sono stati indagati per stalking, 1.545 per maltrattamenti in famiglia, 920 per violazione degli obblighi di assistenza familiare. L’elemento più preoccupante «è che nella maggior parte di questi casi le denunce, già in sé non corrispondenti alla totalità “vera” degli episodi, restano senza seguito». Molto spesso, infatti, ha segnalato l’avvocato Francesca Garisto, le indagini si concludono con richieste di archiviazione formulate dalla stessa Procura: 512 su 945 per quanto riguarda lo stalking e addirittura 1.032 su 1.545 per i maltrattamenti in famiglia. «A volte — ha spiegato il legale — la Procura non ritiene sufficiente un solo certificato medico o ritiene le denunce pretestuose». Altre volte è il contesto circostante, a cominciare da amici e parenti, che induce le stesse vittime a minimizzare: «Ma ridurre questi episodi alla semplice conflittualità familiare è sbagliato e tale definizione — insiste l’avvocato Garisto — non fa che occultare il reale fenomeno della violenza familiare, sottovalutando la credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti». Critiche le esperte anche sul ricorso alla mediazione (l’ufficio è gestito dalla Polizia Locale), con vittima e carnefice che vengono «messe sullo stesso piano», pratica definita «poco virtuosa» da chi opera sul campo. Troppo poche anche le misure cautelari richieste dai pm (in un caso ogni otto), considerato che la nostra regione ha il primato nazionale dei femminicidi.Tanto più grave è ritenuto tutto ciò, se si analizza come sta crescendo la consapevolezza delle donne: lo scorso anno le denunce per stalking sono state 945; nel 2009 erano state meno della metà (per l’esattezza 430). Eppure ancora oggi più del 67 per cento delle donne che bussano alla Cadmi in cerca di aiuto finisce comunque per non rivolgersi anche alla magistratura. La presidente Manuela Ulivi ha aggiunto: «La denuncia ancora non appare alle donne uno strumento utile di uscita dalla violenza e di tutela: anzi proprio in seguito alla presentazione della denuncia, purtroppo, spesso si vive il momento di rischio maggiore». Lasciando l’ultima parola ai numeri: tra tutte le telefonate ricevute dalla Casa di accoglienza, la percentuale dei casi di violenza psicologica o fisica oscilla tra il 70 e l’87 per cento, un quarto del totale riguarda situazioni di violenza economica, il 15 per cento è stalking e il 13 per cento violenza sessuale: percentuali che talora si sovrappongono, perché un fatto non esclude gli altri. Ed è un dato di fatto ormai consolidato che i contesti più «pericolosi» sono quelli teoricamente più sicuri: l’86 per cento delle violenze sessuali viene subita da persone che si conoscono, 67 volte su cento tra le mura domestiche. E ancora: il 46 per cento dei maltrattamenti avviene a opera dei mariti, 52 per cento se al conto si aggiungono gli ex mariti. Quanto alle vittime, quasi sette su dieci di quante presentano una denuncia sono italiane e poco più della metà ha un’età compresa tra i 28 e i 47 anni: sei su dieci hanno un lavoro e un livello culturale elevato. Tra le straniere le più colpite risultano essere le romene e le peruviane: ma anche questo dato, naturalmente, è riferito solo a quante denunciano i fatti.
Duro atto d'accusa di avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle maltrattate (Cadmi) nei confronti di tribunale e magistrati del capoluogo lombardo "colpevoli" di ricondurre a manifestazioni di 'conflittualità familiare' i racconti delle maltrattate sottovalutando la credibilità di chi si rivolge alla giustizia, scrive Stefania Prandi su “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati presentati il 14 maggio, durante la conferenza stampa alla Libreria delle donne, su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate. “La tendenza è di archiviare, spesso ‘de plano’, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di ‘conflittualità familiare’ – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano”. Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: “Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio”. Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. I numeri forniti dalla Cadmi sono consultabili sul sito della procura di Milano, nel rapporto “Bilancio di responsabilità sociale 2011-2012”. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini. “Nonostante le forti critiche, il nostro confronto con le autorità competenti resta aperto – sottolinea Ulivi – Anche perché la sottovalutazione della gravità delle denunce è solo uno dei problemi che ci troviamo ad affrontare quando parliamo di violenza contro le donne. Non dimentichiamo, infatti, che mancano i fondi per le case di accoglienza, che quando ci sono vengono distribuiti a casaccio e che quindi la maggior parte del nostro lavoro resta basato sul volontariato”.
SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.
FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.
Si è dato fuoco, davanti alla sede milanese della Rai, Frediano Manzi, presidente dell’associazione SOS Racket e Usura. Un gesto disperato, estremo, compiuto per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle tante, troppe, vittime del pizzo, dei soldi prestati a strozzo. Attività monopolio della criminalità organizzata per la quale non esiste crisi. Manzi ha lasciato comunque una lettera in cui spiega le ragioni del gesto e avanzerebbe alcune richieste: “Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno”; “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”. L’uomo avrebbe riportato ustioni di terzo grado su tutto il corpo, specie alla braccia e al torace. L’episodio è avvenuto poco dopo le 20.30 del 5 febbraio 2013 in corso Sempione. Dopo essersi cosparso il corpo di benzina il coordinatore di SOS Racket e Usura, secondo i giornalisti presenti, ha detto: “Tra 5 minuti mi do fuoco per tutte le vittime di usura. Addio”. Poi ha tirato fuori un accendino e si è dato fuoco. Ad intervenire per primo, mentre Manzi era avvolto dalle fiamme, è stato un autista del tram numero 19 che vedendo la scena è sceso dal mezzo pubblico con l’estintore e l’ha scaricato addosso a Manzi, che altrimenti rischiava davvero la morte o comunque conseguenze ancora peggiori di quelle in cui si trova adesso. L’autista ha raccontato: “Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato. Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l’estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva”. Il 4 gennaio 2013 Manzi si era già tagliato le vene denunciando di trovarsi in una situazione economica disperata e di aver dovuto chiudere due attività. Sotto minaccia da parte dalla criminalità organizzata (“per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”) a fine 2011 aveva scioccato tutti dicendo di aver commissionato due attentati a una della sue attività, un negozio di fiori. Perché? Per attirare l’attenzione su Sos Racket e Usura. Per questo finì indagato a Milano e Busto Arsizio e la sua credibilità, inevitabilmente, subì un duro colpo. Manzi aveva patteggiato un anno e otto mesi di reclusione dopo aver confessato di aver commissionato per 1.200 euro al pluripregiudicato Alberto Marcheselli un finto attentato a un suo chiosco di fiori a Parabiago, per poi denunciare che si trattava di un atto di intimidazione contro l'attività della sua associazione. Ciò non toglie che grazie all’attività dell’associazione da lui presieduta e alle sue denunce sono state aperte diverse inchieste, come nel 2010 quando a Milano erano state arrestate alcune persone per il racket sulle case popolari. Era stato sempre Manzi a sporgere denuncia contro l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno, che due anni fa per le accuse di millantato credito e prostituzione minorile ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Manzi aveva chiesto di parlare ai giornalisti che si occupavano del telegiornale e quando gli addetti alla portineria lo hanno invitato ad allontanarsi ha minacciato di darsi fuoco. Poco dopo, si è cosparso di liquido e ha dato corpo alla sua minaccia. L'uomo è stato soccorso da un tramviere dell'Atm. "Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato", ha raccontato il soccorritore. "Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l'estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva". Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che si sono fatti consegnare la lettera lasciata da Manzi agli uscieri e che cominciava così: "Ho deciso di darmi fuoco per portare l'attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell'usura". Prima di cospargersi di benzina e appiccare le fiamme a se stesso con un accendino, Manzi ha consegnato alla tv di Stato una lettera in cui ribadisce il motivo del suo gesto, accompagnandolo con delle richieste, disperate tanto quanto lui. «Per le vittime dell’usura che nessuno aiuta», si legge nel foglio, scritto a mano. Poi alcune richieste, quelle degli ultimi 10 anni di lotte. «Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno», o «rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura». In realtà Frediano Manzi da tempo versava in uno stato di profonda prostrazione, e aveva recentemente già tentato il suicidio tagliandosi le vene. Dopo i clamori seguiti alle importanti inchieste che le denunce della sua associazione (che negli anni è diventata un punto di riferimento per le vittime del racket) avevano fatto partire, nell’ambito non solo dell’usura ma dell’intreccio tra la criminalità organizzata e gli enti locali, lui stesso era scivolato nel baratro finendo a sua volta denunciato per aver simulato un attentato a uno dei suoi negozi di fiori. Così era inevitabilmente cominciato il declino della sua credibilità. Una situazione che, insieme ai suoi problemi economici e alle continue minacce della criminalità organizzata, lo avevano minato profondamente spingendolo ormai a una vita border line.
Povero Frediano Manzi. Non sa che per essere finanziato e sostenuto basta santificare i magistrati ed essere di sinistra?
IN CARCERE PER AVER DIFESO LA GIUSTIZIA.
Lui non si chiama SALLUSTI... è PIETRO PALAU GIOVANETTI presidente di AVVOCATI SENZA FRONTIERE... sta per finire in carcere in ITALIA per avere difeso i diritti dei cittadini...
«Se potete vi prego di fare qualcosa è assurdo che mi mettano in carcere per avere denunciato la corruzione giudiziaria. Pensate che ieri abbiamo scoperto che la Procura Generale di Brescia ha omesso di trasmettere alla Cassazione il Ricorso per incidente di esecuzione che mi nega sia la prescrizione sia la continuazione sia l'errore di calcolo della pena residua. Lo Stato di diritto è morto....» Pietro Palau Giovannetti.
Tra le altre cose questo signore ha scritto sul suo sito questo pezzo.
QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI
Udienza 2 ottobre 2012, Vallo della Lucania. Per l'omicidio preterintenzionale di Francesco Mastrogiovanni, come prevedibile il P.M. Martuscelli ha chiesto di derubricare i reati più gravi, smontando l'impianto accusatorio del precedente P.M., Francesco Rotondo, "promosso" per impedirgli di concludere il processo, scrive “La Voce di Robin Hood”.
La Segreteria di Avvocati senza Frontiere, mentre
è ancora in corso la requisitoria, rende noto che, a seguito della mancata
astensione del P.M. Renato Martuscelli che ha ignorato la richiesta del
difensore della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, costituita parte
civile con l'Avv. Michele Capano del Foro di Salerno, ha inviato un
circostanziato Esposto al C.S.M. e al Procuratore
Generale presso la Corte d'Appello di Salerno per procedere in sede
disciplinare nei confronti del P.M. Martuscelli e per valutare la
rilevanza penale delle gravi e molteplici violazioni procedimentali che
si sono verificate nell'ambito del processo in corso da oltre tre anni. Dopo
aver sottoposto ad attenta disamina lo svolgimento del processo, nonché le
attività svolte dalle parti, i legali dell'Associazione si sono resi conto
dell'intollerabile assenza del P.M. che in spregio alle sue funzioni
istituzionali ha assunto in maniera sfacciata, senza mezzi termini, la difesa
degli imputati, cercando di minimizzare le gravi responsabilità
degli stessi, rivolgendo, viceversa, le proprie attività d'accusa nei confronti
della vittima, nel precipuo scopo di alleggerire le condotte dei medici e del
personale ospedaliero, nonché delle stesse forze dell'Ordine che hanno eseguito
con modalità illegittime, il brutale fermo di una persona assolutamente sana di
mente e pacifica che implorava di non venire portato presso il lager
psichiatrico del San Luca di Vallo della Lucania, preavvertendo con
grande lucidità che sarebbe stato ucciso. A riguardo, i legali di Avvocati senza
Frontiere hanno ricordato la pregressa attività persecutoria del P.M.
nei confronti del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, quando il povero
Mastrogiovanni era ancora in vita, sottoponendolo, ingiustamente, già anni
orsono, alla misura della custodia cautelare per oltre 9 mesi,
per fatti del tutto insussistenti di pretesa "resistenza e oltraggio a
pubblico ufficiale", dai quali l'odierna vittima è stata poi
assolta con formula ampia dalla Corte d'Appello di Salerno,
riconoscendo l'abuso da parte delle Forze dell'Ordine, e
condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i
Diritti dell'Uomo di Strasburgo, per l'ingiusta detenzione.
L'esposto prosegue denunciando l'anomalo comportamento endoprocessuale
e l'assoluta inerzia investigativa del P.M. Martuscelli, anche nel connesso
procedimento R.G.N.R. 1799/09, nell'ambito del quale ha richiesto nelle scorse
settimane l'archiviazione nei confronti dei medici che avevano disposto il TSO
di Mastrogiovanni, risultando perciò evidentemente incompatibile e impensabile
che potesse oggi sostenere la Pubblica Accusa, sostituendo l'originario P.M. che
aveva svolto in maniera ineccepibile le indagini e disposto i rinvii a giudizio,
venendo infine rimosso, mediante promozione: "promoveatur ut amoveatur"
(noto brocardo latino, la cui traduzione è "sia promosso affinché sia
rimosso", usato per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave
dell'organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendola ad un qualunque
altro ruolo di rango superiore, quale unico mezzo per poterlo "legalmente"
allontanare dalla posizione occupata, ritenuta scomoda agli interessi dei poteri
dominanti). Ciò non bastando, anche le stesse condotte endoprocessuali tenute
dal Dr. Martuscelli nel corso del dibattimento hanno rivelato la sua manifesta
parzialità, animosità e acrimonia verso la persona del defunto Mastrogiovanni,
nei cui confronti giungeva addirittura ad infierire con diffamanti e false
insinuazioni, dipingendolo come pericoloso sovversivo, spingendo i testimoni ad
esprimere valutazioni negative e del tutto inconferenti alla illegittima
prolungata contenzione che ne ha provocato la morte. D'altro canto, il
Martuscelli rivelava prevenzione e grave inimicizia, omettendo qualsiasi
attività, quale rappresentante della Pubblica Accusa, neppure ravvisando la
necessità di sollevare eccezione di inammissibilità circa l'ammissione della
testimonianza della Dr.ssa Di Matteo, in quanto indagata nel parallelo
procedimento connesso R.G.N.R. 1799/09, relativo al TSO, giungendo, infine, ad
omettere di richiedere l'acquisizione del video integrale delle oltre 83
ore di tortura con mani e piedi legati, senza acqua nè cibo, da cui si
poteva, altresì, accertare la presenza del primario che invece la difesa
sosteneva in ferie. Ragioni per cui prima di conoscere l'esito della
requisitoria del P.M. che si è poi appreso aver richiesto la derubricazione dei
reati più gravi, premonitoriamente il comunicato stampa di Avvocati senza
Frontiere avanzava l'ipotesi che vi erano fondati motivi per ritenere che il
Martuscelli avrebbe richiesto l'assoluzione del primario del lager psichiatrico
e pene miti nei confronti dei terzi imputati aventi causa.
In effetti, l'anomala Pubblica Accusa è andata
ben oltre, ritenendo insussistente il reato di sequestro di
persona, contestato in origine dal P.M. rimosso, a tutti i 18 imputati tra
medici ed infermieri, ha fatto cadere l'imputazione di cui all'art. 586 c.p.
(morte come conseguenza di altro delitto), sostenendo la mancanza dell'elemento
doloso del delitto, chiedendo, infine, la derubricazione ad omicidio colposo.
Attraverso tale capzioso percorso argomentativo, insultando il buon senso e
l'intelligenza del popolo italiano che ha visto il video integrale dell'atroce
agonia inflitta ad un uomo sano, libero e in pieno possesso della sue facoltà
mentali, il P.M. Martuscelli, ritenendo la contenzione che ha provocato l'atroce
morte della vittima, come "blanda e irrilevante", ovvero (sic!)
un "atto medico dovuto", anzichè barbara tortura medievale, ha
chiesto lievi pene comprese tra i due anni e i due anni e 7 mesi per il
personale medico e sanitario in servizio la notte tra il 3 e il 4 agosto 2009.
La difesa di Avvocati senza Frontiere anticipa che nella propria arringa
richiederà anche ai sensi dell'art. 523 c.p.p., la visione del filmato
integrale, sottolineando che, senza l'acquisizione agli atti di tale basilare
prova, nessun giusto verdetto potrà scaturire all'esito del processo. E'
da ritenersi infatti che l'anomalo P.M. non si mai neppure peritato di esaminare
integralmente il filmato, in quanto ove avesse trovato il coraggio di
farlo, posto di fronte alla consapevolezza dei fatti e a quali atroci sofferenze
e' stata ininterottamente sottoposta la vittima di tali disumani trattamenti,
definiti del tutto incoscientemente "atti medici dovuti" non
avrebbe di certo avuto l'ardire di definire la contenzione praticata "blanda
e irrilevante", nè tantomeno di coprire le ben più gravi responsabilità
penali e sarebbe giunto a ben diverse ipotesi, contestando invece l'omicidio
preterintenzionale.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Per il pubblico ministero decade dunque il capo d'imputazione principale contestato ai sanitari, e di conseguenza anche quello ad esso collegato, la morte come conseguenza di altro delitto. Martuscelli ha così derubricato quest'ultima imputazione, chiedendo invece la condanna per omicidio colposo dei soli medici e infermieri in servizio il 3 agosto del 2009, l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano (che muore alle 2 di notte del 4 agosto). Nel dettaglio: tre anni di reclusione per Michele Di Genio, il primario del reparto; due anni e sei mesi per Americo Mazza e Rocco Barone e due anni e sette mesi per Anna Ruberto (i tre medici in servizio quel giorno). Il pm ha contestato l'omicidio colposo anche ai sei infermieri in servizio il 3 agosto (Antonio De Vita, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Raffaele Russo), per i quali ha chiesto la condanna a due anni. In sostanza Martuscelli sostiene che chi era di turno l'ultimo giorno di vita di Mastrogiovanni avrebbe dovuto accorgersi del peggioramento delle sue condizioni. E che l'unica colpa penalmente rilevante dei sanitari di quel reparto sia questa. Viene invece confermata per tutti i medici l'accusa di falso in atto pubblico, per non aver registrato la contenzione sulla cartella clinica: Martuscelli ha chiesto condanne per un anno e due mesi di carcere (oltre che per i tre medici sopra citati, anche per Michele Della Pepa e Raffaele Basso), eccezion fatta per il primario Di Genio (la richiesta è di un anno e quattro mesi). Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla 'cattura' avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la 'storia sanitaria' di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto". Il processo continuerà il 16 ottobre, con l'arringa di Caterina Mastrogiovanni, l'avvocato dei familiari della vittima, e dei legali delle altre parti civili. A seguire ci saranno le arringhe dei difensori degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza, prevista per il 30 ottobre.
CHI E’ PIETRO PALAU GIOVANNETTI.
Sono Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete "Avvocati senza Frontiere", nonché direttore responsabile del giornale on line www.lavocedirobinhood.it, Enti no profit che dirigo da oltre 25 anni, battendomi in prima persona per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera da mafie, partiti, logge massoniche e corruzione. Mi permetto di richiedere la solidarietà di tutti gli spiriti liberi e le persone oneste, perché tra qualche giorno sarò tratto ingiustamente in arresto, senza aver mai commesso alcun reato, se non quello che non può certo considerarsi tale, di aver denunciato, sin dai tempi di "mani pulite", la dilagante corruzione politico-giudiziaria e gli abusi nei confronti dei soggetti più deboli che non hanno mezzi o stuoli di avvocati prezzolati, in grado di condizionare le istituzioni, ostacolando il regolare corso della Giustizia. Se nei prossimi giorni il P.G. di Brescia riterrà di arrestarmi, sono pronto ad andare in carcere a testa alta, perché credo in una Legge molto più grande di quella umana, controllata da logiche perverse e dalle varie mafie che soffocano la legalità. Sono intimamente convinto che in uno «Stato-mafia», come quello in cui viviamo che imprigiona ingiustamente i deboli e lascia deliberatamente impuniti colletti bianchi, criminali politici e mafiosi, "anche una prigione sia un luogo adatto per un uomo giusto", come affermava Henry David Thoreau, grande pensatore del Rinascimento americano, il quale nel saggio "Disobbedienza civile", sosteneva tra l'altro che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo, ispirando cosi i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. A fronte del mio incessante impegno civile e lotta alla "massomafia", ho subito oltre 750 procedimenti penali, di cui ben 114 solo in Cassazione, con le accuse più disparate per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle mie stesse denunce, ritenute assurdamente "corpi di reato", o dagli articoli pubblicati sui siti web dell'Associazione. Procedimenti da cui sono sempre stato per lo più assolto, per manifesta infondatezza delle notizie di reato. Ma ciò nonostante, dal 1986, sono stato fatto continuamente oggetto di rinvii a giudizio e addirittura di ripetute richieste di perizie psichiatriche, come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est, costringendomi a difendermi, senza sosta, in ogni sede, per gran parte della mia vita. Solo attraverso una ferrea difesa e la mia fede nella vera Giustizia sono riuscito a contrastare questa impressionante mole di attività persecutorie che non trovano precedenti nella storia del diritto internazionale, anche tenuto conto dell'enorme dispendio di risorse pubbliche impiegate per l'istruzione di svariate migliaia di udienze e centinaia di procedimenti penali, privi di qualsiasi consistenza, rilevanza e interesse sociale. Per l'abnormità delle procedure adottate il mio caso richiama quello del pacifista nonviolento, Danilo Dolci, che dagli anni '50, in Sicilia, dedicò la sua vita alla causa degli ultimi, lottando per l'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza, venendo, come me, ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca, tutt'oggi, purtroppo, ancora, asservita agli interessi della politica e della "massomafia", cioè di quel regime occulto trasversale ai partiti che da oltre 150 anni governa il Paese. La sua condanna venne infatti scandalosamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato Premi Nobel ed intellettuali di fama mondiale del calibro di Carlo Levi, Erich Fromm, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Padre David Turoldo, Don Zeno, etc., e l'arringa fosse stata pronunciata da Piero Calamandrei, tra i padri fondatori della nostra amata Costituzione. Oggi anch'io rischio il carcere, stante la definitività di alcune inique condanne per oltre 5 anni di reclusione, confermate dalla Cassazione per reati di pretesa "diffamazione, calunnia, oltraggio, resistenza", nei confronti di magistrati, avvocati e altri infedeli rappresentanti delle istituzioni, seppure, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza - che qui cito testualmente - i cosiddetti "precedenti penali" a me ascritti: "concernono sostanzialmente situazioni e contesti legati ad iniziative sociali quali quelle patrocinate dal Movimento per la Giustizia Robin Hood". Ma ciò nonostante mi vogliono mandare in galera dopo avermi perseguitato per oltre un quarto di secolo, neanche rappresentassi un pericolo pubblico! Le condanne inflittemi non colpiscono infatti un pericoloso delinquente, bensì un Human Rights Defender che, da oltre 25 anni, si adopera a tutela della legalità, denunciando gli abusi del potere e l'impunità di cui godono gli affiliati ai vari comitati d'affari e logge massoniche, che hanno occupato lo Stato, soffocando la democrazia, attraverso il controllo capillare delle istituzioni, dell'economia, dei media e della cultura, garantendosi in tal modo il «controllo sociale» e una forma di governo parallelo, che Ernst Fraenkel denominò "Doppio Stato". Cioè, la compresenza nell'assetto statuario di "normatività" e "discrezionalità", dove a fianco di un sistema apparentemente democratico, convive un ordine perverso, che applica, come ai tempi della Germania nazista, la discrezionalità sistematica nell'applicazione e nel rispetto delle leggi, allo scopo di intimidire, reprimere e sopprimere ogni forma di dissenso, perpetuando proprio grazie a questa autoreferenziale contraddizione di sistema, l'organizzazione del consenso e il dominio sui governati, dove le istituzioni sono invase da politici, pubblici amministratori e magistrati corrotti, in simbiosi con banchieri, massoni e mafiosi, mentre una parte sana ma minoritaria e priva di mezzi dello Stato e della Società civile, cerca di contrastarli, a rischio della propria stessa vita o di venire delegittimati, come fu per Falcone, Borsellino, Cordova, De Magistris, Ingroia e tanti altri fedeli servitori dello Stato. A riguardo, sin dagli anni '80, ho infatti inascoltatamente segnalato, anche con grandi manifesti, che la mafia aveva messo le mani sulla città, denunciando l'imperversante speculazione edilizia e gli abusi ambientali nei quartieri metropolitani milanesi, da parte dei vari comitati d'affari che, già da allora, all'ombra di illecite protezioni, spadroneggiavano impunemente, controllando il territorio e i gangli vitali delle istituzioni, attraverso quella che i P.M. di "mani pulite" definirono come "corruzione ambientale", senza poi però riuscire ad andare sino in fondo. Denunce, occorre ricordare, che hanno permesso alla Procura di Milano di portare alla luce massicci episodi di corruzione nella Guardia di Finanza e nella stessa magistratura, portando all'arresto, tra gli altri, del Generale Giuseppe Cerciello, e dell'allora insospettato Presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, entrambi da me denunciati, sin dal 1989, venendo io, però, dapprima, incriminato per diffamazione e calunnia, nonché preso per "visionario", fino al loro arresto e alla definitiva condanna degli stessi per fatti di corruzione (quest'ultimo, come molti ricorderanno, in relazione alla megatangente Enimont e al lodo Mondadori). Il Movimento per la Giustizia Robin Hood, spezzando in parte l'azione ostruzionistica nei suoi confronti, ottenne poi il riconoscimento quale Onlus nella sezione civile del Registro del Volontariato della Regione Lombardia, con effetto retroattivo dal 1998, in forza di due sentenze del T.A.R., di cui una per obblighi di fare. Nonostante l'alto valore sociale di tali attività, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza, lo scorso 15/1/13, i giudici bresciani che avevano precedentemente sospeso il processo, rinviandolo a nuovo ruolo, in attesa dell'esito dei giudizi pendenti in Cassazione per incidente di esecuzione e avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - che se accolti comportano la revisione automatica del processo "non equo" -, hanno invece cambiato indirizzo, riservandosi sulla revoca del mio affidamento ai Servizi Sociali, cosa che implicherà nei prossimi giorni l'obbligo di arresto per scontare una pena residua di 2 anni, 8 mesi, 17 giorni, dopo aver già espiato anni 1, mesi 5 e giorni 7 di reclusione, oltre ad 1 anno di Libertà controllata, neanche fossi un mafioso o un criminale, per un totale di ben oltre 5 anni di carcerazione! Taluni media falsamente garantisti quando si tratta di coprire i potenti, sicuramente cercheranno di gettare altro fango, insinuando ogni sorta di dubbio e calunnia nei miei confronti, a partire da il Giornale di Sallusti, che ho già avuto modo di denunciare per il contenuto diffamatorio dell'articolo: "Il nuovo eroe antipremier? E' in realtà un bancarottiere condannato per calunnia", articolo apparso in data 14/5/11, in occasione del processo Mills e del mio fermo illegale avanti al Tribunale di Milano, ad opera della Digos, che molti forse ricorderanno, avendo destato anche presso la stampa estera, notevole indignazione e scalpore per le modalità brutali e la manifesta ingiustizia. Voglio quindi si sappia che, al di là delle calunnie della stampa di regime, non ho mai subito alcuna definitiva condanna per reati societari come il padrone di Sallusti e che l'unica vera ragione dell'accanimento di settori deviati della magistratura nei miei confronti, risiede nel fatto che ho denunciato, per primo, l'esistenza di poteri esterni allo Stato, ovvero di un «Regime occulto», in grado di condizionare l'intero arco parlamentare, media, forze dell'ordine e organi giurisdizionali, sino alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, mettendo in luce il ruolo di subalternità delle mafie agli apparati dell'alta finanza e dello Stato e, quel che, sicuramente, più disturba, alla Massoneria internazionale, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, che partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica, le istituzioni e i servizi segreti. Non credo perciò di meritare di andare in carcere per le mie denunce, come non lo meritava neppure Sallusti, seppure coltivasse ragioni diametralmente opposte alle mie, perché in un Paese veramente libero nessuno può venire incarcerato per le proprie idee. Grazie di cuore per la Vs. attenzione e per il Vs. sostegno nelle forme che più riterrete opportune.
Pietro Palau Giovanetti secondo “Il Giornale”. E meno male che Sallusti sa cosa vuol dire essere perseguito per reato di opinione. Le urla, «vergogna, vergogna», gli spintoni, la polizia che arriva e trascina via il contestatore: il tutto sotto gli obiettivi delle telecamere, che documentano in diretta l'ennesimo caso di repressione del dissenso. La scena accade davanti al tribunale di Milano, blindato dale forze dell'ordine per la nuova udienza a carico di Silvio Berlusconi. Protagonista della protesta solitaria, racconteranno le cronache e le telecronache, un avvocato: un professionista indignato per le malefatte del capo del governo, e deciso a manifestare il suo sostegno a Ilda Boccassini e ai suoi colleghi. Ma alle 15.36 di ieri pomeriggio un comunicato dell'Ordine degli avvocati milanesi costringe a rivedere la faccenda: «A seguito dei recenti fatti di cronaca divulgati in data 9 maggio 2011 in relazione allo svolgimento del processo Mills, in occasione del quale si è riferito di un contestatore, Pietro Palau Giovannetti, indicato dalla stampa come avvocato, si comunica che tale Pietro Palau Giovannetti non risulta iscritto negli elenchi professionali tenuti dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano». E quindi? Se non è un avvocato, come hanno scritto i giornali, chi è il signore alto e robusto che i carabinieri hanno trascinato via mentre urlava «vergognatevi buffoni» ai militanti del Pdl in attesa di Berlusconi sotto il tribunale? L'aspirante icona della sinistra (emulo di Pietro Ricca, che nel 2003 urlò «buffone» a Berlusconi in tribunale e su questo costruì una carriera) è in realtà un personaggio di cui le cronache giudiziarie si sono dovute occupare in più di un'occasione. Titolare di una piccola azienda di auto d'epoca, la Classic Cars, Palau finisce gambe all'aria all'inizio degli anni Novanta e viene inquisito per bancarotta fraudolenta. A quel punto si trasforma in un implacabile accusatore della magistratura che - a suo dire - lo avrebbe ingiustamente inquisito. Attraverso l'associazione «Robin Hood» di cui è presidente, segretario e unico militante lancia la sua crociata contro le malefatte dei giudici. Se la prende in particolare con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, che accusa di malefatte di ogni genere: querelato dal capo di Mani Pulite, Palau viene condannato per calunnia. Ma non si arrende, anzi. E qui la faccenda si fa interessante. Il nome di Palau Giovannetti viene infatti citato in una intervista al Corriere, nel maggio 1997, dal pm Piercamillo Davigo. Si parla del misterioso «dossier Achille», un documento attribuito al Sisde in cui si ipotizzavano tra l'altro infiltrazioni ebraiche e massoniche nel pool Mani Pulite. Ed ecco cosa dice Davigo: «Per carità, io posso fare solo un'ipotesi. L'unica cosa che mi viene in mente è la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti... La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando è finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di lì è nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate, penso che ora se ne occupi Trento ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all'altra, finisca tutto a Trieste. Ecco, ricordo che una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova (all'epoca procuratore di Palmi), che all'epoca era titolare della maxi-inchiesta sulle logge coperte. Che io ricordi, quella è l'unica denuncia che abbia mai ipotizzato infiltrazioni giudaico-massoniche, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura». Sono passati quattordici anni. E lunedì scorso il bancarottiere che allora accusava la Procura milanese di essere un covo di massoni riemerge all'improvviso, trasformandosi in «avvocato» e incarnando per mezza giornata la nuova icona del popolo filo-giudici.
Marco Travaglio a riguardo ha qualcosa da dire.
HANNO AVUTO IL CORAGGIO DI CHIAMARLA "GUERRA TRA PROCURE", QUANDO L'UNICA VERA GUERRA E' QUELLA MOSSA DAI POTERI OCCULTI ALLA PARTE SANA DELLA MAGISTRATURA PER INSABBIARE LE INDAGINI SUGLI INTRECCI TRA MAFIA, STATO E MASSONERIA. IL TRISTE EPILOGO ALL'ITALIANA DELLE INCHIESTE SCIPPATE ALLA PROCURA DI SALERNO E I PROVVEDIMENTI CONTRO IL PROCURATORE APICELLA E GLI ALTRI MAGISTRATI CHE INDAGAVANO SUI FILONI DI DE MAGISTRIS NE SONO LA PIU' CHIARA DIMOSTRAZIONE. STATO E C.S.M. HANNO DATO L'ENNESIMA PROVA DI STARE DALLA PARTE DELL'ILLEGALITA', INSIEME AL PRESIDENTE NAPOLITANO CHE AL DI LA' DELLE SOLITE DICHIARAZIONI RETORICHE DI FINTA EQUIDISTANZA NON HANNO SAPUTO FAR ALTRO CHE DIFENDERE I PERVERSI INTERESSI DELLA POLITICA E DI CHI VUOLE METTERE LE MANI SULLA GIUSTIZIA.
Di seguito pubblichiamo sul tema un intervento di Marco Travaglio tratto dal Blog Voglio Scendere: "Scontro finale tra politica e magistratura".
"Buongiorno a tutti.
Non so se avete notato la miseria di questo dibattito sulla questione morale.
Il ritorno del dibattito sulla questione morale: i giornali pullulano di interviste dei vari Pomicini, De Michelis, Di Donato.
Vari parenti di Craxi... persino Capezzone che dice che Veltroni dovrebbe chiedere scusa a Bettino Craxi.
La questione morale, come al solito, viene usata per buttarsi addosso a vicenda le proprie vergogne anziché guardarle e possibilmente cancellarle.
Tant'è che il massimo di risposta che sono riusciti a partorire i vertici del PD, quando Berlusconi ha visto la questione morale - ovviamente soltanto la loro e non la sua che è talmente gigantesca che non riesce nemmeno più a vederla, data la statura fra l'altro - è stata: "ma tu hai portato in Parlamento inquisiti e condannati".
Naturalmente hanno dimenticato i propri.
Il massimo che possono dire è "noi ne abbiamo di meno", come se ci si potesse difendere o addirittura attaccare dicendo "noi abbiamo meno inquisiti e meno condannati di te".
Bisognerebbe poter dire "noi non ne abbiamo".
Quando Grillo e tanti altri hanno proposto questa legge di iniziativa popolare per cacciare i condannati dalle liste elettorali, anche se le firme raccolte questa volta erano quelle giuste e nessuno ha potuto metterle in discussione, nemmeno Carnevale, il Parlamento se l'è presa comoda, tant'è che non siano ancora nemmeno arrivati a una discussione sul tema.
Lasciamo perdere queste menate di partiti che ormai stanno chiaramente disfacendosi, sfarinandosi, dissolvendosi senza nemmeno che se ne rendano conto, e vediamo di parlare dell'altro grande titolo che campeggia sui giornali da quasi una settimana.
Cioè da mercoledì scorso, quando la procura di Salerno è scesa a Catanzaro per sequestrare gli atti dell'indagine Why Not e comunicare a un bel po' di magistrati calabresi e lucani che sono indagati per il mega complotto ipotizzato contro Luigi De Magistris.
Il titolo che è andato in edicola e in onda a reti unificate e a edicole unificate è "Guerra fra procure", "Guerra fra PM", "Scontro fra procure, interviene Napolitano".
Questo è l'unico dato costante.
La prima riga del titolo serviva a giustificare la seconda: se c'è effettivamente una guerra fra procure deve intervenire qualcuno a spegnare l'incendio, e quindi meno male che c'è il Capo dello Stato.
La domanda è: ma davvero c'è una guerra fra procure? Davvero c'è uno scontro fra PM? Davvero Salerno e Catanzaro stanno sullo stesso piano e si attaccano vicendevolmente, ma abusivamente tanto da giustificare l'intervento del pompiere del Quirinale e dei pompieri del Consiglio Superiore della Magistratura?
Vediamo. I fatti sono questi.
Qualche mese fa, De Magistris viene trasferito dalle funzioni che occupa e dalla sede che occupa, cioè da Pubblico Ministero e da Catanzaro, dal Consiglio Superiore che stabilisce come lui non possa più fare il Pubblico Ministero e non possa più fare il magistrato a Catanzaro.
Quindi viene trasferito alla giudicante a Napoli.
Nel frattempo arrivano in pellegrinaggio alla procura di Salerno decine di suoi inquisiti o di suoi superiori o colleghi che vogliono denunciarlo per enormi nefandezze da lui commesse durante i tre anni di procura a Catanzaro.
Soprattutto, si concentrano sulle tre indagini importanti che De Magistris aveva fatto e che, secondo questi denuncianti in processione, sono tutte quante viziate da ogni sorta di nequizia.
L'indagine Poseidone, sui depuratori che si dovevano fare in Calabria e che sono stati finanziati dall'Unione Europea con 800 milioni di euro e non se n'è mai visto uno, di depuratore.
L'indagine sulle toghe lucane, per i comitati d'affari che collegano magistrati della Basilicata, sui quali è competente a indagare Catanzaro e per questo se ne stava occupando De Magistris.
Eppoi l'indagine Why Not, quella che, oltre a vari faccendieri, ex piduisti, ufficiali dei servizi segreti, della Guardia di Finanza, politici, giornalisti collusi, qualche mafiosetto di passaggio, aveva come principale imputato questo Antonio Saladino, capo della Compagnia delle Opere che è il braccio finanziario-affaristico di Comunione e Liberazione.
E, al suo fianco, una lobby trasversale di uomini politici che coinvolge personaggi che stanno intorno all'allora presidente del Consiglio Prodi, che viene lui stesso indagato ma non perché sia accusato di avere fatto qualcosa lui personalmente, ma perché c'era uno di questi del suo giro coinvolto nei rapporti poco chiari con Saladino, che utilizzava un cellulare in uso anche a Prodi.
Per vedere come veniva usato questo cellulare viene indagato Prodi, proprio per poter chiedere al Parlamento l'autorizzazione a utilizzare e indagare su quei tabulati.
Poi Mastella, l'ultimo degli indagati perché appena viene indagato, allora ministro della Giustizia - siamo all'ottobre del 2007 - De Magistris si vede togliere anche questa indagine.
Bene, queste tre indagini, secondo tutti questi processionari che vanno a Salerno, sarebbero viziati da gravi reati commessi da De Magistris: fughe di notizie, abusi.
Perché vanno a Salerno a denunciare De Magistris? Perché Salerno è competente a indagare sugli eventuali reati commessi da magistrati di Catanzaro.
Per fortuna i magistrati di Catanzaro non possono indagare su se stessi, indaga Salerno.
Se poi Salerno ha commesso irregolarità, indaga Napoli. Su Napoli indaga Roma, su Roma indaga Perugia e così a catena.
Una volta c'erano le competenze incrociate tra le procure: Perugia indagava su Roma e Roma su Perugia.
Brescia indagava su Milano e Milano su Brescia.
Genova su Torino e Torino su Genova.
Catanzaro indagava su Salerno e Salerno su Catanzaro.
Ma se io indago su Beppe Grillo e Beppe Grillo indaga su di me, alla fine può capitare che, se siamo due poco di buono, ci mettiamo d'accordo: io non indago su di te, tu non indaghi su di me, una mano lava l'altra e così continuiamo a fare le nostre porcherie, indisturbati.
Ecco perché, nel 1998, furono cancellate le competenze incrociate e quindi si stabilì che se io indago su Grillo, lui non può indagare su di me: su di me deve indagare una terza persona, in modo che così non ci possiamo mettere d'accordo perché non abbiamo il do ut des.
Quindi Salerno è competente per indagare sui reati dei magistrati di Catanzaro, e lì arrivano coloro che vogliono denunciare De Magistris per quello che ha fatto a Catanzaro.
Ma anche De Magistris a Salerno fa delle denunce: denuncia a sua volta i sui superiori e alcuni suoi imputati, avvocati di suoi imputati, giornalisti al seguito dei suoi imputati o dei suoi superiori, che secondo lui lo avrebbero screditato, calunniato, isolato, espropriato delle sue inchieste.
Insomma, avrebbero creato i presupposti per levare prima le inchieste e poi lui.
Quindi i magistrati di Salerno non possono fare altro, perché ricevono queste denunce, di De Magistris e contro De Magistris, essendo competenti devono approfondirle per vedere quali sono fondate e quali no.
La legge glielo impone, è obbligatoria l'azione penale.
Ricevi una denuncia, devi verificarla.
Quindi cominciano a lavorare, per mesi e mesi, nessuno ne sa niente, di quello che succede a Salerno.
Lavorano in silenzio, nessuno li ha mai visti in televisione, nessuno li ha mai sentiti parlare, nessuno sa nemmeno che faccia abbiano i pubblici ministeri Gabriella Nuzi e Dionigi Verasani e il loro capo che si chiama Luigi Apicella.
A un certo punto, questi tre magistrati di Salerno vengono sentiti dal Consiglio Superiore: la prima volta nell'ottobre dell'anno scorso, quattordici mesi fa, l'altra volta il 9 gennaio di quest'anno, undici mesi fa.
Vennero sentiti perché, fermo restando che loro si occupano delle questioni penali, se ci sono reati negli uffici giudiziari di Catanzaro, il CSM si occupa dei profili disciplinari e di incompatibilità.
Anche se non c'è un reato da parte di un magistrato, se si scopre che un magistrato ha violato le regole deontologiche della sua professione deve essere punito.
Se invece è in condizioni di incompatibilità, cioè non può stare in quel posto, non per colpa sua ma perché magari è parente di qualche avvocato, amico di qualche avvocato, fidanzato di qualche avvocato, fidanzato o parente o amico di qualche indagato... non è colpa sua ma non è bene che stia lì, ma da un'altra parte.
Trasferimento per incompatibilità ambientale oppure procedimento disciplinare nel caso in cui un magistrato, pur non commettendo reati, abbia fatto delle scorrettezze di tipo professionale.
Quindi, il CSM sente i magistrati di Salerno per
capire che cosa sta emergendo.
Anche perché il CSM, in quel momento, deve decidere sul trasferimento proposto
dal procuratore generale della Cassazione in seguito alle ispezioni ministeriali
disposte prima da Castelli e poi, soprattutto, da Mastella contro De Magistris,
per incompatibilità ambientale con Catanzaro e funzionale con il ruolo di PM.
Vogliono capire che cosa sta emergendo per poter
farsi un'idea di qual è il caso De Magistris e, nello stesso tempo, farsi
un'idea se ci sono altri, a Catanzaro, che è meglio mandare via oppure
sanzionare.
I pubblici ministeri di Salerno raccontano, per ore e ore, quello che sta
emergendo dalle loro indagini.
E quello che raccontano è clamoroso: dicono che le denunce contro De Magistris si sono rivelate totalmente infondate.
Cioè non risulta che De Magistris abbia fatto nessuna scorrettezza, anzi dicono: "le indagini di De Magistris sono corrette, non emergono reati a carico di De Magistris" e quindi tutte le denunce che sono state presentate contro di lui, erano decine e decine, saranno archiviate.
E infatti, pochi mesi dopo, arriva l'archiviazione per tutte le indagini su De Magistris che viene liberato da ogni sospetto.
Le sue indagini erano doverose, tutto quello che ha fatto l'ha fatto bene, in buona fede.
Anche l'iscrizione di Mastella sul registro degli indagati era doverosa, si imponeva in base agli elementi che erano venuti fuori, niente da eccepire.
Il CSM dovrebbe prendere atto del fatto che, comunque, di è stabilito che De Magistris si è comportato correttamente.
Il CSM se ne infischia e lo trasferisce con dei cavilli, che non sto qui a spiegare ma poi vi dico, se volete approfondire, quali libri potete trovare che lo spiegano.
Invece, i magistrati di Salerno, sempre nell'audizione al CSM del 9 gennaio di quest'anno, raccontano anche che cosa sta emergendo sull'altro tipo di denuncia, quella fatta da De Magistris contro quel comitato trasversale, quello che lui chiama la nuova P 2.
Non c'è più Licio Gelli, ci sono alcuni piduisti.
Ma non è un problema di ex iscritti alla P2, il problema è un network di persone che dovrebbero controllarsi le une con le altre e che invece stanno pappa e ciccia e si coprono a vicenda.
E quando arriva qualche magistrato che sta fuori dal network, libero e indipendente come De Magistris, si coalizzano per andargli addosso e fare in modo che se ne vada.
Quindi è necessario che ci siano magistrati, giornalisti, politici, avvocati, faccendieri, imprenditori, qualche bel mafiosetto... eccetera.
Tutti insieme contro di lui, questa è la denuncia di De Magistris.
Queste denunce, secondo i magistrati di Salerno, si sono rivelate fondate.
Tant'è che dicono e rimane scritto nel verbale che firmano nell'audizione al CSM, che De Magistris è stato costretto a lavorare "in un contesto giudiziario fortemente condizionato da interessi extragiurisdizionali, talvolta illeciti, perché ci sono magistrati legati ad avvocati, imputati" che poi ricevono dei favori, moltissimi favori.
Per esempio hanno ricevuto magistrati da Saladino, che ha fatto assumere loro amici, parenti, nelle sue società e quindi ha un credito di riconoscenza, e questi magistrati hanno un credito, e infatti si sono dedicati tutti a interferire nel lavoro di De Magistris che su Saladino stava indagando.
Viene fuori, quindi, un quadro gravissimo.
Fermo restando che la procura di Salerno deve occuparsi dei reati di questi magistrati di Catanzaro, il CSM dovrebbe prendere immediatamente la palla al balzo per punire disciplinarmente o trasferire da Catanzaro tutti quelli che risultano incompatibili.
Chi ha ricevuto favori, a Catanzaro, da un imprenditore calabrese come Saladino, indagato in questa inchiesta, come minimo deve essere cacciato e mandato da un'altra parte.
Invece il CSM non fa nulla: cioè trasferisce De Magistris, la vittima del presunto complotto, ma gli autori del presunto complotto li lascia tutti al loro posto.
Tant'è che, l'altro giorno, i magistrati di Salerno sono andati a perquisirli e a notificargli che sono indagati e li hanno trovati tutti al loro posto, a Catanzaro.
Pensate, se il CSM avesse fatto il suo dovere di mandarne via qualcuno, di sospenderne qualcuno e di punirne qualcuno, l'altro giorno quando c'è stato il blitz, avrebbe potuto dire "ma noi avevamo già provveduto, avevamo già risolto il problema, adesso vedete se hanno commesso anche reati".
Paradossalmente, anche se il CSM ritiene che De Magistris meritasse di andare via, anche gli altri dovevano andare via.
Se è vero che quando c'è una contesa si mandano via tutti, se questa è la prassi che adotta il CSM, mandassero via anche quelli che hanno ostacolato De Magistris.
Invece no, sono rimasti tutti al loro posto e così l'effetto del blitz di Salerno a Catanzaro è stato dirompente, perché stavano tutti lì, nell'esercizio delle loro funzioni.
Come se nulla fosse stato detto a gennaio dai magistrati di Salerno, che avevano avvertito il CSM di come stavano andando le indagini e quale direzione avrebbero preso.
Questo è l'antefatto.
Noi abbiamo una procura che, per legge, deve indagare su quelle denunce e se le ritiene fondate deve perseguire i reati commessi da questi magistrati di Catanzaro.
Quindi cosa fanno? A un certo punto, dato che si stanno anche occupando dell'insabbiamento delle indagini di De Magistris perché l'ipotesi d'accusa è che sia stato privato delle sue indagini perché venissero date a colleghi più malleabili, i quali con i soliti giochi di prestigio, stralci, archiviazioni, parcellizzazione del materiale alla fine hanno insabbiato tutto.
Voi sapete che a De Magistris l'indagine Poseidone sui depuratori l'ha tolta il suo capo, non appena ha indagato l'On. Pittelli di Forza Italia.
Pittelli è anche l'avvocato del procuratore capo, amico del procuratore capo dell'epoca, Lombardi, il quale ha una seconda moglie che ha un figlio da un altro uomo.
Il figlio della seconda moglie di Lombardi è socio in affari dell'On. Pittelli.
Possibile che il procuratore capo tolga a De Magistris l'indagine appena indaga Pittelli che è socio del figlio della sua convivente?
Questo, per esempio, è il primo caso scandaloso.
Secondo caso: non appena viene indagato Mastella, il procuratore generale Dolcino Favi, facente funzioni perché lui era l'avvocato generale dello Stato, toglie a De Magistris anche l'indagine Why Not, dove sono indagati Prodi, Mastella, Saladino e gli altri.
Con quale argomento?
Dicendo che dato che Mastella gli ha mandato gli ispettori e poi ha chiesto al CSM di trasferirlo, allora De Magistris non può indagare su Mastella perché vuol dire che ce l'ha con lui, è in conflitto di interessi.
In realtà è troppo comodo: è un po' come sostenere che nella favola del lupo e dell'agnello ha ragione il lupo, che sta a monte e accusa l'agnello di intorbidargli l'acqua a valle.
Lì non era Mastella vittima di De Magistris, era De Magistris vittima di Mastella.
Non è che De Magistris ce l'aveva con Mastella, era Mastella che ce l'aveva con De Magistris perché stava lavorando su di lui e quindi ha chiesto di trasferirlo prima di essere indagato.
Poi De Magistris l'ha indagato e il procuratore generale gli ha detto che non poteva indagare perché ce l'hai con Mastella!
Il ribaltamento totale della logica.
Tolta anche l'indagine Why Not, gli restava toghe lucane sul malaffare politico-affaristico-giudiziario in Basilicata, dirompente anche questa perché è un'indagine che coinvolge addirittura un ex big del CSM, cioè l'On. Bucicco, sindaco di Matera, parlamentare di AN, un avvocato importante.
Anche lui indagato.
Quell'indagine, toghe lucane, insieme al fatto che coinvolge un sacco di magistrati della Basilicata, De Magistris riesce a portarla a termine ma non proprio fino alla fine.
Quando lo trasferiscono da Catanzaro a Napoli, ormai l'inchiesta è finita e allora fa gli avvisi di chiusura delle indagini, cioè avvisa gli indagati che le indagini sono finite e hanno venti giorni di tempo per chiedere un supplemento istruttorio.
Dopodiché, farà le richieste di rinvio a giudizio e chiuderà il suo lavoro in quell'indagine.
Bene, gli impediscono anche di fare quei venti giorni per poter scrivere le richieste di rinvio a giudizio.
Lo cacciano da Catanzaro, fisicamente, un attimo prima che lui sia riuscito a scrivere le richieste di rinvio a giudizio.
Nessuna, quindi, delle tre indagini clamorose si è conclusa con la firma di De Magistris.
Perché dico questo? Perché il CSM sapeva che i magistrati stavano scoprendo che queste indagini gli erano state tolte per brutti fini.
Sapeva che secondo la procura di Salerno competente, aveva ragione De Magistris e torto i suoi avversari.
Sapeva soprattutto, il CSM, perché la procura di Salerno lo informava, che da mesi la procura di Salerno stava chiedendo a quella di Catanzaro la copia degli atti delle indagini Why Not sulla quale si stava, appunto, indagando per verificarne l'eventuale insabbiamento.
Una volta l'hanno chiesta, due volte, tre, quattro... sette volte la procura di Catanzaro rifiuta a quella di Salerno l'invio delle copie di questa indagine.
Ecco perché l'altro giorno c'è stato il blitz: perché quelli di Salerno, che ormai aspettavano da quasi un anno quegli atti e se li vedevano negare illegalmente - non puoi rifiutarti di esibire un atto che un magistrato competente ti chiede - sono andati a prenderseli.
Con la polizia giudiziaria sono andati lì, hanno spazzolato tutto ciò che c'era nelle cassaforti, cassetti, uffici e anche nelle abitazioni.
Nei computer privati dei magistrati.
Dice: "ma uno è stato denudato".
A parte che quelli di Salerno dicono che non è vero, ma in ogni caso se uno è in pigiama e si cerca un pen drive e non lo si trova, per evitare che se lo sia messo nelle mutande è giusto perquisirlo anche corporalmente, è una cosa che succede a chiunque venga perquisito quando si cerca non un transatlantico ma un temperino!
I magistrati sono soggetti alla legge come tutti gli altri.
Quello era un magistrato indagato, quello che è stato forse perquisito anche nel pigiama.
Se gli davano le carte, non andavano a prenderle. Non gliele hanno date: sono andati a prendersele.
Illegalmente? No, con un provvedimento di
sequestro perfettamente motivato.
Sono 1700 pagine. Se qualcuno ha voglia di farsi un'idea precisa su questo caso,
gli suggerisco di perdere una giornata e di leggersi almeno le parti
sottolineate di questo decreto di perquisizione, che è rintracciabile sul blog
di Carlo Vulpio, giornalista valoroso del Corriere - che infatti non viene più
fatto scrivere su questa storia, carlovulpio.it, e sul nostro
www.voglioscendere.it.
Se la leggete scoprite un sacco di cose scandalose, delle quali i giornali, salvo rare eccezioni, non parlano.
Perché parlano di guerra fra procure, che non esiste.
Salerno legittimamente va a prendersi le carte e a fare le perquisizioni, è competente.
Catanzaro fa una cosa che non potrebbe fare: il procuratore generale di Catanzaro se ne va in TV a dire che l'atto di Salerno è eversivo e in realtà compie lui un atto che se non è eversivo sicuramente è poco regolare.
Perché incrimina lui i colleghi di Salerno che lo hanno incriminato, come se fosse competente lui!
A parte che lui è un procuratore generale e non può indagare, può farlo il procuratore capo.
Ma soprattutto lui è procuratore generale di Catanzaro e i reati di Salerno li valuta Napoli, quindi se voleva denunciare dei reati di Salerno doveva fare un esposto a Napoli.
Poi se sei parte in causa, addirittura indagato, come puoi pensare di indagare sui tuoi indagatori!
C'è un conflitto di interessi clamoroso, e infatti per legge chi è parte in causa, da magistrato, deve astenersi in un processo.
Non c'è una guerra fra due cattivi: c'è un atto legittimo e doveroso della procura di Salerno al quale si risponde con atti abusivi e abnormi da parte di quella di Catanzaro.
E' questa che viene definita la guerra fra procure, perché bisogna fare pari e patta.
Allora come si fa a controbilanciare l'abominio di quello che ha fatto Catanzaro? Bisogna addebitare qualcosa a Salerno.
E dato che Salerno non ha fanno nulla di male, ecco che ci si inventa il fatto che li hanno fatti denudare, anche se non è vero - c'è stata forse una perquisizione corporale di un indagato in pigiama, visto che erano le 7 del mattino -, si inventa che sarebbe abnorme il decreto di sequestro degli atti solo perché è di 170 pagine.
Perché, c'è una legge che stabilisce quante pagine deve avere un decreto?
Se ne facevano due, di pagine, avrebbero detto "son due paginette, non c'è niente, è tutto campato per aria".
Se lo motivi bene, con 1700 pagine, non va bene lo stesso.
E poi dicono: "sono andati a sequestrare l'originale di un fascicolo giudiziario in corso, bloccando l'attività di indagine".
A parte che languivano per conto loro da mesi, da quando le avevano tolte a De Magistris, ma è chiaro che il sequestro serviva a fare le fotocopie, cioè ad avere quella copia che Catanzaro non aveva mai mandato.
Non è che bloccavano per sempre le indagini.
Bene, per queste quisquilie il Capo dello Stato ha addirittura chiesto gli atti dell'indagine a Salerno, prima di fare lo stesso con Catanzaro.
Come se Salerno dovesse rendere conto al Capo dello Stato di quello che fa.
Questo sì è un atto inaudito, mai visto, mai sentito: il Capo dello Stato che chiede degli atti a una procura.
Come si deve sentire un magistrato di Salerno se il Capo dello Stato gli chiede gli atti quando lui sta facendo semplicemente il suo mestiere, il suo dovere previsto dalla legge?
Apoteosi finale: il CSM nel giro di 24 ore - non so come abbiano fatto a leggersi 1700 pagine in 24 ore, io ci sto provando da giorni e ancora non sono riuscito a finire - valuta il tutto con la rapidità della luce e propone al plenum di trasferire sia il procuratore generale di Catanzaro, quello che ha detto che i suoi colleghi erano eversori, sia quello di Salerno che ha fatto semplicemente il suo dovere!
Pari e patta, guerra fra procure.
Ecco perché i giornali e i politici hanno detto "guerra fra procure", perché dovevano coprire un atto incredibile come quello commesso dal Capo dello Stato, mai visto, e uno altrettanto incredibile fatto dal CSM.
Facciamo finta che De Magistris abbia torto, che abbia sbagliato tutto, che sia un incapace come ci viene raccontato.
Allora, per quale motivo non si lascia che concluda le sue indagini?
E non si lascia che Salerno, competente su quella faccenda, concluda le sue?
Se è un incapace e viene sempre smentito dai giudici, dai GIP, dai tribunali del riesame, lasciate che finisca le sue indagini, che finisca davanti a un GIP o a un riesame che gliele bocci.
Così fa brutta figura De Magistris!
Perché, invece, gliele tolgono sempre prima in modo da consentirgli di dire che gliele hanno impedite di concludere?
Allora vuol dire che hanno paura che non sia così incapace. Hanno paura che abbia scoperto delle cose molto gravi, altrimenti se uno deve andare a sbattere lascialo andare a sbattere, no?
Allo stesso modo, se ha torto, si lasci che concluda la procura di Salerno. Se poi la procura di Salerno ha a sua volta torto, ci sarà un GIP, un tribunale del riesame, un tribunale normale, una corte d'appello, una Cassazione che darà torno a Salerno.
Perché impedire a Salerno di andare avanti con questi atti violenti, trasferimento del capo, ispezioni ministeriali del solito Alfano, avvertimenti strani del Capo dello Stato, CSM scatenato, politici e giornali pure?
Viene persino il dubbio che loro l'abbiano capito chi aveva ragione e chi aveva torto.
Però devono continuare a raccontarci che sono tutti uguali, che c'è una guerra fra bande così hanno la scusa per mettere le mani sulla giustizia.
Una volta si pensava alla Berlusconi che le mani sulla giustizia le potesse mettere la politica contro il volere della magistratura, adesso si sta cercando di coinvolgere una parte, la peggiore, della magistratura, il peggior CSM che si sia mai visto, e un Capo dello Stato che sicuramente non sta brillando per le sue funzioni di garanzia, proprio perché collaborino tutti quanti alla normalizzazione di quei pochi magistrati e quelle poche procure che ancora fanno il loro dovere senza guardare in faccia a nessuno.
Per fortuna la verità è più forte di qualunque pressione, per cui chiusa una porta esce dalla finestra, chiusa la finestra la verità rompe il vetro.
Quindi, chi pensava di archiviare il caso De Magistris e quello collegato della Forleo, adesso è di nuovo preoccupato perché cacciati i due magistrati, la verità sta tornando fuori più prepotente che mai.
Per chi la vuole conoscere fino in fondo suggerisco, per Natale, dei libri: Roba Nostra di Carlo Vulpio, pubblicato da Il Saggiatore; Il caso De Magistris, di Antonio Massari pubblicato da Aliberti; Il caso Forleo, sempre di Antonio Massari pubblicato sempre da Aliberti.
Poi c'è il nostro vecchio Toghe Rotte di Bruno Tinti, che spiega i meccanismi, e c'è il nostro Mani Sporche dove c'è l'inizio del caso De Magistris. Poi tutti gli sviluppi li trovate in un libro che sta per uscire, Per chi suona la banana, pubblicato per Garzanti, che raccoglie gli articoli che ho dedicato anche a questi casi sull'Unità.
Vi saluto e come al solito, dopo la lettura, passate parola!"
MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.
La massoneria? «Conta davvero molto più di quanto si immagini». Parola di Cesare Geronzi, ultimo "banchiere di sistema", tranne il superstite Giovanni Bazoli. E se allora si provasse a ribaltare la vulgata che vuole la politica unica responsabile dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena e si guardasse un po' più nel capitalismo feudal-relazionale percorso da solidi intrecci di esoterismo massonico, che può tingersi di rosso e anche di bianco? Si chiede Alberto Statera su “La Repubblica”. Nessuno negherà che a Siena la rossa la politica sceglie da sempre attraverso la Fondazione i manager del Monte. Ma chi è il Leone e chi la Volpe, la politica o l'economia? Il Centauro che combina insieme forza e astuzia a Siena ha un timbro platealmente iniziatico persino nella toponomastica. Ma è in tutta l' Italia senza borghesia e con pochi princìpi che si annodano in nome del potere e del denaro legami e solidarietà trasversali. Tra l'alta burocrazia e la finanza, tra gli alti gradi delle forze armate e l'università, tra i servizi segreti e le grandi imprese, tra i gabinetti ministeriali, i tribunali amministrativi, naturalmente la politica e persino le sacre stanze vaticane. Racconta Geronzi, campione per un trentennio dei poteri trasversali nelle memorie consegnate a Massimo Mucchetti: «Una volta andai a trovare nel suo nuovo ufficio in Vaticano un importante prelato che era appena stato elevato alla porpora cardinalizia. Nell'avvicinarmi alla sua scrivania rimasi di sale. Sul montante lungo era applicato un tondo che recava in bassorilievo i simboli massonici». Curioso, peraltro, lo stupore dell'ex banchiere "di sistema" visto che il suo sodale Gianni Letta è il trait d'union tra chiesa, Opus Dei e massoneria, ruolo che per tre lustri ha svolto con passione da Palazzo Chigi e che ha continuato a svolgere imponendo alcuni catto-massoni nel governo di Mario Monti. Il quale ha dovuto smentire la sua affiliazione: «Non sono massone e non so neanche bene cosa sia la massoneria». Sarebbe un torto all'intelligenza credere che davvero il presidente del Consiglio, ex presidente della Bocconi, ex commissario europeo e grande consulente della finanza internazionale da decenni, frequentatore di tutti i consessi del potere mondiale, a cominciare da Bilderberg, non sappia che cos'è la massoneria. Ma il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi si era forse spinto un po' troppo oltre quando aveva dichiarato: «Mario Monti è un gran galantuomo, potenzialmente ha tutte le carte in regola per essere un ottimo fratello». Il Grande Oriente d' Italia, 22 mila fratelli e 762 logge, centinaia di "bussanti" che per entrare devono attendere i passaggi di fratelli anziani all' Oriente eterno è la maggiore "obbedienza" italiana, ma tante altre, regolari e irregolari, pullulano quasi sempre in lotta tra loro, dilaniate da lotte intestine, travolte dall'indebolimento del "fondamento iniziatico" e dalla "profanizzazione". Raffi, avvocato ravennate con antichi rapporti professionali col Monte dei Paschi di Siena, Gran Maestro da quattordici anni, è al centro di una combattiva opposizione interna, che ha portato alla costituzione di una sorta di corrente, come nei partiti politici, denominata Grande Oriente d'Italia Democratico. Per accrescere il suo prestigio, vorrebbe parlare inglese perché la Gran Loggia Unita d' Inghilterra, è la madre di tutte le massonerie mondiali. Ma non può perché il Grande Oriente d'Italia non è più riconosciuto da Londra. Fu espulso per volontà del duca di Kent dopo l'ultima scissione del 1993, dodici anni dopo lo scandalo della P2 di Licio Gelli, quando il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo fondò la Gran Loggia Regolare d' Italia, invocando la revoca del riconoscimento al GOI e ottenendolo per sé. Non contento, ha fondato anche l'Accademia degli Illuminati, che si richiama agli Illuminati di Baviera e si riunisce una volta l'anno a Roma. Trai suoi adepti, Di Bernardo colloca più o meno esplicitamente, come ha confessato al giornalista Ferruccio Pinotti, anche il presidente di Intesa San Paolo Giovanni Bazoli, oltre a Vincenzo De Bustis, il banchiere considerato vicino a D'Alema che portò al Monte dei Paschi per un prezzo considerato allora esorbitante la Banca del Salento. E poi ancora Carlo Freccero, ex Fininvest e poi Rai, Rubens Esposito degli Affari legali Rai, Sergio Bindi, ex consigliere Rai e antico portaborse del democristiano Flaminio Piccoli, Severino Antinori, specialista della fecondazione assistita, il filosofo Vittorio Mathieu, il generale Bartolomeo Lombardo, ex Sismi. Banche, informazione, medicina, cultura, Servizi segreti, non manca niente. Ma la Rai sembra un luogo privilegiato di coltura della massoneria se è vero, come testimonia il professor Aldo Mola, che a un certo punto al Grande Oriente giunse in dote una Loggia coperta, retta dal Venerabile Giorgio Ciarocca, di cui facevano parte Cesare Merzagora, Eugenio Cefis, Giuseppe Arcaini dell'Italcasse, nonché Guido Carli, Enrico Cuccia, Raffaele Ursini, Michele Sindona e Ettore Bernabei, notoriamente soprannumerario dell'Opus Dei. Anche la Gran Loggia d' Italia, obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, al contrario di Di Bernardo, non gode di buona reputazione a Londra perché il 30 per cento dei fratelli sono sorelle, unica obbedienza tra le grandi famiglie massoniche italiane che ammette la presenza femminile, trascurando la tradizione britannica che concepisce invece la massoneria come un club esclusivamente maschile. «Certo - spiega Alessandro Meluzzi, ex deputato di Forza Italia, massone, ma anche diacono della comunità di Pierino Gelmini - la Loggia implica un' iniziazione solare, mentre le donne rappresentano la metà lunare del cielo, le stelle d' oriente e non di occidente». «L' idiota religione massonica è roba da diciottesimo secolo», disse Benedetto Croce. E in certi casi come dargli torto? Ma è possibile che grandi banchieri e uomini d' affari misurino le loro mosse sui binari dell' ortodossia massonica? È escluso, ma non è affatto escluso che utilizzino per i loro scopi più o meno commendevoli la miriade di confraternite del potere che impiombano questo paese. Di certo «non è vero che tutti i massoni sono delinquenti, ma non ho mai conosciuto un delinquente che non fosse anche un massone», disse il massone Felice Cavallotti prima di essere ucciso in duello da un suo fratello massone.
MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.
E' ricomparso in questi giorni su Repubblica.it il personaggio di una gag televisiva de "Il caso Scafroglia", il fortunato programma tv di Corrado Guzzanti. Era il lontano 2002 e Guzzanti impersonava il "massone", un incappucciato nero con tanto di compassi e squadre, che si esprimeva in uno sgrammaticato napoletano, che ammetteva cose indicibili, quali quella di essere a un passo dal regime, ieri, in Italia, e negava cose scontate, quali la tendenza del nuovo sistema informativo a ... disinformare, appunto. Così scrive Francesco Specchio su “Eco Costiera”. Oggi viene usato, il personaggio, per contribuire alla battaglia civile contro la cosiddetta legge bavaglio sulle intercettazioni, la legge figlia prediletta dei figli prediletti della massoneria (deviata?) italiana. Una cosa però ce la dobbiamo pur chiedere: come mai, visto che a parlarne possono essere solo i degnissimi eredi della tradizione dei cantastorie medioevali (gli unici minimamente autorizzati a criticare i potenti, seppure sotto la forma dello sberleffo), a tenere costantemente il bavaglio sono tutti gli altri, giornalisti compresi, intorno a fatti, progetti, persone, alleanze, soprattutto vittorie della massoneria italiana? Eppure questi fratelli massoni sono proprio in mezzo a noi, se ne stanno tranquilli, tutte persone per bene (loro), non danno mai nell'occhio, sono noti ma insolitamente poco vistosi, per un'Italia rumorosa ed appariscente. Se poi decidono di delegare qualcuno a rappresentarli pubblicamente, lo scelgono tra i più irrefrenabili, tra i meno affidabili in fatto di riservatezza, e, dopo averlo messo in sonno, si dice così tra di loro, lo tengono lì come un burattino, prigioniero del silenzio, e della trama dei loro interessi indescrivibili. Il prode Mussolini fece approvare una legge contro di loro, che però sarebbe servita contro gli anti-fascisti, e a sbugiardarlo in aula, a Montecitorio, in una delle ultime sedute vere, fu proprio Antonio Gramsci, indicando l'autentico obiettivo-bersaglio di quella legge, e sostenendo che l'autentico partito della borghesia, appunto la massoneria, avrebbe provveduto a cooptarli, lui ed i suoi accoliti fascisti, e ad usarli a dovere. Così come in effetti avvenne. Ma furono bravi, i fratelli massoni italiani, anche a nascondere i rinnovati legami instaurati dalle nuove autorità italiane con le potentissime logge nordamericane, già con la liberazione della Sicilia da parte delle prime truppe alleate, Non riuscì altrettanto bene per i contatti, comprovati storicamente già dopo una decina di anni, tra i servizi segreti alleati e la mafia siciliana: eppure in quel caso l'attitudine alla segretezza sarebbe dovuta essere totale. No, la mafia non è altrettanto brava dei fratelli cattivi, da sempre, tanto è vero che oggi a squarciare il velo della ignobile trattativa tra lo stato repubblicano e la mafia stessa, quella che fu anticipata, accompagnata e chiusa dalle stragi del '92, hanno provveduto adepti dell'organizzazione criminale siciliana, mentre quelli che l'avevano ordita, la trama, e l'avevano chiuso, l'accordo politico, sulla pelle di Borsellino, continuano a starsene zitti e, non tanto oggi, tranquilli, coperti non dai loro grembiulini, ma dai loro ermellini, dalle loro scrivanie ultra-accessoriate (soprattutto di apparecchiature elettroniche), dai loro intrecci inestricabili, e poi dai loro palazzi romani. In altri Paesi la massoneria esaurisce l'intero sistema politico, come succede in Argentina, dove spazia dalla destra fascista alla sinistra guerrigliera (quella che furono i montoneros), ma lo fa apertamente, persino quando organizza un colpo di stato militare, con i suoi generali felloni e sanguinari. Negli Stati Uniti è lo stesso sistema istituzionale ad essere pervaso dai suoi miti, dal suo spirito, dalle sue stesse leggi, eppure anche lì è quasi tutto pubblico, fino al punto di conoscere la loggia a cui è iscritto l'ultimo, il più atipico, il nero, il progressista Obama. E se no, come avrebbe potuto anche sognare la presidenza USA? Da noi no, deve rimanere tutto segreto, o poco credibile, o fantasioso. Chi ne parla, nelle riunioni politiche, quelle dei consessi democratici, ovviamente, si vede attribuire giudizi che oscillano tra il folle visionario e il fissato un pò romantico. Mai che si accetti di discutere dei fatti, e delle relative responsabilità, si incomincia sempre a parlare di altro, un altro meno scomodo. In Italia la massoneria sembra essere tutto un sogno, e così continua ad essere l'incubo della democrazia. Su quanto sta emergendo, del patto scellerato stato-massoneria, era già tutto scritto, in ultimo nel ponderoso libro Il caso Genchi, tutto: fatti, date, personaggi, eppure era Genchi, o chi prima di lui, ad essere il pazzo. Sul fatto che la P2 non si fosse mai sciolta lo aveva affermato e preventivato la lungimirante Tina Anselmi (partigiana, madre della Repubblica e sua leale servitrice), nel suo ruolo di coraggiosa Presidente della Commissione parlamentare sulla P2. Ma allora c'era un Presidente della Repubblica vero, un altro partigiano avvezzo alle battaglie a viso aperto, anche contro i poteri occulti, i più pericolosi. Da quanto oggi si viene a sapere della cricca, una delle tante camere stagne della rinnovata P2, si riscopre un personaggio singolare, un po' defilato, ma pur sempre un sottosegretario del Governo nazionale, che, si badi bene, venne ampiamente citato e sanzionato sia nella relazione di maggioranza (Anselmi), che in quella di minoranza (Matteoli, si, proprio lui, allora esponente di AN, antimassone, e oggi folgorato sulla via dei governi Berlusconi), indicato dalla Commissione come il "messaggero" della P2. E che dire dei rapporti ormai comprovati tra le compagnie religiose della Lombardia e le massonerie-"ndranghete della lontana Calabria: tutto già scritto, già analizzato da Cordova prima e da De Magistris poi. Per entrambi e per loro inchieste uguale responso: pazzi loro e fantasie irresponsabili agli atti. Volendo seguire le successive esperienze partenopee del Procuratore Cordova, verremmo pure a scoprire che anche lì diventò improvvisamente scomodo, anche per i salotti democratici e progressisti della città, che pure in un primo tempo lo avevano osannato, non appena incominciò a lavorare su alcune collusioni in grembiulino. Non era cambiato lui; erano cambiati, o si erano scoperti i frequentatori dei salotti.
Insomma in Italia, non appena qualcuno sparla, o anche solo parla di massoneria, cade in disgrazia.
Qualche volta succede che, come da tutte le chiese, si conceda la dispensa. Ed è successo, questo evento, per una giornalista televisiva, cui è spettato il compito, professionale, sia chiaro, di lasciar trasparire, anzi far apparire l'immagine della buona massoneria, o l'immagine buona della massoneria, questo onestamente non lo sapremmo dire. Fatto sta che da una parte ci sono nobili parole, e nobili dichiarazioni di principio, antenati illustri e fulgidi esempi di rettitudine ed eroismo, passati, elenchi specchiati e specchiabili, oggi, dall'altra parte c'è tutt'altro. Ora, è vero che la massoneria italiana se l'è dovuta vedere, storicamente, non solo con sovrani e principi, reazionari e retrivi, ma anche con papi e cardinali, scaltri e disincantati, nonchè sanguinari (essendo pur vero, sempre storicamente, l'intreccio e il reciproco inquinamento tra le due chiese), ma quanto ancora e per quanto tempo dovrà pagare, questo nostro Paese, per colpe sicuramente non attribuibili al suo popolo?
Forse è proprio venuto il tempo che questo popolo conquisti il diritto a sapere. A sapere sulle sue sorti passate, e quindi sul suo torbido presente.
Come tutti i diritti, il diritto a sapere va però conquistato, sul campo della battaglia politica democratica. Ho sempre considerato la massoneria un mondo a me estraneo, spiega Roberto Galullo. Non per altro: in democrazia mi sembrano paradossali e buffi i vincoli di segretezza e fratellanza che talvolta degenerano in patti esclusivi per affari e prodigiose scalate al potere. Potere tout court da girare e rigirare tra “fratelli” in ogni settore, talvolta a scapito dei migliori. O degenerano in ben altro: ricordate lo scandalo P2? Di massoni sono pieni le banche, i partiti (tutti), il Parlamento, le assemblee elettive, i vertici ministeriali, la Rai, i media televisivi, i giornali e poi ci sono giudici, prefetti, professori universitari, avvocati, commercialisti, gli ordini professionali, le associazioni, le imprese, la sanità, il mondo dello spettacolo e tutto quanto fa classe sociale: esclusiva e spesso intoccabile. E la Chiesa? Beh, lasciamo perdere…Ora direte, cari amici di blog, perché ce ne parli proprio ora. Chissenefrega dei massoni te lo ha mai detto nessuno? E come no! Soprattutto i massoni che conosco ma che non sanno che io so…E si, perché la segretezza (che poi viene violata se a saperlo sono già in due e nelle logge due non sono mai) è sacra: perché poi? Se non c’è da vergognarsi escano allo scoperto… Come ho fatto io, quando esattamente 16 anni fa fui avvicinato da un conoscente, alto dirigente (ancora oggi) di un’importantissima associazione che mi voleva far conoscere le meraviglie della fratellanza. Io, che un fratello già ce l’ho, ed è un capitano dell’Esercito (a proposito, le Forze dell’Ordine sono zeppe di massoni) ho risposto picche. “Ma ti aiuta nella carriera” mi disse. E chissenefrega risposi. Punto e a capo (per fortuna sono stato apprezzato lo stesso e di questo ringrazio il mio attuale gruppo editoriale che, cambiando manager e direttori, non ha mai cambiato atteggiamento nei miei confronti). I motivi per cui ne scrivo ora sono tanti. Il mensile la “Voce delle Voci” della “Voce della Campania”, ha appena finito di (ri)pubblicare un elenco sterminato di oltre 26mila massoni iscritti alle logge ufficiali. Sarà forse per questo che il 3 dicembre il suo sito è stato devastato dagli hacker? Comunque le liste pubblicate mi sembrano – lo dico sinceramente – ampiamente incomplete e datate, forse datatissime: alcuni risultano ancora iscritti come impiegati della Sip. Chi di voi si ricorda cos è la Sip? Ve lo dico io: la vecchia compagnia telefonica di Stato, sì quella dei telefoni con il dito da infilare nei buchi per girare la ghiera e comporre i numeri. Ah, bei vecchi tempi andati. Bene, quella lista mi ha sorpreso non tanto perché vi ho ritrovato persone che conosco (e che, sarà un puro caso, hanno fatto carriera nelle loro professioni anche se secondo me avrebbero meritato di essere cancellate dalla vita lavorativa) ma soprattutto per le persone che “non” ho trovato, compreso quel mio conoscente che voleva farmi indossare un grembiulino (ma vi pare! un grembiulino, come alla scuola materna, suvvia!). Non saranno massoni allora, penserete voi. Beata ingenuità: mai sentito parlare di logge coperte? E veniamo a noi (non nel senso fascista del termine). La massoneria mai come adesso va di gran moda. Un successone “venerabile”. Per chi volesse fare due conti vi elenco una serie di episodi su cui riflettere. Alla fine le somme le tirerete voi. Partiamo da Sanremo, dove martedì 9 dicembre 2008 il Casinò ospiterà nei “martedì letterari” Licio Gelli, il Venerabile, che presenterà un libro sulla P2 (è un suo diritto, lo premetto, siamo in democrazia). “Dal 1983 – scrivo riportando testualmente quel che compare nel sito del Casinò - in oltre venti anni di vita i martedì letterari hanno ospitato più di mille scrittori di caratura nazionale e internazionale. Si è spaziato dai temi filosofici a quelli scientifici, da quelli religiosi agli argomenti storici”. Ecco, ora conosciamo i motivi dell’invito: la caratura nazionale e internazionale dello scrittore Gelli, accolto in un’elite di mille, non a caso come quelli di Giuseppe Garibaldi (Gran Maestro massone, ma altra epoca). Gelli – che scrive, compare in tv e richiama ancora oggi folle come un tempo, chissà perché - parla con tutti tranne che con i magistrati, come i pm della Dda di Palermo Roberto Scarpinato, Fernando Asaro e Paolo Guido che il 4 novembre sono partiti di Palermo e sono arrivati ad Arezzo (nella sua residenza Villa Wanda) per interrogarlo sull’intreccio tra Cosa Nostra e massoneria. Il Venerabile si è avvalso della facoltà di non rispondere. La gola e l’ugola, evidentemente, vanno preservate per le occasioni pubbliche. Ebbene – a parte qualche pasdaran ligure e alcune associazioni che lo aspetteranno al varco davanti al Casinò – pochissimi hanno notato l’appuntamento e lo hanno criticato (nel bene e nel male). Magari per chiedergli conto del perchè il Venerabile-scrittore non risponde ai magistrati. O meglio: il Pd imperiese ha stigmatizzato l’episodio ma il giorno in cui Gelli visiterà il Casinò per parlare alle folle, a Sanremo gli amministratori locali del Pd invece che darsi appuntamento davanti al Casinò saranno chiamati alle 21 presso il Centro Melograno (raccomandata la puntualità, come si legge sul sito del Pd di Imperia) a dibattere su un ordine del giorno che prevede la “problematica rifiuti” (manco fossero in Campania) e la conferenza programmatica provinciale. Vitale! Prima però, alle 18, tutti nella sede di Arma di Taggia per discutere del tesseramento. Impegnati! Quando la situazione stava scappando di mano a molti, il Consiglio Provinciale di Imperia nella seduta di martedì 25 novembre ha dato mandato al presidente Gianni Giuliano di esprimere al Presidente del Casinò di Sanremo, di cui la Provincia è azionista di minoranza, le perplessità del Consiglio sull'invito a Licio Gelli per i "martedì letterari". Il dibattito si è aperto in seguito ad una richiesta dei consiglieri Giovanni Trucco di Sinistra Democratica e Sergio Scibilia del Partito Democratico, alla quale hanno aderito gli altri consiglieri di minoranza. Gli altri: partiti, Chiesa e società civile, zitti e mosca. Ma forse è per questo che – secondo la classifica sulla felicità pubblicata dal mio giornale il 17 dicembre 2007 – gli imperiesi sono i più felici in Italia! Toda gioia toda beleza!
Da Imperia a Catanzaro c’è un bel viaggio (soprattutto da Salerno in avanti e non solo per l’autostrada) ma noi atterriamo subito in Calabria. Bene bene bene. Avete presente Luigi De Magistris, il magistrato a cui hanno avocato l’inchiesta sulla cupola affaristico-politico-mafiosa-massonica? Bene, quando lo intervistai oltre un anno fa a Catanzaro, mi disse una cosa che non scrissi per il quotidiano del quale sono inviato, il Sole-24 Ore, perché era un’accusa vaga. Ora non più e assume un altro sapore, che vi invito a gustare. “I massoni – mi confidò – nella Procura di Catanzaro e non solo, sono sopra, sotto, a destra e a sinistra”. Non fece nomi anche se lo invitai a farli – allora sì che sarebbe diventato interessante scriverlo - ma nisba. Certo che quel “sopra” a mio giudizio parla chiaro ma oltre non vado, lo lascio alla vostra immaginazione, così come si va forse corroborando da quello che sta accadendo in queste ore sull’“autostrada politico-mafioso-affaristico-massonico” Salerno-Catanzaro (strano, nessun magistrato della Procura di Catanzaro è presente nelle logge ufficiali i cui nomi sono stati pubblicati dalla “Voce delle Voci”). E ora andiamo alle dichiarazioni di due personaggi agli antipodi: il giudice Clementina Forleo e Angela Napoli. «Avevo capito – si legge nel libro-intervista a Forleo “Un giudice contro", appena editato da Aliberti e scritto da Antonio Massari - che il nervo scoperto non erano tanto le inchieste Why Not e Poseidone, quanto quella sulle Toghe Lucane, che apriva uno squarcio sui malanni del terzo potere dello Stato, il potere giudiziario. De Magistris, a mio avviso, a prescindere dai singoli indagati in Toghe Lucane, stava affondando le mani in un contesto ben preciso: le infiltrazioni nella masso-mafia meridionale, ed era incappato in magistrati che rivestivano ruoli direttivi (...)”. Chiaro? E ora veniamo all’onorevole Angela Napoli, fuggita da An e membro della Commissione parlamentare antimafia. In un’intervista rilasciata il 3 dicembre a Traiano Bertolini dell’”Opinione”, giornale diretto da Arturo Diaconale, si legge tra l’altro:
“Onorevole Napoli quale idea si è fatta della gestione politica nella sua regione?
«Lo scenario attuale e la materia delle inchieste in corso confermano la validità degli allarmi che ho lanciato a più riprese in merito al connubio esistente in Calabria tra mondo criminale, in particolare 'ndrangheta, mondo politico ed imprenditoriale. Non dobbiamo sottovalutare nel contempo anche l'importanza della massoneria deviata, che ha contribuito a confondere e ad insabbiare le attività illegali esistenti nella regione, rendendo difficile l'attività investigativa e il normale corso delle inchieste della magistratura.»
Perché fa riferimento alla massoneria deviata?
«La massoneria deviata è al vertice assoluto in Calabria. E' ormai comprovato che uomini delle principali cosche della 'ndrangheta, ripuliti ed in possesso di un titolo di studio, i cosiddetti colletti bianchi, si sono infiltrati nella massoneria e le inchieste, come "Why not", seppur frammentate in diversi filoni ed in diverse procure, stanno facendo emergere un sistema di collusioni e di malaffare, che è alla base del mancato sviluppo della regione»”.
Ora è chiaro l’incrocio tra massoneria (deviata, per carità, ed è sacrosanto riconoscerlo) e quello che sta accadendo in tutta Italia, a partire dalla Calabria? No, e allora proviamo a fare un altro ragionamento sui fratelli massoni calabresi. Sapete chi c’è nell’elenco degli iscritti calabresi alla massoneria così come riportato dalla “Voce delle Voci”? Vittorio Zupo. E chi è? direte voi. Calma: è un commercialista cosentino, bocciato nel ’94 alle elezioni politiche per il Senato dove si presentava nel centro-destra, che cura gli affari di una grande fetta del mondo imprenditoriale calabrese. E che, insieme a F.I., altro commercialista (quest’ultimo indagato proprio nell’inchiesta Why Not ma poi la sua posizione è stata archiviata nel corso delle indagini preliminari a distanza di circa due anni) e Vincenzo Gatto (fratello di Tonino Gatto, presidente della Despar, da una vita sotto i riflettori dei magistrati antimafia), l’11 agosto ‘99 figurava nel cda di G.H.N. S.A., Soci.t. Anonyme. Siege social: L-2449 Luxembourg, 26, boulevard Royal. R. C. Luxembourg B 54.579, società anomima lussemburghese. Per carità, questo non vuol dire nulla, non è un reato (anche se su molte cose la magistratura continua a indagare). A me – semplicemente - tutto ciò che suona di segretezza, fratellanza, anonimato, mi suona strano ed estraneo. Chissà perché poi, ci trovo radici comuni che non sono e non saranno mai le mie.
Le inchieste "Why Not", "Poseidone" e "Toghe Lucane", dovevano essere fermate ad ogni costo, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. I personaggi a vario titolo coinvolti, erano "eccellenti" e "potenti". C'erano politici, massoni, magistrati, imprenditori in odor di mafia e tanto altro. E su tutto questo ci fu anche il "silenzio" del presidente della Repubblica Napolitano, "nonostante avessi pubblicamente auspicato un suo intervento". Queste le accuse che il pm Luigi De Magistris, titolare di quelle inchieste ha consegnato ai colleghi di Salerno in numerosi interrogatori. "Le indagini "Why Not" - racconta De Magistris ai magistrati di Salerno - stavano ricostruendo l'influenza dei poteri occulti. In particolare si stavano ricostruendo i contatti intrattenuti da Giancarlo Elia Valori, Luigi Bisignani, Franco Bonferroni ed altri e la loro influenza sul mondo bancario ed economico finanziario. Elia Valori pareva risultate, dagli accertamenti preliminari che stavamo svolgendo con la massima riservatezza, ai vertici della massoneria "contemporanea". Elia Valori si è occupato spesso di lavori pubblici. Nel recente passato, agli inizi del 2000 ha trovato anche una sponda rilevante a sinistra, all'interno del governo D'Alema, in Marco Minniti. E si era anche interessato di telefonia, - settore in cui, come poi dirò, si è interessato anche il professor Francesco Delli Priscoli, figlio del pg della Cassazione Mario (che aveva promosso l'azione disciplinare nei confronti di De Magistris ndr). Non posso però non tenere conto dei seguenti elementi, pur se non si volesse mettere in discussione onestà e serenità di giudizio delle persone elencate: sul vice presidente del Csm, Nicola Mancino (che presiede la sezione disciplinare che dovrà giudicarmi) che ha già fatto intendere in una intervista che avrei violato il codice etico della magistratura, del consigliere togato, Fabio Roja, del giudice Luerti attuale presidente dell'Anm che ha stretti rapporti con la Compagnia delle Opere".
MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?
Magistrati e avvocati massoni? Dalle intercettazioni pare proprio di sì. Quei magistrati che il Gip di Salerno lascia al loro posto, scrive Franco Venerabile su “L’Indipendente Lucano”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. "La 'ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari", la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de "l'ingranaggio" a disposizione della 'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?
LA ZONA GRIGIA. QUANDO LA MAFIA VIEN DALL’ALTO. Il giudice (ora sospeso dal Csm) Vincenzo Giuseppe Giglio è stato condannato a 4 anni e 7 mesi di carcere nel processo milanese sulla cosiddetta «zona grigia» della 'ndrangheta. Disposta anche l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Insieme a lui è stato condannato a 8 anni e 4 mesi, con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, il consigliere regionale calabrese del Pdl Francesco Morelli. Sia il consigliere Morelli che il giudice Giglio, all'epoca presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, erano stati arrestati nel novembre 2011 nell'operazione della Dda di Milano coordinata da Ilda Boccassini contro la cosca Valle-Lampada infiltrata in Lombardia anche grazie ad appoggi nella cosiddetta «zona grigia». Morelli era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione, mentre Giglio rispondeva di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravato dalla presunta agevolazione del clan. Se poco tempo prima era stata colpita l'ala militare della 'ndrangheta in Lombardia con una raffica di ergastoli, ben 15, è arrivata un'altra dura sentenza del tribunale di Milano e stavolta contro la cosiddetta 'zona grigia': sono stati condannati un giudice, un politico e un finanziere che, secondo l'accusa, avrebbero favorito, ognuno nella propria attività istituzionale, la cosca dei Valle-Lampada. Un verdetto che però ha scatenato anche l'accesa reazione dei difensori di alcuni presunti affiliati: "Abbiamo la sensazione - hanno spiegato ai cronisti - che qua ci sia ormai un clima di caccia allo 'ndranghetista. La notizia è riportata da “La Repubblica”. I giudici dell'ottava sezione penale di Milano (presidente del collegio Luisa Ponti) hanno accolto l'impianto accusatorio del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del pm Paolo Storari e hanno condannato a quattro anni e sette mesi di carcere l'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio. Il magistrato, accusato di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato la cosca mafiosa, era stato arrestato nel novembre del 2011 (e poi sospeso dal Csm), assieme, fra gli altri, al consigliere regionale calabrese del Pdl Franco Morelli. Il politico, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio, è stato condannato a otto anni e quattro mesi e a due anni di libertà vigilata. Oltre all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici (interdizione che per Giglio è stata disposta invece per cinque anni). La pena più alta, 16 anni, è stata inflitta a Giulio Lampada, presunto boss dell'omonima cosca ("non è mai esistito quel clan, non ce ne è traccia negli atti", hanno sostenuto gli avvocati Ivano Chiesa e Manlio Morcella), mentre l'ex maresciallo della guardia di finanza Luigi Mongelli - accusato di aver preso mazzette per aver chiuso un occhio nei controlli alle macchinette videopoker e slot machine gestite da Lampada - è stato condannato a cinque anni e tre mesi. Altri tre finanzieri sono stati assolti, invece, e altri cinque imputati sono stati condannati. All'epoca degli arresti il gip Giuseppe Gennari l'aveva definita nell'ordinanza una "vera e propria ragnatela di relazioni inestricabili e connesse" in cui "tutti prendono e danno qualcosa: il giudice Giglio ci guadagna il posto per la moglie, Morelli il sostegno politico e gli affari comuni con i Lampada, Giusti viaggi e donnine". Un altro magistrato, Giancarlo Giusti, ex gip del tribunale di Palmi, è stato condannato a quattro anni lo scorso settembre 2012 in abbreviato. E i Lampada, sempre secondo il gip, ottengono "le notizie sulle indagini che li riguardano e l'allargamento delle loro conoscenze politiche e istituzionali". In poche parole, una "zona grigia - la definì lo stesso giudice - che poi gli associati sfruttano". Secondo le indagini, inoltre, il magistrato Giglio si sarebbe rivolto al consigliere Morelli per far ottenere a sua moglie la nomina a commissario della Asl di Vibo Valentia e Morelli avrebbe invece chiesto e ottenuto dal giudice notizie riservate su indagini. Entrambi poi erano in rapporti con Giulio Lampada: quest'ultimo in un'intercettazione esultava anche per essere riuscito a incontrare il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in una manifestazione elettorale a Roma. Tanto che il 'primo cittadino' è stato anche ascoltato come testimone nel processo. Un risarcimento di un milione 400mila euro, infine, è stato riconosciuto al Comune di Milano, parte civile per i danni causati dalla presenza della 'ndrangheta.
Giulio Lampada: "Mi ha rovinato la politica" "La sorella di Alemanno contattò la cosca". Il pm: "Così la sorella di Alemanno contattò la cosca della 'ndrangheta. La requisitoria del pm Storari nel processo milanese che ha al centro la cosca dei Valle-Lampada, riportata da “La Repubblica”. La sorella del sindaco era all'epoca un dirigente dei Monopoli. E il fratello fu ascoltato come teste. Gabriella Alemanno, sorella del sindaco di Roma, Gianni, avrebbe fatto contattare dalla sua segretaria il presunto boss della 'ndrangheta Giulio Lampada per favorire un incontro fra quest'ultimo e un funzionario dei Monopoli di Stato. Lo ha spiegato Paolo Storari, pm della Dda di Milano, in uno dei passaggi della requisitoria nel processo che ha al centro la cosca dei Valle-Lampada e la cosiddetta 'zona grigia' della mafia calabrese, che ha fra gli imputati anche il consigliere regionale calabrese Franco Morelli e il giudice Vincenzo Giuseppe Giglio. Il pm ha chiesto 12 condanne. In particolare, nove anni di reclusione per il consigliere regionale calabrese Franco Morelli e sei anni di carcere per il magistrato (poi sospeso dal Csm) Vincenzo Giuseppe Giglio, accusato di aver favorito le attività della cosca. Chiesti inoltre 15 anni per Giulio Lampada. Parlando di Giulio Lampada come di un "corruttore abituato a monetizzare i problemi e i rapporti con rappresentanti delle istituzioni", il pm ha citato fra gli altri anche un episodio riferito da un funzionario dei Monopoli di Stato, sentito come teste nel processo. Il magistrato ha spiegato che Giulio Lampada, attivo nel settore delle slot machine e dei videopoker, avrebbe ricevuto "una telefonata dalla segretaria della sorella di Alemanno" (all'epoca dirigente dei Monopoli di Stato), volta, in sostanza, a favorire un incontro tra lui e il funzionario. Secondo il pm, in quell'incontro ci sarebbe stata una "velata ipotesi di proposta corruttiva che non si attuò". Il pm ha anche ricordato una dichiarazione del magistrato Giancarlo Giusti (condannato a quattro anni per corruzione aggravata): aveva messo a verbale che i Lampada "cercavano di ungere a destra e a sinistra con i politici per cercare di entrare in contatto coi Monopoli di Stato". Nel processo, lo scorso ottobre, era stato ascoltato come teste anche Gianni Alemanno. Giulio Lampada, infatti, in un'intercettazione agli atti esultava per essere riuscito a incontrare a Roma nel 2008 l'attuale primo cittadino, all'epoca ministro delle Politiche agricole. I fratelli Lampada, Giulio e Francesco - aveva però chiarito il sindaco - "non li conosco personalmente e sembrerebbe che me li abbiano presentati in un incontro elettorale a Roma, al Cafè de Paris, dove c'erano 300 persone e che fu organizzato da Morelli".
SUD? NO GRAZIE! LA LOMBARDIA DEGLI ONESTI…CHI? MA MI FACCIA IL PIACERE!!!!!!!
Lombardia: ecco le spese folli dei consiglieri dell'opposizione. Assieme alla Nutella (che impazza su Twitter) anche posteggi privati, taxi, bollette telefoniche, pranzi al sushi bar e servizi fotografici, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Il Pirellone trema ancora. E questa volta per le spese folli di 29 consiglieri dell’opposizione accusati di peculato. Nutella, viaggi, bollette di casa, abbonamenti a tram, metropolitane e treni. Sono finiti nei guai i politici di Sel, Udc, Pd che non hanno resistito ad utilizzare i soldi pubblici per spese ritenute private. Tra questi ci sono anche i capigruppo Luca Gaffuri (Pd), Stefano Zamponi (Idv), Chiara Cremonesi (Sel), Elisabetta Fatuzzo (Pensionati), Gianmarco Quadrini (Udc) e anche il “rottamatore” Giuseppe Civati. Ma come avrebbero speso, secondo la magistratura, i soldi dei contribuenti? Il giovane Giuseppe “rottamatore” Civati, avrebbe utilizzato tra il 2008 e il 2012 una somma complessiva di 3145 euro e 99 centesimi. Tra le “spese estranee all’espletamento del mandato” spuntano moltissime corse di taxi, ticket di posteggi a pagamento, biglietti ferroviari, pernottamenti in hotel e anche decine di francobolli. 10 mila euro, invece, sono quelli spesi dal gruppo del Pd solamente nello scorso anno: catering, coffee break e consumazioni bar. Tra le ricevute da rimborsare con i soldi pubblici: pranzi: da 173 euro; hotel: pernottamenti a partire da 193 euro; servizi fotografici:a partire da 500 euro fino ad arrivare a 9.360 euro. Tra questi quello commissionato dal consigliere Carlo Borghetti (non figura tra gli indagati) per il suo libro ”I miei primi 2 anni in consiglio regionale”. Poi ci sono anche i 2.670 euro spesi da Carlo Spreafico per pubblicare ”Tramonto celeste, alba democratica”. Sushi bar: 250 euro spesi da Sel. Trattoria: 350 euro spesi dall’Idv. Ma la tra le spesi “folli” evidenziate dalla magistratura anche un barattolo di Nutella: da 2 euro e 70 centesimi il cui acquisto viene contestato sempre a Carlo Spreafico. Proprio lui che assieme alla vice presidente del consiglio regionale Sara Valmaggi (entrambi indagati nel novembre del 2011) aveva deciso di rinunciare sia all’auto di servizio proprio per limitare le spese. Ma Spreafico, secondo la magistratura avrebbe fatto pagare ai cittadini anche la sua l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nel 2008: 101 euro. Tra le altre spese “sospette” anche 160 euro da Rinaldi Gomme (giugno del 2008) e presso la Cartolibreria dello studente: 126 e 66 euro. Poi ci sono i consiglieri di Sel che oltre ai 250 euro spesi al sushi bar avrebbero sperperato in due anni , tra il 2010 e il 2012, 11.482, 70 euro. Quali sono le voci di spesa contestate dai pm? Biglietti ferroviari, rifornimenti di benzina, cappuccini e brioche, focacce e spremute, e persino un master dal titolo ‘Vincere le elezioni’ a 59 euro. Non solo. Una pianta floreale: da 30 euro. Sito e manifesti “Lega Ladrona” e “Formigoni go home”: 6.534 euro. Con i soldi dei rimborsi regionali, secondo la Procura, il consigliere Francesco Prina (Pd) avrebbe pagato anche bollette di Enel e Telecom. Tra queste una da 115 euro e 50 centesimi. Inoltre hanno ricevuto invito a comparire davanti ai pm anche Alessandro Alfieri (Pd), Angelo Costanzo (Pd), Enrico Marcora (Udc), Franco Mirabelli (Pd), Carlo Porcari (Pd), Francesco Prina (Pd) e Antonio Viotto (Pd).
La valanga sulle presunte spese pazze con soldi pubblici non si arresta e travolge altri 37 consiglieri (o ex) del Pirellone, accusati anch'essi di peculato, scrive “La Repubblica”. Il pallottoliere degli esponenti politici indagati per aver ottenuto rimborsi illeciti va dunque aggiornato e tocca così quota 62 indagati, tra cui anche il vicepresidente del Senato, Rosi Mauro, il cui nome era già emerso nelle carte dell'indagine sui fondi della Lega (e mai formalmente indagata). Ora, in pratica, l'inchiesta sui presunti rimborsi illegali coinvolge quasi tutti (tranne quattro) gli eletti di Pdl e Lega nel consiglio regionale lombardo nel 2005 e nel 2010. Dopo gli inviti a comparire notificati a 22 indagati (11 esponenti del Pdl e 11 del Carroccio), tra cui i capigruppo dei due partiti di maggioranza, Paolo Valentini e Stefano Galli, e anche Nicole Minetti, si è saputo che nell'inchiesta ci sono altri 37 indagati (22 del Pdl e 15 della Lega). E fra loro c'è anche Renzo Bossi, la cui accusa per peculato però era già emersa, quando si era saputo che il figlio di Umberto avrebbe speso parte dei soldi del gruppo consiliare in videogiochi, sigarette e lattine di Red Bull. Ai 59 destinatari complessivi di inviti a comparire vanno aggiunti poi i tre nomi già saltati fuori ad ottobre 2012, quando i finanzieri andarono al Pirellone a prendere i rendiconti dei gruppi di Pdl e Lega: Davide Boni, Massimo Buscemi e Franco Nicoli Cristiani. Quest'ultimo, però, è indagato per peculato in qualità di ex assessore e non di consigliere. E' quindi uno dei quattro consiglieri dei due partiti di maggioranza, eletti nel 2005 o nel 2010, non indagati. Fra gli altri non indagati figurano l'ex ministro Mariastella Gelmini (eletta nel 2005 e nel 2006 entrata in parlamento), Viviana Beccalossi de Enzo Lucchini, diventato poi presidente dell'Arpa. Lucchini, da quanto si è appreso, avrebbe speso solo 5 euro per una raccomandata. Dal lungo elenco di uscite contestate nella prima tornata di inviti a comparire, firmati dal procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Antonio D'Alessio, invece, era venuto fuori di tutto: dai lecca-lecca ai gratta e vinci, dai coni gelato ai cioccolatini, dalle cene da oltre mille euro ai prodotti hi-tech per migliaia di euro fino ai cd musicali e al cappuccino e alla brioche, rigorosamente rimborsati, secondo i pm, con i soldi destinati ai gruppi consiliari per le attività istituzionali. Molti dei consiglieri hanno disertato le convocazioni in Procura: in particolare quelli del Carroccio. E chi è andato, come il capogruppo Valentini, ha parlato di cene "tutte istituzionali". Da quanto si è saputo, però, alcuni consiglieri avrebbero riempito i verbali di "non so" e "non ricordo". Così avrebbe fatto Angelo Giammario (Pdl). I pm gli contestano 114mila euro di spese tra il 2008 e il 2012 e nell'interrogatorio, fra le altre cose, gli avrebbero chiesto conto anche di "800 inviti" per una "cena di Natale" da 201 euro. E il consigliere non avrebbe saputo indicare a quale evento da 800 persone si riferisse quella spesa per messaggi d'invito. Gli uomini del nucleo di polizia tributaria sono entrati al Pirellone anche per prendere i documenti sui rimborsi dei gruppi d'opposizione: ora li stanno analizzando per andare a verificare eventuali irregolarità con lo stesso sistema adottato per quelli di maggioranza. "E così oggi, primo giorno ufficiale di campagna elettorale, sappiamo finalmente dove sta di casa la corruzione in Lombardia. Sta tutta e solo nei consiglieri del Pdl e della Lega: 62 indagati su 62 fra consiglieri ed ex consiglieri", scrive in una nota il governatore Roberto Formigoni. "E sappiamo anche che i consiglieri dell'opposizione, che hanno vissuto in questi anni con gli stessi regolamenti e le stesse leggi e hanno avuto gli stessi rimborsi, sono invece tutti innocenti", prosegue Formigoni. "Mi chiedo cosa aspettino i compagni dell'opposizione a fare un gesto di minima responsabilità, cosa aspettino ad autodenunciarsi. A chi pensano di raccontare che i loro scontrini sono diversi da quelli della maggioranza?", si legge nella nota. "Ovviamente confermo quanto già detto più volte in questi giorni: chi realmente ha fatto un uso scorretto del denaro pubblico deve essere punito ed escluso dalla candidatura. Ma va anche fatta chiarezza su tutte le persone implicate e non solo su quelle della maggioranza", conclude il governatore. Dai ristoranti alle sigarette e ai cioccolatini, ma anche cappuccini, ristoranti di lusso o munizioni per la caccia: queste alcune delle "spese di rappresentanza istituzionale" di consiglieri del Pdl e della Lega nel mirino della GdF milanese, che ha iniziato i controlli anche sull'opposizione: Pd, Sel, Idv e Udc e Pensionati. Coi soldi pubblici dei rimborsi ottenuti al 'Pirellone', Nicole Minetti ha comprato anche il libro 'Mignottocrazia' di Paolo Guzzanti, pagato 16 euro, lo riporta “La Repubblica” e lo scrive il Pm negli atti d'indagine. Minetti (convocata dai pm di Milano il 19 dicembre 2012), insieme a un'altra quarantina di consiglieri Pdl e Lega è indagata per peculato nell'inchiesta sui costi della politica alla Regione Lombardia. Note spese sotto inchiesta. Che mascherate da "spese di rappresentanza istituzionale" nascondono ricevute del McDonald's in cui viene indicato il menù baby (quindi i consiglieri accompagnati anche da bambini), scontrini di videogiochi e degustazioni di vini. Alcuni avrebbero presentato perfino ricevute di serate in cui offrivano la cena a 20-30 amici. In altri casi i rimborsi riguardavano le pizze da asporto alla domenica sera. Tutte queste spese riguardavano sempre singoli consiglieri e non i gruppi consiliari e venivano rimborsate presentando gli scontrini a chi si occupa di gestire l'amministrazione del gruppo in Regione.
Numerosi acquisti di videogiochi, sigarette e bibite, in particolare 'Red Bull' sono invece alcune delle spese che l'ex consigliere lombardo Renzo Bossi, anche tra gli indagati per peculato, avrebbe effettuato coi soldi del gruppo consiliare della Lega Nord. Un consigliere poi avrebbe comprato coi rimborsi regionali il pane, mentre l'esponente leghista Cesare Bossetti avrebbe speso, nel 2011, quasi 15 mila euro per comprare dolci in pasticceria e fare colazione con brioche e caffè. Al consigliere del Pdl Angelo Giammario, invece, viene contestato di aver usato per fini personali oltre 27 mila euro di soldi pubblici, in particolare per noleggiare auto e taxi. Undici al momento i consiglieri del Pdl e altrettanti della Lega ad aver già ricevuto un avviso di garanzia. Gli undici leghisti sono: Cesare Bossetti, Fabrizio Cecchetti (attuale presidente del consiglio regionale), Angelo Ciocca, Stefano Galli, Alessandro Marelli, Ennio Moretti, Massimilano Orsatti, Ugo Parolo, Roberto Pedretti, Luciana Ruffinelli, Pierluigi Toscani. Questi gli indagati nelle file del Pdl: Giovanni Bordoni, Giulio Boscagli, Alessandro Colucci, Giuseppe Gianmario, Antonella Maiolo, Marcello Raimondi, Nicole Minetti, Gianluca Rinaldin, Carlo Saffiotti, Paolo Valentini e Sante Zuffada. Il consigliere Pierluigi Toscani ha comprato, tra le altre cose, lecca lecca e gratta e vinci. Nella sua 'lista della spesa' ci sono anche cartucce usate per la caccia comprate presso l'azienda Muninord per 752 euro, e poi "cono medio e coppetta media di gelato", "lemonsoda, pizzette, cannoli, ciambelle, torta sbrisolona, zucchero semolato, farina, salsicce, cracker e biscotti, frutta e ortaggi". E anche, per la somma di 127 euro, ostriche. Il leghista Alessandro Marelli fuochi d'artificio da un rivenditore cinese, almeno sei computer, ma anche ovetti Kinder. Altri del Pdl e della Lega avrebbero speso ciascuno oltre 100 mila euro di soldi pubblici non per spese di rappresentanza istituzionale. Complessivamente tra il 2008 e il 2012 le spese nel mirino dei pubblici ministeri sono nell'ordine di diversi milioni di euro. "Batman non c'e' in Lombardia", ha detto convinto il presidente della Regione Roberto Formigoni riferendosi quindi, pur senza mai nominarlo, anche al "caso" di Francesco Fiorito ex capogruppo Pdl nel Lazio. "In Lombardia le regole sono molto chiare, nette e del tutto diverse da quelle vigenti in altre Regioni. Credo proprio che i nostri gruppi - ha concluso - le abbiano rispettate fino in fondo". L'inchiesta sui costi della politica lombarda si allarga. E dopo aver acquisito i rendiconti 2008-2010 relativi ai rimborsi garantiti ai gruppi consiliari del Pdl e della Lega, i finanzieri del nucleo di polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano hanno notificato un ordine di esibizione ai gruppi dell'opposizione. L'ordine è stato presentato anche nell'ufficio della presidenza del consiglio. I finanzieri vogliono, in sostanza, acquisire la 'lista della spesa' rimborsata a Pd, Sel, Idv, Pensionati e Udc e altri gruppi di minoranza. La richiesta di acquisizione di documenti non riguarda solo i gruppi consiliari ma anche la Giunta e la presidenza della Regione Lombardia. La richiesta riguarda la documentazione amministrativa e contabile delle diverse Direzioni per "spese aventi ad oggetto attività di comunicazione, rappresentanza collaborazioni/consulenze o comunque dichiarate utili per l'attività degli uffici". Le indagini sono partite da ottobre 2012 da quella sul leghista Davide Boni (ex presidente del consiglio regionale lombardo accusato di corruzione) e sull'ex assessore del Pdl Franco Nicoli Cristiani, arrestato un anno fa per una mazzetta da centomila euro trovata nella sua abitazione. Con l'ipotesi di reato di peculato, in Lombardia Paolo Valentini e Stefano Galli, capigruppo in Regione Lombardia rispettivamente del Pdl e della Lega Nord, sono indagati nell'inchiesta della procura di Milano - coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo -, che vede coinvolti una quarantina di consiglieri lombardi. Tutti si sarebbero fatti rimborsare con i soldi pubblici anche cocktail o il cappuccino e brioche del mattino, e ristoranti di lusso milanesi, come "al Riccione", specializzato in pesce e uno dei prediletti dai politici.
"Non ho ricevuto nulla", ha detto il capogruppo della Lega in Regione Lombardia Stefano Galli. "Non riusciamo a capire il motivo, se non che è iniziata la campagna elettorale", ha aggiunto.
“Il Corriere della Sera” scrive: ci sono altri 37 indagati per peculato nell'inchiesta condotta dalla procura di Milano sui rimborsi regionali. Sono tutti consiglieri o ex consiglieri della Lega e del Pdl, della Regione Lombardia e si vanno ad aggiungere ai 22 che avevano ricevuto un invito a comparire. Il numero dei consiglieri indagati raggiunge così quota 62. Ventidue consiglieri sono del Pdl e quindici della Lega Nord: tra questi c'è anche la leghista Rosi Mauro, attuale vice presidente del Senato, eletta al Pirellone nel 2005 e rimasta fino al 2008 per «trasferirsi» a Palazzo Madama. E Renzo Bossi, figlio di Umberto. Nel mirino i presunti rimborsi illeciti con soldi pubblici a fronte di spese ritenute sospette: soldi che avrebbero ottenuto, a vario titolo, tra il 2008 e il 2012. Gli investigatori stanno analizzando anche le spese dei gruppi dell'opposizione. Sono soltanto quattro i consiglieri regionali lombardi eletti al Pirellone nel 2005 e nel 2010, quindi nelle ultime due legislature, che non sono indagati nell'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto, Alfredo Robledo sui «costi della politica».
Sono Franco Nicoli Cristiani (comunque indagato per peculato nella veste che ha ricoperto di assessore regionale, prima di essere arrestato per corruzione), Viviana Beccalossi, Maria Stella Gelmini ed Enzo Lucchini. «Leggo che il numero dei consiglieri indagati sale a 62 - ha affermato il capogruppo del Pdl in Regione Lombardia Paolo Valentini -. Colleghi dell’opposizione, il destino mi sembra ormai ineludibile: chiunque abbia richiesto anche solo un euro di rimborso in Regione Lombardia negli ultimi 5 anni, verrà indagato. Rinnovo pertanto l’invito a rispettare la "par condicio" e a rendere pubblici, prima delle elezioni, gli scontrini che vi riguardano e non soltanto i dati aggregati e anonimi che troviamo sui vostri siti».
Anche il governatore uscente, Roberto Formigoni, si chiede «cosa aspettino i compagni dell'opposizione a fare un gesto di minima responsabilità, cosa aspettino ad autodenunciarsi. A chi pensano di raccontare che i loro scontrini sono diversi da quelli della maggioranza?». Lievita lentamente, ma inesorabilmente, giorno dopo giorno, il numero dei consiglieri regionali lombardi indagati per peculato nell'inchiesta sui rimborsi spesa facili e allegri e come una colata di fango travolge e ricopre i gruppi di Pdl e Lega, scrive Giuseppe Guastella sempre su “Il Corriere della Sera”. Ora siamo a quota 62, 35 dei quali appartengono al Pdl e 27 alla Lega, ma la scalata dei pm non è ancora finita perché, dopo la maggioranza presto sarà la volta dei partiti dell'opposizione. L'indagine è nata mesi fa parallelamente all'arresto dell'assessore pdl Franco Nicoli Cristiani finito nei guai per una tangente di 100.000 euro legata all'autorizzazione di una discarica. Vennero fuori pagamenti in ristoranti rimborsati dalla Regione che riguardavano anche l'ex presidente del consiglio regionale Davide Boni (Lega) e l'ex assessore Massimo Buscemi (Pdl). Analizzati i loro rimborsi spese, i nomi di Nicoli Cristiani, Boni e Buscemi aprirono il nuovo fascicolo.
Sono mesi che la Guardia di finanza di Milano scartabella migliaia e migliaia di ricevute fiscali, scontrini di bar e fatture per oltre tre milioni di euro relativi agli acquisti più impensati consegnati dal 2008 ad oggi dai consiglieri della maggioranza per ottenere i rimborsi per spese che, hanno dichiarato formalmente agli uffici, sarebbero state fatte «nell'espletamento del mandato», ma che la Procura, invece, ritiene in molti casi totalmente ingiustificate ed illegali. Dopo un primo esame certosino, le Fiamme gialle hanno notificato 22 inviti a comparire per peculato ad altrettanti consiglieri regionali, una metà della Lega e l'altra del Pdl, tra i quali i capigruppo dei due partiti di maggioranza, Paolo Valentini e Stefano Galli. I militari hanno finito il lavoro e i pm hanno indagato altre 37 consiglieri, 22 del Pdl e 15 della Lega che, come tutti gli altri che occupano i seggi dell'aula consiliare del Pirellone, accumulavano gli scontrini per ottenere fino a 1.500 euro al mese.
Quello che per molte persone è uno stipendio medio, per i consiglieri regionali è una voce di entrata che si somma al già lauto stipendio che mediamente viaggia intorno ai 9.000 euro netti, ai quali si aggiungono l'indennità di 1.500 euro per il portaborse e altri benefit. I risultati sono sempre gli stessi: i pranzi, le cene e le notti in albergo la fanno da padrone, così come le spese di viaggio in taxi o per il carburante delle auto private. Ma ci sono anche le solite uscite che con il mandato amministrativo sembrano avere poco a che fare, come ad esempio la «salsiccia di Norimberga» messa in nota da leghista Pierluigi Toscani o il «Mon chéri» da un euro e 70 della compagna di partito Luciana Ruffinelli emersi nel primo troncone dell'inchiesta. Tra i nuovi indagati figurano la vice presidente del Senato Rosi Mauro, che è stata consigliera regionale lombarda per il Carroccio nella precedente legislatura, il cui nome è comparso (ma non è indagata) anche nell'inchiesta sui rimborsi elettorali della Lega nazionale condotta a Milano dagli stessi magistrati che ha travolto il partito favorendo l'ascesa alla segreteria di Roberto Maroni. «Non mi lascio intimidire, anzi continuerò, combattiva come sempre, a fare politica», dichiara la Mauro.
Nell'elenco compare anche Renzo Bossi che, con i soldi destinati all'attività di promozione dell'istituzione consiliare, avrebbe comprato anche videogiochi, sigarette e lattine di «Red Bull». Il figlio del fondatore Umberto Bossi è indagato con il padre anche per i rimborsi «nazionali». Della settantina di consiglieri che nelle due legislature tra il 2008 e il 2012 (il periodo precedente sarà presto coperto dalla prescrizione) si sono avvicendati al Pirellone non tutti sono indagati. La ex An e poi Pdl Viviana Beccalossi non ha presentato richieste di rimborsi forse perché nel 2008 è diventata parlamentare. Così come ha fatto Mariastella Gelmini, ex ministro dell'Istruzione, trasferitasi a Montecitorio anche lei nel 2008. Non è indagato neppure il pidiellino Enzo Lucchini, che ha chiesto il rimborso di una sola raccomandata da 5 euro. Lucchini ha fatto parte del consiglio di presidenza le cui uscite non finiranno sotto la lente degli investigatori agli inizi del nuovo anno quando la Gdf comincerà ad esaminare anche le carte di Pd, Idv, Sel, Udc, Gruppo misto e Pensionati. I risultati arriveranno prima delle elezioni, assicurano al quarto piano Palazzo di giustizia.
Mentre sono indagati altri 37 tra ex consiglieri e consiglieri del Pirellone sulle "spese pazze", è in corso una polemica tra Pd e Pdl sui rimborsi ai gruppi consiliari del Pirellone, dopo lo scandalo che ha portato a 40 indagati tra Pdl e Lega Nord con l'accusa di avere utilizzato per spese personali i rimborsi stessi, scrive “Milano Today”. Luca Gaffuri, capogruppo del Partito democratico, afferma in questi giorni più volte che il suo partito è totalmente trasparente, avendo sempre pubblicato e aggiornato online le spese, nel sito web del gruppo regionale del Pd. Paolo Valentini, capogruppo del Pdl, gli risponde seccamente: "I dati sono generici e anonimi".
Effettivamente si è saputo l'ammontare esatto delle spese dei singoli consiglieri del Pdl e del Carroccio e anche le ragioni (ad esempio le "famose" nozze della figlia del capogruppo leghista Stefano Galli, o l'acquisto di "Mignottocrazia" in libreria da parte di Nicole Minetti). I dati pubblicati online dal Pd invece sono senza dettaglio e senza nome del consigliere che ne ha effettivamente usufruito. "Il Pd non si sottragga a un confronto mediatico sulle spese", conclude Valentini, "visto la richiesta di coerenza e trasparenza" avanzata da Umberto Ambrosoli, recentemente indicato dalle primarie come candidato governatore del centrosinistra. Alla voce "telefono-posta" ecco gli ultimi rimborsi pubblicati sul sito del gruppo regionale del Partito democratico. Si va dalla fattura per la telefonia fissa relativa a febbraio-agosto 2012 (1.240 euro) a vari acquisti di credito Skype (tutti per 11,50 euro).
L'ultimo dato visibile, del 30 ottobre, è un generico pagamento di fatture per circa 350 euro. Alla voce "rappresentanza", che comprende spese di alloggio, trasporti e altre, si trovano "consumazioni al bar settembre 2012" (per quasi 250 euro), un generico "viaggi" riferito al 30 settembre (795 euro), vari pranzi (con cifre variabili: nel mese di ottobre per 25 euro, 38 euro e 260 euro), spese di carta di credito (a ottobre: 291 euro), poi 1.600 euro di acconto (50%) per un corso di formazione, oltre a vari rimborsi di spese di trasporto e di alloggio. Alla voce "consiglieri" troviamo generici pernottamenti (ad esempio un "pernottamento più taxi" di 148 euro datato 23 ottobre), una ricarica di cellulare (155 euro), spese per il libro "I miei primi 2 anni in consiglio regionale" (9.360 euro) e per il libro "Tramonto celeste, alba democratica" di Carlo Spreafico (2.607 euro), consulenze marzo-ottobre 2012 (7.500 euro), materiale per videocamera (194 euro), solo per citare alcuni tra i più recenti.
Ma lo scandalo dei rimborsi alla Regione non è tutto. Il direttore generale Sanità della Lombardia Carlo Lucchina risulta indagato, con altri, nell'indagine sulle convenzioni concesse dalla Regione ad alcune cliniche private, scrive “Il Corriere della Sera”. Tra gli indagati anche Antonio Tomassini (Pdl), presidente della Commissione Sanità del Senato. La Guardia ha effettuato una serie di perquisizioni nell'abitazione di Lucchina e negli uffici della Regione Lombardia. I reati ipotizzati nei confronti dei diversi indagati sono, a vario titolo, concussione e corruzione. Perquisite anche le sedi di alcune cliniche convenzionate in provincia di Varese: secondo i pm, avrebbero versato tangenti per ottenere convenzioni con la Regione Lombardia per l'attività sanitaria. Le indagini hanno preso le mosse dal dissesto del gruppo dei fratelli Polita, imprenditori varesini della sanità. Il pm Agostino Abate (titolare dell'inchiesta che ha portato ai provvedimenti di martedì) già si occupava dell'indagine sul fallimento di alcune società dei Polita, in particolare della vicenda dell'acquisto della clinica privata «La Quiete». L'ultima società dei Polita dichiarata fallita è l'Ansafin, proprietaria di un albergo costruito prima dei mondiali di ciclismo, di un capannone industriale a Induno Olona e degli immobili dove si trova la clinica privata «La Quiete». All'inaugurazione dell'albergo di Capolago, realizzato per i mondiali di ciclismo, presenziò anche il senatore Antonio Tomassini. I provvedimenti emessi dalla Procura di Varese - spiegano i finanzieri - sono destinati a consulenti e persone di fiducia di riferimento di politici che intermediavano tra le cliniche private e gli enti locali, amministratori di fatto delle cliniche interessate e i vertici della sanità lombarda. Le indagini scaturiscono, spiega la Guardia di Finanza, da inchieste già in corso per i reati di bancarotta fraudolenta continuata, falso, truffa ai danni dello Stato, che vedono al centro un gruppo di aziende, operanti nel settore della sanità, alberghiero ed immobiliare che avevano compiuto operazioni societarie e finanziarie concatenate per sottrarsi ai debiti nei confronti di terzi. Ora sono emersi ulteriori elementi relativi a «gravi fatti di corruzione e concussione connessi alla concessione di convenzioni ed autorizzazioni». «Sulla base delle informazioni acquisite ho riconfermato la mia piena fiducia al direttore generale della Sanità, Carlo Lucchina. Fiducia mai venuta a mancare». Così il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, in una nota, dopo la notizia di una nuova inchiesta che vede indagato Lucchina. Il meccanismo di corruzione è sempre lo stesso, scrive Simona Ravizza su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo ciclone che si è abbattuto sulla sanità del Pirellone ruota ancora intorno alla figura dei lobbisti: per sbloccare l'arrivo di soldi pubblici, una struttura ospedaliera deve pagare qualcuno che le apra le porte della Regione. Sembra il film già visto durante lo scandalo del San Raffaele e quello della Fondazione Maugeri. Ma stavolta al centro dell'ultima inchiesta giudiziaria c'è la casa di cura «La Quiete» di Varese e l'accusa di intermediario cade sul senatore Antonio Tomassini, indagato per corruzione insieme con il supermanager dell'assessorato alla Sanità, Carlo Lucchina. Come gira il fumo, lo raccontano gli imprenditori Sandro e Antonello Polita, proprietari della clinica tra il 2007 e il 2011: «Il dott. Carlo Lucchina ( direttore generale dell'assessorato alla Sanità, ndr ) ci disse che gli accrediti sui posti letto erano bloccati, ma "che tra le pieghe della legge qualcosa si sarebbe potuto trovare". Lucchina precisò inoltre "voi seguite il senatore Tomassini (Antonio) , al resto ci penso io"». La ricostruzione emerge dalla confessione-sfogo dei fratelli Polita raccolta dal pm Alfredo Robledo tra giugno e settembre 2012, poi inviata per competenza alla Procura di Varese. Sono tutte accuse che dovranno essere confermate dalle indagini della magistratura.
Ma fin d'ora le somiglianze con il San Raffaele e la Maugeri sono incredibili. In entrambi i casi il faccendiere - secondo gli atti dall'inchiesta milanese - era Piero Daccò, in affari con Antonio Simone, tutti e due amici di lunga data del governatore Roberto Formigoni. Il ruolo di Daccò di «apriporte» in Regione era fondamentale per ottenere fiumi di denaro. Così il presunto scambio di soldi pubblici e favori privati (vacanze gratis e benefit milionari, come cene e yacht) fu alla base dell'iscrizione nel registro degli indagati di Formigoni per corruzione. Nel caso de «La Quiete», invece, la posta in gioco è l'accreditamento dei posti letto, indispensabile per operare a carico del sistema sanitario, nonché la firma di altri contratti per potere offrire prestazioni ambulatoriali, sempre in convenzione. L'uomo della liaison con gli uffici dell'assessorato della Sanità non è più Piero Daccò, ma proprio il senatore Antonio Tomassini, 69 anni, presidente della Commissione Sanità del Senato. È quanto risulta dalle stesse dichiarazioni dei fratelli Polita: «Il dott. Carlo Lucchina e il sen. Tomassini avevano in mano le sorti della clinica "La Quiete" e potevano determinarne il successo o l'insuccesso - si legge -. Fu così che furono accettate le varie richieste come pure quella di provvedere al pagamento delle ristrutturazioni delle due ville del sen. Tomassini a Varese». Tra le tangenti pagate c'è il riferimento a una busta con 30 mila euro («Consegnata nelle mani del senatore Tomassini, il dott. Lucchina assistette alla scena e non disse nulla»); l'acquisto di una macchina per esami medici da un'impresa «amica» (la Esaote) e il rifornimento degli arredi per la casa di cura dalla Snell habitat spa («Il senatore Tomassini mi spiegò che la gestione degli arredamenti era un elemento classico per soddisfare la politica e che anche Massimo Buscemi (ex assessore), per il tramite del suocero Piero Daccò, si era occupato degli arredi presso una strutture di Brebbia»). Complessivamente le mazzette «confessate» ammontano ad oltre 600 mila euro. O i fratelli Polita sono grandi millantatori, o i guai per Lucchina si profilano più seri che mai. Mentre per la Regione le inchieste ora salgono a 17.
RIFIUTI. MILANO COME GOMORRA.
Rifiuti, Milano come Gomorra, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Discariche abusive, appalti fantasma, bonifiche mai eseguite. Ma soprattutto il monopolio delle mafie su tutte le attività di smaltimento. Il rapporto-choc che emerge da tre anni di lavoro della commissione d'inchiesta. Discariche abusive, bonifiche mai eseguite, appalti fantasma, ma soprattutto il monopolio della mafia su tutte le attività di trasporto dei rifiuti. E' il quadro che emerge da tre anni di lavoro della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti in Lombardia. Audizioni di prefetti, magistrati, imprenditori e politici raccolte in un rapporto che verrà pubblicato a fine mese, di cui 'l'Espresso' può dare un'anticipazione in esclusiva. Ci saranno le ricostruzioni dei processi più celebri ai clan Barbaro-Papalia, Romeo-Flachi e Paparo, ma anche dati allarmanti sull'emergenza ambientale del bresciano e nuove informazioni sul sito d'interesse nazionale di Mantova. Un quadro che ricorda Gomorra ma è ambientato a Milano, Como, Lodi, fra le verdi colline della Franciacorta e le pitture rupestri della Valcamonica, che minaccia i laghi del Nord e la salute di milioni di cittadini. Perché l'effetto di questi traffici non è solo lo strapotere dei clan: sono verdure alla diossina, acqua che non si potrà più bere, sorgenti radioattive scoperte sotto le case.
Quindi, malattie. E un ambiente compromesso spesso in modo irrimediabile. La Lombardia ha un primato: tutti i suoi comuni rispettano le direttive Ue e differenziano i rifiuti per più del 50 per cento, con alcuni paesi, soprattutto medio-piccoli, che superano ampiamente la metà. Una medaglia al valore macchiata dal business delle scorie speciali, pericolose e non, che da sole sono l'80 per cento di tutti i rifiuti che transitano in Lombardia. Macchiata, perché il trasporto e il trattamento di questi scarti viene gestito con una sola regola: non rispettare le leggi. Fanghi velenosi versati sui campi, autostrade riempite con rifiuti non trattati, cave sommerse di amianto e metalli pesanti: secondo la Commissione queste attività, in Lombardia, sono semplice routine. Lo rivelano grandi e piccole inchieste su tutto il territorio: dallo scandalo della Perego strade di Como, che ha riempito con materiali non trattati anche il cantiere del nuovo ospedale Sant'Anna, a "piccoli" drammi ambientali come i 640 fusti da 200 litri di rifiuti tossici pericolosi scoperti dalla polizia in un capannone di Castiglione delle Stiviere. In questo panorama non poteva che proliferare l'«anarchia organizzata» delle 'ndrine. Cinque indagini della magistratura, da 'Cerberus' a 'Isola', hanno portato alla luce un sistema monopolista di 'padroncini calabresi', utilizzati dagli imprenditori lombardi per il trasporto terra e il trasferimento e trattamento dei rifiuti. Il lavoro gestito dalle famiglie affiliate alla 'ndrangheta abbatte la concorrenza, proponendo prezzi stracciati, anche se in molte zone (Assago, Corsico, Buccinasco, ad esempio) sono talmente forti da far paura a chiunque, e possono determinare a loro piacimento prezzi e condizioni: «I nostri fornitori, ai quali vengono proposti lavori in Assago, si tirano indietro», racconta un testimone nel procedimento che ha portato all'arresto di otto esponenti di spicco delle famiglie Barbaro e Papalia. Proprio quell'inchiesta portava alla luce anche l'ingresso inesorabile delle mafie nel mondo della politica. Arrivata all'apice col recente arresto dell'assessore regionale Zambetti, la cavalcata delle cosche calabresi era iniziata infatti con la conquista di comuni come Buccinasco, dove ormai le aziende affiliate ai clan erano arrivate ad intascare soldi pubblici anche per lavori mai commissionati.
Nonostante l'attenzione delle procure, gli arresti e le indagini, il business dei rifiuti non si è mai fermato. La rete di appalti, subappalti, subappalti dei subappalti (vietati per legge ma praticati comunemente) è talmente fitta che le stesse figure, le medesime aziende, ritornano, spesso senza nemmeno cambiare nome. Lo ha fatto tra gli altri anche Pierluca Locatelli, che con i suoi 160 cantieri aperti sull'Alta Velocità si era occupato nel 2003 di un subappalto alla Di Lieto, assegnando a sua volta i lavori a un'azienda dei fratelli Paparo. Intervenne la magistratura, ma l'attività di Locatelli continuò indisturbata fino al suo arresto, lo scorso 30 novembre, per corruzione e traffico illecito di rifiuti in riferimento ai cantieri Bre.Be.Mi e alla discarica d'amianto di Cappella Cantone. Non è il solo nome che ritorna, nell'intrico di relazioni che il rapporto della Commissione racconterà nel dettaglio. Intanto però il messaggio è chiaro: in Lombardia, sui rifiuti, comandano le mafie. E la preoccupazione sull'Expo aumenta. I senatori stessi hanno espresso un dubbio riguardo al fatto che l'urgenza con cui tutti i lavori, d'ora in poi, dovranno essere eseguiti, potrebbe mettere in difficoltà l'amministrazione comunale, qualora si dovessero revocare degli appalti in corso. La "White list" delle aziende è sicuramente un passo avanti, ma servono controlli continui. E una legge più severa sui reati ambientali, oggi puniti assai leggermente. Forse proprio perché si rischia così poco, ad inquinare, ci sono aziende che fanno orecchie da mercante anche allo stesso ministero dell'Ambiente. Ne è un esempio la Colori Freddi San Giorgio srl, che si trova all'interno del sito d'interesse nazionale "Laghi di Mantova e polo chimico". L'area inquinata è stata individuata ufficialmente nel 2003 e da allora tutte le 16 aziende del Sin, dalla raffineria Ies alla Belleli Energy Srl, sono state costrette a investire per quantificare il danno ambientale e ipotizzare un piano di bonifica. Tutte, più o meno, stanno mettendo in atto qualcosa: barriere, pozzi di contenimento, pompe di estrazione per non lasciare che sul Mincio arrivino onde di idrocarburi. Tutte tranne una, la Colori Freddi, che si rifiuta categoricamente anche solo di permettere all'Arpa di avere informazioni su cosa è sepolto nella terra sottostante l'impianto industriale. Tace, e anche la Commissione ricostruisce la storia di questa ostinata opposizione alle istituzioni con toni esterrefatti. L'ennesimo ultimatum è arrivato il 15 ottobre, ma non sarà che un altro ordine da lasciar cadere nel vuoto dopo una lunga serie di imperativi mai eseguiti. Così, nonostante siano passati nove anni dall'identificazione dell'area come luogo talmente contaminato da richiedere l'intervento statale, ben poco è stato fatto. Quattro appalti, ma «tutti con lo stesso oggetto» e soprattutto non portati a termine, spiega il rapporto, con misure di prevenzione del tutto insufficienti a prevenire il rischio di inquinamento della falda e del fiume. A preoccupare i senatori sono i dati epidemiologici: a quasi tutti i cittadini del mantovano sarebbe stata trovata diossina nel sangue, con punte massime per gli abitanti della zona industriale. E mentre la Montedison è a processo per i 72 operai morti di tumore, un'indagine dell'Asl avrebbe messo in evidenza un eccesso statisticamente significativo di leucemie nel comune di Castiglione delle Stiviere. I mantovani non sono gli unici a temere per la propria salute. Con loro ci sono gli abitanti della provincia di Brescia, nelle cui discariche sono stati smaltiti oltre quattro milioni di tonnellate di rifiuti speciali: la quantità pro capite è il triplo rispetto alla media nazionale. Con 110 discariche cessate e 30 attive, per il 95% occupate proprio da rifiuti speciali, Brescia potrebbe detenere un record, che si sicuro spetta al piccolo paese di Montichiari, letteralmente assediato da scarti industriali e monnezza. Nel territorio comunale ci sono ben sette cave adibite allo smaltimento di rifiuti, di cui una, la Ecoeternit, pronta ad ospitare 960mila metri cubi d'amianto. «Qui ogni buca è una discarica» avrebbe detto desolata il sindaco di Montichiari alla Commissione. Non c'è forse molto da stupirsi allora che Arpa e Asl continuino a mandare allarmi sulla grave situazione in cui versa la falda acquifera in tutta la provincia: in Valtrompia sono state trovate tracce consistenti di cromo esavalente, e non è la sola zona in cui la falda risulta essere contaminata. Nel territorio bresciano la direzione dell'Asl ha individuato quasi 200 sorgenti radioattive, tanto che a Lumezzane stanno costruendo un bunker per conservare le scorie per almeno 300 anni. Veleni che dalla terra passano al sangue: l'ultimo studio epidemiologico condotto dall'Asl di Brescia e dall'Università sulla popolazione che vive nelle zone a est/sud-est della città avrebbe evidenziato eccessi di mortalità statisticamente rilevanti per tumori allo stomaco in entrambi i sessi e tumori del polmone per le donne. I senatori della Commissione sono andati di persona in tutti i comuni interessati dallo studio e ne hanno riportato l'idea che quell'area sia, oggettivamente, in stato di crisi. Dalla bassa lombarda gli autori del rapporto sembrano voler rivolgere al governo un invito: forse, d'ora in poi, bisognerebbe imparare ad ascoltare i cittadini.
LA PIOVRA PARLA LOMBARDO. MILANO, LE MANI SULLA CITTA’.
Milano, le mani sulla città scrive Paolo Biondani e Mario Portanova su “L’Espresso”. Da Santa Giulia all'Expo, le cosche calabresi hanno messo piede in quasi tutti i cantieri. E mirano a condizionare la politica. Un assalto silenzioso, con fiumi di soldi e minacce. Santa Giulia dei veleni. Veleni di mafia. La città satellite celebrata dai politici, finanziata dai banchieri e venduta dai big del mattone come simbolo della Milano del futuro, ha le fondamenta inquinate da fiumi di scorie cancerogene: "bombe ecologiche e sanitarie", come le definiscono i periti della Procura, sepolte per anni accanto agli uffici e alle case del super quartiere da un miliardo e 600 milioni di euro che avrebbe dovuto ridisegnare l'area sud-est della metropoli. Sotto i piedi della nuova città c'è un sistema di discariche abusive che contaminano le acque della prime due falde: tra meno sette e meno venticinque metri, la terra è morta. Uccisa da montagne di rifiuti tossici che le nuove indagini collegano ai clan più sanguinari della 'ndrangheta. Nomi che scottano e che gli inquirenti rivelano a "L'espresso": i Nirta-Strangio. Sì, proprio quelli della strage di Duisburg, la mattanza nel cuore della Germania. Edilizia, superstrade, ferrovie, aeroporto, centri commerciali, ortofrutta, rifiuti, ospedali, bar, negozi di lusso, banche, prestiti a usura e, naturalmente, droga: la mafia calabrese ha conquistato l'economia del Nord. A partire dall'ex capitale morale. Le indagini dei pm di Milano e Reggio, culminate nello storico blitz di luglio (304 arresti, per metà in Lombardia), hanno smascherato 15 strutture mafiose, in gergo "locali", attive in mezza regione: nella metropoli trafficano "da quarant'anni". Uno dei boss, intercettato, svela al compare che gli affiliati sono molti di più: "Cecè, qua in Lombardia siamo in cinquecento". Clan emigrati dalla Calabria, certo. Come i Cosco, trafficanti di droga arrivati a rapire nel pieno centro di Milano e a sciogliere nell'acido la pentita Lea Garofalo. Ma ci sono anche imprenditori padani al cento per cento, piegati con la violenza o sedotti col denaro. Soldi sporchi che comprano politici, professionisti, funzionari, manager, industriali, medici, avvocati, direttori di banca, perfino uomini in divisa. A Milano come nella Locride.
LA CITTA' DEI VELENI
A Santa Giulia, in mezzo a due file di nuovi palazzi abitati da migliaia di cittadini onesti, c'è un geometrico pratone abbandonato: Parco Trapezio, l'avevano chiamato gli architetti-star dell'immobiliarista Luigi Zunino. In fondo c'è un asilo coloratissimo, con le giostre in cortile e i banchi di legno immacolati, pronto per un'inaugurazione mai avvenuta. Il recinto è costellato di cartelli: "sequestro giudiziario". Loretta e Rosa, giovani mamme di Ettore, 6 mesi, ed Emma, 4, spingono le carrozzine nello stradone centrale: "Viale del Futurismo". "Qui non c'è inquinamento, è solo un problema di detriti edilizi", rispondono spensierate. Ma il Comune non vi ha detto niente? "No. Abbiamo sentito qualcosa solo su Sky tv. La nostra cooperativa ha nominato un perito. Speriamo che dissequestrino almeno il parco e l'asilo". Mariagrazia, 31 anni, segretaria d'azienda, sa ancora meno: "Ho comprato casa dieci giorni fa. Nessuno mi ha avvisato dell'inchiesta. Sono molto preoccupata". Finora sui giornali si è parlato solo di mancata bonifica. Riassunto: nel marzo 2005 il Comune di Milano autorizza il gruppo Zunino a costruire su oltre un milione di metri quadrati di aree contaminate dell'ex acciaieria Radaelli e dell'ex Montedison. Un tecnico ciellino, Vittorio Tedesi, ora indagato, si accontenta di un "piano scavi": ripulire tutto è inutile, basta e avanza cambiare terra solo nelle zone da ricostruire. Quindi Zunino appalta il disinquinameno a Giuseppe Grossi, il re degli inceneritori privati, che subappalta a due imprese collegate: Lucchini-Artoni ed Edilbianchi. Poi arrivano i magistrati: Grossi ha usato fatture offshore per rubare 23 milioni di fondi neri, nascosti all'estero grazie a riciclatori come Rosanna Gariboldi, moglie dell'onorevole Giancarlo Abelli, il ras della sanità lombarda oggi al ministero della Cultura. Arrestati tra le proteste dei big del Pdl, Grossi e Gariboldi risarciscono e patteggiano. Intanto un sindacalista della Cgil manda ai pm una mappa di Santa Giulia piena di zone nere: i veleni sono ancora lì, i misuratori di inquinanti "sono stati distrutti", il "percolato" tossico delle discariche ha invaso le falde. Ddt, pesticidi e scorie che i tecnici classificano così: "Sostanze cancerogene, che mettono a rischio la fertilità e possono danneggiare i bambini non ancora nati". Come è potuto succedere? Due operai delle imprese subappaltatrici, terrorizzati, hanno per primi il coraggio di testimoniare: invece di portar via la terra malata, i camion scaricavano nuovi veleni. Voragini riempite di rifiuti tossici "d'ignota provenienza". A est si vede un lunghissimo muraglione in cemento, costruito da poco, da cui straripano tonnellate di amianto e chissà cos'altro. Ma chi erano i trasportatori? A rispondere è un rapporto della Guardia di Finanza: pregiudicati calabresi, usciti dal carcere dopo condanne per "omicidio, associazione mafiosa, droga e reati ambientali". Legami di sangue e d'affari portano ai Nirta-Strangio.
Del resto la faida di San Luca, che a Ferragosto 2007 ha scosso la Germania (ammazzati sei italiani collegati alle famiglie Pelle-Vottari), era emigrata nell'hinterland milanese già 18 anni prima di Duisburg, con l'assassinio di Giovanni Vottari a Limbiate. Oggi Milano sembra una Gomorra del Nord. Smaltire regolarmente costa, per cui il lavoro sporco lo fa la mafia spa. Rifiuti, edilizia e "movimento terra": monopolio della 'ndrangheta lombarda.
IL "SISTEMA".
Ma da dove arrivavano i Tir che, invece di bonificare, hanno riavvelenato Santa Giulia? "Dalla Stazione Centrale", rispondono le indagini. Proprio dal cantiere che ha trasformato in un caotico centro commerciale il monumentale portone d'ingresso dei treni in città. E l'alta velocità? Inquinata anche quella: tonnellate di scorie sepolte dalla 'ndrangheta lungo i binari, sia per Torino che per Venezia. Veleni di mafia anche sotto la quarta corsia dell'autostrada A4. E tra i nuovi "quartieri ecologici" spuntati come alveari sull'asse dei Navigli. Le imprese del Nord progettano, costruiscono e vendono case, uffici e ipermercati. E a sotterrare le vergogne ci pensano i clan. Oggi Milano è disseminata di mega-progetti già sequestrati per inquinamento, con migliaia di famiglie disperate, o ad altissimo rischio di nuovi blitz giudiziari, secondo quanto risulta a "L'espresso", sul modello Santa Giulia. Una pista tra le tante: i carabinieri stanno dando la caccia a "oltre due milioni di tonnellate di rifiuti tossici" sotterrati chissà dove dal gruppo Perego, grossa azienda lombarda doc, in apparenza. In realtà, secondo i giudici, era in mano alla 'ndrangheta come il suo titolare, arrestato. E conquistava subappalti milionari: tra gli altri, il tunnel targato Expo, il maxi-ospedale di Como e perfino il nuovo tribunale di Milano.
ONORATA SANITA'.
Tra il 2007 e il 2009 le cosche Morabito e Paparo si erano infiltrate, secondo l'antimafia, in tutta la filiera alimentare, dall'Ortomercato ai magazzini logistici dei supermercati, con manovali pestati a sangue e concorrenti gambizzati. Ora le indagini documentano una nuova scalata: ospedali e cliniche private. In galera per mafia, nella retata di luglio, è finito Carlo Antonio Chiriaco, direttore sanitario dell'Asl di Pavia, cioè "manager di fiducia della giunta Formigoni", come insegna la legge regionale che dal '98 ha legalizzato la lottizzazione (per fermare i processi). Le microspie lo hanno registrato mentre si vantava di essere "uno dei capi della 'ndrangheta a Pavia", assolto da un tentato omicidio anche se era "vero che gli abbiamo sparato".
Questi segreti li confidava a un dirigente del San Paolo di Milano, che non potrà difendersi dall'accusa di mafia: è volato giù dalle scale del suo ospedale. Una morte senza testimoni: omicidio o suicidio? In attesa di risolvere il giallo, altre indagini hanno svelato massicci investimenti della 'ndrangheta in cliniche private: decine di milioni riciclati in nuove residenze per anziani tra le province di Bergamo (148 posti letto a Vigolo), Pavia (tre ospizi da accreditare a Costa dei Nobili, Pinarolo Po, Monticelli) e Novara. I soldi per le cliniche uscivano dalla tasche di decine di commercianti e imprenditori usurati e taglieggiati con violenza selvaggia. E' la storia nera dei comuni accanto all'aeroporto di Malpensa, secondo l'accusa dominati dai boss Filippelli di Cirò Marina. Per ripulire il denaro usavano, tra l'altro, l'immobiliare Makeall, sede a due passi dal Duomo: il dominus era un ingegnere milanese che fece l'errore di chiedere prestiti a quei "crotonesi di Varese", fino a diventarne ostaggio. Oggi è testimone sotto protezione: deve vivere con la scorta. Anche nel profondo nord, ormai, la sanità serve alla mafia per condizionare la politica e incassare lavori pubblici. Un esempio?
Il direttore sanitario del carcere di Monza cerca voti per una nuova lista mirata sugli elettori disabili. Li chiede a un boss detenuto con cui si scambia favori, Rocco Cristello, che spiega agli affiliati: "E' un amico, con la politica prenderà in mano qualche Asl. E noi avremo gli appalti". Commento di un candidato: "Anche i carcerati sono diversamente abili". L'epilogo è tragico. Cristello viene ammazzato a Verano Brianza, nella guerra di mafia culminata nell'omicidio del boss scissionista Carmelo Novella. Punito perché aveva sfidato la cupola calabrese, organizzando una secessione dei clan lombardi.
POLITICA INQUINATA.
L'assalto al cielo, dal Comune di Milano alla Regione Lombardia e magari al Parlamento, comincia dai piccoli feudi elettorali della provincia, dove le cosche chiedono favori e promettono i voti di migliaia di calabresi. E' il modello Chiriaco, che maneggiava comitati d'affari, sindaci e assessori. Nelle intercettazioni i boss brigano per eleggere decine di politici milanesi e nazionali, primo fra tutti Abelli ("a mia insaputa", giura lui). Tra Pavia e Milano la Procura è arrivata a contestare il reato di "condizionamento mafioso delle elezioni". Casi dubbi e isolati, minimizzano i leader. Eppure nel cuore della Brianza c'è addirittura il primo grande comune del Nord paralizzato per mafia. Desio, 40 mila abitanti, è la capitale lombarda del mobile. Il consiglio comunale si è riunito una sola volta in quattro mesi: la maggioranza di centrodestra non raggiungeva il numero legale. La settimana scorsa tre assessori leghisti si sono dimessi senza spiegazioni. Perché i motivi sono imbarazzanti: lo stallo è l'effetto delle indagini che hanno scoperto un "locale" dei clan reggini di Melito Porto Salvo. Tanto forte da "permerare i gangli della vita politica". Nessun indagato, almeno ufficialmente, ma negli atti si legge che il coordinatore cittadino del Pdl, Natale Marrone, chiede al presunto boss, Pio Candeloro, "un'azione violenta" contro un avversario politico. E' Rosario Perri, potente e discusso direttore dell'edilizia privata, diventato nel 2009 assessore della neonata Provincia di Monza e Brianza. Candeloro rifiuta di colpirlo, perché Perri è intoccabile: "appoggiato da persone di evidente rispetto", come scrivono i pm. Quando altre intercettazioni lo immortalano mentre parla di "soldi nascosti nei tubi di casa", Perri si dimette. E il mandante del suo mancato pestaggio si scusa: "Era solo un'esternazione di rabbia". Poi abbandona la carica di coordinatore del Pdl. Ma non il consiglio comunale. Intanto due suoi zii sono stati arrestati per armi: l'uno era arrivato a minacciare per strada l'altro (suo fratello) con una pistola. Tutti i protagonisti di questi e altri infortuni sono calabresi, come Annunziato e Natale Moscato, imparentati con il clan Iamonte di Melito. A Desio entrambi hanno avuto cariche pubbliche. Il primo è finito in manette per mafia il 13 luglio, il secondo, già assessore all'urbanistica del Psi, era stato arrestato con la stessa accusa nel '94, uscendone assolto. A quel punto è diventato berlusconiano: alle europee del 2009 era proprio Natale Moscato il rappresentante di lista del Pdl al seggio numero 13 di Desio, come ha verificato "L'espresso". L'anno scorso si votava anche per le amministrative. Il presidente del consiglio comunale, Nicola Mazzacuva, ha trovato una molotov fuori dal suo studio medico, con proiettili e "santini" elettorali di altri due candidati, suo figlio Giuseppe e un certo Michele Vitale, un nome che divide tuttora il centrodestra. Almeno quanto Pietro Gino Pezzano, direttore dell'Asl di Monza. E proprio da questa fetta di Brianza ha scalato il Pirellone Massimo Ponzoni, ex assessore formigoniano all'ambiente, rieletto consigliere regionale nonostante una bancarotta e nuove indagini per corruzione. I giudici antimafia non esitano a definire Ponzoni "parte del capitale sociale" dello stesso clan 'ndranghetista che ha scalato l'azienda Perego. Colta da improvviso imbarazzo, la Lega Nord ha bloccato la maggioranza. "Il Comune è allo sfascio", riassume Lucrezia Ricchiuti del Pd: "Senza delibere i fornitori non vengono pagati, lo scuolabus è sospeso". La copertura di bilancio è stata votata in extremis, il 25 ottobre, ma solo per evitare lo scioglimento prefettizio.
STATO E ANTISTATO.
La lotta a Cosa Nostra ha insegnato che la criminalità comune è contro lo Stato, mentre la mafia è dentro lo Stato. Le indagini sulla 'ndrangheta stanno svelando molte complicità insospettabili. Ma a dare la misura della profondità delle infiltrazioni in Lombardia può bastare un solo filmato di Michele Berlingieri, ex carabiniere di Rho, il comune dell'Expo, indagato con tre colleghi e ora in cella per corruzione e mafia. La notte del 25 gennaio scorso il militare interviene nel bar "Il brigante", dove un giovane albanese, Avrami Artin, è appena stato ucciso a colpi di pistola. Sette videocamere dei carabinieri di Monza lo riprendono mentre stringe la mano a due familiari del presunto assassino, Cristian Bandiera, figlio di un boss poi arrestato. Gli stessi filmati dell'accusa mostrano il ragazzo italiano che spara e poi passa la pistola a un complice. Il carabiniere infedele vede l'arma, ma lo lascia uscire indisturbato.
Poi raccoglie i bossoli e li risistema a terra, inquinando la scena del delitto. E secondo i giudici sapeva benissimo con chi aveva a che fare. Del boss Novella, dopo l'omicidio, diceva a un collega: "Tu sai chi è quello lì? Riina era siciliano, questo è calabrese".
QUALE MAFIA? IL PREFETTO AL MARE, PAGA LIGRESTI.
Il prefetto al mare, paga Ligresti, scrive Paolo Biondani e Vittorio Malagutti su “L’Espresso”. Ma è normale che un alto funzionario dello Stato vada in vacanza a spese di un costruttore? E che poi sgomberi i nomadi dalle proprietà dello stesso costruttore? E che suo figlio sia pagato dallo stesso costruttore? Generali, prefetti, politici, gran commis di Stato. D'estate tutti al Tanka Village, il resort di lusso sul mare cristallino della Carbonara, sud-est della Sardegna. Pagava Ligresti. Salvatore Ligresti. E' andata così per anni, mentre il finanziere e costruttore siciliano, amico di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi, veleggiava alla grande nel mare magnum del potere italiano. Pochissimi dicevano di no a quegli inviti nel villaggio a cinque stelle. E alle allegre comitive di vacanzieri vip partecipava spesso e volentieri anche un anziano signore napoletano. Si chiama Gian Valerio Lombardi, classe 1946 e fino a febbraio dell'anno prossimo, salvo nuove proroghe, resterà seduto sulla poltrona di prefetto di Milano. Un lungo addio, quello di Lombardi, che avrebbe dovuto lasciare l'incarico già nel 2010 ma è rimasto al suo posto per decisione del governo di Re Silvio. Un addio sofferto e anche triste, funestato in questi giorni da rivelazioni imbarazzanti sulle frequentazioni del prefetto sbarcato a Milano nel lontano 2005, nella metropoli, in regione e in parlamento comandava il centrodestra. Qui Lombardi si inserisce in una «consolidata rete di favori, amicizie, protezioni politiche e legami elettorali» che «ha reso possibili malversazioni, truffe e corruzioni»: lo hanno messo nero su bianco i magistrati milanesi titolari dell'inchiesta che due settimane fa ha portato all'arresto per corruzione di un dirigente comunale nominato dalla giunta Moratti. «Solo relazioni istituzionali», reagisce Lombardi. Ma dall'inchiesta emerge pure che suo figlio Stefano ha ricevuto un appartamento in centro, a prezzi scontati, da una fondazione diretta da un avvocato del Pdl: proprio quell'Antonio Picheca, ora in carcere per corruzione, che il prefetto aveva voluto ai vertici di un'altra fondazione ambrosiana. Di certo, in questi tempi per lui difficili, qualche pensiero deve averglielo dato anche il tracollo dell'amico Ligresti, travolto da debiti e perdite miliardarie e ora indagato a Milano e Torino per una lunga serie di reati societari. E tra le pieghe dei bilanci in rosso della Fondiaria-Sai dei Ligresti adesso si scoprono anche i costi esorbitanti delle spese di rappresentanza per milioni di euro. Tutti costi che la famiglia del costruttore finiva il più delle volte per mettere sul conto della compagnia di assicurazioni quotata in Borsa, con migliaia di piccoli azionisti.
Anche l'avvocato Stefano Lombardi, il figlio del prefetto, è stato per anni a libro paga dei Ligresti. Centinaia di migliaia di euro a titolo di legittimi compensi per incarichi professionali. Parcelle staccate sia dalle finanziarie di famiglia del patron Salvatore sia dalle società assicurative del gruppo Fonsai. Ma non è solo questione di parcelle. I Lombardi erano di casa dai Ligresti. E viceversa. Le due famiglie si frequentavano abitualmente tra salotti e feste. E il quarantenne Stefano Lombardi vanta tra i suoi migliori amici i tre figli del patron Salvatore (Jonella, Gulia e Paolo), oltre al suo collega avvocato Geronimo La Russa, erede dell'ex ministro Ignazio, a sua volta stipendiato, nonché grande animatore della movida milanese. Giusto un anno fa, al matrimonio di Lombardi junior, tra i 600 invitati al sontuoso ricevimento nell'esclusiva Società del Giardino, i Ligresti erano tra gli ospiti d'onore, con il finanziere Francesco Micheli, pure lui a lungo legato al carro dei Ligresti, come testimone dello sposo. Non poteva mancare all'appuntamento Paolo Berlusconi, un altro amico dei Lombardi che molti ricordano intrattenere gli invitati al cocktail in prefettura del 2 giugno, festa della Repubblica italiana, con giochi di prestigio e barzellette (un vizio di famiglia). Del resto Lombardi è sempre stato un berlusconiano in servizio permanente effettivo. Una fede non nascosta, anzi esibita, con tanto di foto del caro leader del centrodestra sistemata in bella vista sulla scrivania, con buona pace dell'imparzialità dei servitori dello Stato. La sua passione per Silvio ha però procurato al prefetto anche qualche grana. L'anno scorso l'inchiesta su Silvio e Ruby svela che Lombardi, il 13 gennaio 2011, ha incontrato un'elegante ospite notturna dell'ex premier. La ballerina domenicana Maria Esther Garcia Polanco, che sognava la cittadinanza italiana, è stata ricevuta dal prefetto in persona, contattato «sul numero avuto da Berlusconi». A Lombardi dev'essere sfuggito che il fidanzato della giovane era appena stato arrestato e condannato a otto anni di galera per dodici chili di cocaina nascosti nel garage della casa di lei in via Olgettina, pagata da Silvio. «Sono un rappresentante del governo e se il presidente del Consiglio mi chiede di ricevere una persona, io non posso rifiutarmi», fu la difesa di Lombardi. La gaffe, però, resta agli atti. Al pari di quella, clamorosa, del 22 gennaio 2010, quando il prefetto accoglie la commissione parlamentare antimafia con una relazione memorabile: «A Milano la mafia esiste?», sono le prime parole di Lombardi, che si risponde da solo: «No». Di lì a pochi mesi, nel luglio 2010, l'ottimismo prefettizio è platealmente smentito dalle Procure di Milano e Reggio Calabria: 300 arresti per mafia svelano una trucida realtà di omicidi di mafia, sistematiche estorsioni e grandi aziende in mano alla 'ndrangheta. Con i rom e gli extracomunitari invece il prefetto fiuta subito l'allarme sicurezza. Tanto da scavalcare a destra perfino la giunta dell'ex sindaco Letizia Moratti e dei suoi uomini forti di Lega e dell'ex An, politici che quanto a esibizioni muscolari non temono rivali. «Tra un anno basta campi abusivi», proclama Lombardi nel giugno 2008. Due anni prima il prefetto di pronto intervento aveva fatto sgomberare in tutta fretta un campo nomadi a sud della città. Sarà un caso, ma l'area in questione era una delle tante di proprietà dei Ligresti. Per i rom si improvvisa una sistemazione provvisoria nel vicino comune di Opera. Molto provvisoria, perché nel giro di tre settimane l'accampamento viene dato alle fiamme da un'orda di cittadini guidati dal locale sindaco leghista. Pochi mesi fa, ad aprile, tocca alla Caritas indignarsi col prefetto per il caso dei 200 rom italiani (70 bambini) rimasti senza baracche in via Sacile, bruciate da un incendio doloso. Comune e Curia organizzano alloggi provvisori per le vittime del rogo, senza dividere i genitori dai figli, e inseriscono i minori nelle scuole. All'alba si contano però dieci famiglie non censite. Giunta e Caritas hanno finito i rifugi e chiedono un soccorso al prefetto. Ma Lombardi nega che la protezione civile di Milano abbia anche solo dieci roulotte. Contro Giuliano Pisapia, primo sindaco di sinistra dopo vent'anni di Pdl e Lega, Lombardi ingaggia una battaglia personale. Un esempio tra i tanti. La giunta Pisapia accetta l'esercito in città, per presidiare stazioni e obiettivi a rischio, ma dice no a ronde armate. Invece il prefetto manda i soldati nelle strade in assetto bellico: sono un inutile spreco, ma li vuole l'allora ministro La Russa. Con la politica degli sgomberi, poi, la città rischia la guerriglia urbana. Molti i casi contestati. Nel maggio scorso centinaia di "precari dell'arte" occupano la torre Galfa, un grattacielo abbandonato da anni nella zona della stazione Centrale. Lombardi convoca subito l'apposito comitato che, senza sentire il Comune, ordina lo sgombero d'urgenza. La polizia teme una rivolta urbana, Pisapia tratta con la piazza e gli sgomberati accettano un trasloco pacifico in un altro palazzo dismesso.
Domanda: a chi appartiene la torre Galfa, sgombrata a gran velocità da Lombardi? Alla Fondiaria dei Ligresti, gli amici del prefetto. Ancora loro.
PARLIAMO DELLA MILANO CORROTTA.
Il consiglio dei 10 indagati. Da Nicole Minetti a Filippo Penati, passando per l'assessore alla Sicurezza Romano La Russa e la leghista Monica Rizzi. Reati che spaziano dal finanziamento illecito ai partiti, alla corruzione e alla bancarotta. I protagonisti delle inchieste che hanno coinvolto tutti i principali partiti che siedono nell'assemblea regionale. Corruzione, mazzette e fondi neri. Vent'anni dopo, 'Mani Pulite' è tornata, Scrive Flavio Bini su “La Repubblica”. In Lombardia, mentre si sfalda il mito della Lega, baluardo contro il malaffare di Roma Ladrona, sull'ex numero uno del Pd Filippo Penati gravano pesanti accuse di corruzione. A Roma i pm passano al setaccio i conti dell'ex tesoriere della Margherita, per ricostruire il viaggio di 25 milioni di euro destinati alle attività del partito e dirottati altrove. E poi Liguria, Puglia, Emilia Romagna. Indagati illustri da sinistra a destra, le indagini arrivano fino ai vertici delle maggiori amministrazioni locali. Ecco il profilo della 'Nuova Tangentopoli'. Nel 1992 fa era bastata una sola procura, quella di Milano, a scoperchiare il sistema consolidato di malaffare e finanziamento illecito che aveva retto tutti i partiti della prima Repubblica. Oggi, a 20 anni di distanza, da Nord a Sud, i primi sintomi di un 'Nuova Tangentopoli' sembrano affiorare dalle indagini in corso in tutta Italia.
Il malaffare sanità in Puglia. Una vera e propria stagione di illegalità ricostruita in un complesso groviglio di inchieste dalla procura di Bari. Illeciti cominciati durante il mandato dell'ex presidente Raffaele Fitto e proseguiti sotto la giunta dell'attuale governatore Vendola. Un sistema di consolidato scambio di favori tra alcuni impresari attivi nella sanità pugliese ed importanti politici locali. Tra questi, due esponenti del Partito democratico: l'ex vicepresidente della giunta Sandro Frisullo e l'ex assessore alla sanità Alberto Tedesco. Ma c'è un nome che più di tutti riesce a tenere uniti tutti i fili della matassa pugliese. È quello di Gianpaolo Tarantini, il faccendiere amico dell'ex premier Silvio Berlusconi.
Penati e il Sistema Sesto. I magistrati sono al lavoro a Milano, dove dieci membri del consiglio regionale sono indagati per reati che vanno dalla bancarotta fraudolenta alla corruzione. Non solo 'pesci piccoli'. Sotto inchiesta della procura di Monza c'è l'ex capo della segreteria politica di Pierluigi Bersani Filippo Penati. Ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della provincia di Milano, nonchè ultimo sfidante - sconfitto - di Roberto Formigoni. Uomo forte del Pd in Lombardia, oggi è stato sospeso dal partito, ma siede ancora tra i banchi dell'assemblea regionale, malgrado le accuse di aver ricevuto finanziamenti illeciti da imprenditori amici quando era in carica come primo cittadino di Sesto.
Le mazzette al Pirellone. E gli occhi sul consiglio regionale lombardo, appena traslocato al Pirellone, li ha messi da tempo anche la procura di Milano, che ha iscritto nel registro degli indagati anche il presidente dell'assemblea Davide Boni, poi dimessosi da questo incarico. I fatti risalgono al precedente mandato elettorale, quando Boni era assessore regionale all'Edilizia e al Territorio. Contro di lui ora parlano uomini vicini al Carroccio, spiegando che l'esponente leghista avrebbe ricevuto almeno 300mila euro per sbloccare pratiche burocratiche su importanti progetti di riconversione di aree ex-industriali.
La Lega trafficona. Ma, se confermate dai processi, le mazzette del Pirellone sarebbero soltanto la periferia di un sistema di malaffare, portato alla luce dalle indagini delle procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria, che è arrivato a toccare i vertici del Carroccio, costringendo alle dimissioni il leader Umberto Bossi. I pasticci leghisti però cominciano prima degli affari controversi dell'ex tesoriere Belsito. Si torna alla fine degli anni '90, quando la Lega flirtava con il "furbetto del quartierino" Gianpiero Fiorani e l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio. Il sogno si chiamava "Credieuronord", la banca padana voluta dal Senatùr, naufragata poi tra i debiti.
Lusi e il tesoro della Margherita. E se Milano piange, Roma non ride. Nella Capitale si indaga sull'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi e sui 25 milioni di euro dirottati in attività estranee all'ormai defunto partito. Lui si difende, sostenendo di aver agito su indicazioni del partito, ma Rutelli vuole vederci chiaro e chiede i soldi indietro fino all'ultimo euro. I pm indagano, possibile che i vertici non si siano accorti di nulla?
Il porto di Scajola. A Imperia sotto accusa è invece l'ex ministro Pdl Claudio Scajola. I magistrati indagano sui lavori di costruzione dello scalo diportistico della città, destinato a diventare uno dei porti turistici più grandi del Mediterraneo. Sponsorizzando l'amico imprenditore Bellavista Calatagirone, sostengono i pm, l'ex titolare del Viminale avrebbe ottenuto due (futuri) posti barca a prezzi scontati. Un favore ricevuto, secondo Scajola, a sua insaputa.
L'architetto, gli imprenditori, il politico. Mazzette a Boni per sbloccare le pratiche, scrive Emilio Randacio. Tutto comincia dalle rivelazioni di Michele Ugliola, ultimo pentito dell'inchiesta che ha toccato i vertici istituzionali del Consiglio Regionale della Lombardia. Agli inquirenti ha svelato il sistema-Pirellone: l'architetto faceva da mediatore con gli imprenditori, accordandosi con loro sulle cifre necessarie per velocizzare la autorizzazioni sulla riconversione delle grandi aree industriali. Il destinatario: l'esponente leghista, allora assessore all'Edilizia e al Territorio. "Sei o sette mazzette". Portate in una busta, all'undicesimo piano del Pirellone, direttamente negli uffici della segreteria dell'ex assessore regionale all'Edilizia e al Territorio, il leghista Davide Boni. Michele Ugliola, il pentito dell'ultima inchiesta che scuote la giunta del governatore lombardo, Roberto Formigoni, nemmeno se le ricorda più esattamente quelle mattina, quando metteva banconote di grosso taglio in una busta e bussava alla porta del capo segreteria del politico lumbard. Ricorda, però con precisione, come arrivavano quei soldi ("circa 300 mila euro in tutto incassati, oltre un milione e sei quelli promessi"). Era il passepartout necessario a sbloccare pratiche edilizie. Sesto San Giovanni, Santa Giulia, Lonate Pozzolo, fascicoli per convertire ex aree industriali che sarebbero ammuffite senza un occhio di riguardo. Almeno su sei pratiche, Ugliola incontrava gli imprenditori, li ascoltava e poi suggeriva la soluzione: ci vediamo con lo staff di Boni. Nel suo ufficio l'incontro, poi, tutti a tavola nel ristorante milanese specializzato in pesce, Riccione, dove Boni, secondo le parole di Ugliola, dettava le condizioni. La tariffa media erano 800 mila euro a pratica. L'architetto tuttofare, fatturava operazioni inesistenti dopate e una volta incassate ne retrocedeva in contanti in una busta, all'ufficio del leghista. "Ci trovavamo con il suo segretario alla mattina presto", ha svelato. Questo lo scenario che Ugliola, un passato da tangentista di provincia nel '96 a Bresso, nel milanese, (quella volta ha patteggiato meno di due anni). Verbali, almeno sei, riempiti davanti ai pm Alfredo Robledo e Paolo Filippini, per ricordare responsabilità, cifre, accordi sottobanco. E che sono costati un'indagine per corruzione per Boni, per il suo ex capo della segreteria, Dario Ghezzi (l'unico che si è dimesso), e una sua consulente. Accuse riscontrate già da una serie di fatture false acquisite agli atti, ma anche da altre confessioni. Come quella di un compagno di partito di Boni, il consigliere regionale Marco Paoletti. Un passato da assessore allo sport a Cassano D'Adda, al confine con Bergamo, e il vizio di spartirsi tangenti insieme alla sua giunta, in cambio di varianti ai piani regolatori.
Davide Boni, Sabbioneta (Mn), 12 settembre 1962. L'esponente leghista ha 49 anni e una lunga carriera all'interno della Lega Nord. A 31 anni, nel 1993, viene eletto come presidente della provincia di Mantova. E' il più giovane politico a ricoprire questa carica. Dopo l'esperienza in provincia, nell'99 entra per la prima volta nel consiglio regionale della Lombardia, dove viene nominato presidente del gruppo della Lega Nord. Nel 2005 e fino al 2010, è assessore all'edilizia e al Territorio e proprio mentre ricopre questa carica, a partire dal 2007, secondo la procura di Milano inizia a tessere le sue relazioni pericolose, pretendendo dagli imprenditori delle mazzette. Dopo le votazioni di due anni fa diventa presidente del consiglio regionale. Sono note alcune sue uscite, particolarmente provocatorie. Durante una manifestazione leghista contro una scuola islamica a Milano, si era presentato vestito da cowboy, invocando per par condicio una <scuola per la Cassoeula (piatto tipico lombardo)>. Quando la giunta del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, aveva proposto la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano, aveva attaccato lo scrittore sostenendo che non fosse degno di tale riconoscenza.
FILIPPO PENATI. IL SISTEMA SESTO NON ESISTE.
I giudici salvano Penati. Penati è stato assolti dai giudici di Monza nel processo sul "sistema Sesto". Erano accusato di aver costruito la sua carriera politica e le campagne elettorali dei democrat con i soldi della corruzione e dei finanziamenti illeciti, scrive Luca Fazzo Giovedì 10/12/2015 su “Il Giornale”. Assolto. Filippo Penati, l'uomo che per un decennio ha guidato a Milano il partito dei Democratici di sinistra, prima di assurgere ai vertici del Pd come capo dello staff di Pierluigi Bersani, esce incolume dal processo che lo accusava di avere costruito la sua carriera politica e le campagne elettorali del suo partito con i soldi della corruzione e dei finanziamenti illeciti, rastrellati come presidente della Provincia e come segretario della federazione milanese del partito. Oggi il tribunale di Monza, affossando le richieste della Procura della Repubblica, che aveva chiesto per Penati quattro anni di carcere, assolve Penati e tutti gli altri imputati: tra cui Piero Di Caterina, per anni finanziatore dell'ex Pci e poi "pentito" e grande accusatore dell'ex amico, e Renato Sarno, l'architetto di fiducia di Penati, indicato dalla procura monzese come collettore delle tangenti penatiane. "Giustizia é fatta" é il commento dell'ex leader. Certo, ora la Procura farà ricorso in appello. Ma quella di un ribaltamento della sentenza di oggi è una prospettiva assai impalpabile, perché sulle accuse che hanno portato alla assoluzione odierna dell'ex braccio destro di Bersani si allunga l'ombra della prescrizione, che ha già inghiottito le altre vicende su cui la Procura di Monza ha indagato negli scorsi anni, e che riguardavano soprattutto il periodo trascorso da Penati come sindaco di Sesto San Giovanni. Gli affari colossali, con innalzamenti a ripetizione delle volumetrie autorizzate, che hanno accompagnato la trasformazione dell'area industriale delle acciaierie Falck, sono usciti dalla scena processuale già l'anno scorso, quando nel corso di una udienza dai contorni grotteschi il difensore di Penati non riuscì a contattare il suo assistito, per cui Penati (nonostante le promesse della vigilia) non rinunciò alla prescrizione. E la prescrizione, grazie alle lungaggini del processo terminato oggi, arriverà anche per le accuse che per ora vedono il tribunale presieduto dal giudice Giuseppe Airò assolvere (e sarà interessante leggere le motivazioni) l'uomo forte della quercia milanese: la corruzione da 3,5 milioni di euro per gli appalti della provincia di Milano a favore di Di Caterina; un'altra corruzione da 2,5 milioni di euro legata agli appalti per la terza corsia della tangenziale di Milano; la lunga serie di finanziamenti illeciti, per un totale di oltre 360mila euro, rastrellati dalla fondazione "Fare Metropoli", che per i pm altro non era che la macchina da elargizioni di Penati. Tutte attività nelle quali - lo ha spiegato nella sua requisitoria il pm Franca Macchia - non c'è traccia di arricchimenti personali di Penati. Dopo di lui, a Sesto arrivò l'epoca della corruzione spicciola, nelle mani di assessori e capoufficio. La grandeur penatiana invece secondo la Procura rastrellava metodicamente (i pm parlano di "esazione dal territorio") in nome e per conto del partito. E non a caso i Ds si sono ben guardati dal chiedere conto a Penati dei danni morali e di immagine causati al partito. All'apertura della udienza di oggi, al momento di fare l'appello delle parti civili, quando il giudice Airò (forse distrattamente, forse perfidamente) ha chiamato i Democratici di sinistra, in aula è echeggiato solo il silenzio.
Sistema Sesto, Filippo Penati assolto da tutte le accuse: "Il fatto non sussiste". L'accusa era corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Il pm aveva chiesto 4 anni. Assolti anche gli altri 9 imputati. "Restituita la mia onorabilità", scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica” 10 dicembre 2015. Tutti assolti da tutte le imputazioni, "perché il fatto non sussiste". Dopo quattro anni e mezzo di indagine e tre di processo, crollano le accuse alla base dell'inchiesta della procura di Monza sul "Sistema Sesto" per Filippo Penati, altri 9 imputati e la società Codelfa. Per Penati la procura aveva chiesto una condanna a 4 anni. Di cosa era accusato Penati. L'ex presidente della Provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, nonché braccio destro di Pierluigi Bersani ai vertici del Pd, è stato assolto dall'accusa di aver incassato denaro dall'imprenditore Piero Di Caterina, suo grande accusatore. Prosciolto dall'accusa di aver favorito (per restituire quel denaro) Di Caterina nella vicenda Sitam, il Sistema di trasporto pubblico dell'hinterland a nord di Milano. Prosciolto anche dall'accusa di corruzione per la caparra di una compravendita immobiliare tra Bruno Binasco e Di Caterina, che aveva incassato in questo modo due milioni. Prosciolto, infine, per i finanziamenti alla sua fondazione 'Fare metropoli' e per i 14 milioni di riserve incassate dai Gavio nell'appalto della terza corsia dell'A7, la Milano Serravalle. Per il tribunale non c'è stata nè corruzione, nè finanziamento illecito alla politica. Il reato più grave, quello della presunta corruzione per riqualificazione delle aree ex Falck di Sesto San Giovanni, era già caduto in prescrizione. Con Penati, assolti anche Bruno Binasco, ex manager del gruppo Gavio, che aveva pagato la caparra da due milioni a Di Caterina; Renato Sarno, che per l'accusa era l'uomo che gestiva i fondi neri, rimasto in carcere per sei mesi, e che oggi viene completamente scagionato; Antonino Princiotta, ex segretario generale della Provincia; Norberto Moser, manager di Codelfa; Massimo Di Marco, ad di Milano Serravalle; Gianlorenzo De Vincenzi, manager di Milano Serravalle. Assolti anche gli imprenditori e accusatori del politico Pd, Giuseppe Pasini e Piero Di Caterina. Solo per loro, compare la prescrizione per il capo d'imputazione relativo ad alcuni pagamenti ad amministratori locali, condannati in uno stralcio del processo. Assolto, come aveva già chiesto l'accusa, il capo di gabinetto in Provincia di Penati, Giordano Vimercati. Il tribunale non ha nemmeno riconosciuto la confisca di 14 milioni per le riserve della A7 chiesta a Codelfa. "Aspettiamo le motivazioni e valuteremo se fare appello - commenta il pm Franca Macchia, titolare dell'accusa - Il tribunale non ha voluto valutare i fatti del 'Sistema Sesto' nel suo complesso". Il pm ha anche ricordato che il nucleo principale dell'indagine, quello relativo alle maxi-tangenti in cambio di permessi edilizi in aree ex Falck e Marelli, è stato "sfasciato" con la prescrizione intervenuta per via della cosiddetta Legge Severino. Cosa che secondo la procura "ha reso più difficile il resto". "Con questa sentenza - sono state le prime parole di Penati - si è messa fine a un'ingiustizia durata quattro anni e mezzo. Esce pulita la mia immagine di politico e di amministratore ed è stata restituita la mia onorabilità. Oggi ho dato un senso nuovo alla mia vita". Penati ha voluto sottolineare che a questo punto "è chiaro che non esiste il Sistema Sesto, io non ho costretto nessuno, io non sono stato corrotto". Tra i primi a commentare la sentenza, Pierluigi Bersani che scrive su Twitter: "Assolto Penati. Io non ho mai dubitato. Ma quanto sono lunghi quattro anni".
Assolti Penati e gli altri: «Nessun sistema Sesto, basta ingiustizia». Applausi in aula al momento della lettura della sentenza. Bersani: «Io non ho mai dubitato di Filippo. Ma quanto sono lunghi 4 anni?», scrive il 10 dicembre 2015 “Il Corriere della Sera”. Filippo Penati e gli altri dieci imputati, tra cui la società Codelfa, sono stati assolti dai giudici di Monza nel processo per il cosiddetto «sistema Sesto». Le accuse erano, a vario titolo, di corruzione e finanziamento illecito dei partiti. Applausi in aula al momento della lettura del dispositivo della sentenza. «Con questa sentenza si è messa fine ad un’ingiustizia durata quattro anni e mezzo», ha dichiarato Penati, che è stato presidente della Provincia di Milano e sindaco di Sesto San Giovanni, oltre che capo della segreteria di Pier Luigi Bersani del Pd. «Esce pulita la mia immagine di amministratore ed è stata restituita la mia onorabilità», ha aggiunto. I giudici del tribunale di Monza, presieduti da Giuseppe Airò, hanno assolto gli 11 imputati o perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato, sia con formula piena sia con la vecchia formula dubitativa. Inoltre hanno dichiarato il non doversi procedere per prescrizione per le vicende di concussione che riguardavano le presunte tangenti sulle ex aree Falck e Marelli, e cioè il cuore dell’indagine per il quale, peraltro, ci sono stati anche patteggiamenti. La prescrizione riguarda i reati commessi fino all’autunno 2006 ed è intervenuta tempo fa per via della cosiddetta Legge Severino. Così i giudici, oltre a Penati, hanno assolto Bruno Binasco, ex manager del gruppo Gavio, l’architetto Renato Sarno, l’ex capo di gabinetto della Provincia di Milano, Giordano Vimercati, l’ex segretario generale di Palazzo Isimbardi, Antonino Princiotta, gli imprenditori Giuseppe Pasini e Piero Di Caterina, l’ex ad di Milano Serravalle, Massimo Di Marco, e il manager della stessa società Gianlorenzo De Vincenzi. I fatti contestati riguardano a vario titolo tre episodi di corruzione e due di finanziamento illecito ai partiti. A luglio, al termine della sua requisitoria, il pm monzese Franca Macchia aveva chiesto al tribunale di condannare, tra gli altri, Filippo Penati a 4 anni di carcere, Bruno Vinasco e l’architetto Renato Sarno a 2 anni e mezzo, Antonino Princiotta a due anni e gli imprenditori Piero Di Caterina e Giuseppe Pasini rispettivamente a 2 anni e un anno e mezzo di carcere. Unica assoluzione chiesta era stata quella di Giordano Vimercati, ex braccio destro di Penati, nei cui confronti i Ds avevano rinunciato a costituirsi parte civile. «Assolto Penati. Io non ho mai dubitato. Ma quanto sono lunghi quattro anni?», ha commentato a caldo su Twitter l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani. «In questi quattro anni e mezzo - ha dichiarato Penati - ho soltanto avuto a cuore di ristabilire, davanti all’opinione pubblica, la mia onorabilità». L’ex capo della segreteria di Bersani ha precisato di non essere un «corrotto» e di non aver «mai fatto nulla contro la pubblica amministrazione. Sono solo stato vittima di una grande ingiustizia e oggi gioisco». Penati ha inoltre affermato di essere «estraneo al sistema Sesto, che non esiste. Sulla vicenda Milano-Serravalle - ha proseguito - non ho mai fatto alcun atto illecito. Esce pulita anche la mia immagine di amministratore. È stata una vittoria sofferta». A chi però gli ha fatto notare che il nucleo dell’indagine, quello che riguarda le presunte tangenti legate alle ex aree Falck e Marelli, è andato prescritto, Penati ha risposto: «Questa parte è entrata nel processo e io ho già denunciato l’imprenditore Pasini, che dovrà risponderne in tribunale, e prossimamente farò altrettanto con Di Caterina. Io non ho costretto nessuno - ha continuato - né sono stato corrotto e la vicenda dei prestiti è stata una bufala per coprire problemi propri». Alla domanda se tornerà in politica, l’ex sindaco di Sesto San Giovanni ha risposto: «Un problema al giorno. Questa vicenda mi ha profondamente segnato. La politica rimane una grande passione ma adesso non voglio prendere alcuna decisione». «Il Sistema Sesto esiste in modo chiaro ed evidente. C’è stata gente che ha patteggiato, ma purtroppo una parte di quanto contestato è andata prescritta», è il commento dell’imprenditore Piero Di Caterina, uno dei grandi accusatori di Penati. «La sentenza di oggi è di grande soddisfazione e ha dimostrato che i giudici sono stati sempre presenti e la loro terzietà». L’imprenditore ha inoltre aggiunto che il verdetto del tribunale di Monza «conferma le mie accuse per quanto riguarda il Sistema Sesto e le anomalie nella pubblica amministrazione».
Penati e il «sistema Sesto»: dalle accuse all’assoluzione, che cosa è successo. Le tappe del caso giudiziario che riguarda l’ex sindaco di Sesto San Giovanni (dalla fine degli anni 90 fino al 2001) e poi capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani, scrive Federico Berni su "Il Corriere della Sera" del 10 dicembre 2015.
1. Penati, la carriera politica. Filippo Penati, nato a Monza il 30 dicembre 1952, è sindaco di Sesto San Giovanni dalla fine degli anni 90 fino al 2001 e presidente della Provincia di Milano dal 2004 al 2009. Dopo la vittoria di Pier Luigi Bersani alle primarie del Pd nel 2009, viene chiamato come capo della sua Segreteria politica. Lascerà l’incarico nel novembre 2010.
2. L’inchiesta. Il 25 agosto 2011 la Guardia di Finanza arresta per corruzione l’ex assessore all’edilizia di Sesto Pasqualino Di Leva e l’architetto Marco Magni. La richiesta riguarda anche Filippo Penati, ex sindaco di Sesto, e il suo braccio destro Giordano Vimercati, ma viene respinta dal tribunale. Secondo l’accusa, sarebbero state corrisposte, o promesse, somme di denaro per agevolare il rilascio di alcune concessioni o per impostare secondo determinati criteri il Piano di governo del territorio.
3. Piero Di Caterina, il «grande accusatore». Imprenditore di 63 anni, proprietario di molte aziende, tra le quali la Caronte, attiva nel trasporto pubblico soprattutto nei comuni a nord di Milano, è uno dei due personaggi le cui dichiarazioni hanno dato il via all’inchiesta sul «Sistema Sesto», assieme a quelle del costruttore di 81 anni Giuseppe Pasini. La finanza arriva a Di Caterina partendo da una precedente indagine sulle bonifiche nell’area milanese di Santa Giulia. Nel 2008, Di Caterina scrive per posta elettronica a Penati e Bruno Binasco, manager del Gruppo autostradale Gavio, già arrestato sotto Tangentopoli per aver finanziato in maniera illecita il Pci. Si lamenta apertamente di non essere mai rientrato in possesso di quei soldi «versati a vario titolo dal 1999 a favore di Penati, che ha promesso di restituire». Il documento viene trovato dalla Finanza durante una perquisizione e nel mirino degli inquirenti finisce una triangolazione sospetta di denaro fra Di Caterina, Penati e Binasco, come base l’acquisizione, da parte di Binasco, di un immobile di Di Caterina a un prezzo più alto, in maniera tale da estinguere un debito per conto di Penati. «Penati? Non ha fatto concussioni o corruzioni a Sesto», dirà poi Di Caterina in udienza, riabilitando in parte Penati al quale poi, però, non risparmia la stoccata, definendolo «un Giuda Iscariota», colpevole, a suo dire, «di non aver mantenuto le promesse, e aver bloccato i progetti di Pasini sull’area Falck». A sentire Di Caterina, i soldi versati in contanti al centrosinistra non erano né tangenti, né finanziamenti illeciti, ma «prestiti alla politica». In particolare, ha dichiarato di aver versato in tutto 3 milioni e mezzo di euro: «Iniziai nel ’94 quando mi avvicinai a Penati, e conclusi nel 2000 perché non condividevo più il suo atteggiamento», dice ai giudici del tribunale di Monza.
4. L’interrogatorio. Il 15 ottobre 2011 è il giorno dell’interrogatorio di Filippo Penati. Otto ore di faccia a faccia con i pm nella caserma della Guardia di Finanza di Monza. Penati è indagato per concussione e corruzione in un’inchiesta della Procura della Repubblica di Monza riguardante l’area ex Falck di Sesto San Giovanni. L’ipotesi di accusa parla di quattro miliardi di lire di tangenti pagate tra il 2001 e il 2002. Dichiara Penati: «Ho risposto a tutte le loro domande, ricostruendo nel dettaglio i rapporti da me intrattenuti sia con i coimputati sia, soprattutto, con gli imprenditori che mi hanno accusato». Penati decide inoltre di autosospendersi dal Partito Democratico e di uscire dal gruppo consiliare regionale, per «scindere nettamente la mia vicenda personale dalle questioni politiche» e «per non creare problemi e imbarazzi al Partito», dichiarando anche l’intenzione di rinunciare alla prescrizione.
5. La prescrizione. Le accuse principali di concussione relative a presunte maxitangenti per il recupero delle grandi ex aree industriali, che coinvolgevano Penati, cadono in prescrizione dopo la legge Severino. I due episodi contestati a Penati per l’area ex Ercole Marelli a Sesto risalgono al 2000 e già con le vecchie regole non sarebbero mai arrivati in Cassazione; e la terza concussione (nel 2003 per l’area ex Falck) era già stata bocciata sia dal gip sia dal Tribunale del Riesame, che avevano riqualificato i fatti come corruzione, dunque anche con le vecchie norme già prescritta nel 2011. La Cassazione giudica inammissibile il ricorso dello stesso Penati contro la prescrizione allo scopo di ottenere la piena assoluzione.
6. Il processo e l’assoluzione. Restano in piedi le accuse di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, a partire dalla «gestione occulta» della società autostrade Milano Serravalle. Il 10 dicembre Penati e gli altri imputati vengono assolti da queste accuse. «Con questa sentenza si è messa fine ad un’ingiustizia durata quattro anni e mezzo», dice Penati, che afferma di essere «estraneo al sistema Sesto, che non esiste. Sulla vicenda Milano-Serravalle non ho mai fatto alcun atto illecito. Esce pulita anche la mia immagine di amministratore. È stata una vittoria sofferta». Piero Di Caterina, accusato di varie ipotesi di corruzione e false fatturazioni, è stato assolto anch’egli nello stesso processo. Parte dei reati a suo carico sono caduti in prescrizione. A fine udienza ha dichiarato di essere «molto soddisfatto», perché comunque si è dimostrata «l’esistenza del Sistema Sesto», perché ci sono stati «patteggiamenti (facendo riferimento alle condanne dell’ex assessore sestese Pasqualino Di Leva, dell’ex funzionaria pubblica Nicoletta Sostaro, e dell’architetto Marco Magni ndr)», e una parte «prescritta che non è stata indagata».
Quando la Giustizia è giusta, scrive Giovanni Terzi l'11 dicembre 2015 su "Il Giornale". Le cronache di ieri ci riportano all’ennesima assoluzione dell’ex Presidente della Provincia di Milano Filippo Penati dall’accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Dopo essere stato assolto nelle aule civili ieri con la dizione “perché il fatto non sussiste” l’ex Sindaco di Sesto è stato ritenuto estraneo ad ogni accusa penale: vale a dire “il sistema Sesto” non è mai esistito. Quest’ultimo errore giudiziario non può non farci riflettere su come spesso l’arma della Giustizia venga utilizzata come un macete o per far fuori un avversario politico o per propaganda personale. Ancora mi ricordo quando il 16 giugno del 2014 il Ministro Alfano, in Parlamento, annunciava “le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio”. Ad oggi il processo su Bossetti è ancora aperto e, almeno così appare, dopo le molteplici eccezioni che la difesa del muratore bergamasco ha fatto alla Procura durante le udienze in Tribunale, per nulla scontato nel giudizio finale. Pensiamo che ogni anno lo Stato deve “liquidare” a chi ha subito una ingiustizia circa trenta milioni di euro per ingiusta detenzione; oppure riflettiamo su come dei 3 delitto al giorno che vengono compiuti in Italia circa il 40 per cento rimanga irrisolto e di come per ogni delitto irrisolto ci sia stato un innocente in carcere. Sono dati che fanno paura. In una patria che è stata padre del diritto ci rendiamo sempre più conto che, anziché la presunzione di innocenza prevalga oggi la presunzione di colpevolezza.
LA SINISTRA CORROTTA. Penati e il "Sistema Sesto". Raccontato da “La Repubblica”. Penati e il 'peccato' del Pd lombardo: "15 anni di tangenti e mazzette", scrive Sandro De Riccardis ed Emilio Randacio. Le indagini partono a Milano a fine 2009. I pm indagano su una rete di società che emettono fatture false. Emerge così "il sistema Sesto". Affari e mazzette intorno alla riqualificazione dell'area delle ex Falck. I testimoni parlano di pressioni ricevute dagli esponenti del Pd lombardo, di soldi dati per ottenere le varianti al Piano regolatore necessarie alla lottizzazione dell'area. Le tangenti pagate ammonterebbero a 5,7 miliardi di lire.
È l'inchiesta che scopre "il peccato originale" del centrosinistra milanese: quello degli "ingenti finanziamenti percepiti durante il duplice mandato di sindaco" e che "condiziona tuttora le decisioni di Filippo Penati indipendentemente dal tempo trascorso e dal ruolo ricoperto". L'indagine della procura di Monza, chiusa nei giorni scorsi, diventa uno spaccato sugli affari di un pezzo di partito che - al momento della discovery dell'inchiesta, un anno fa, con le perquisizioni negli uffici e abitazioni di Penati e del suo entourage - si propone ancora come risposta allo strapotere di Formigoni e del berlusconismo al Nord. Le indagini dei pm di Monza, Walter Mapelli e Franca Macchia, mettono sotto tutt'altra luce l'operato di Filippo Penati, ex sindaco di Sesto ed ex presidente della provincia di Milano e dei suoi uomini piazzati nei gangli del potere locale, definiti il "direttorio finanziario democratico" lungo "un quindicennio di sfruttamento della funzione pubblica a fini di arricchimento privato".
Le indagini partono a Milano a fine 2009. I pm di Milano Laura Pedio e Gaetano Ruta indagano su una rete di società che emettono fatture false a favore di Luigi Zunino, ex proprietario dell'area Montecity-Santa Giulia, al centro di un'inchiesta per la mancata bonifica del sottosuolo, e da qui arrivano a Piero Di Caterina, il grande accusatore di Penati. Tra le società cartiera c'è anche la sua Caronte. Di Caterina inizia a svelare ai magistrati "il sistema Sesto", gli affari e le tangenti intorno alla riqualificazione dell'area delle ex Falck. Racconti confermati poco dopo dal costruttore Giuseppe Pasini, ormai ottantenne, primo proprietario di quell'area dismessa. Anche lui parla di pressioni ricevute dagli esponenti del Pd lombardo, di soldi dati per ottenere le varianti al Piano regolatore necessarie alla lottizzazione dell'area, quantifica in circa 5,7 miliardi di lire le tangenti pagate per poter vedere sbloccato il piano di riqualificazione. Da qui partirà l'indagine che conta oggi una trentina di indagati per corruzione, concussione, illecito finanziamento ai partiti, fatture false, tra politici, imprenditori, banchieri, costruttori, manager delle coop rosse, faccendieri. Agli atti dell'inchiesta c'è l'ormai famosa mail con la quale Di Caterina chiede a Penati la restituzione dei soldi che gli avrebbe anticipato con l'accordo di vederseli restituiti quando Penati avrebbe incassato i pagamenti di Pasini. Di Caterina, mette a verbale che Penati si recava personalmente nella sede della Caronte, la sua società di trasporti locali, per ritirare le buste di banconote preparate dalla sua fedele segretaria. Soldi che lui era convinto che sarebbero ritornate in contanti o appalti. Da qui la definizione di "tangenti con l'elastico". Ma quei denari non tornavano mai indietro. E infatti la procura sequestra la durissima mail del 2008, che il proprietario della Caronte invia a Penati e Binasco, 66enne manager del gruppo Gavio. "Nel corso degli anni, a partire dal 1999 - scrive - ho versato a vario titolo, attraverso dazioni di denaro a Penati, notevoli somme" di cui "il sottoscritto ha cercato di tornare in possesso, ma salvo marginali versamenti senza successo. Penati ha promesso di restituire dopo estenuanti mie pressioni, proponendomi nel tempo varie opzioni che si sono rivelate inconcludenti fino a quando ha proposto l'intervento del gruppo Gavio". Nasce così - è questa l'ipotesi della procura - una compravendita con la finta caparra tra Bruno Binasco e Di Caterina. Un contratto che in realtà serve solo a far incassare a Di Caterina i due milioni di finta caparra. Una restituzione di denaro da parte di Penati tramite il gruppo delle autostrade, perché Binasco non esercita l'opzione d'acquisto. Un marchingegno che costa all'ex presidente della provincia di Milano l'imputazione per illecito finanziamento ai partiti. Ma perché il gruppo Gavio doveva accettare di dare quei soldi a Di Caterina per conto di Penati? Nell'inchiesta compare la vendita alla provincia di Milano della quota del 15% della Serravalle da parte del gruppo Gavio. Un'operazione con cui Penati garantisce al gruppo di Tortona una plusvalenza di 179 milioni. Il Nucleo di polizia tributaria di Milano si presenta una mattina di settembre nella sede di Tortona della società per capire le ragioni di quella vendita - 8,83 euro per azione contro i 2,9 a cui aveva acquistato Gavio - e se ci sia un nesso con il successivo investimento di circa 50 milioni di Gavio nella scalata Bnl da parte di Unipol. Un'operazione su quel 15% che i periti definiscono senza "un senso da un punto di vista pubblico" pur avallandola dal punto di vista formale. Nell'affare della riqualificazione dell'area Falck devono entrare per forza le coop. Lo racconta ai magistrati di Monza, Pasini. Secondo l'immobiliarista, la presenza del Consorzio cooperative costruttori di Bologna era la condizione per "compiacere la controparte politica nazionale". E Pasini mette a verbale che accetta le coop perché le riconosce come "snodo fondamentale per il buon esito dell'affare" e per il "loro rapporto organico con i vertici nazionali del Pds". "Stupisce - scrivono i pm - come a fronte delle inadempienze del socio emiliano (la Ccc non pagherà la quota per rilevare i terreni) Pasini riconosca loro il diritto di entrare in ogni caso nell'affare senza chiedere indennizzi, ma anzi pagando mediazioni per prestazioni inesistenti" fino a 3, 5 milioni di euro ai due professionisti Francesco Agnello e Giampaolo Salami che - stando agli atti dell'inchiesta - ricevettero quattro pagamenti da 620mila euro senza realizzare nulla". Pasini è chiaro. "Non potevo contraddire le coop se non rischiando di affossare tutta l'operazione, perché sono il braccio armato del partito". Non c'è solo la riqualificazione delle Falck. C'è anche quella della Marelli. E le due operazioni vanno messe insieme perché entrambe finanziariamente legate con Banca Intesa. I pm accendono un faro sull'istituto chiedendosi "se Banca Intesa non avesse un interesse proprio da perseguire oltre alla normale attività di erogazione del credito". La risposta la offre Pasini: "Contestualmente alla decisione della banca di costruire la nuova sede a Sesto, Baraggia (di Banca Intesa n. d. r.) mi chiese di rilevare l'area Falck, facendomi presente che sarebbe stato un ottimo affare sia per me, sia per loro che volevano impedire lo sbarco della Banca di Roma a Milano per ragioni di prestigio". La Banca è insieme ai soggetti politici l'elemento di continuità nella riqualificazione dell'area Falck. È Banca intesa, insieme con Penati, a spingere Pasini all'acquisto ed è sempre Banca Intesa a sostituirlo - come nuovo proprietario dell'area - prima con Zunino nel 2005 e con Davide Bizzi nel 2010". Scrivono i pm nell'appello contro la decisione del gip di negare l'arresto di Penati: "Appare significativo il ruolo di Banca Intesa nella costituzione della provvista per "la stecca" in Lussemburgo", ovvero i 4 miliardi che l'imprenditore Piero Di Caterina riceve da Pasini per conto di Penati. Per i pm, "la celerità nell'accredito della somma e la successiva movimentazione di denaro inducono a ritenere che la Banca, nella persona di Baraggia, come sostiene Pasini, fosse assolutamente consapevole e complice nell'illecito". Gli investigatori scavano anche nei conti di Fare Metropoli, la fondazione creata da Filippo Penati, che - è la convinzione dei pm Mapelli e Macchia - non ha mai organizzato nemmeno un convegno o un evento politico ma si è rivelata solo un contenitore dove affluivano i soldi per Penati. La procura ha sequestrato nel pc dell'architetto Renato Sarno, beneficiario di diversi milioni di consulenze dalla provincia guidata da Penati e dal Gruppo Gavio, un file excel con un elenco di nomi e cifre per un totale di un milione 398mila euro, corrispondente al biennio 2008-2009. Nomi di società e singoli che hanno finanziato Fare Metropoli o direttamente l'architetto come tramite di Penati. È un'ipotesi che dovrà superare il vaglio del processo, ma che per la procura è la conferma di quanto sostenuto da Di Caterina, che aveva indicato ai pm proprio Sarno come "il collettore di tangenti di Penati". Proprio i finanziamenti a Fare Metropoli portano nell'inchiesta gli ultimi sei indagati (per finanziamento illecito ai partiti). Tra loro Massimo Ponzellini, ex presidente della Banca Popolare di Milano, (cinquemila euro), e Enrico Corali (nominato da Penati in Expo 2015), presidente della Banca di Legnano (controllata da Bpm), che ha versato alla fondazione, nel giugno 2009, diecimila euro. Ma tra i nuovi indagati, anche due imprenditori considerati vicini al Pd pugliese e a Massimo D'Alema: Enrico Intini, indagato a Bari per turbativa d'asta nella sanità e legato a Gianpaolo Tarantini, l'uomo che procacciava le escort per Berlusconi, e Roberto De Santis che condivideva con D'Alema la proprietà del veliero Ikarus. Intini e De Santis - insieme all'architetto Renato Sarno, sono soci in MilanoPace, un'immobiliare molto attiva nella ex Stalingrado d'Italia, che ha versato 20mila euro a "Fare Metropoli". Proprio nell'attico di un palazzo costruito da MilanoPace a Sesto San Giovanni, vive Giordano Vimercati, per anni uomo ombra di Filippo Penati, suo capo di gabinetto in Comune e provincia, oggi "in rapporto professionale" come risulta alla Finanza - proprio con Intini, e indagato con le stesse accuse di Penati. Il sistema di corruzione coinvolge anche il comune di Sesto San Giovanni, dove Filippo Penati fu sindaco prima del grande salto in provincia. Nell'inchiesta risultano indagati anche l'ex sindaco Giorgio Oldrini e l'assessore ai lavori pubblici Pasqualino Di Leva, finito in carcere insieme all'architetto Marco Magni, nel cui studio venne assunta proprio la figlia dell'assessore. È proprio l'archittetto - a cui la procura ha bloccato diversi conti all'estero - ad aver escogitato gli "oneri conglobati", un sistema rivelato agli investigatori ancora da Di Caterina. "Magni in più occasioni - riferisce Di Caterina - mi ha detto che sugli interventi edilizi da lui progettati venivano pagati corrispettivi all'assessore Di Leva". Il denaro veniva mascherato con la "formula degli oneri conglobati, lui ha detto che servivano per far girare la macchina".
"Il sistema tangentizio di Penati: chi non pagava non lavorava". I pm di Monza: "Voleva scalare il Pd e inquinava le indagini". Gli inquirenti delineano un "quadro impressionante" per l'entità delle somme ed i soggetti coinvolti". Un "sistema tangentizio" che parte dal Comune di Sesto San Giovanni. Si allarga seguendo l'ascesa politica di Filippo Penati alla Provincia di Milano. Coinvolge la direzione del Pd e favorisce le coop rosse. I pm di Monza, Walter Mapelli e Franca Macchia, che hanno indagato per più di un anno sul "Sistema Sesto", il meccanismo lo descrivono in una richiesta d'intercettazione, tra le migliaia di pagine depositate al momento della chiusura delle indagini. Le dichiarazioni degli imprenditori Piero Di Caterina e Giuseppe Pasini, i grandi accusatori di Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della Provincia di Milano, "configurano un sistema tangentizio, tuttora operante, a livello comunale ma allargano lo sguardo alle iniziative della Provincia, e attraverso la figura di Penati e del collettore Renato Sarno, a livello di imprenditori di respiro nazionale (gruppo Intinera Gavio) e della direzione nazionale del Partito Democratico".
Nelle carte dell'inchiesta c'è di tutto: le tangenti in Comune di Sesto per la riqualificazione delle aree dismesse (Falck e Marelli) e i finanziamenti occulti per le campagne elettorali; l'imposizione delle coop rosse e gli appalti pilotati. "Un quadro impressionante (per continuità temporale ultradecennale, per rilevanze delle somme promesse pagate, per l'imponenza delle operazioni economiche sottostanti, per ambiti di riferimento e numero di persone coinvolte) di accordi, progetti e pagamenti illeciti tale da configurare una rete parallela occulta tra politica ed imprenditoria". Proprietario delle aree Falck, Pasini non vedrà mai realizzato il suo progetto di riqualificazione ed è costretto a cedere l'area all'immobiliarista Luigi Zunino. "Penati mi disse di versare venti miliardi di lire" ha detto ai magistrati. E in una intercettazione dell'aprile 2011 si sfoga: "Quando loro hanno deciso di non farti lavorare, non ti fanno lavorare, ti fanno perdere anche l'anima, pretendono tutto e in non hai mai niente, qua non è che non vogliono i soldi, per darti quello che è il diritto vogliono i soldi, ma tu gli dai i soldi e non ti danno niente". Nel 2011 l'ex Falck passa nuovamente di mano: questa volta dalle mani di Zunino al gruppo Bizzi. L'assessore Pasqualino Di Leva, arrestato nel primo filone dell'inchiesta per tangenti, parla al telefono con un tale Mirko sul ruolo di Penati nella vicenda. "Lui - dice Di Leva - ha sempre lavorato su molti tavoli eh.. senza mai.. senza mai venir fuori in prima persona... ". Il progetto è impantanato in Consiglio comunale. Riferisce una frase del direttore generale del Comune, indagato, Marco Bertoli che lo ha chiamato per redarguirlo: "Ma tu ti metti contro - avrebbe detto - hai ragione però qui è una questione politica.. Roma dice di andare avanti". Gli investigatori raccolgono le dichiarazioni di Luca L. C., 26 anni, che dopo aver collaborato al comitato elettorale di Penati, inizia a lavorare nella sede di Fare Metropoli, l'associazione culturale che ha raccolto 368mila euro di contributi. "L'associazione - dice il ragazzo - aveva il fine di promuovere cultura politica. Nel periodo in cui ho svolto questa attività però l'associazione non ha organizzato iniziative e di fatto costitutiva la base logistica per l'attività di Penati, che in quel periodo era consigliere provinciale e coordinatore nazionale della mozione Bersani al congresso nazionale del Pd". Il 30 maggio 2011, a Milano Giuliano Pisapia stravince il ballottaggio alla poltrona di sindaco, con Letizia Moratti. Una vittoria, per il centrosinistra, che la "banda" di Sesto, vuole fare immediatamente fruttare. Il 10 giugno, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria captano un'intercettazione tra Di Caterina e Antonio Rugari, ex presidente del Consorzio trasporti di Sesto San Giovanni. "I due - scrivono i detective - parlano delle recenti elezioni e concordano sulla circostanza che una volta nominati gli assessori e ufficializzate le deleghe "ci muoviamo"". Il significato di questa affermazione viene collegato "alla soluzione del contenzioso che vede contrapposti Di Caterina e la società Atm (partecipata proprio dal Comune di Milano, ndr), per la suddivisione degli introiti dei biglietti del servizio pubblico ". Di Caterina "dice che è importante parlare con Maran, probabile assessore alla Mobilità (l'ufficialità della nomina avviene solo il giorno seguente la conversazione)". Non solo, nel mirino della coppia finisce anche l'attuale assessore alle Finanze, Bruno Tabacci. "Rugari dice che cercherà di parlare seriamente con Tabacci, "anche perché se lui è alle partecipate, la società con cui abbiamo il problema è una partecipata ". Di Caterina avverte: "Lì è importante vedere se si riesce a portare avanti un discorso di transazione, sennò siamo spacciati". Per avere un occhio di riguardo dalla nuova giunta, Rugari tira in ballo anche l'allora vicepresidente del consiglio regionale Penati. Il 13 giugno invia questo sms all'alto dirigente del Pd lombardo. "Ciao Filippo, considerato come è andata a Milano, credo che si possa tentare di risolvere la questione di Piero... ". Penati glissa con un "questa settimana impegnato, ci sentiamo lunedì". In una conversazione del 26 agosto scorso, il funzionario di Banca Intesa Maurizio Pagani (indagato per corruzione nell'inchiesta), è al telefono con il responsabile dell'ufficio legale del colosso bancario, Davide Chemolli. Al telefono, ricordando la trattativa per la cessione del pacchetto azionario della Serravalle dal gruppo Gavio alla Provincia guidata da Penati, Chemelli afferma: "Il premio di maggioranza, che era ampio, intorno al 30%, e in quel 30% Penati ha trovato lo spazio di trarsi la sua stecca personale, sua e di Vimercati". Il giorno successivo al coinvolgimento di un funzionario di Intesa nell'affaire Sesto, l'attuale ministro dello Sviluppo, Corrado Passera (all'epoca numero uno di Intesa), chiede delucidazioni in merito allo scandalo.
Attraverso il consigliere del Cda, Piero Prado, "voleva la conferma da Pagani che l'unica vicenda che riguardava la banca fosse la Serravalle". Dopo che gli imprenditori Pasini e Di Caterina hanno iniziato a raccontare il sistema Sesto ai pm monzesi, i principali attori di questo affaire, si agitano. Il 26 aprile 2011, Raffaella Agape, ex collaboratrice di Giordano Vimercati, chiama Franco Maggi, portavoce di Penati. Lo informa di essere stata convocata dai pm di Monza". Trascorrono pochi minuti, e Maggi "ha un contatto con Penati, chiede di potersi incontrare ma usa un tono molto evasivo... evitando di palesare al telefono il contenuto della conversazione appena avuta con Agape". Poco dopo l'interrogatorio, l'ex collaboratrice del clan Penati, al telefono con il marito è furibonda, "e inveisce contro Di Caterina che, a suo dire, l'avrebbe chiamata in causa "è un cretino, che cosa mi ha messo in mezzo a fare?... quello che so, non glielo dico (ai magistrati, ndr), faccio finta di non sapere niente". All'indomani della convocazione, la signora Agape "è scossa", ma "a una persona di fiducia, rivela di essersi incontrata con Vimercati ". Per l'accusa, il motivo è chiaro: "Per metterlo al corrente dell'esito del proprio colloquio con il pm". Nella intercettazione captata, la Agape racconta di aver visto "ieri sera a casa mia Vimercati", aggiungendo un non meglio specificato, "chiaramente la cosa si è ripercossa su Roma, cioè, è un casino. Hanno tutti i telefoni sotto controllo, il mio probabilmente no (sbaglia, ndr), ma i loro sì". L'agitazione del gruppo Penati si manifesta in "un sms rassicurante inviato da Maggi a Penati, verosimilmente da ricondurre al colloquio tra Vimercati e Agape: "Non tel, non news, no problem"".
LA LEGA CORROTTA. Dalla banca padana alle truffe sul latte. Quanti pasticci in casa del Carroccio, scrive Walter Galbiati. Deputati e senatori, sindaci e consiglieri di piccoli comuni. Nelle carte delle procure del Nord sono finiti molti esponenti leghisti per corruzione o reati legati alla p.a.. Ma c'è anche chi, con una condanna per stupro alle spalle, è pronto a ripresentarsi alle elezioni. La maggior parte delle volte, non c'è reato, ma spesso il potere leghista non guarda in faccia nessuno. E anche al Nord, sindaci, assessori e capigruppo "tengono famiglia". Moglie e figli vengono così sistemati su poltrone e poltroncine di un certo pregio.
Oltre all'inchiesta che sta facendo tremare i vertici del movimento, la Lega paga ancora i conti della sua sfortunata avventura bancaria alla fine degli anni '90. Sponsorizzata dall'allora capo di Bankitalia Antonio Fazio, alla ricerca di una sponda in Parlamento, e salvata dal 'furbetto del quartierino' Gianpiero Fiorani, Credieuronord, l'istituto di credito sognato dal Senatur, è naufragato poi tra i debiti.
Colpa, anche, delle operazioni spericolate per nascondere il maxi raggiro da 100 milioni di euro da parte di allevatori vicini al partito. Prima di mettere gli occhi sul complicato mondo delle Fondazioni bancarie, i leghisti hanno cercato di farsi la banca in casa. Si chiamava Credieuronord ed è risultata poco più che una meteora nel firmamento degli istituti di credito. Nata nel 1998, finanziata da piccoli risparmiatori padani, l'istituto è andato pochi anni dopo in liquidazione. Da lì sono passate alcune torbide storie della finanza del Nord. Un tentativo di salvataggio dell'istituto era arrivato da Gianpiero Fiorani con la sua Popolare di Lodi, un gesto interpretato dalla procura di Milano, che indagava sulla scalata di Fiorani alla Banca Antonveneta, come "un favore" alla Lega per mitigare la posizione del partito contraria al mantenimento della carica di governatore della Banca d'Italia a vita, allora in discussione in Parlamento e ricoperta da Antonio Fazio, alleato di Fiorani. E' lo stesso banchiere lodigiano, nell'interrogatorio del 5 gennaio 2006 di fronte ai pm milanesi Greco, Perrotti e Fusco a spiegare cos'era per lui Credieuronord: "A Fazio serviva l'appoggio della Lega in Parlamento. Giorgetti si era impegnato a sostenere il governatore in cambio del salvataggio della banca". Ai leghisti, invece, come Giancarlo Giorgetti sarebbe servito salvare Credieuronord dal fallimento per coprire le operazioni spericolate dei vertici del movimento e le intermediazioni fittizie con le cooperative di allevatori create per nascondere la truffa delle quote latte non pagate. Qui nella banca padana vi erano i conti dei produttori del latte, vicini alla Lega, finiti al centro di più inchieste per una truffa da 100 milioni di euro attuata aggirando le normative europee, somme che dovevano essere versate all'erario, ma di cui si sarebbero appropriati gli stessi allevatori. Nel filone dell'inchiesta milanese, in primo grado è stato condannato a 5 anni e mezzo di reclusione Alessio Crippa, rappresentante di una cooperativa del latte e definito il 'Robin Hood'dei produttori. Con lui altri 15 allevatori e produttori a pene comprese tra uno e due anni e sei mesi. Il giudice ha imposto un risarcimento all'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) per 300 milioni di euro e ha confiscato beni per 18 milioni. La ricostruzione della vicenda, invece, si ritrova nelle motivazioni con cui il tribunale di Saluzzo ha condannato per truffa una sessantina di allevatori cuneesi, tutti soci delle cooperative Savoia fondate da Giovanni Robusti, leader dei Cobas del latte piemontesi e successivamente europarlamentare del Carroccio. I giudici Fabrizio Pasi, Fabio Cavallo e Fabio Franconiero raccontano così il raggiro: "Dal momento in cui gli allevatori fatturavano il latte che eccedeva le quote loro assegnate, venivano effettuate (dalla cooperativa) tre registrazioni. La prima estingueva il debito nei confronti del fornitore del latte facendo sorgere contemporaneamente un debito nei confronti degli organi competenti per il superprelievo (la multa n. d. r.). La seconda registrazione registrava lo spostamento del denaro dal conto della banca utilizzata dalle cooperative per incassi e pagamenti a un conto acceso presso la banca Credieuronord. La terza registrazione, che seguiva di pochi giorni le altre due, veniva effettuata in corrispondenza dell'uscita del denaro dal conto della banca Credieuronord". Il denaro tornava così agli allevatori che non pagavano la multa. Oltre ai soldi delle quote latte, da Credieuronord erano passati anche quelli dello "scandalo dei fallimenti" che hanno invischiato la commercialista Carmen Gocini e i fratelli Borra. Dalla banca sarebbero stati prelevati contanti la cui destinazione non è mai stata chiarita.
PARLIAMO DELLA MILANO MAFIOSA
Politici, dirigenti, interi quartieri: così la 'ndrangheta s'è presa il Nord, scrive Andrea Scaglia su “Libero Quotidiano”. Esponenti di partito comprati, aree urbane elettoralmente indirizzabili, colletti bianchi: la "capitale morale" è solo un ricordo. L’assessore definito con disprezzo «pisciaturu» che frigna davanti al mafioso. La cosca calabrese e il clan camorristico che s’affrontano e poi s’accordano sul commerciante da “proteggere”. Condomìni e quartieri elettoralmente indirizzabili a piacimento. Ecco a voi la Milano 2012, purulenta di crimine e malaffare. E par quasi di vederla riflessa sul duomo, questa figura d’esponente «moderno» della ’ndrangheta - così lo definisce il magistrato. Eugenio Costantino, personaggio centrale dell’inchiesta che ha portato all’arresto dell’assessore regionale lombardo Domenico “Mimmo” Zambetti. Cosentino di anni 51, Costantino è «commerciante molto inserito nell’hinterland nord di Milano». Gestore di fatto di quattro botteghe “Compro oro”, quelle che negli ultimi anni si sono moltiplicate fra chiacchiere e sospetti, da lui intestate a moglie e amante e prestanome. Uno che «non si sporca, sempre ben vestito e dotato di una certa cultura, capace di relazionarsi». L’emblema del colletto bianco che, nonostante la sua non sia famiglia mafiosa, «ha deciso di stringere per convenienza rapporti organici con la ‘ndrangheta lombarda». Uno squalo che segnala ai clan gli imprenditori in difficoltà da spremere in cambio di «protezione», e anche i politici da arruolare. Agisce come «rappresentante» e «portavoce» delle cosche. Blandisce, tesse e, senza fretta, monetizza. È lui che fa visite regolari a Zambetti, stempera le ire del boss, incassa i soldi dovuti in cambio di quei 4mila voti risultati decisivi per l’elezione. Ed è davanti a Costantino che lo sciagurato assessore scoppia in un pianto disperato e patetico, col primo poi a commentare con il compare che «lui, sai quante persone ha fatto piangere? Solo così, non c’è altra alternativa per farli piangere. Ecco perché sarò sempre dalla parte della delinquenza».
«È sempre meglio averlo, un amico» in Regione Lombardia o al Comune di Milano. Anche perché, se un politico poi non si conferma «la persona seria» che ai clan di 'ndrangheta sembra quando gli si offrono i voti e lui li accetta, c'è sempre modo di rimediare: «Sennò dopo andiamo a prenderlo e lo crepiamo, parliamoci chiaro..., lo andiamo a prendere in ufficio e lo... lo crepiamo di palate». Così riporta Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. L'«amicizia» prima di tutto, ripetono in continuazione i boss nei colloqui intercettati dall'inchiesta del pm milanese Giuseppe D'Amico. Ma l'idea di «amicizia» coltivata dalle cosche - quelle che «ce l'abbiamo in pugno» l'assessore di Formigoni alla Casa, Domenico Zambetti, arrestato mercoledì per voto di scambio, concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione aggravata - è un accorto investimento sul futuro nel particolare «mercato dei voti», dove «le regole - riassumono gli inquirenti - sono molto semplici: da una parte il politico ha necessità di aumentare il pacchetto di preferenze elettorali per incrementare il consenso politico e ricoprire un incarico maggiormente significativo nelle istituzioni pubbliche, dall'altra le cosche hanno l'interesse a incassare sia denaro sia maggiori vantaggi che possano derivare dai futuri incarichi ricoperti dal candidato, il quale, da quel momento, volente o nolente, diviene una risorsa che la consorteria impiega per consolidare il proprio potere sul territorio». Se questo è l'obiettivo, gli «amici» nei clan mettono in conto persino qualche piccolo iniziale sacrificio di tasca loro, proprio come avviene quando si investe sul futuro. Lo rivela bene uno dei due ambasciatori delle cosche calabresi nei rapporti con i politici lombardi, Eugenio Costantino, un giorno in cui con un complice non parla dei 200.000 euro per 4.000 voti propiziati nelle regionali 2010 all'assessore Zambetti, ma dei 500 voti appoggiati sulla campagna 2011 per il Comune di Milano della ignara figlia Sara dell'ex presidente del Consiglio comunale Vincenzo Giudice: il quale, per gli inquirenti, stringe l'accordo ma non vuole pagare in denaro i voti offertigli da una apparente cordata di professionisti calabresi, dicendosi però disponibile a dare poi una mano nei lavori della metrotranvia di Cosenza, appaltata alla società della Metropolitana milanese che all'epoca presiedeva. «Quello - riferisce ai complici Costantino - dice di non avere una lira... questo qua ha promesso davanti a me e a un altro testimone che, se la figlia prende un po' di voti, "io vi garantisco che qualche lavoro riesco a darvelo, soldi non ne ho, però se trovo i vostri voti io vi aiuto con il lavoro, con il lavoro a me mi è molto più semplice", ha detto. Arrivati a questo punto cosa facciamo? Gli diamo una mano lo stesso, però prendiamo accordi per lavori successivi - delinea Costantino -. Magari qualche voto glielo facciamo dare lo stesso». Perché «ohh non si sa mai, crearsi un amico in più non fa mai male, un nemico non fa bene... è sempre a Milano, qualche appaltino ce lo può passare... Per esempio adesso abbiamo aiutato questo di Milano e grazie a noi ha preso 500 voti, magari abbiamo bisogno del Comune di Milano e possiamo andare, perché è dentro al Comune». Così poco a poco, osservano gli investigatori, «un atteggiamento parassitario lentamente sta spostando l'ago della bilancia in favore delle cosche che, sfruttando questa risorsa, sono in grado di accrescere a dismisura il loro potere sul territorio. La vincita degli appalti, al di là di indubbi vantaggi economici, è in grado di alimentare ulteriormente quel serbatoio di voti da orientare nelle successive consultazioni elettorali, creando lavoro all'interno della stessa comunità calabrese. E questo rappresenta quel sottile meccanismo in grado di mettere nelle mani di pochi (le cosche) la possibilità di deviare i flussi elettorali». Zambetti (che oggi, difeso dall'avvocato Giuseppe Ezio Cusumano, verrà interrogato dal gip Alessandro Santangelo) si dice molto scosso dal carcere, dove soffre diabete e pressione alta, respinge gli addebiti e confida che i magistrati lo riconoscano. Afferma di non aver saputo che le persone che dicevano di volerlo appoggiare fossero dei clan, nega di aver barattato soldi con voti, sostiene di aver solo pagato modesti rimborsi per ristoranti elettorali, accenna di aver poi avuto paura a partire da una lettera minatoria. Anche il sondaggista Ambrogio Crespi (fratello di Luigi), arrestato, ma come asserito collettore di voti, e anch'egli interrogato oggi con l'avvocato Marcello Elia, respinge le accuse: lamenta di essere vittima solo di quanto altre persone direbbero di lui al telefono, rimarca di non essere stato a Milano nel periodo caldo delle elezioni 2010, spiega l'enfatizzata conoscenza con Vallanzasca solo con l'intervista alla moglie dell'ex bandito nel dicembre 2011 sul suo giornale online Il Clandestino , e ricorda quanti pochi voti prese perfino per sé quando nel 2006 si candidò. Il meno che si possa intanto dire è che chi fa politica non è schizzinoso. Ecco ad esempio Giudice (indagato per l'ipotesi di corruzione), dopo che la figlia ha preso oltre 1.000 voti in Comune, al telefono con quello che crede essere un avvocato calabrese e non sa sia un 'ndranghetista, ma dal quale sa di aver ricevuto l'offerta di voti in cambio di soldi.
Costantino: «Allora Enzo, contento o no?».
Giudice: «Contento sì per lei, ha fatto un risultato eccezionale, peccato non ci sia la possibilità di entrare perché questa cavolo di lista non ha preso i voti necessari».
Costantino: «E vabbe', lei ha fatto bella figura, l'importante che non ha fatto un fiasco, è quello che si voleva no?».
Giudice: «Esatto, esatto».
Costantino: «Ho detto "spero che Enzo sia rimasto contento"...».
Giudice: «Assolutamente sì... Poi stavamo vedendo anche come organizzarci per ringraziare... quelli che ci hanno aiutato...».
Costantino: «Non c'è problema, quando vuoi. Noi siamo qua...».
Il racconto. "Zambettino se l'è fatta sotto". Il disprezzo dei boss per i politici, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Nelle intercettazioni i capi della 'ndrangheta parlano con toni trancianti dell'assessore lombardo e di tutta la categoria. "Hai visto che ha pagato quel pisciaturu? Senza di noi chi lo eleggeva quello?".
"Piccoli e grandi, sono uno peggio dell'altro". Per la politologia, per gli allievi di Max Weber l'assessore Domenico Zambetti è "la degenerazione del sistema". Per i malacarne è "un pisciaturu", un gabinetto. Il concetto è lo stesso, solo il linguaggio cambia, da un lato fior di parole e di dottrina e dall'altro il lessico gergale dei residui organici. Insomma i mafiosi delle 'ndrine che disprezzano "'sti politici di merda" almeno in questo sembrano 'normali italiani: "Piccoli e grandi, queste merde sono uno peggio dell'altro". Come tanti di noi, anche loro non distinguono, accorciano, vanno veloci.
Pure per i 'ndranghetisti la sporcizia della foce è già sporcizia della sorgente, come per Grillo che parla in generale di "zombie", come per Renzi che la fa spiccia e tratta tutti come "rottami". Solo che i mafiosi sono più immediati e più primitivi e quanto più disprezzano tanto più apprezzano: "le corna sue" dicono mentre si fregano le mani. E poi: "Cirù, conta questi soldi". E si sentono sottopagati, Eugenio e Costantino, e quasi litigano. "Sono solo cinquanta euro a voto", una miseria, ben sotto il prezzo di riferimento: "Al Sud sono almeno 80 euro a voto". Il valore-voto nel Meridione è il Gold Standard dell'economia politica mafiosa. E però a Reggio Calabria, che è la Wall Street della 'ndrangheta, la mafia non trova più appalti, è costretta a speculare sui pidocchi, il Ponte non si farà, il Consiglio comunale è stato sciolto, rimangono le tombe, i funerali e i Bronzi di Riace; l'edilizia pubblica è ridotta a qualche scavo e a un po' d'asfalto. Qui invece c'è l'Expo e "le imprese ce le abbiamo, le cooperative ci sono" e insomma "dato che vogliamo pure del lavoro bastano 50 euro a voto e stop". Poi Costantino si spiega ancora meglio con quella testa dura e avida di Eugenio: "Un acconto prima e la rimanenza te la danno dopo. Funziona così. Eh". Più verbali leggiamo e più si capisce che non sono loro i marziani. Infatti scopriamo che il vero mostro non è il corruttore calabrese ma il corrotto milanese che "si è cagato addosso, si è cagato completo".
Il linguaggio impastato di fango e di minacce diventa così il linguaggio inedito della soddisfazione disgustata, e cresce il senso di superiorità compiaciuta sino al trionfalismo sfrontato: "Si è messo a piangere davanti a me e a zio Pino, eh!, come piangeva". Le lacrime della vittima sono sempre medaglie per i bulli; sono la prova che, comunque, ne valeva la pena. C'è un momento nel film il Padrino, che è la Bibbia dei malacarne, in cui il cantante scoppia in lacrime perché la fidanzata lo tratta male. Ebbene, don Vito Corleone lo prende a schiaffi: "Cianci, a fimminedda cianci, piange, la femminella piange". Le lacrime infatti sono virili solo nei funerali e sempre senza singhiozzi, in silenzio. E invece in questi verbali c'è il politico che singhiozza davanti a due mafiosi. Neppure Mario Puzo se l'era immaginato. Davvero, dal bacio di Andreotti al pianto di Zambetti è cambiato tutto. I politici non sono più "i pezzi da novanta", non fanno più parte del mondo parallelo, ma sono direttamente impiegati della mafia: "Ce l'abbiamo in pugno", "gli facciamo un culo cosi", "lo facciamo cagare sotto", "l'abbiamo fotografato con Pino giusto per avere una prova..., ma per ora non gli diciamo niente" perché non c'è bisogno. E difatti, esecutore e zimbello, Zambetti promette appalti per l'Expo e intanto sistema la figlia e l'amante del boss Costantino, ottiene la proroga al contratto di parrucchiera di sua sorella ... Ma nessuno lo ringrazia mai. Anzi, i malavitosi se la spassano a maltrattarlo e a mettergli paura: "Con quel diabete stia attento al ... mangiare". Lo spaventano, gli dicono che lo faranno "saltare in aria". Pino D'Agostino che è in Calabria annunzia divertito: "Salgo io e ci parlo, che così ci capiamo". E ridono di lui: "oh Zambettino Zambettino". E non sono più i vermi che infradiciano la politica, ma è la politica fradicia che produce i vermi: "Altrimenti chi lo eleggeva? Nel mio piccolo io sinceramente li meritavo centomila euro, nel mio piccolo nel Magentino gli ho fatto dare 700/800 voti. "Una volta le anime che ogni temutissimo mafioso controllava erano artigiani e commercianti, tutto il presepe dell'ordine sociale che pagava pizzo e pegno. Ora il mafioso porta voti, ha "sposato" la democrazia, è pastore di un gregge che fa aritmetica elettorale ed è ammirato e invidiato come una volta i soprastanti che mettevano tutti in riga con il coltello e la lupara: "I voti a Milano li ha fatti prendere Ambrogio (Crespi). Quello sì è un bandito! L'altra sera mi ha chiamato ed era con Vallanzasca" che qui diventa la star, il testimonial di un nuovo ceto politico consacrato alla delinquenza: "Mi ha detto, vieni che vi faccio salutare Vallanzasca". E sono nuove specializzazioni del professionismo della politica che avrebbero ubriacato Max Weber, mentre l'assessore, il politico classico, perde pure l'identità e non ha nemmeno la dignità del picciotto, ma è solo e sempre "a disposizione". E difatti "senza di noi, sai chi lo eleggeva!". Perciò l'eletto offre e promette i lavori da appaltare alle 'ndrine che più hanno schifo di lui e più lo ricattano, e più lo ricattano e più lo disprezzano, felici di trattare con una materia infima, come i monatti che facevano affari con gli appestati, come gli spacciatori con i drogati: "Non ha parlato male: "Voi me lo segnalate e io cerco di farvelo fare". Ce l'ha garantito che ci dà lavoro in questi cinque anni". E gli mandano pizzini che sono promemoria intimidatori, veri e propri contratti di servitù ma compiaciuti e scanzonati: "Gli abbiamo mandato un lettera, Cirù, una cronistoria di come sono andate le cose, di come erano i patti". È la solita lingua della violenza ma divertita, una grammatica di morte ma allegra: "Una lettera talmente scritta bene, cirù, cioè si vede che c'era gente laureata nel gruppo". E dunque altro che colletti bianchi! I professori sono arrivati anche nella malavita e a Milano il pizzino è diventato florilegio di tocco e toga. Ma ogni tanto, per non perdere le buone abitudini, tornano ad accarezzare l'idea di farlo saltare in aria: "Eh, Zambettino Zambettino". Eppure la storia ci racconta che "il ministro della malavita" (1910) Giovanni Giolitti comunicava ad occhiate con gli emissari della camorra che restavano, "timorosi e rispettosi", dall'altro lato della strada. E il politico del Padrino dice a Tom Hagen, il figlio adottivo di don Vito Corleone: "Non ho paura di voi che avete i capelli unti di olio d'oliva". Invece qui "se l'è fatta sotto completo". Forse perché questi mafiosi sfogano sui politici gli stessi umori dell'antipolitica dilagante. Ogni volta che ne fanno tremare uno, che lo fanno piangere, ogni volta che lo costringono a farsela addosso usano parole e stilemi che drammaticamente somigliano a quelli degli indignados italiani: "Il potere lo hanno loro, i politici e la legge. Però ogni tanto una soddisfazione ce la prendiamo. Solo così possiamo prendercela qualche soddisfazione". Ed è un punto di vista che purtroppo ci segna. Perché non riesce a farci più pensare all'istituzione umiliata questo assessore che sta sotto il codice onorevole dei mafiosi, è nella scala zoologica l'ultimo animale dello "zoòn politikòn". Il fatto nuovo e inaudito è che la malavita più odiosa e spietata è riuscita a privarci della compassione che sempre abbiamo avuto per le sue vittime. Non suscita infatti pietà, nessuna specie di pietà, la vittima che ha disgustato anche la mafia.
Feste, ostriche e boss: ecco chi era il trasformista Zambetti. Mimmo "pisciaturo" ha cambiato 5 partiti, dalla Dc al Pdl. Famosi i suoi party in una lussuosa villa del Mantovano e le sfuriate coi collaboratori scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Ex dirigente dell'Asl Città di Milano, Domenico “Mimmo” Zambetti, l’esponente politico lombardo che non si faceva scrupoli a intrattenere rapporti coi mafiosi delle ’ndrine, quelli già al centro della maxi inchiesta “Infinito”, che svelò la lugubre cena al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, in cui i mafiosi elessero Pasquale Zappia ai vertici dei clan calabresi lombardi, ha iniziato presto la sua attività politica. I suoi detrattori lo indicano come uomo per tutte le stagioni, pronto a cambiar casacca a seconda delle convenienze: dalla Dc, alla Cdu in compagnia di Buttiglione, al patto Segni, prima di confluire in Forza Italia e poi nel Pdl, fedelissimo di Franco Nicoli Cristiani (anche lui indagato per peculato e truffa aggravata) e ottenere nel 2005 l’assessorato all’Ambiente e all’Artigianato (famosa la sua proposta di vietare in Lombardia l’uso dei caminetti e di abbassare a 17 gradi la temperatura nelle case per combattere lo smog), e l’ambitissima poltrona di assessore alla Casa. Come un novello Cetto la Qualunque, di Domenico Zambetti, l’uomo dalle frequentazioni pericolose, oggi si racconta la passione per le feste a base di ostriche e champagne nella lussuosa villa di Grole, una frazione di Castiglione delle Stiviere a Mantova. Feste ambitissime e frequentate da imprenditori e ras della politica: nella villa a due piani con tanto di parco e vasca idro a tre piazze, Mimmo non si faceva mancare mai nulla.
L'ombra della 'ndrangheta anche sui voti di Sara Giudice, l'anti-Minetti, scrive “Libero Quotidiano”. Quando Sara Giudice andava da Santoro come eroina anti-Minetti. Nel gennaio 2011 la pasionaria del Pdl sparava a zero contro Nicole, davanti a un Michele compiaciuto. Ora suo padre è indagato con l'accusa di aver comprato voti dalla 'ndrangheta per far eleggere la figlia. La giovane alle ultime regionali avrebbe ottenuto 1000 voti grazie ad un accordo del padre con i mafiosi. Ma non lui non lo sapeva. Le stesse cosche della 'ndrangheta che avrebbero aiutato Domenico Zambetti a farsi eleggere (dietro lauto compenso) avrebbero offerto e garantito voti anche a Sara Giudice, ex esponente del Pdl che creò la campagna anti-Nicole Minetti. E’ quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare, emessa, tra gli altri, per l'assessore alla Casa della Regione Lombardia. In questo caso le cosche si sarebbero presentate come cordata di imprenditori. A quanto pare, però, Sara Giudice era inconsapevole di quel che ci stava dietro e non è stata nemmeno indagata. A fare l'accordo con i mafiosi sarebbe stato il padre, Vincenzo Giudice, ex consigliere comunale ed ex presidente della società Metro Engeenering, ma non c'è prova che anche lui sapesse con chi avesse a che fare. Inoltre non avrebbe dato denaro, ma soltanto promesso una generica disponibilità a far entrare le imprese dei calabresi negli appalti della metrotranvia di Cosenza che verrà realizzata appunto da "Metro Engineering". “Sara Giudice, nel pomeriggio, ha convocato una conferenza stampa davanti a palazzo Marino: "E' chiaro che si tratta di un complotto perchè ho dato fastidio e qualcuno aveva tutto l’interesse a incastrarmi”. La 27enne, protagonista della battaglia contro l'ingresso di Nicole Minetti in Consiglio regionale, ricorda: “Un anno e mezzo fa ho fatto una battaglia chiara a tutti per il merito e per la pulizia della classe politica e questa battaglia ha fatto sì che andassi contro l’uomo più potente d’Italia, Silvio Berlusconi, quando aveva il 30% di voti. Questo ha dato fastidio a molti ma io sono una persona per bene. Chi in questo Paese vuole fare qualcosa di onesto e pulito - commenta - viene travolto”. Per la sua battaglia contro l’elezione di Nicole Minetti Sara Giudice venne espulsa dal Pdl e da allora, spiega “non ho più sentito nessuno del partito, nemmeno Silvio Berlusconi che non credo mi voglia molto bene”. Tornando all’indagine che la vede protagonista “io - sottolinea - posso portarvi tutti i 1.028 elettori che mi hanno votato. Si tratta di gente onesta non credo che alla 'ndrangheta interessi una ragazza di 27 anni che vuole combattere quel sistema che oggi ha portato all’arresto di un assessore del Pdl.
"Vip" e aristocratici: ecco il gotha della 'Ndrangheta. Le origini del clan calabrese che voleva entrare in affari con l'assessore Zambetti raccontato da Arianna Giunti su “Panorama”. Sono meno di cento i passi che separano il suo vecchio nascondiglio dal santuario dove ogni giorno, si dice, nonostante la latitanza, andasse a pregare. Devoto alla Madonna e a San Giuseppe, quando i carabinieri gli sono venuti incontro dopo 12 anni di abbagli e piste bruciate, ha teso i polsi per farsi ammanettare mormorando: “Trattatemi bene, che se non lo facevate voi non mi prendeva nessuno”. Parte da qui, da Peppe Morabito detto “U Tiradritto”, 78 anni, oggi detenuto in regime di massima sicurezza nonostante l’età nel carcere di Reggio Calabria, la saga della famiglia più influente e aristocratica della ‘Ndrangheta calabrese. Una dinastia che attraversa decenni, fatti storici, cambiamenti politici, interessi economici e che si srotola fino ad oggi fra patti, affari, esecuzioni in grande stile in un fil rouge che ha il colore del sangue. Perché è stato proprio lui, U Tiradritto, nato il giorno di Ferragosto del 1934 nella frazione Casalnuovo di Africo Nuovo, nella Locride più assolata, il primo a decidere di fare affari al Nord, dove aveva trascorso un periodo di soggiorno obbligato nel 1982. Facendo sì che la cosca calabrese più potente dell’epoca si radicasse anche in Lombardia, terreno fertile per affari economici dalla parvenza legale e accordi politici strategici, come quelle che – secondo la Procura di Milano – avevano stretto con l’assessore regionale Domenico Zambetti vendendogli voti per 200mila euro. Un impero, quello degli “africoti”, che a Milano vantano alleanza con i “compaesani” di Africo Bruzzaniti e Palamara, le cui fondamenta poggiano attualmente sul traffico di cocaina e su attività imprenditoriali di vario genere: ristoranti, discoteche, locali notturni. Ma soprattutto, la loro capacità imprenditoriale sta nel saper tessere contatti e relazioni con intelligenza e maestria, superando il concetto di rivalità fra organizzazioni criminali. Tanto che, vuole la leggenda, accreditata anche dalle parole del pentito Vittorio Ierinò, lo stesso capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina potè contare sull’amicizia e la protezione di U Tiradritto trascorrendo un periodo della sua lunga latitanza proprio ad Africo, travestito da prete. Imbattibili nel riciclaggio di denaro sporco, in una delle loro imprese criminali non hanno esitato a chiedere la mediazione dell’ex parroco di Brancaleone Franco Mondellini, esponente internazionale dell'Ordine dei Cavalieri di Malta. E hanno stretto alleanze criminali con organizzazioni kosovare, albanesi e i narcos colombiani in modo da esportare il loro impero in America, in Australia e in Africa.
Un clan familiare che, appunto, si distingue dagli altri. Se non altro per una questione territoriale. Spiega Maria Josè Falcicchia, oggi vice dirigente della Squadra Mobile di Milano e prima donna a essere chiamata a dirigere una sezione (la Catturandi) che si occupa di criminalità organizzata e latitanti: “I Morabito sono considerati a tutti gli effetti dei “signori” nel loro mondo criminale.
Proprio perché, al contrario delle altre famiglie, radicate nell’Hinterland, loro vivono a Milano città. Frequentano il “bel mondo”, fanno una vita sociale molto intensa, possiedono locali notturni. Si comportano, insomma, come l’aristocrazia della ‘Ndrangheta”. Presenti nel cuore della capitale morale d’Italia, dunque, si distinguono anche per il livello di istruzione dei loro figli e nipoti, di cui si fanno vanto. Alcuni fra loro sono medici, altri avvocati. Lauree ottenute – se occorre – anche con la violenza, senza perdere il piglio mafioso neppure davanti ai libri. Risale agli anni Novanta l’inchiesta Olimpia, che fece luce su infiltrazioni mafiose del clan Morabito nell’Università di Messina, dove i trenta si ottenevano con intimidazioni e pistole. Nella famiglia Morabito, inoltre, anche un vip: il calciatore di serie A attualmente in forza al Genoa Giuseppe Sculli, 31 anni, nipote prediletto di U’ Tiradittu tanto da avergli “regalato” il suo nome di battesimo, una parentela scomoda che lui non ha mai rinnegato. Amanti della buona cucina soprattutto quella a base di pesce (le loro cene fra padrini per siglare gli accordi sono documentate in anni di indagini e informative delle forze dell’ordine), della macchine lussuose e degli abiti di alta sartoria. Ma soprattutto, della vita notturna e dei locali da ballo. Tanto da arrivare, nel 2007, ad aprire in sfregio alla legge e al buon gusto, un night club proprio all’interno dell’Ortomercato di Milano, dove la cocaina veniva trasportata e stoccata a pochi passi dalla sede della Sogemi, società partecipata del Comune di Milano che – proprio per conto di Palazzo Marino – gestiva i mercati generali meneghini. Una vicenda che ha un comune denominatore con l'arresto di Zambetti: il nome di Paolo Martino, 56 anni, originario del quartiere Archi di Reggio Calabria, cugino del potentissimo boss Paolo De Stefano. Poltrone di velluto rosso, rifiniture dorate e fiumi di champagne, il locale doveva servire da copertura delle spese e – soprattutto – da luogo di incontro per i boss. Dove il nome, scelto ad hoc, già diceva tutto: “For a King”. Per un Re.
MILANO: OMICIDI DI STATO.
Ferrulli, morto durante l’arresto: «Non ci fu violenza gratuita». Le motivazioni della sentenza che ha assolto i quattro agenti che ammanettarono l’uomo il 30 giugno 2011, scrive “Il Corriere della Sera”. «Non vi fu alcuna gratuita violenza ai danni di Michele Ferrulli», io manovale morto il 30 giugno 2011 a Milano mentre gli agenti lo stavano ammanettando. Lo scrivono i giudici della Prima Corte d’Assise di Milano nelle motivazioni alla sentenza con la quale il 3 luglio scorso hanno assolto i quattro poliziotti Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva, Sebastiano Cannizzo e Francesco Ercoli dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Secondo i giudici, i poliziotti agirono in modo legittimo colpendo Ferrulli solo per vincerne la resistenza durante l’ammanettamento: «La condotta di colluttazione - spiega il giudice Guido Piffer, che ha scritto le motivazioni - è tipica solo se interpretata come condotta di percosse (...). In realtà non fu usato alcun corpo contundente, la condotta di percosse consistette nei soli tre colpi e sette colpi (dati in modo non particolarmente violento); tale condotta fu giustificata dalla necessità di vincere la resistenza di Ferrulli a farsi ammanettare; si mantenne entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione». I quattro agenti, che erano accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati assolti perché «il fatto non sussiste» lo scorso 3 luglio dalla Corte d’Assise di Milano, mentre la Procura per loro aveva chiesto 7 anni di carcere. La Corte ha stabilito che quella sera del 30 giugno 2011 i quattro poliziotti della volante Monforte Bis, che erano intervenuti per una segnalazione di schiamazzi in strada in via Varsavia, periferia sud-est di Milano, agirono correttamente nel corso dell’ammanettamento di Ferrulli, che opponeva resistenza. Stando alla perizia medica, l’uomo, che quella sera si trovava vicino ad un bar con due amici romeni e aveva bevuto molto, soffriva di ipertensione e venne colpito, nelle fasi dell’ arresto, da una «tempesta emotiva» che provocò l’arresto cardiaco. Michele Ferrulli gridava «aiuto, aiuto» mentre gli agenti lo ammanettavano forse perché voleva evitare l’arresto. È uno dei passaggi in cui i giudici della Prima Corte d’Assise motivano la sentenza di assoluzione dei 4 poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte dell’uomo. «L’invocazione di aiuto - scrivono i giudici - non può di per sé fondare un giudizio di prevedibilità dell’evento lesivo derivante da un effettivo malore, ben potendo essere espressione di una simulazione volta a impedire l’arresto, come ben spiegato nel dibattimento dal teste Sola». I giudici sostengono, inoltre, che non sarebbe stato usato nessun manganello dai poliziotti, come era sembrato in un primo momento osservando un filmato agli atti. Un filmato in cui si vede «una strisciolina nera» che, «ad un’analisi più approfondita», non sarebbe uno sfollagente. La Corte di sofferma anche su un altro dei punti controversi emersi in dibattimento, il presunto schiaffo di un poliziotti a Ferrulli. «La sola visione del filmato - è l’interpretazione messa nero su bianco dal giudice Piffer - non permette di stabilire con certezza se il gesto di Ercoli (uno dei poliziotti imputati, ndr) sia stato un vero e proprio schiaffo o se sia stato solo il gesto di sollevare l’avambraccio verso Ferrulli per accompagnare una frase rivolta allo stesso». Domenica Ferrulli, la figlia di Michele morto nel giugno del 2011 mentre alcuni agenti lo stavano ammanettando, avrebbe messo in atto un «condizionamento negativo» di alcuni testimoni nel processo con al centro il caso della morte del padre. I giudici nelle oltre 200 pagine di motivazioni parlano anche dell’«atteggiamento con il quale Domenica Ferrulli si era «determinata a registrare» alcuni «colloqui» con dei testimoni perché aveva «un giudizio profondamente negativo (tutt’altro che fondato) sullo svolgimento delle indagini». E per la Corte «mentre alcuni testimoni (aventi una personalità più forte ed una maggiore consapevolezza del proprio ruolo) non hanno subito un’influenza negativa dai contatti con» la figlia di Ferrulli, «altri hanno subito invece un inevitabile condizionamento negativo». Nelle motivazioni, appena depositate, i giudici spiegano che il dibattimento «ha dimostrato l’infondatezza della contestazione del reato», perché gli agenti hanno tenuto una condotta di «contenimento», che era «giustificata dalla legittimità dell’arresto». La «piena legittimità» di tale condotta, secondo i giudici, «ne esclude dunque l’antigiuridicità». «Non mi aspettavo nulla di diverso di quel che leggo. I filmati sono sotto gli occhi di tutti: mio padre è morto chiedendo aiuto, supplicando i poliziotti di smetterla. D’altronde durante la camera di consiglio durata soltanto un’ora tutti abbiamo visto alcuni giudici popolari nei corridoi fumare e prendere il caffè». Questo il commento di Domenica Ferrulli la figlia di Michele. «Rispetto le sentenze dei giudici ma sento come gratuite e offensive alcune considerazioni sul mio conto. Sono serena, ma vado a testa alta perche ho fiducia nella giustizia. Ride bene chi ride ultimo».
Morì durante l'arresto. I giudici che assolsero i 4 poliziotti: "I colpi a Ferrulli erano necessari". Le motivazioni della Corte d'assise di Milano sulla vicenda del manovale morto per arresto cardiaco. Giudici durissimi con la Procura: è stata seguita "la vox populi evocata espressamente dal pm", scrive “La Repubblica”. "Non vi fu alcuna gratuita violenza ai danni di Michele Ferrulli", il manovale morto per arresto cardiaco nel 2011 mentre gli agenti lo stavano ammanettando a terra. Così la Corte d'assise di Milano (presidente del collegio Guido Piffer) ha motivato l'assoluzione di quattro poliziotti decisa il 3 luglio 2014 scorso. I "colpi" degli agenti, secondo la Corte, erano necessari per "vincere la resistenza". La Procura di Milano, scrivono i giudici, ha finito "nella sostanza per recepire le voci diffusesi dopo il fatto tra le persone accorse sul posto". E cioè che "egli fosse stato ammazzato di botte". La Procura avrebbe seguito la "vox populi che è stata espressamente evocata dal pm", Gaetano Ruta, "anche in sede di discussione finale". Ma "come è ben noto la vox populi è un dato assai pericoloso, perché il suo acritico recepimento nelle aule di giustizia può essere all'origine delle peggiori degenerazioni della giustizia". Secondo i giudici, Ferrulli "dopo aver proferito reiterate ingiurie e minacce all'indirizzo dei poliziotti, dopo essersi rifiutato di fornire i documenti e dopo aver addirittura aggredito uno dei poliziotti, poteva essere legittimamente ammanettato". E Domenica Ferrulli, figlia di Michele, avrebbe messo in atto un "condizionamento negativo" di alcuni testimoni nel processo. I quattro agenti, che erano accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati assolti perché "il fatto non sussiste", mentre la Procura per loro aveva chiesto sette anni di carcere. La Corte ha stabilito che la sera del 30 giugno 2011 i quattro poliziotti della volante Monforte bis, che erano intervenuti per una segnalazione di schiamazzi in strada in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, agirono correttamente nel corso dell'ammanettamento di Ferrulli, che opponeva resistenza. Stando alla perizia medica l'uomo, che quella sera si trovava vicino a un bar con due amici romeni e aveva bevuto molto, soffriva di ipertensione e venne colpito, nelle fasi dell'arresto, da una "tempesta emotiva" che provocò l'arresto cardiaco. Nelle motivazioni, appena depositate, i giudici spiegano che il dibattimento "ha dimostrato l'infondatezza della contestazione del reato" perché gli agenti hanno tenuto una condotta di "contenimento" che era "giustificata dalla legittimità dell'arresto". Secondo i giudici, a differenza di quanto contestato dalla Procura, i poliziotti non usarono "alcun corpo contundente" e la loro "condotta di percosse consistette nei soli tre colpi e sette colpi" dati "in modo non particolarmente violento". Una condotta, secondo la Corte, "giustificata dalla necessità di vincere la resistenza del Ferrulli a farsi ammanettare" e che si "mantenne entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione". La "piena legittimità" di tale condotta, secondo i giudici, "ne esclude dunque l'antigiuridicità". "Rispetto le sentenze dei giudici, ma sento come gratuite e offensive alcune considerazioni sul mio conto", ha commentato Domenica Ferrulli. "Non mi aspettavo nulla di diverso da quel che leggo nelle motivazioni. I filmati sono sotto gli occhi di tutti, mio padre è morto chiedendo aiuto e supplicando i poliziotti di smetterla. D'altronde - aggiunge - durante la camera di consiglio, durata soltanto un'ora, tutti abbiamo visto alcuni giudici popolari nei corridoi fumare e prendere il caffè".
Testimonianza shock al processo per l'omicidio Ferrulli: cambiate le regole sulle manovre di ammanettamento. Manconi: «Dove sta scritto?». Si può percuotere una persona durante la manovra di ammanettamento a terra? Dopo l'ultima udienza del processo Ferrulli, è stata presentata un'interrogazione al Guardasigilli da Luigi Manconi, del Pd, per chiedere se corrispondono al vero le dichiarazioni di uno dei testi. Dopo l'omicidio Aldrovandi, le scuole di polizia insegnerebbero proprio questo, ossia come intervenire con un maggiore impatto fisico sulla persona del fermato, ed un uso della forza superiore rispetto alle direttive riconosciute come vigenti all'epoca della morte di Federico Aldrovandi e recepite dalla sentenza di primo grado, oggi passata in giudicato. Su quelle carte si legge che «la persona deve essere immobilizzata ma non deve essere colpita od offesa, tanto meno devono essere prodotte lesioni strumentali all'immobilizzazione. L'idea di ferire, colpire, ledere come passaggio necessario all'immobilizzazione è non solo rifiutata nei protocolli operativi imposti agli operatori di polizia ma non è neppure necessaria o inevitabile neppure in situazioni eccezionali».
Poliziotti indagati: Sconfitta l'omertà. Il caso Aldrovandi di Milano si chiama Michele Ferrulli, morto durante un controllo di polizia il 30 giugno 2011. La figlia di Ferrulli a Simone Bianchini su “La Repubblica” : “Non mi sono mai arresa, mio papà avrà giustizia”.
Michele è stato ammazzato, racconta “MilanoX” in quel quadrilatero di case popolari a ridosso dell’Ortomercato di Milano, tra via del Turchino e via Varsavia. “Hanno paura della polizia” ci aveva detto la figlia di Michele, Domenica Ferrulli. E infatti da quel giorno il quartiere piombò nella più totale omertà, quando non addirittura ostilità nei confronti di Domenica. “Gente che prima dell’uccisione di mio padre mi salutava, dopo si girava dall’altra parte facendo finta di non conoscermi” aveva raccontato Domenica. Il pm della Procura Gaetano Ruta, nella chiusura delle indagini, ha usato parole impietose: Michele Ferrulli venne percosso “ripetutamente” anche “con l’uso di corpi contundenti” quando era già “immobilizzato a terra, non era in grado di reagire e invocava aiuto”. Gli agenti indagati sono quattro, due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli: Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. E’ stato un anno di indagini difficili, rese ancor più complicate da Prefettura e Questura che hanno fino all’ultimo cercato di coprire gli agenti, gettando fango su Michele (le solite cose, era ubriaco, aggressivo, aveva precedenti penali…). Non solo, questa è anche una vicenda di indagati non intercettati e testimoni chiave spariti.
Indagati non intercettati e un testimone chiave sparito dice "E-Il Mensile". Domenica Ferrulli ha potuto leggere nei fascicoli d’indagine sulla morte di suo padre Michele soltanto le parole che lei stessa ha pronunciato al telefono, oltre quelle dei due testimoni rumeni, dei quali, tra l’altro, uno ha fatto perdere le proprie tracce. Nessun accenno, dunque, a quello che si sono detti i quattro agenti intervenuti la sera del 30 giugno scorso in via Varsavia, a Milano, quando il 51enne è morto davanti agli uomini in divisa. Niente di niente. Cosa insolita: di solito le intercettazioni telefoniche e ambientali degli indagati abbondano nei fascicoli d’inchiesta dei casi di omicidio. Basti pensare alle principali storie di cronaca nera degli ultimi anni: giornali, televisioni, radio e siti internet hanno pubblicato e ripubblicato le frasi dei vari coinvolti, spesso buttando via inchiostro per conversazioni che nulla hanno a che fare con le varie vicende. Questa volta non è andata così, le parole dei poliziotti sono ormai disperse nell’etere. Oltre all’assenza di intercettazioni tra le divise, però, c’è un altro particolare che getta un – inquietante – alone di mistero sulla vicenda: la scomparsa di un amico rumeno di Ferrulli, presente anche lui in via Varsavia quella maledetta serata di fine giugno. “Lo hanno picchiato in tanti, e alla fine Michele è caduto a terra…”, con queste parole Emilan Nicolae, 45 anni, anche lui testimone dei fatti, ha descritto gli eventi al pm, aggiungendo di aver sentito il suo amico gridare aiuto. La testimonianza, però, non arrivò immediatamente, ci volle qualche giorno perché l’uomo si recasse in procura per parlare di quello che aveva visto. Perché non lo disse subito? “Mi sentivo confuso”, così rispose agli investigatori l’amico della vittima. L’altro testimone, però, ha fatto perdere le sue tracce. Pare sia tornato in Romania, non vuole sapere più nulla di questa storia. Ma le sue parole potrebbero rivelarsi fondamentali per risolvere il mistero. Al momento, né il pm né la famiglia Ferrulli (le cui istanze sono portate avanti dall’avvocato Fabio Anselmo) hanno sue notizie. Ad ogni modo, i fascicoli dell’indagine aiutano a ricostruire la vicenda, grazie alla combinazione delle immagini fornite da un telefonino e da una telecamera di sorveglianza della farmacia. Sono le 22 e 07 quando in via Varsavia arriva una volante: un residente della zona aveva chiamato il 113, lamentandosi per alcuni rumori molesti. Ferrulli è lì, “si pone davanti al poliziotto”, l’agente sembra non scomporsi e “si allontana dalla zona di contatto, Ferrulli lo segue e una volta fermato si mette davanti a lui”. Si avvicina un altro uomo in divisa e colpisce l’uomo con uno schiaffo. A questo punto arriva una seconda volante. Alle 23 e 30, Ferrulli è immobilizzato a terra, chiede aiuto. I poliziotti, però, non sembrano preoccupati: lo colpiscono “ripetutamente” infatti, mentre lui non aveva più alcuna possibilità di opporre resistenza. Non ci sarà più nulla da fare, l’uomo cede, inutili i tentativi di rianimazione. Quel 30 giugno, Michele Ferrulli era uscito con gli amici, ha bevuto qualche birra, ha incontrato la polizia ed è morto. L’indagine – al solito complicatissima, quando ci si imbatte in casi del genere – è condotta dal pm Gaetano Ruta che ha indagato quattro agenti (due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli); Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo, per omicidio colposo e falso ideologico, per aver artefatto il rapporto su quanto accaduto. Secondo l’accusa, gli agenti avrebbero ecceduto “i limiti del legittimo intervento”. Ma non sono solo i filmati a puntare il dito contro i poliziotti, c’è anche una perizia – eseguita da Gaetano Thiene dell’Università di Padova – che parla di un decesso improvviso, avvenuto “durante un’azione di contenimento e accompagnato da percosse di agenti della polizia”. A causare la morte, per Thiene, è stato “un violento attacco ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento, dall’eccitazione da intossicazione da alcool e dalle percosse con tempesta emotiva e iperattivazione adrenergica”. Ferrulli era alto un metro e ottanta, pesava 147 chili e aveva un cuore piccolo per la sua mole, appena 700 grammi. Particolari che hanno concorso ad ucciderlo.
«Per me è un grande giorno, le indagini sulla morte di mio papà sono terminate e ci sono quattro agenti di polizia indagati per omicidio colposo e falsità ideologica». La linea del pm Gaetano Ruta premia la volontà della figlia di Michele Ferrulli - Domenica, 26 anni, un marito e 2 figli - che dalla sera del 30 giugno dell' anno scorso, quando è morto suo padre, ha cominciato e portato avanti, caparbiamente con speranza e fiducia, una lotta serrata perché si stabilisca e si accerti la verità di quanto avvenuto quella sera. Il pm ha comunicato la chiusura delle indagini formalizzando le accuse ai quattro agenti. «Un passo davvero grande che arriva al termine di un percorso lungo e difficile - racconta Domenica - se io mi fossi arresa non saremmo arrivati a questo. Mi sono scontrata con l'omertà, la paura delle persone. Tanto silenzio, c' erano dei testimoni oculari che sono scappati, erano persone che pensavamo fossero nostri amici e che quella sera ci avevano sostenuto». Invece poi è successo qualcosa: «Hanno minacciato me e la mia famiglia dicendoci che loro non volevano essere interrogati, non volevano dire la verità, avevano paura della polizia e mi chiesero di tenerli fuori da questa vicenda. Io non mi sono fermata, ho raccontato al pm tutto quello che loro mi avevano raccontato. E poi sono arrivate le minacce a mio fratello: gli stessi testimoni, forse a loro volta minacciati da qualcuno, gli dicevano di riferirmi che col tempo l' avrei pagata e che non avrei dovuto dire nulla». I familiari di Ferrulli non si sono fermati, sono andati avanti, Domenica ha trovato l'aiuto della mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e della sorella di Giuseppe Uva, Lucia. Parenti di supposte vittime delle forze dell' ordine: «Mie compagne di battaglia. A loro, che devono combattere anche contro i pm, va un grazie speciale perché mi hanno indirizzato verso la strada giusta». «Fondamentale» l'arrivo dell' avvocato Fabio Anselmo, già difensore proprio dei parenti di Cucchi e Uva: «Ci era stato detto, dalla procura, che stavamo andando incontro ad una archiviazione sicura del caso - spiega Domenica Ferrulli - . Il rischio era che non si parlasse più di mio padre, che tutto venisse sepolto con lui. Ma dentro di me gli avevo fatto una promessa, ancora accesa: che avrei fatto luce su quel che gli è successo. Era un padre, un marito e un grandissimo nonno che mi manca moltissimo». Le indagini difensive hanno portato alla luce nuove prove: «Le testimonianze, i video, tutto quello che siamo riusciti a raccogliere ha convinto il pubblico ministero a non archiviare ma a studiare i fatti. Così è stata rintracciata e interrogata l' autrice del video girato quella sera in via Varsavia, in cui si vedono i poliziotti che picchiano mio padre a terra, ammanettato e mentre chiede aiuto. Facendo questo ne hanno provocato la morte: io sono convinta che se loro non lo avessero picchiato, mio padre quella sera sarebbe tornato a casa. Non sarebbe morto». Per l' avvocato Anselmo, «indagare gli agenti è una decisione molto importante. Significa riuscire a portare il caso in un processo e rendere giustizia a un uomo che non era violento ma ha subito violenza dagli agenti». Quello che resta, nel cuore di Domenica e di sua mamma Caterina, è un altro dispiacere: «Il fango su mio papà. Dissero che mio padre era un pregiudicato aggressivo, un delinquente. Bugie e cattiverie, adesso avrà giustizia».
Alle 9.30 del 20 luglio 2012 - scrive Claudia su “Abuso di Polizia” - si è tenuta l'udienza preliminare per il processo di Michele Ferrulli. Di fronte al tribunale di Milano in via Manara erano presenti la figlia della vittima, Domenica Ferrulli, il fratello Francesco e la Signora Ferrulli; nei loro volti era assolutamente palpabile la tensione, occhi lucidi, ma con il cuore fermo e deciso a volere e gridare giustizia. Al loro fianco, come una vera grande famiglia allargata Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva pestato a morte in caserma; Massimo Uccheddu, figlio di Carrus Maria Rosanna, Luigi Vittorino Morneghini l'uomo di 63 anni aggredito il 20 maggio 2011 nella periferia di Milano da due poliziotti in borghese e Luciano isidro Diaz, massacrato di botte da degli agenti di polizia. A pochi metri di distanza dal tribunale un presidio di persone ha manifestato per chiedere giustizia per Michele, un vero atto di solidarietà civile da parte dei vicini di Michele, gli amici, ma anche gente normale, sensibile alla vicenda, scesa in piazza perchè sdegnata dall'ingiustizia subita da Michele Ferrulli; molte persone hanno parlato, ricordando che oggi è anche l'anniversario della morte di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso dall'agente di polizia Mario Placanica nei tragici giorni del G8 di Genova nel 2001. Prima di entrare in aula riusciamo a cogliere una battuta carica di speranza dell'avvocato della famiglia Ferrulli, Fabio Anselmo, noto per aver assistito altri familiari di vittime dello stato come Aldrovandi e Cucchi; l'avvocato ha dichiarato "oggi è un giorno importante", e lo è stato. Gli avvocati dell'accusa e della difesa hanno parlato davanti ai microfoni del tribunale di Milano. L'accusa ha chiesto e ottenuto dal Gip il rinvio a giudizio dei i quattro agenti per "omicidio colposo" e "falso ideologico". E' stato anche presentato il video che mostra con sconcertante evidenza il pestaggio dell'uomo, che subisce almeno nove manganellate sul corpo, ormai riverso a terra; il video è stato rielaborato dalla procura di Milano rendendolo ancora più chiaro e nitido rispetto alla versione originale, anche se pure in quella era comunque cristallino l'abuso realizzato dagli agenti e perpetrato nei confronti di Michele Ferrulli. La difesa di tutta risposta controbatte che il video in realtà non mostra niente di assolutamente evidente, che i familiari della vittima si sono lasciati suggestionare dalle immagini, vedendo cose che non in realtà non c'erano. Il video parla chiaro: "Hai visto il cazzotto in bocca che gli danno?", dice la voce fuori campo, mentre a pochi metri Michelle Ferrulli giace sotto i colpi delle forze dell'ordine. Il video era noto, ora si conosce anche il proprietario. La figlia di Michele, Domenica Ferrulli, ha fatto tradurre le parole dei testimoni rom.
Ed alla fine la caparbietà ed il coraggio delle vittime ha trovato riscontro e ristoro, quindi corrispondenza, nel buon cuore ed illibata coscienza di un magistrato fuori dal coro. “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica” raccontano che Il gup milanese Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i quattro poliziotti che avrebbero percosso nel corso di un arresto Michele Ferrulli, il 30 giugno 2011 a Milano, quando era già "immobilizzato a terra". I poliziotti sono Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. Secondo la Procura, quando l'uomo "si trovava a terra in posizione prona, era immobilizzato e invocava aiuto", i quattro lo avrebbero colpito "ripetutamente anche con l'uso di corpi contundenti". L'uomo, un facchino, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla Corte d'assise. Il processo per loro inizierà il prossimo 4 dicembre 2012. "E' un ottimo inizio", ha commentato Domenica Ferrulli, figlia di Michele. "Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno". Già però il PM ha tentato di affibbiare un reato meno grave di quello che in effetti il GUP ha disposto. Magagne giudiziarie per rendere l’impunità? A richiedere il processo per gli agenti era stato il pubblico ministero Gaetano Ruta, che da un'iniziale ipotesi di omicidio preterintenzionale aveva poi chiuso le indagini nei confronti dei quattro con l'ipotesi di cooperazione in omicidio colposo. Secondo l'accusa, gli agenti avrebbero "ecceduto i limiti del legittimo intervento", concorrendo "a determinare il decesso" dell'uomo, dovuto fra le altre cose "alle percosse". Ferrulli si trovava in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, vicino a un bar, dove una volante della polizia intervenne perché da una casa vicina erano arrivate lamentele per i continui schiamazzi in strada. L'uomo, con precedenti penali per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, stando a quanto era stato riferito in questura, quella sera era ubriaco, "aggressivo e ostile". I poliziotti, secondo il pm, avrebbero agito "con negligenza, imprudenza e imperizia, consistite nell'ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo (pur essendo in evidente superiorità numerica) e continuando a colpirlo anche attraverso l'uso di corpi contundenti".
Il gup di Milano Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i 4 poliziotti che avrebbero percosso «ripetutamente» nel corso di un arresto a Milano il 30 giugno 2011 Michele Ferrulli, quando era già «immobilizzato a terra». L'uomo, manovale, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo ad omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla corte d'assise. Il processo per loro inizierà il 4 dicembre 2012. «È un ottimo inizio. Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno».
Così Domenica Ferrulli, la figlia del 51enne morto durante un controllo di polizia in via Ferraro, ha commentato la decisione del giudice per l’udienza preliminare non solo di rinviare a giudizio i 4 poliziotti accusati di aver pestato a morte Michele Ferrulli, ma di riqualificare l’imputazione da «cooperazione in omicidio colposo per eccesso colposo dell’adempimento del dovere» nella più grave di «omicidio preterintenzionale». Luigi Manconi, presidente dell'associazione A Buon Diritto, giudica «estremamente importante» la notizia della riqualificazione del reato: « Più volte abbiamo denunciato la scarsa corrispondenza tra un atto di fermo che avviene con modalità evidentemente abnormi, tali da non escludere conseguenze mortali, e un titolo di reato palesemente inadeguato. La verità è che, anche di recente, tra Milano e Roma, si sono verificati numerosi casi di "omicidio preterintenzionale" nel corso di fermi. Nella maggior parte di queste vicende - conclude Manconi - il nesso di causalità tra violenza dell'azione di fermo e morte del fermato è stato ignorato. Questa volta, grazie alla tenacia di Domenica Ferrulli, figlia della vittima, e dell'avvocato Fabio Anselmo, si è aperto uno spiraglio di verità».
Michele il gigante e quegli scontri per le cosa occupate, scrive Gianni Santucci su "Il Corriere della Sera". Lotte e denunce per aggressione. La rabbia. La scritta Ferrulli "un mese fa aveva aggredito il prete di zona per strada accusandolo di aiutare solo gli extracomunitari". Aveva occupato un appartamento vent'anni prima. Ora lì resta una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». «Ci hanno chiamato dal bar e siamo scesi di corsa, è proprio dietro casa». Domenica Ferrulli parla dall'ospedale, è la mezzanotte di giovedì, ha seguito l'ambulanza che dopo l'arresto ha portato il padre Michele al pronto soccorso, l'uomo è già morto. La ragazza, 25 anni, dice che farà «denuncia». È scossa, la voce rotta, passa il cellulare a un familiare che racconta: «Ci siamo avvicinati e Michele era a terra. Abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. I poliziotti ci hanno detto che aveva cercato di aggredirli e avevano dovuto immobilizzarlo». Continua la ragazza: «Ma non è andata così, l'hanno picchiato. Una donna è uscita dal bar e ha urlato "raccontate la verità"». E ancora: «Ci sono i testimoni e il video. Mio padre ha segni sui polsi a causa delle manette e altri lividi dietro l'orecchio» (nei referti dell' ospedale di San Donato, di questi segni vicino alla testa non c'è traccia). Inizia così, con questa telefonata al Corriere, la storia di una serata balorda fuori da un bar alla periferia sud-est di Milano, di fronte ai mercati generali della città. È qui che Michele Ferrulli aveva occupato un appartamento, vent'anni fa. Sul caseggiato ora campeggia una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». Lo striscione, lassù all'ingresso, l'aveva appeso lui. È firmato: «Comitato Turchino». Turchino è la via, e il comitato è uno tra i più attivi, in difesa degli abusivi storici delle case popolari milanesi. Di quel gruppo Ferrulli era un pezzo storico, un sostenitore. «Era un figlio del popolo», dicono qui. E una sorta di avvocato difensore un po' per tutti, in questo quartiere complicato. Aggiungono due particolari, i conoscenti, che sono forse utili per capire cosa è accaduto l'altra notte durante l'arresto. «Appena c'era una discussione, lui si metteva comunque in mezzo. Per aiutare, per difendere». La domanda è: difendere da chi? Da una pattuglia che sta facendo un controllo? Per qualcuno, in queste strade, il poliziotto o il carabiniere sono sempre e comunque intrusi, «rompiballe», anche se a chiamare il 113 per schiamazzi è un altro abitante. Qui molti ragazzotti dicono sbirro, e lo fanno con disprezzo. L'uomo morto dopo l'arresto di mercoledì sera era una montagna, molti chili di troppo accumulati negli ultimi anni, gli occhi chiari, origini pugliesi. Aveva avuto una piccola impresa di idraulica e riparazioni di caldaie, chiusa l'anno scorso. Teneva però ancora il furgone, con cui si arrangiava per piccoli lavoretti, edilizia e traslochi. Ma chi voleva «difendere» Ferrulli l'altra sera? E soprattutto, da cosa? In realtà gli agenti della Volante, chiamati per schiamazzi, stavano solo identificando i due uomini romeni che erano in strada vicino a lui, con la birra in mano e la musica dell'autoradio troppo alta. Di certo, non c'era niente da cui «difendersi». Era un controllo di routine, una cosa da niente, un intervento che di solito si risolve con quattro parole e nessuna conseguenza. Un controllo che però, adesso, qualcosa rivela: con uno dei due romeni, Ferrulli era stato controllato nell'ottobre dell'anno prima. Erano insieme in un bar, non volevano pagare, erano molesti e la titolare chiamò la polizia. Non è il solo precedente che aveva, negli archivi delle forze dell'ordine ce ne sono per lesioni, danneggiamento, «insolvenza fraudolenta». L'ultimo episodio è del 18 maggio: un parroco della zona ha chiamato i carabinieri denunciando di essere stato aggredito. Ai militari del Nucleo radiomobile il sacerdote ha raccontato che, mentre camminava per strada, ha incrociato Ferrulli che passava col furgone e l'ha salutato. Lui però si è fermato e, ha denunciato il parroco, «mi si è avvicinato e mi ha tirato uno schiaffo, poi mi ha detto una frase del tipo "voi preti siete delle merde, aiutate solo gli extracomunitari", alla fine mi ha colpito altre due volte». L'uomo e la sua famiglia erano entrati da anni in una sorta di spirale abbastanza comune nelle case popolari di Milano: una vecchia occupazione (auto)giustificata «per necessità»; la denuncia che pregiudica una successiva assegnazione regolare; una sorta di limbo per cui si rimane nell'appartamento anche per decenni, ma sempre col rischio di uno sgombero. In quella casa di via del Turchino, Ferrulli era entrato nel 1991 con la moglie e la figlia piccola, poi era arrivato un altro figlio, infine cinque anni fa anche un nipote. Aveva ristrutturato l'appartamento e pagava una sorta di «indennità d'occupazione».
Nel 2007 aveva resistito a uno sgombero. Si era rivolto al Comitato inquilini «Molise-Calvairate-Ponti», storica associazione di cittadini che da decenni aiuta questa parte dolente di città, spesso dimenticata dalle istituzioni. Prima e dopo quello sgombero, Ferrulli aveva però difeso tante altre famiglie, come la sua «occupanti per necessità». L'aveva fatto con le manifestazioni e le mobilitazioni.
Quella era la sua «battaglia giusta».
MILANO MAFIOSA - MILANO CRIMINALE.
In 19 mesi 39 incendi, 13 intimidazioni con bombe artigianali o armi da fuoco e un omicidio.
Questo pezzo di approfondimento di Roberto Galullo è stato pubblicato sul “Sole-24 Ore” in seconda battuta notturna a seguito dell'omicidio a Milano di Massimiliano Spelta e della compagna Sulejni Carolina Ortiz Paiano, dominicana di 21 anni anche lei incensurata come Spelta. Lo ripropongo per quanti non hanno potuto leggerlo. Che a Milano corra una rete criminale lo sa, oltre che il Viminale, il Comune, che ha deciso di aprire gli occhi sulle trame e le protezioni di quella rete che, in città, si alimenta con gesti sempre più eclatanti. Il 1° agosto 2012, poco prima di chiudere i battenti per le ferie estive, la giunta presieduta da Giuliano Pisapia ha dato alle stampe una relazione di ben 111 pagine. Il periodo coperto va da gennaio 2011 a luglio 2012 e al centro dell'analisi ci sono i traffici che ruotano intorno ai capitali sporchi, memori dell’insegnamento del giudice Giovanni Falcone che per indurre le autorità elvetiche a collaborare con quelle italiane amava dire: "Prima arrivano i loro soldi, poi arrivano i loro uomini e i loro metodi". Traffici che non escludono colpi sensazionali, omicidi inclusi. Il Comitato che ha lavorato alla relazione ha contato 39 casi di incendi, 13 intimidazioni con bombe artigianali o armi da fuoco e persino un omicidio - prima dei due commessi due giorni fa - vale a dire quello di Giuseppe Nista, il 10 maggio 2012. Il 2011 é stato caratterizzato dall’alto numero di incendi dolosi a danno di locali notturni. Il primo avviene a febbraio. Ad essere incendiato è il locale "Fox River" di via Winckelmann. Il secondo locale ad andare a fuoco è il "Cappados" di viale Monza, il 31 luglio. Il terzo locale notturno che subisce un attentato incendiario è lo "Sugar Lounge", Quartiere Isola, il 28 settembre. Quest’ultimo compare nell’inchiesta "Redux-Caposaldo" del marzo 2011 nella quale viene incluso tra i beni appartenenti alla famiglia ‘ndranghetista dei Flachi. Il quarto e ultimo locale notturno dato alle fiamme nel corso del 2011 a Milano città è l’ex "Transilvania", il 2 ottobre. L’unico incendio ai danni di un locale notturno nei primi sette mesi del 2012 é quello del "Lilí la tigresse", avvenuto il 30 aprile. La natura dolosa dell’incendio è stata confermata dal Comando provinciale dei Vigili del Fuoco. Poi ancora un incendio doloso ma ai danni di un’edicola il 7 febbraio. Il proprietario aveva in precedenza denunciato d’aver ricevuto alcune minacce per non meglio precisati "motivi d’interessi". E poi ancora un incendio del punto Snai in via Achille Fontanelli, da parte di quattro uomini non identificati. Numerosi incendi hanno coinvolto mezzi di trasporto. L’episodio più importante avviene in via Graf 12, dove il 13 maggio ignoti hanno dato alle fiamme dieci automobili. La cronaca giornalistica, ricorda la relazione, parla apertamente di "vendetta tra pregiudicati". Quattro sono stati gli episodi incendiari che hanno colpito attività commerciali: il 27 febbraio un incendio ha danneggia un negozio di generi alimentari in via Carlotta Marchionni. La consultazione dell’archivio dei Vigili del fuoco ha confermato la dolosità dell’atto. L'8 maggio va in fiamme il furgone utilizzato da un cittadino del Bangladesh di professione fioraio. La notte tra il 17 e il 18 luglio, in via Celoria a Città Studi, viene incendiato l’autonegozio di Loreno Tetti, testimone di giustizia nel processo "Redux Caposaldo". Tetti è stato l’unico, tra tanti suoi colleghi, a confermare la testimonianza contro il clan Flachi per le attività estorsive condotte nei confronti dei venditori di panini e bibite. L’ultimo incendio doloso registratosi è quello del ristorante Ciardi in via San Raffaele. L’incendio è avvenuto in pieno centro storico, proprio tra il Duomo e il Comune. Alle intimidazioni non sfuggono neppure gli impianti sportivi, come quello di via Iseo, Affori. Viene danneggiato il 9 ottobre 2011 e poi ancora saccheggiato a novembre e poi 4 giorni dopo Natale. Incendi, danneggiamenti ma anche aggressioni che ricordano quella perpetrata ai danni di Massimiliano Spelta e della sua compagna. L'11 ottobre 2011 la cronaca registra l'aggressione a colpi d’arma da fuoco da parte di due uomini con il volto coperto da un casco avvenuta ai danni di un cittadino marocchino. Scesi da uno scooter di grossa cilindrata, i due colpirono l'uomo al volto con il calcio di un fucile e gli sparano tre colpi di pistola, dei quali solo uno lo colpì alla gamba.
I pionieri sono gli Zagari, che dalla Piana di Gioia Tauro aprono la prima filiale della ’ndrangheta in Lombardia. Sbarcano poi a Milano negli anni del boom economico i gangster italoamericani al seguito di Joe Adonis; arrivano anche i Corleonesi di Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma siciliani e calabresi non sono i soli a occupare il territorio: sempre più numerosi e disinvolti, anche boss e picciotti campani e pugliesi si muovono nelle strade e negli uffici della capitale economica e “morale”. Sono gli anni degli scontri tra cosche rivali e della gestione delle bische clandestine e dei night club; delle estorsioni e del traffico di preziosi. Fino alla stagione dei sequestri di persona, che frutta quei capitali reinvestiti e moltiplicati nel grande traffico di droga degli anni Ottanta e Novanta. Mezzo secolo dopo l’arrivo dei primi clan, Milano scopre di non aver saputo respingere l’invasione mafiosa. Anzi, le cronache si affollano oggi di nomi della seconda o addirittura della terza generazione di certe famiglie, sempre quelle, che nel frattempo hanno colonizzato in silenzio anche l’hinterland, la Brianza, il comasco, il varesotto. Non solo. Hanno messo le mani sull’economia “pulita”, infiltrandosi nei cantieri edili, nelle lottizzazioni immobiliari, nelle cooperative di servizi, nei bar, nei ristoranti, nelle cliniche. Espandendo così i loro business e il potere grazie a un patto federativo di sangue; ma soprattutto con la compiacenza di imprenditori e professionisti, amministratori e politici per nulla schizzinosi di fronte alle offerte d’amicizia (e di denaro) della criminalità organizzata. Questo racconta “Mafia a Milano” il libro di Mario Portanova.
La sentenza della Boccassini: imprenditori vicini ai mafiosi.
Omertà in Lombardia, Boccassini: “Nessuno denuncia le minacce della ‘ndrangheta”. La coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia di Milano parla di criminalità organizzata al nord all'Università statale: "Betoniere in fiamme, capannoni distrutti, colpi di pistola. Ma i danneggiati non vanno dalla polizia". «In certi paesi vicino a Milano ci sono le vedette della ‘ndrangheta che vanno in allarme all’arrivo di ogni estraneo. E ci sono famiglie il cui solo nome incute timore reverenziale negli abitanti, senza neppure il bisogno di chiedere o minacciare. Certo che non è come a Locri, ma comunque è impressionante». Ilda Boccassini, coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia di Milano, torna sul tema più urticante, l’omertà in salsa lombarda, un muro contro cui si scontrano spesso i suoi investigatori a caccia di boss e picciotti. Lo fa in un’aula gremita da circa 400 persone, studenti ma non solo, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università statale, in uno dei seminari sulla mafia al Nord organizzato da tutti gli atenei milanesi. Il magistrato ricorda a Mario Portanova de “Il Fatto Quotidiano” l’inizio dell’inchiesta Crimine-Infinito, che nel luglio dell’2010 ha portato in carcere circa 160 presunti ‘ndranghetisti lombardi: «Per un anno e mezzo ho chiesto di essere informata giorno per giorno su incendi e danneggiamenti. Betoniere che andavano a fuoco, capannoni distrutti, colpi di pistola contro assessori o messi comunali, episodi concentrati in zone ben precise. Nessuno dei danneggiati ha mai fornito alle forze dell’ordine il minimo indizio, nessuno ha mai ammesso di avere ricevuto minacce.» Lo stesso vale per le vittime di usura – una delle principali attività della ‘ndrangheta in Lombardia, con risvolti tragici sulla vita di molte famiglie – alcune delle quali hanno sperimentato la linea dura della Dda finendo in carcere dopo testimonianze reticenti. «Ricordo la morte di Libero Grassi, non è facile dire no a Palermo e non è facile dire no neppure a Milano. Però a volte la comprensione per le vittime fa sì che non si faccia pulizia all’interno delle associazioni imprenditoriali. Invece ben vengano i codici etici e le espulsioni, come ha fatto Confindustria a Palermo e come stanno facendo i costruttori milanesi di Assimpredil. Piccoli passi, ma è un inizio». L’omertà è figlia della paura, ma non solo. Perché quando un imprenditore nordico doc fa smaltire rifiuti pericolosi a un prezzo nettamente inferiore a quello di mercato, sa benissimo che andranno a finire in un buco a bordo strada o, peggio, nelle viscere di qualche cantiere modello.» E’ come comprare una borsa di Gucci a 200 euro: è ovvio che o è falsa o c’è qualcosa sotto», sintetizza Boccassini. Così diversi colletti bianchi nati e cresciuti a Milano o in Brianza sono finiti in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, tanto quanto i calabresi dell’Aspromonte o del crotonese con cui facevano affari. Ai futuri magistrati e avvocati che riempiono l’aula, la coordinatrice della Dda spiega che ormai anche in Lombardia ricorrono a pieno titolo certi commi dell’articolo 416 bis, “inventato” per la Sicilia di Cosa nostra nel 1982. «Se i mafiosi possono condizionare il voto o mettere fuori mercato le imprese che rispettano le regole, allora minacciano la tenuta della democrazia». Un amaro risveglio, dopo anni di torpore in cui la mafia al nord non esisteva, era una favola, una speculazione politica. Come è accaduto? Ilda Boccassini non trattiene le critiche: «Certo, nel 1992-1993 ci sono state grandi indagini a Milano e in Lombardia, anche grazie ai collaboratori di giustizia, ma è mancata una visione unitaria e completa». Furono smantellati i clan più potenti, come i Sergi-Papalia a Buccinasco e i Coco Trovato a Lecco, «ma non si colse il radicamento che già c’era, anche nelle istituzioni, anche nel movimento terra, tutte cose di cui discutiamo oggi ma che erano sotto gli occhi di tutti già allora. C’è stato un buco investigativo, invece si sarebbe dovuto applicare il metodo Falcone, aggredire l’organizzazione nel suo complesso». Ed ecco allora la fotografia aggiornata del nemico: non, come tanti ancora pensano, un insieme di ‘ndrine separate, ma un’entità unica, divisa in locali e radicata al nord. «Sul fronte delle indagini, oggi le Procure di Reggio Calabria non possono fare a meno l’una dell’altra». L’esempio eclatante è proprio l’operazione Crimine-Infinito, quando la Boccassini si sentì precipitata “in un film d’altri tempi” ascoltando in diretta l’ormai celebre summit al circolo Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano.
I giuramenti, le formule antiche, applicate a territori e business modernissimi. Giovanni Falcone è un protagonista della lezione ai ragazzi di giurisprudenza. A lui si deve la legislazione antimafia che tutto il mondo ci invidia e ci copia, afferma Boccassini. Che ricorda un episodio. “Un giorno Falcone mi disse: ‘vediamo se hai capito che cos’è la mafia’. Mi portò a Monreale, vicino a Palermo, alla commemorazione del capitano Emanuele Basile, ucciso da Cosa nostra. Capii subito che cosa voleva dire. Fummo accolti da un silenzio colmo di disprezzo, non ci urlavano ‘bastardi’ o ‘toghe rosse’, solo un silenzio bestiale. Era un disprezzo ragionato delle istituzioni, era la rivendicazione di un altro credo, non quello dello Stato ma quello dell’onore”.
Manager lombardi in affari con la 'ndrangheta nell'ultima inchiesta sulle estorsioni. E la pm condanna la categoria: "Si rivolgono alla criminalità anziché allo Stato". Così racconta Luca Fazzo su “Il Giornale”. MilanoOmertà versione Milano: l'omertà che nasce dai danè, dalla passione per i quattrini. E che non scomparirà «fino a quando la classe imprenditoriale non capirà che stare con lo Stato è più conveniente che stare con l'Antistato». È una Ilda Boccassini ancora meno diplomatica del solito, quella che l'11 settembre 2012 va all'attacco a testa bassa della cultura imprenditoriale lombarda: o almeno di una sua larga fetta, una non-cultura contro cui le sue indagini sono tornate a scontrarsi.
Trentasette nuovi arresti eseguiti dai carabinieri del Ros, storie di usura e di estorsioni. E di imprenditori che scelgono di tacere invece che di collaborare. Sono questi, quanto e più dei malavitosi a tempo pieno, a suscitare l'indignazione del procuratore aggiunto Boccassini. «Io non sono pessimista però... C'è una convenzione delle entità imprenditoriali di rivolgersi alla criminalità invece che allo Stato». Della facilità degli imprenditori a scendere a patti con il crimine organizzato la dottoressa dà spiegazioni tra il culturale e il sociologico: questo tipo di omertà «esiste a causa di una cultura cambiata; a giovani rampanti ed emergenti il capitalismo e la globalizzazione offrono la spinta al denaro facile, e più che l'omertà conta la convenienza». Fare affari con la 'ndrangheta, spiega, conviene a chi vuole assumere dipendenti in nero, o a chi vuole avere finanziamenti aggirando i controlli bancari. Anche se poi - come raccontano le storie contenute nell'ordinanza di custodia eseguita ieri - la china si fa rapidamente scivolosa, e ci si ritrova legati mani e piedi ai mafiosi. Con il risultato, come è successo a uno degli imprenditori, di ritrovarsi convocato in un ristorante dai boss locali della 'ndrangheta e preso a pugni e schiaffi a turno da tutti i presenti per spiegargli chiaramente le norme di comportamento. Eppure, ricorda Ilda Boccassini, sono spesso gli imprenditori gli ultimi a rassegnarsi a dire la verità: anche dopo che i loro capannoni bruciano o saltano in aria, dopo che le forze dell'ordine decapitano le organizzazioni, dopo che si pentono capi e gregari, dopo che i processi iniziano, questo tipo particolare di vittime continua a presentarsi nelle aule di udienza negando di avere mai ricevuto richieste o minacce. Fino a quando? La dottoressa sembra pessimista. Soprattutto quando a scegliere di stare con i clan sono «imprenditori veri, gente che lavora e che dà lavoro». Come i fratelli De Masi, titolari di una serie di aziende edili e immobiliari, che dopo essere stati taglieggiati dalla 'ndrangheta scelgono di saltare il fosso: e Orlando De Masi si fa egli stesso affiliare, «e in sostanza De Masi coglie immediatamente i possibili vantaggi del suo essere battezzato volendo iniziare a togliersi delle soddisfazioni con gli imprenditori suoi concorrenti». Per il resto, la retata del 11 settembre 2012 - che è la nuova puntata di una serie di inchiesta a catena, che da oltre tre anni colpiscono a raffica le presenze in Lombardia dei locali della 'ndrangheta calabrese - non aggiunge molto di nuovo: c'è la passione quasi grottesca per rituali di affiliazione, gradi, promozioni a base di «vangelo», «sgarro», «camorra»; la brutalità negli omicidi, come quello di Antonio Tedesco «l'americano», convocato in un maneggio con la promessa di essere affiliato, e ivi soppresso; traffici di droga apparentemente inesauribili; complicità e «disattenzioni» che nell'apparato dello Stato agevolano il lavoro ai clan. Ci sono anche rapporti con la politica, chiedono ovviamente i cronisti?
«Valuteremo», risponde secca Ilda Boccassini. Ma dalla lettura attenta dell'ordinanza di custodia salta fuori solo il nome di un semisconosciuto consigliere del Pdl al comune di Seregno, calabrese di Rosarno e, secondo le indagini, devoto al credo del «non so, non ho visto».
«Pam. Pam. Pam». Racconta ancora Elena Gaiardoni sempre su “Il Giornale”. Tre colpi, subito, e poi una raffica come da una mitragliatrice. I testimoni di via Muratori descrivono così il delitto dell'10 settembre 2012 la sera alle 20, al numero 3, dove sono stati uccisi Massimiliano Spelta e la bella moglie domenicana Sulejni Ortiz, che il 27 agosto su Feacebook aveva scritto: «Voglio tornare al mio paese e dimenticare questa gente del diavolo». Ma il diavolo ci ha pensato prima, armando un killer. Droga? Gelosia? Mafia? Gli abitanti della zona non hanno dubbi che il delitto fosse su commissione, ma non mettono a fuoco il movente. Sono ancora sotto shock. «Ho chiuso il negozio dieci minuti prima del solito - racconta Miriam Sgorbardi del negozio di fiori «Petali» -. Abito di fronte. Ho sentito gli spari appena entrata in casa. Non è stato per caso. Sono andati mirati. Mi sono affacciata al balcone. Alcuni passanti stavano accovacciati dietro le macchine, altri erano col telefonino in mano. Un signore era chino sulla donna a terra, credo fosse un medico». Gli Spelta avevano appena parcheggiato la macchina all'inizio di via Muratori. La bimba di due anni che Sulejni teneva in braccio è stata portata via «da una signora uscita dall'osteria Delizie del mare» narra Giada Giorgi, 27 anni, abitante della strada. «Stiamo diventando come Scampia - continua -, perché questo fatto ha tutto il puzzo di un regolamento di conti. Ma cos'è Milano? Almeno a Rozzano con quello che paghi un appartementino qui ti compreresti una villa con piscina. Un duplice omicidio e una settimana fa un bar carbonizzato nella piazza più avanti. Coincidenze? Non credo».E' vero che pare d'essere a Scampia, non solo per il sangue sparso sulla strada, ma per il clima d'omertà che pesa su via Muratori. Molti appena vedono un giornalista chiudono la porta, altri non parlano. «Cosa pensiamo? - dice il signore dietro il banco della lotteria nella caffetteria «Clicò» -.
Chi pensa non agisce» e se la cava così. Dentro al caffè Food&Drink, Alessandro, che sta preparando gli aperitivi e dà un nome convenzionale per timore, confessa: «Chi ha un esercizio commerciale come me, ha paura, molta paura». Il portone grigio al numero 3 è chiuso. Ti impediscono d'entrare, alla fine si può farcela grazie a una dog sitter che va a consegnare il cane alla padrona dopo una passeggiata. Dentro: atrio tranquillo con biciclette parcheggiate. Arriva Marco G., 27 anni. Abita qui. «Ho visto la bambina. La portavano via per condurla da uno psicologo. Ho visto il corpo dell'uomo con quattro - cinque colpi sul petto. Ho sentito gente urlare. E' vero: questi fatti sono sempre avvenuti, ma noi siamo in allarme». Dalla scala esce un signore con i capelli grigi.
Scansa le domande. «Non ho risposte. So solo che ci governano persone che noi non vogliamo». Inforca un Suv e se ne va.
Alessandro De Angeli, 63 anni, gestisce la carrozzeria quasi di fronte al 3. «La situazione è drammatica. Più la povertà aumenta, più aumenta la malavita, questa è una legge che conosciamo tutti.
Viviamo in una società dove non c'è più un valore, lo si vede dalle piccole cose. L'unico valore è il denaro e se il denaro manca... Ma siamo costretti a tirare avanti. Avrei già voluto andare in pensione, ma il ministro Fornero ha deciso per il no. E in più ci sparano anche. Che si deve dire? Che non si hanno più parole». Chi erano le vittime? La fioraia Miriam Sgorbardi sostiene che lui era un volto noto, probabilmente uno dei suoi tanti clienti. Quindi erano o non erano lì per caso? Un passante nota. «La ragazza ha tentato di fuggire, quindi ha capito subito». Bruno Sarti è seduto al banco di Mondolibri. «Non siamo ancora a Los Angeles, dove il disagio giovanile è tale che le pallottole vagano a casaccio. O perlomeno non siamo ancora arrivati a questo stadio. Gli spari di via Muratori volevano colpire i bersagli che sono stati colpiti». Magra consolazione.
MAI DIRE MILANO
Una delle tante facce di Milano raccontata da Andrea Galli su “Il Corriere della Sera”. Le (sporche) notti nelle strade attorno la Stazione Centrale. Il sangue, le risse ed i disperati nella terra di nessuno a Milano. Da una parte gli europei, dall'altra gli africani: dormono e litigano sui marciapiedi. All'1.49 della notte di giugno ancora ci sono 21 gradi. Un bimbo d'un anno, appena compiuto, dorme sotto un giubbettino azzurro: continuava a rigirarsi nel passeggino e la mamma s'è decisa a inventarsi una coperta; il nonno materno monta la guardia, indaffarato nella strana impresa di usare un pur spesso filo d'erba come stuzzicadenti dopo aver riposto una forma di grana nel sacchetto. Intanto due amici hanno steso un lenzuolo ben attenti a farlo aderire per terra scostando le lattine accartocciate, e un ragazzotto ubriaco ha abbracciato un albero facendosi, nella concitata operazione, la pipì addosso. Poi c'è anche chi, puntualmente, sviene e precipita nel sonno, o nell'incoscienza. Si risveglierà ore dopo se non l'indomani - al massimo, nel corso del tempo qualche passante incuriosito, indifferente, oramai abituato si sarà giusto chinato in allerta come sull'orlo di un burrone - con attorno altri compagni di sventura, altri passeggeri di questo irrisolvibile buco nero rappresentato dai dintorni della Stazione Centrale. Dentro l'hanno ripulita, rifatta e rimessa a nuovo. Non c'era niente e ci sono cento negozi. Fuori è un altro mondo. Lo stesso da una vita. Dove capita che le magnolie muoiano ghiacciate. Dove si ripetono risse e pestaggi, regolamenti di conti e spaccio di droga. Dove aprono un cantiere e i lavori si fermano. Facile obiezione: suvvia, una stazione, per di più in una metropoli, non è un atollo caraibico, il disordine e il degrado sono naturali, fisiologici. Vero, ci mancherebbe. Ma quel laghetto sull'asfalto cos'è? Sangue. Ah. Si sono appena pestati. Arriva la polizia. Non danno nomi ed età e provenienza, questo soltanto raccontano i genitori del bambino appisolato beato (tra i 25 e i 30 anni, inflessione che pare romena, lui atletico e in canottiera, lei graziosa e sguardo birichino): «Abbiamo una casa a Roma. Siamo saliti perché amici ci hanno detto che a Milano c'è tanto lavoro. Siamo a Milano da due notti, gli amici non rispondono al cellulare, siamo abbandonati. Non possiamo tornare a Roma, non abbiamo soldi». Il posto preciso si chiama piazza Luigi di Savoia. Tenendo la Stazione Centrale davanti, è sul lato destro. Il lato sinistro è occupato da piazza IV Novembre. Come tutti i luoghi hanno una clientela affezionata. In Luigi di Savoia vivono da sempre gli europei dell'Est; in IV Novembre senegalesi, ivoriani, ghanesi, marocchini, egiziani, tunisini. Ci sono volti stanchi di lavoratori che sorseggiano una birra al baracchino in perenne sforamento d'orario, prostitute africane scese dai treni dal Piemonte nei loro stretti e sgargianti abiti che attendono un passaggio per la statale, certi ghigni tremendi di tipacci sfregiati in viso, barboni di sessant'anni, gruppi che salgono sui tram al capolinea e scendono quando il vecchio dinosauro su rotaia si rimette in moto. In IV Novembre c'è una specie di ufficio dell'Atm, l'azienda dei mezzi pubblici. Un dipendente prende malissimo la domanda sull'andazzo del posto («Scusa non ci vedi? Te lo devo spiegare io?») salvo sbuffare, all'apparenza convinto, che una volta era addirittura peggio, e dunque ciao. Alle spalle del dipendente Atm un profilo di transenne, è il cimitero delle piante. Non le magnolie, che sorgono sull'altro lato, e sono state stese dall'ultimo gelo invernale; questi alberi sono platani, in numero di 15, abbattuti nell'ambito dei lavori di riqualificazione esterna. I resti dei platani non sono stati rimossi, nonostante le promesse. Né è ripartito, sulla piazza centrale, l'ampia piazza Duca d'Aosta, il cantiere che collegherà l'asse stradale al sottostante metrò. Per colpa della Dec, la società colosso delle opere pubbliche precipitata in disgrazia perché travolta da inchieste giudiziarie, gli operai se ne restano a casa disoccupati, la cosa si trascina di ritardo in ritardo, consueto e noioso finale all'italiana... Senonché, notizia di questi giorni, a Roma è stata raggiunta l'intesa per la ripresa dei lavori. Fabio Battaggia, l'amministratore delegato di Grandi Stazioni, il gestore della Centrale, sottolinea la «velocità» nella risoluzione di una «situazione» che «rischiava di paralizzare il cantiere per anni». Da una grata rettangolare sul marciapiede sale l'aria calda del metrò: hanno sistemato dei possenti archi gialli, uno via l'altro, dritti, di traverso, mezzi storti, per creare una barriera bastarda che impedisce ai barboni di sdraiarsi per dormire. Farebbe fatica perfino un contorsionista del circo. Tolte le macchine della polizia non si vedono pattuglie e divise dei vigili: è un lamento diffuso dei milanesi di questo quartiere, che nei ghisa hanno eccessiva cieca fiducia oppure che i ghisa li prendono come bersaglio a prescindere per ogni caso d'insicurezza urbana. Infinite code di tassisti in sudata attesa di passeggeri. I conducenti parlano di un calo di clienti. In giro s'incontra gente scesa dal treno che spara parolacce contro i taxi introvabili. Lusso e prelibatezze nei negozi della stazione, librerie multipiano, vetrine scintillanti, i fattorini abusivi, scheletrici sopravvissuti all'eroina, e gente, tanta, tanta gente accasciata, priva di senso. Un popolo di giorno zoomato e controllato dalle oltre cento telecamere interne e di notte sdraiato a pancia in su nei giardinetti, zaffate di puzza di piscio a ondate, un colpo di tosse a qualche metro di distanza, chi è?, eccolo, un ubriacone, si china, vomita l'anima, più in là ha appena parcheggiato il bus che collega all'aeroporto di Malpensa, gonnelline all'aria di cinque amiche di ritorno da Londra che corrono urlando. Facciano pure tutto il baccano che vogliono, qua il sonno è profondo. Per stanchezza, per il vino, per semplice comune abitudine.
MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”
In questo campo, io Antonio Giangrande, mi sono imbattuto quando svolgevo l’attività forense. Professione che fatta da me in modo etico, ha portato gli operatori della giustizia ad adottare atti di ritorsione, che mi impediscono di proseguirla. La mia testimonianza sui casi di malagiustizia da me affrontati, o di cui sono venuto a conoscenza, hanno indotto i magistrati a far chiudere i miei siti web e di processarmi per diffamazione a mezzo stampa. Ad oggi, nonostante che a giudicarmi siano gli stessi magistrati criticati, nessuna sentenza di condanna ha sporcato la mi onorabilità. E quantunque fosse stato il contrario, sarebbe comunque salva la mia dignità. Il tutto ben illustrato nel dossier ingiustizia a parte. Perché il potere ti dice: subisci e taci. La Mafia ti distrugge la vita, lo Stato di uccide la speranza. In Avetrana, una mia cliente, alla morte del padre, quale unica erede, riceve centinaia di milioni di lire. Il fratellastro, che da tempo non aveva rapporti con loro, al fine di impossessarsi dell’eredità, promuove il procedimento d’interdizione per dichiarare incapace d’intendere e volere la stessa sorella. Contestualmente, presenta esposto penale, ritenendola vittima di circonvenzione d’incapace a seguito di condotta di un’altra parente. Il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, non nuovo ad abusi giudiziari, in violazione degli artt.257 e 322 c.p.p., sequestra tutti i beni, compresi quelli di sostentamento, senza notifica del decreto per poter opporre richiesta di riesame. Inoltre attiva, d’ufficio, altro procedimento d’interdizione. Nei tre procedimenti, 1 penale e 2 civili d’interdizione, per anni si impedisce il diritto di difesa all'interdicenda, perché non gli viene nominato un difensore d’ufficio, né gli viene nominato il curatore-tutore provvisorio per la nomina del difensore di fiducia. Si abbandona l’interdicenda e la si sente dopo anni, anziché dopo giorni, in procedimento d’interdizione, in udienza pubblica, alla presenza di decine di spettatori divertiti. Il sottoscritto, suo difensore, pur con regolare abilitazione al patrocinio legale, operando nell’interesse dell’assistita nei molteplici mandati extragiudiziari, sol perché è Praticante Avvocato con patrocinio legale, viene indagato per esercizio abusivo della professione e per gli effetti anche di circonvenzione d’incapace, nonostante non fossi io il denunciato dal fratellastro, e lo viene a sapere dal fascicolo del P.M., segretato per le indagini in corso, ma alla mercé pubblica del procedimento d’interdizione. Tutti gli atti richiesti al sottoscritto sono stati consegnati senza sapere di essere indagato e senza la presenza del difensore. Non si indaga in suo favore, per accertare la regolare abilitazione con il patrocinio legale, né viene sentito su fatti e circostanze. Al sottoscritto gli viene impedito di nominare un difensore, in quanto gli si impedisce l’accesso al gratuito patrocinio, perché gli viene comunicato il limite di reddito di lire 11.260.000, anziché lire 18 milioni. Così come fanno altre Procure per altri accusati. Inoltre per 3 rituali richieste di accesso al gratuito patrocinio non viene dato riscontro, nemmeno per il diniego. Il PM, ricevendo la prima richiesta, invia al GIP parere negativo, che diniega, ma non comunica. Il PM, ricevendo la seconda richiesta, inviata al GIP tramite carabinieri, la fa sparire. Il giudice del Tribunale di Manduria, nell’udienza del 4 novembre 2003, rigettando la terza richiesta impone la nomina illegale preventiva dell’avvocato, nominandolo ella stessa, in violazione della legge, che stabilisce la scelta dell’avvocato, da parte dell’imputato, solo ad ammissione avvenuta al gratuito patrocinio. Il giudice viene sostituito per altri motivi ed il successore, nonostante le illegalità e gli abusi, rigetta l’istanza di annullamento e rinvio al GIP degli atti processuali. Insomma, dopo anni è stata impedita la difesa, per una condanna scontata. Al sottoscritto indagato non gli si impedisce di reiterare il presunto reato, perché continua a lavorare per la persona offesa dallo stesso reato, abbandonata da tutti, e continua a lavorare per altri. In violazione dell’art.50 c.p.p. non si indaga sui veri responsabili, oggetto di denuncia. Inoltre, in udienza di interdizione, il Giudice, alla richiesta del sottoscritto di attivarsi, affinché l’interdicenda potesse esercitare il suo diritto di difesa, lo sbatté fuori fisicamente a spintoni, sbattendogli dietro la porta, sfiorandoli la spalla. Questo nonostante fosse stato il Giangrande stesso a portare la donna in udienza, cosa che avrebbe dovuto fare, invece, il fratello o l'autorità giudiziaria. Ad istigare il Giudice era il legale del fratellastro, che nella stessa udienza, derideva il sottoscritto, sua controparte, per essere praticante, fino a farlo cacciare dall’aula, affermando, che i Praticanti possono solo esercitare presso i Giudici di Pace. In sede di udienza preliminare, il GUP, anziché effettuare reale udienza preliminare con contraddittorio delle parti, si limita a ratificare tout cour la richiesta di rinvio a giudizio, senza dare modo di interloquire. In tale sede, pur denunciando la nullità degli atti di indagine, le cause di non procedibilità, ovvero le cause di giustificazione, il GUP, non sente ragioni. L’avvocato nominato d’ufficio per il sottoscritto, non si presenta nemmeno. L’avvocato nominato in udienza in sua sostituzione, non se ne frega niente del suo assistito. Egli è silente e inattivo. L’interdicenda, addirittura, in udienza era assente e non rappresentata per la mancanza di nomina del difensore o del curatore-tutore giudiziale provvisorio. Con questo stato di cose si è impediti, inoltre, ad essere interrogati, a conoscere gli atti del P.M. e a costituirsi nei termini, decadendo dal diritto di chiamare testi e produrre prove a discarico. La stessa cosa è nel proseguo presso il Tribunale di Manduria, dove è disattesa l’ennesima istanza di accesso al Gratuito Patrocinio e dove è impedita la nomina dell’avvocato di fiducia. Lo stesso Presidente della Camera Penale, iscritto nell’elenco degli avvocati del gratuito patrocinio, rifiuta il mandato. L’interdicenda abbandonata da parenti ed Istituzioni, impedito l’aiuto del sottoscritto e ritenuta capace da tutti, improvvisamente, viene allontanata dalla sua casa e ricoverata coattivamente presso un ospedale, presumibilmente, psichiatrico. All’uscita essa entra in uno stato di depressione senza soluzione di continuità. Non si poteva non presentare alla procura di Potenza le denunce penali contro i magistrati. Invece la Procura di Taranto dichiara in udienza che non esistono denuncie presentate presso di loro, né presso altre Procure. Dichiarazioni mendaci confermate dalla Procura di Potenza. La Procura di Potenza si affretta ad archiviare la denuncia del 02/09/03. Lo stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, denunciato, per ritorsione alle battaglie di legalità, impedisce l’accesso al gratuito patrocinio al Giangrande per due procedimenti civili. Nel primo procedimento civile era controparte lo stesso Consiglio dell’Ordine, dichiarato contumace, e l’INPS; nel secondo procedimento civile era controparte l’INPS. La seconda causa è stata tenuta da un avvocato, che per 10 anni non ha svolto fedele patrocinio, chiedendo ed ottenendo, sistematicamente, il mero rinvio, rasentando la soccombenza e decadendo dal diritto di chiamare i terzi garanti in causa, i quali erano titolari della esattoria comunale e per questo delegati dall’INPS ad incassare le somme richieste per i contributi previdenziali. Esattori che, sembra, non hanno versato al delegante le somme percepite. In seguito alla doverosa e necessaria estromissione dell’avvocato, avendone le qualità, si è attuata la difesa personale da parte dell’istante, ex art.86 c.p.c., così come è stato fatto per l’altro procedimento, fino a che non è scaduto il patrocinio legale, con conseguente indigenza e mancanza di difesa. COMUNQUE IN DATA 14 LUGLIO 2009 SI E’ PRONUNCIATO IN APPELLO IL NON LUOGO A PROCEDERE PER ANTONIO GIANGRANDE E LA CONDANNA DI CIRCONVENZIONE D’INCAPACE ED ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE E’ DECADUTA.
Questo a Taranto, nel Sud dell’Italia. Ed al Nord?
Che fine ha fatto la professoressa Borgna? Questo si chiede Alessandro Barbaglia della “Tribuna Novarese”. Tutto comincia così con una domanda che la testata torinese “Cronaca Qui” nel gennaio 2009 fa risuonare dalle proprie colonne. Che fine ha fatto? Rapita? Confinata all’ospizio? Fatta interdire da avidi parenti con l’intenzione di spartirsene l’eredità? O forse semplicemente ricoverata in una struttura adatta ad accogliere le esigenze di un’anziana 83enne resa sorda dagli anni o dai ricordi di una vita difficile, molto difficile? Le ipotesi in quel gennaio freddo sulla stampa si fanno roventi. Anche fantasiose. Salta fuori pure una lettera (autentica) firmata dai vicini di casa della professoressa che racconta quanto sia stato anomalo quel ricovero forzato eseguito per far sparire la vecchia professoressa di latino e greco definita “donna lucida e sempre presente e sé stessa, eppure è stata caricata a forza su un’ambulanza, legata e portata via: era evidente che c’era qualcosa di poco chiaro”. Ma chi è la signora Borgna? E perché ricordare oggi questa vicenda torinese e passata? Perché quella domanda, quella che poneva ai lettori “Cronaca Qui”, ha aperto un vortice di strane vicende fatte anche di minacce ed intimidazioni che ha allargato le proprie spire fino a coinvolgere un’assistente sociale novarese che si è interessata del caso, ha proposto una chiave di lettura della vicenda drammaticamente differente da quella che i giudizi ed i tutori legali stavano seguendo ed è stata radiata dall’ordine professionale con gravi accuse: aver rivelato a terzi informazioni sul conto della propria cliente; aver contattato la persona interdetta senza autorizzazione; aver effettuato attività professionale senza aver ricevuto compenso ed incarico. Radiata perché ha fatto il suo lavoro. Inoltre questa storia vede imputata un’altra donna finita in questo ciclone: la badante della professoressa Borgna accusata di circonvenzione d’incapace. Ma cosa è successo? Che storia e cosa si nasconde dietro il mistero della scomparsa professoressa Borgna e della radiazione dell’assistente sociale novarese? Proviamo a ricapitolare la vicenda, proprio con lei, l’assistente sociale Luigia Padalino, specializzata tra l’altro, in psichiatria forense. «Inizia quasi tutto per caso – spiega – Una mattina di oltre un anno fa quando mi sono imbattuta nella lettura di alcuni articoli del giornale “Cronaca Qui”. Si raccontava della sparizione, o del ricovero forzato, di un’anziana professoressa, la signora Borgna e delle accuse rivolte alla badante della donna: circonvenzione d’incapace. In quegli articoli c’era qualcosa che non mi convinceva, le modalità con cui la donna era stata prelevata dalla sua abitazione sembrava una deportazione: polizia, finanzieri ed infermieri che l’hanno addirittura legata. Tutto ciò per una pacifica donna di 82 anni.» in realtà, secondo gli atti, la donna era stata interdetta un anno prima e affidata ad un tutore. «Già, anche questo era un elemento anomalo: il nuovo tutore legale era l’avvocato che accusava la badante di circonvenzione d’incapace: mentre sulle capacità mentali della donna ci sono lettere lucidissime inviate poco prima del sequestro ad un amico di vecchia data. Una persona interdetta non potrebbe scrivere lettere tanto precise». Insomma la questione la incuriosisce e cosa fa? «Mi occupo di malagiustizia e malasanità, anche in forma privata e gratuita: quando ho letto la storia della professoressa ho inviato una mail al procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli chiedendogli di non sottovalutare il caso, presentava anomalie, mi ricordava altre vicende simili e drammatiche in cui donne anziane, e molto ricche come la Borgna, erano state fatte internare dai parenti per potersi spartire l’eredità». E lei a Caselli fa presente questa ipotesi? «No, assolutamente no, chiedo solo di prestare attenzione al caso perché poteva presentare anomalie». La mail parte ad inizio gennaio, due giorni dopo l’assistente novarese viene convocata in procura. A Torino. «Mi sono stupita molto, nemmeno credevo l’avrebbero letta quella mail, e invece nel giro di pochi giorni mi convocano, mi interrogano e mi chiedono cosa sapessi di quella storia. Il bello è che io non sapevo nulla, richiamavo l’attenzione della Procura al caso. È a quel punto che ho la conferma che tutta quella situazione è anomala: perché la procura di Torino ha voluto sentirmi? Cosa supponeva potessi sapere? Perché è scattata sull’attenti appena ho nominato il caso della ricca professoressa fatta interdire e poi ricoverare con la forza? Qui inizi il gorgo del mistero. L’assistente sociale incontra la badante della professoressa Borgna, accusata di circonvenzione di incapace ai danni della Borgna, e la versione dei fatti che la donna fornirà sarà sconcertante. «La badante era accusata in sede penale sulla base di un’unica prova: nel suo appartamento era stato ritrovato un testamento a firma della Borgna a lei favorevole. L’avvocato dell’accusa, nonché tutore della Borgna, non ha dubbi: la badante è colpevole. Senza averla mai ascoltata, altrimenti avrebbe appreso dell’altro, di un complotto ordito da persone vicine alla Borgna nei confronti della professoressa: in una lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri, la donna racconta di persone che le si aggiravano in casa e le sottraevano mobili, oggetti preziosi e documenti … E’ per quello che la Borgna aveva chiesto alla badante di conservare il testamento: per evitare che sparisse! La Borgna collezionava mobili antichi, oggi in casa sua non ce ne è più nemmeno uno. Dove sono finiti?» questa è una sua tesi? «Questo è quanto si evince dal racconto della badante e dalla lettura della lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri di Torino e mai considerata quel che succede poi è un “giallo”. Con regolare assunzione d’incarico svolgo tre indagini sociali per conto della badante sollevando interrogativi inquietanti corredandole di documenti e testi che nessuno aveva considerato arrivando però alla sbrigativa conclusione che la badante fosse responsabile di qualcosa. Tre indagini sociali che finiscono negli atti processuali contro la badante, privati degli allegati dei documenti dei testi». E il processo ha preso in considerazione le sue indagini? «Il processo non è ancora iniziato (la prima udienza è fissata per oggi ) ma l’accusa invia le perizie, prive degli allegati fondamentali, all’ordine degli assistenti sociali che mi ha sospeso per un anno sostenendo che, per stenderle, avevo agito in maniera deontologicamente scorretta. Un bavaglio che ha messo a tacere me e tutti quelli che, anche con intimidazioni, come dimostrato dalle mie indagini sociali, tentavano di presentare la vicenda sotto altre vesti, cercavano di sollevare dubbi sulle monolitiche verità che erano state assunte: la colpevolezza della badante, il corretto internamento della Borgna, l’affidamento del suo patrimonio ad altri. Ho cercato di fare il mio lavoro, di cercare la verità, forse ho toccato tasti o interessi che non andavano nemmeno sfiorati…». Mentre il processo sulla colpevolezza della badante è ancora tutto da dibattere, l’assistente sociale, Luigia Padalino, scusate il giro di parole, paladina della giustizia: è radiata dall’Ordine. “NESSUN COMMENTO, MA LA SANZIONE POGGIA SU MOTIVAZIONI SERIE”. La storia di Luigia Padalino è complessa e scivola in temi per cui le colonne del giornale rischiano di essere strette. Dall’ordine degli assistenti sociali di Torino, organo da cui è partita al sospensione annuale nei confronti dell’operatrice novarese, sulla questione c’è un riserbo totale. «E’ impensabile- ci spiega Povero Graziella, segretaria dell’ordine- che si possano fare commenti ad una sospensione che è un atto ufficiale e notificato su cui incide il segreto professionale e la tutela della privacy». Quindi per capire cosa ha spinto l’ordine ad assumere il provvedimento disciplinare contro Padalino, che bisogna fare? «Chiederlo a lei e attenersi agli atti. È chiaro però che se l’ordine ha deciso per la sospensione, non ha agito in maniera sconsiderata: è in possesso di atti e ragioni che lo giustificano e lo motivano chiaramente. Tutti atti e ragioni di cui non si può sapere nulla. All’interessata tutto è stato spiegato e tutte le carte che la riguardano le sono state consegnate. Se la signora dovesse avere qualcosa da ridire è libera di impugnare il provvedimento davanti al consiglio nazionale, ma noi non siamo tenuti a dare ulteriori spiegazioni».
Già! Peccato che il potere non può tacitare una verità inconfessabile e censurata dai media.
Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Secondo il codice civile si può richiedere l'interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. L'incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l'interdizione della Crosignani su richiesta dell'ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono. La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all'Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano. E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all'Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l'una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina. Ancora anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro. Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte, divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l'inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d'interrogatorio nell'inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini». Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia». Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente». Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l'allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio e al Tribunale di Milano l'interdizione della madre. E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell'incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani). Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c'è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall'avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli. Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte. Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d'Appello di Milano. Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti. Mentre quella Claudia Mariani che chiede l'interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d'Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d'ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l'interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania». Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all'udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d'ufficio dottor Vittorio Boni. Claudia Mariani è ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani. Questa inchiesta sulla Crosignani e sulla Mariani è stata pubblicata sul mensile Casablanca, che rischia di chiudere per "dimenticanze" dello Stato, e perchè forse l'antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.
PARLIAMO DELLA MILANO OMERTOSA: SOLO 4 TESTIMONI SU 20 CONFERMANO NEL PROCESSO LE DICHIARAZIONI RESE DURANTE LE INDAGINI.
La Milano altezzosa, la Milano saccente, la Milano superba, la Milano razzista si dimostra quello che veramente è: non diversa dalle altre città italiane. Stessa ignavia, stessa codardia, stessa omertà o collusione. Insomma gli stessi difetti. Milano come Palermo: al processo i testimoni sono omertosi.
Un testimone si rende irreperibile; un altro manda un certificato medico nel quale si dice che per "motivi psicofisici" non è il caso di testimoniare in Tribunale; un terzo scrive al Pm e dice: "Non mi chiami a testimoniare, ho paura per la mia famiglia"; altri 13 negano di aver visto quello che hanno visto e dichiarato durante le indagini, arrivando a negare l'evidenza dei fatti. Non è un processo di mafia a Palermo o di camorra a Napoli, ma un processo per omicidio a Milano. Per essere esatti, il processo che ha causato questa morìa di testimoni è quello ai danni di Stefania e Pietro Citterio, che il 10 ottobre 2010 uccisero - insieme a Morris Ciavarella, già condannato in primo grado con rito abbreviato - a pugni e calci il tassista Luca Massari, "reo" di aver investito accidentalmente ed ucciso il cane di Stefania, che era scappato in mezzo alla strada. Massari si fermò per vedere cosa era successo, ma il suo senso civile gli fu fatale: venne assalito da Ciaravella e da Pietro Citterio, istigati da Stefania, e picchiato fino a rimanere in coma, che dopo un mese divenne morte. Ciaravella è stato condannato a 16 anni di reclusione con rito abbreviato, mentre per Stefania e Pietro è toccato il rito ordinario. Con il Pm che ha enormi difficoltà: addirittura una signora ha negato che l'incendio della macchina del figlio - che è stato accertato essere stato un avvertimento contro il ragazzo che aveva testimoniato sull'accaduto davanti al Pm - fosse collegato in qualche maniera alla vicenda dell'omicidio di Massari. Insomma, omertà totale. Nella "capitale morale" d'Italia. Se quella è moralità...
Una brutta storia sta andando in scena a Milano al processo in Corte d’assise per l’omicidio del tassista milanese Luca Massari. Il caso è stato affrontato da vari giornali, tra cui “La Repubblica” con Emilio Randacio. Uno ha deciso di scrivere una lettera direttamente al pubblico ministero. "Avendo paura che succeda qualcosa a me e alla mia famiglia, non voglio testimoniare", il messaggio testuale. Un altro, addirittura, si è reso irreperibile e per vederlo in tribunale si sono dovuti inviare i carabinieri. Un terzo, invece, per il suo "stato di salute e per problemi psicofisici", a detta del medico che lo ha in cura, è meglio che in tribunale non ci si presenti neppure. Se si pensa che la gran parte degli altri diciassette testimoni convocati dalla procura si è rimangiata la prima versione dei fatti, il risultato, sulla carta, sembra quasi scontato. Non è la cronaca di in un processo di mafia, in una terra di confine in cui lo Stato, tra mille difficoltà, tenta di avere ragione sull'omertà e sul codice spesso spietato della criminalità organizzata. La scena si sta consumando in quella che per molti resta la capitale morale del Belpaese: Milano. Al processo per l'omicidio del tassista Luca Massari, morto dopo un investimento casuale di un cane nella periferia sud della città, ci sono tre imputati. Massari, il 10 ottobre 2010, con la sua auto sta percorrendo via Ghini, dopo aver lasciato un cliente in via Ripamonti. Da un giardino pubblico, spunta all'improvviso, un cucciolo di cocker sfuggito al controllo della sua padrona. Il tassista frena di scatto, ma non riesce a evitarlo. L'animale muore all'istante, Massari se ne accorge e si ferma immediatamente per cercare di rendersi utile. È la sua fine. In pochi attimi viene preso di mira dalla proprietaria, Stefania Citterio (26 anni), che gli inveisce contro minacce e insulti: per concludere brandendo un casco da moto con un emblematico "ora ti ammazzo". Ad assecondare le richieste della donna, ci pensa il fidanzato, un balordo della zona, Morris Ciavarella, 32 anni e il fratello della Citterio, Pietro, 27. Massari, 45 anni, finisce la sua vita esattamente un mese dopo in un reparto di terapia intensiva per una lesione cerebrale causata da una ginocchiata in pieno volto. Ciavarella viene portato in carcere poche ore dopo il pestaggio. Ma per identificare i suoi due complici, invece, serviranno giorni ed estenuanti interrogatori. Da subito il pm Tiziana Siciliano e la squadra mobile di Milano, si trovano di fronte all'omertà quasi totale. Chi si azzarda a raccontare come sono andati realmente i fatti, come un giovane studente universitario, all'indomani si trova l'auto bruciata. Solo un imbarazzante prologo di quanto sta succedendo 19 mesi dopo quell'aggressione in un'aula di giustizia. Ciavarella, attraverso il rito abbreviato, è già stato condannato a 16 anni di carcere. I fratelli Citterio hanno optato per il rito ordinario. Ora si stanno per tirare le somme del processo: lunedì 7 maggio 2012 la requisitoria della Siciliano e le richieste di pena. Ma per il pm, il dibattimento si è dimostrato più che in salita.
Solo 4 testi, infatti, hanno confermato quello che hanno visto. Sono gli unici testimoni diretti dell'aggressione, che non vivono più nel quartiere di via Ripamonti. Gli altri hanno tentato di ritrattare la prima versione, sminuire il ruolo avuto dai fratelli Citterio. Proprio davanti ai giudici della Corte d'assise, si è perfino scoperto come una signora abbia negato l'innegabile: smentendo che dietro al rogo dell'auto del figlio, ci possa essere un nesso con le loro prime dichiarazioni alla polizia. Nessuno oggi, tra i residenti del quartiere, sembra più disposto a scommettere di aver visto i fratelli Citterio accanirsi sul povero tassista.
La Milano dell’omertà: “qui ci facciamo i fatti nostri” è il titolo del pezzo di Piero Colaprico su “Il Corriere della Sera”. Su 20 testimoni solo quattro avrebbero confermato la loro deposizione, confermando quanto avevano visto la sera del pestaggio. Ma loro non vivono più nel quartiere, si sono messi al sicuro. Gli altri hanno paura, e starebbero sul punto di ritrattare. Del resto le minacce sono concrete: due macchine dei testimoni sono state incendiate, un po’ meglio è andata al fotografo che stava scattando immagini di una delle auto bruciate, era stato colpito in testa con un manico di scopa. Durante le indagini gli investigatori parlavano di “impressionante livello di omertà” nel quartiere, ma non è solo omertà, è come se in quella periferia di Milano, proprio come nei territori di mafia, fosse rispettata solo la legge della violenza, che prevede il regolamento di conti deciso dalla comunità e dai suoi boss, e chi non si adegua è subito punito. E non è servita a dare coraggio, un mese dopo il pestaggio del tassista, la fiaccolata in sua memoria cui parteciparono un migliaio di residenti del quartiere, né l’Ambrogino d’oro assegnato a Stefania Berti, la prima testimone del linciaggio. Le fiaccolate e i premi puntano per un giorno i riflettori su chi sa e potrebbe parlare, ma poi quelli si spengono, e arrivano le minacce telefoniche, gli avvertimenti al citofono, l’intimidazione capillare, quotidiana che appesta l’aria, in un quartiere in cui chi si rivolge alle forze dell’ordine è un traditore delle regole non scritte che regnano in quelle strade.
Su un muro si legge: "Merde, via dal cazzo", e sembra dedicato ai giornalisti. La voce femminile al telefono non trema: "No, per favore, anche se è qui sotto, non le apro. Il fatto è molto semplice, noi vogliamo vivere la nostra vita, è giusto o non è giusto?". E testimoniare al processo glielo impedirebbe? "Sa, qui bisogna giocare d'anticipo" risponde la donna. In che senso, scusi? "Prima che succeda a noi qualche cosa come è successo ad altri... È sicuro che nessuno sa che sta parlando con me? Come ha avuto il numero?". Piazzetta Caccia Dominioni è una piccola oasi tra traffico e cemento. "Sembra di stare in campagna", dice una ragazza filippina, dotata di grande fantasia. Tra le case popolari c'è un grande rettangolo verde, alberato, gravido di moscerini. Rettangolari anche i caseggiati marroni, lunghi e bassi, pochi piani di bandiere dell'Inter e calzini corti, paraboliche sporche e reggiseni bianchi. Non arriva il frastuono del traffico di via degli Antonini, appena a cento metri. Ma non è campagna. Siamo a Milano. Giù di là, ecco il quartiere Stadera, spaccio alla grande, con i fischi delle sentinelle all'arrivo di ogni faccia sconosciuta. In fondo dall'altra parte, il Corvetto, con le neo-bande multietniche. "Beh - continua la signora che non apre la porta - glielo dico chiaro: noi se siamo obbligati andiamo in aula. Se no, non andiamo. Ma non è che abbiamo paura, è che vuoi vivere senza problemi, ed è meglio farsi i fatti propri". "Farsi i fatti propri" è la frase che risuona spesso, da queste parti, in questa "campagna" metropolitana, dove ci si conosce tutti da 65 anni, dove il 70 per cento degli inquilini è anziana, dove custodire i segreti è difficile: "Lo sai o non lo sai chi è il Ricotti? È un altro testimone, era affacciato là", spiega un ragazzo indicando una finestra: "É andato abbastanza fuori di testa per l'ansia, e ha mandato anche il certificato ai giudici. Si dice che si presenterà, che andrà in tribunale con il burqa, coperto da un velo nero". "Abbastanza fuori per l'ansia" sono in molti, qui dove la calma apparente, l'anonimato, il tran tran sono stati distrutti quasi due anni fa. È successo a breve distanza dall'erba rasata dove adesso un dogo pascola sereno. Là dove c'è un misero vasetto di fiori anche blu. Un tassista è morto per colpa di un cane senza guinzaglio. L'ha schiacciato senza volerlo, andando piano, e ben lontano dalle strisce. Era sceso dall'auto bianca, aveva persino proposto di pagare il veterinario, ma era stato offeso, circondato, pestato, aveva sbattuto la testa sul marciapiede. Era una domenica d'autunno, ore 12.30. Un mese di coma, infine la morte l'11 novembre 2010. Il tassista si chiamava Luca Massari e la tv s'era impadronita della storia. Un fotografo preso a mazzate. Un'auto incendiata, quella di una testimone, insignita dell'Ambrogino d'oro dall'ex sindaco Letizia Moratti. Altri incendi, taciuti, non denunciati, nelle settimane scorse: uno alla ruota del motorino del figlio di una teste. Quando le telecamere sono andate via, i testimoni si sono ritrovati additati per strada. Adesso, che il processo c'è, gli stessi "non ricordano". "Non è Corleone, non c'è la paura della mafia", ripete "il Lonati", milanesone, anima del comitato di quartiere. Ma allora che cos'è che capita? Nell'oasi alcune parole risuonano come una cantilena: "È una schifezza, figurati se ho paura a dirlo, hanno ammazzato un povero cristo e devono andare dentro, chiaro? Ma è meglio farsi i cazzi propri, la società ti porta a questo", è la spiegazione di un signore dalle mani sporche di calcina. Ma perché è "meglio"? Morris Ciavarella, uno degli assassini, è stato appena condannato a sedici anni anche in appello (rito abbreviato e sconto). "Un balordo di periferia, né più né meno", dicono di lui. Gli altri due accusati, i fratelli Citterio, si dichiarano innocenti. Hanno chiesto il rito ordinario e sono uno in carcere, Pietro, e la sorella Stefania è a casa, ai domiciliari. Ma questi giovani, trentenni, disoccupati, senza curriculum malavitosi, hanno la forza di intimidire interi caseggiati? "Oggi - dice una magra signora, uscendo dal cancello dove vivono i Citterio del processo - è difficile vivere bene, ma non solo qui, dovunque. Bisogna stare molto attenti a come si parla, a come si saluta, a come si cammina". "Abito qui, ma non qua", aggiunge un'altra, interessata solo a filar via. Dietro la porta chiusa, l'imputata Stefania Citterio ribatte: "L'avvocato m'ha detto di non parlare, andatevene. Ho mandato una lettera ai familiari di Luca Massari, lei non lo sa, ma mio padre ci ha insegnato a vivere onestamente, non siamo mafiosi. Ho pianto, mi sono arrabbiata per il cagnolino, ma non pensavo che potesse morire un uomo, ma tanto chi mi crede?". Un giovane muscoloso scende dall'auto e ci viene incontro: "Io sono quello che ha tenuto la mano di Massari, e ho chiamato l'autoambulanza. Se le pattuglie della polizia erano qui in due minuti, gli infermieri ci hanno messo 45 minuti, pazzesco. Adesso sono accusato di falsa testimonianza". Può aiutarci lui a capire? Proviamo: "Quel giorno - racconta - ho tenuto ferme Stefania ed Elisabetta Citterio, che erano in lacrime per il cane, e il fratello Piero non c'era. È stato il solo Ciavarella a pestare. È arrivato, è sceso dal motorino, ha messo il cavalletto e ha pestato. Questo lo diciamo io e altri testimoni. So che altri testimoni ancora hanno parlato di un gruppo che ha aggredito il tassista, che c'erano i Citterio. Sì, al processo hanno cambiato versione. Ho sentito parlare di paura, ma paura di che cosa, di chi? Non lo so, so solo che se d'ora in poi vedo uno ferito, giro la testa e lo lascio là, perché è meglio farsi i fatti propri". Vivi e lascia morire, questa è Milano?
PARLIAMO DELLA LEGA NORD PADANIA: RAZZISTA? LADRONA? TRAFFICONA? MAFIOSA?
Se è pur vero che politicamente non rappresenta tutti i cittadini del nord Italia, è indiscutibile il fatto che essa incarna il modo di essere e di pensare della quasi totalità di essi: saccenza ed ignoranza; arroganza e presunzione.
La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere. Partiamo da quanto scritto da Alberto Custodero su “La Repubblica”.
La Lega secessionista
Dopo gli scandali che l'hanno colpita la Lega Nord torna a parlare di secessione, di Parlamento Padano, di esercito e di moneta da battere. Sembra un ritorno agli anni '90, quando Bossi e i suoi furono vicini al tentativo separatista e, per questo, finirono anche sotto inchiesta. Una legge ad hoc, li salvò. Ma le carte dell'inchiesta dimostrano che facevano piuttosto sul serio.
"All'armi siam leghisti". Così la Lega minacciava lo Stato.
Nel passato della Lega 'di lotta' ci sono episodi che coinvolgono molti degli attuali vertici del partito. In una conversazione telefonica Umberto Bossi si sfoga con l'allora segretario regionale del Veneto del Carroccio Alberto Mazzonetto: "Dobbiamo contestare Scalfaro, non mandate i bambini quando viene in visita". Ecco le intercettazioni, i verbali di interrogatori e persino rapporti del ministero degli Interni che monitorava la mosse secessioniste del movimento. E le carte delle indagini in cui la procura di Verona chiese il rinvio a giudizio per lo stato maggiore della Lega, contestando il reato di cui all'articolo 241 del Codice Penale per aver tentato di "disciogliere l'unità dello Stato italiano mediante disgregazione del suo territorio per creare una nuova entità statuale chiamata Padania". Il reato però è stato depenalizzato dal Parlamento da una legge "ad legam".
Le intercettazioni. Bossi (30 settembre 97) è intercettato al telefono mentre parla con l'allora segretario veneto della Lega, Alberto Mazzonetto. Al quale dice: "Gavremo (Avremo) tutti con il mitragliatore in mano. Sarà una soddisfazione enorme portarmi all'altro mondo il più possibile di questa merda vivente". Bossi incita il segretario veneto ad andare in piazza "a menare la mano", gli dà istruzioni affinchè la visita di Scalfaro sia disertata dai veneti e dai ragazzi delle scuole. "Tutte le volte che viene Scalfaro va contestato". dice il Senatur. E poi gli dice che i bambini devono sventolare la bandiera della Padania, "come ai tempi di Mussolini".
E i discorsi: Maroni arringa la folla padana. (14 settembre 97): Maroni (presidente del Consiglio del governo padano, con interim Poste e telecomunicazioni, e Intelligence) ex ministro dell'Interno. Dice che il governo padano ha in corso una trattativa con lo Stato italiano per ottenere la secessione. Ma la trattativa non ha sortito effetti. Spiega che analoghi episodi di autodeterminazione dei popoli si verificano dal Quebec alla Catalogna, dalla Fiandre alla Scozia al Galles. Maroni annuncia le elezioni politiche della Padania per l'elezione del Parlamento. Annuncia che la Padania avrà due imposte, una diretta sui redditi e una indiretta sui consumi per un prelievo massimo del 25 per cento. Quindi propone di tassare alcune attività illecite, come "la prostituzione, attività commerciale". Prevede che il sistema pensionistico padano sarà contributivo a capitalizzazione. E svela che la sicurezza sarà affidata "alla guardia nazionale padana", mentre i magistrati, eletti dal popolo, dovranno rispondere dei loro errori.
La legge 'ad Legam' che salva il Carroccio. Il testo della legge 24 febbraio 2006, n 85, approvato in scadenza di legislatura dall'allora maggioranza di governo (Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega e Udc), che ha modificato gli articoli del codice penale che si riferiscono all'attentato contro l'integrità, la Costituzione e i simboli dello Stato. Nella "normativa precedente" compare (art. 241 del codice penale) ancora la dicitura originale "è punito con la morte", in realtà, ovviamente, la pena era stata già da tempo sostituita con l'ergastolo. Questi reati sono quelli per cui sono stati imputati a Verona Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio e altri dirigenti del partito. Il processo è ancora in corso ma loro, ormai, ne sono usciti.
Parlamento, esercito e moneta. Torna il progetto separatista della Lega. Bossi ne ha riparlato recentemente a Mantova. Con toni forse più soft. Ma i temi sono gli stessi del tentativo che mandò sotto inchiesta (con reati, allora, da ergastolo) 41 dirigenti del Carroccio. Poi, con un colpo di mano, il codice è stato cambiato e il Senatùr e gli altri leader sono usciti dal processo. Ma Borghezio ricorda che si faceva sul serio e parla di "un tintinnio di sciabole".
Allarme siam leghisti. E secessionisti. Fallita la secessione dei "fucili" degli anni Novanta ("... che gavremo tutti il mitragliatore in mano..." disse Bossi ad Alberto Mazzonetto, segretario della Lega veneta, in una famosa telefonata intercettata dalla Digos). Abortita quella "istituzionale" del federalismo durante il decennio di governo col Pdl, ora Bossi ci prova ancora. E per rilanciare l'attuale stagione di moti separatisti padani, utilizza una nuova formula di secessione. Questa volta la chiama "consensuale". Oppure "morbida", sul modello Cecoslovacchia . "Abbiamo Veneto e Piemonte - dice - parleremo con Formigoni per capire se ci sta. Poi tocca a Trentino Friuli Valle d'Aosta e Liguria per formare la Padania, una macroregione che incorpora Svizzera, lander tedeschi e porzioni dell'Austria". Questo è il suo slogan politico per lo scampolo di legislatura che restava fino al 2013. Ma l'inno alla Padania che s'è levato a metà dicembre 2011 a Vicenza (sede del parlamento del Nord presieduto dall'ex ministro Roberto Calderoli) da uno stato maggiore leghista schiacciato a Roma in una rumorosa opposizione, si riallaccia ideologicamente e politicamente, senza soluzione di continuità, a quello di 15 anni prima. Quando la Lega, mutuando il linguaggio resistenziale, fondò (sulla falsa riga del Cln che s'oppose a nazisti e fascisti), il Clp, il Comitato di Liberazione padano (liberazione da Roma ladrona, mutatis mutandis). Costituì quindi "una complessa e articolata struttura militare", le "camicie verdi" o "guardia nazionale padana" alle dipendenze di Roberto Maroni. Tentò anche "di ottenere il riconoscimento da parte della comunità internazionale" destando l'interesse (lo ha rivelato a Repubblica l'europarlamentare leghista Mario Borghezio), "di alcune cancellerie europee. E perfino della Cina". Convocò infine "apposite elezioni padane per eleggere i rappresentanti del governo e del parlamento della Padania". Con tanto di ministri e ministeri: Maroni presidente del consiglio con l'interim di poste e intelligence, vicepresidente Gnutti, Economia Pagliarini, Interno Borghezio, Difesa Bampo, Immigrazione Ramadam. E così via. Allora il moto secessionista di Bossi suscitò la reazione della magistratura: il procuratore di Verona, Guido Papalia, mise sotto accusa quarantuno esponenti leghisti e fra questi tutti i parlamentari (da Bossi a Gnutti a Maroni, da Speroni a Borghezio, referente, quest'ultimo dell'associazione dei giovani leghisti Sole delle Alpi). Il procuratore veronese incaricò le Digos (allora coordinate dal direttore dell'Ucigos, prefetto Carlo De Stefano) di svolgere indagini, pedinamenti e intercettazioni telefoniche. Era proprio De Stefano che, per conto del capo della Polizia, teneva aggiornato l'allora preoccupatissimo titolare dell'Interno Giorgio Napolitano di ogni mossa dei secessionisti del Carroccio. "La Lega - scriveva, ad esempio, De Stefano in un appunto riservatissimo a Napolitano - avrebbe istituito un nucleo scorte di 15 persone autorizzate a reagire contro chiunque ostacolasse il loro servizio". Ma il reato da ergastolo che Papalia contestò agli esponenti leghisti "secessionisti", il 241 del codice penale ("per aver commesso atti diretti a disciogliere l'unità dello Stato italiano mediante disgregazione del suo territorio e la costituzione della Padania"), è stato depenalizzato nel 2006. A proporre quella legge salva-processo fu l'onorevole Carolina Lussana (deputata leghista lombarda che ha dato l'esame da avvocato a Napoli), la votarono Fi, Lega, Udc, si astennero i Verdi, contrari Margherita e Ds con la motivazione che non si trattava di un provvedimento "a favore della libertà d'opinione", così com'era stato spacciato. Ma di una vera e propria norma "ad legam". Dopo 15 anni scanditi da conflitti di attribuzione costituzionali, ricorsi e controricorsi, il processo, incredibilmente, è ancora in corso. Tutti gli onorevoli, però, si sono salvati grazie alla legge che si sono votati e beneficiando altresì della tutela (anche in questo caso autovotata) dell'insindacabilità parlamentare. Alle udienze dibattimentali ancora in corso compaiono alla sbarra "solo" una cinquantina di militanti, figure minori della stagione secessionista degli anni Novanta. E oggi che torna d'attualità la secessione leghista, sulla scena politica spunta, forse non a caso, l'ex capo dell'Ucigos, De Stefano, nominato sottosegretario al ministero dell'Interno, mentre è ancora Napolitano - ieri dal Viminale, poi dal Quirinale - a vigilare politicamente contro il separatismo di Bossi e "compagni" appellandosi, con autorevoli moniti, all'unità d'Italia. Sono cambiate molte cose in questi ultimi 15 anni. Il contesto politico del 2012, rispetto al '97, è radicalmente cambiato. Allora la stagione berlusconiana era agli albori. Ora è al tramonto. Allora s'era appena passati dalla prima alla seconda Repubblica, ora Napolitano sta traghettando il Paese verso la Terza. Allora l'economia italiana si stava riprendendo dai contraccolpi di Tangentopoli e del crollo del Caf, oggi il Paese, indebolito dal terzo debito pubblico del mondo e dall'incipit di una recessione, è investito in pieno da una crisi internazionale. Allora c'era la lira e le frontiere erano protette dalle barriere doganali, oggi siamo nell'eurozone con la moneta unica e il trattato di Schengen. Allora il Carroccio aveva coniato monete e banconote, scudi e leghe padane, allarmando - come testimoniato da Borghezio - le più alte cariche dello Stato. E financo la Banca d'Italia. Oggi Bossi torna a parlare di un nuovo conio padano: "Avremo la nostra valuta - annuncia dal parlamento di Mantova - una volta finito l'euro, la Padania non tornerà alla lira, ma si farà una sua moneta". Allora il Carroccio aveva addirittura organizzato una propria "polizia", le camicie verdi maroniane appunto, destinate a costituire le forze armate padane. "Nel momento in cui il vento secessionista soffiò con forza - ricorda Borghezio - s'avvertì un tintinnar di sciabole. E fra le gerarchie militari ci fu chi guardò con interesse alla Padania". Fu in quel periodo che - come ha rivelato l'ex presidente leghista della Camera, Irene Pivetti, al pm Papalia - Maroni, in qualità di "responsabile dell'ufficio esteri della segreteria politica di via Bellerio, teneva rapporti con i movimenti indipendentisti, secessionisti e autonomisti operanti all'estero come baschi, catalani e scozzesi per costituire l'Internazionale indipendentista". Fu in quel retroscena che s'inquadrò la visita di Vladimir Zhirinovskij, il capo del partito ultranazionalista russo ed ex ufficiale dell'Armata Rossa, al quartier generale della Lega di Milano. Nel 2012 il Senatur torna a parlare di struttura militare: "Avremo il nostro esercito", avverte minaccioso da Vicenza. Nonostante tutti questi cambiamenti, Bossi vede oggi nel combinato disposto della crisi economica e di quella della politica la congiuntura ideale per tirare fuori dal cassetto il vecchio progetto separatista, un po' impolverato, ma, come confermato dall'europarlamentare torinese, mai abbandonato. Questo progetto del Senatur, va ricordato, mira a spezzare il circolo - per lui - vizioso di un Nord che riceve solo una parte delle tasse che invia a Roma, mentre l'altra serve a "Roma ladrona" per comprare con le clientele voti al Sud e riottenere, all'infinito, la riconferma del potere romano. Non caso Maroni nel '97 aveva "annunciato" il sistema fiscale padano fondato su due imposte, una diretta sui redditi e l'altra indiretta sui consumi con un tetto impositivo non superiore al 25 per cento". E sull'imposizione fiscale di "attività illecite commerciali, come la prostituzione". Il leader del Carroccio, mentre è in corso all'interno della Lega una resa dei conti tra i bossiani del "cerchio magico" e i maroniani, ha dato il via segretamente alla fase 2 del suo progetto secessionista, ovvero la fondazione della Lega in Sicilia per poter schiacciare Roma nella morsa di una doppia forza separatista: una dal Settentrione, e una dal Meridione. Per favorire il distacco Nord-Sud, il leader leghista questa volta approfitta dello stato di sofferenza che attraversa il Paese, evocando uno scenario post bellico e facendo leva sullo stato di emergenza che ha portato a Palazzo Chigi un governo di tecnici. "L'Italia ha perso nella guerra economica", spiega Bossi dal parlamento di Mantova. "E noi della Padania - aggiunge - da popolo vincitore dobbiamo essere pronti a scrivere i trattati per l'Europa dei popoli". Slogan come "l'Italia ha perso, la Padania vincerà", "Libertà, Roma ladrona", "L'Italia va giù e la Padania va su" sono diventati il mantra ideologico di un Carroccio che dopo la stagione dell'asse di ferro con Berlusconi, ha scelto di isolarsi politicamente all'opposizione. Toccherà a Roberto Maroni, ex presidente del Consiglio della Repubblica padana, ed ex ministro dell'Interno di quella italiana, fare - per usare le parole di Calderoli, "l'ambasciatore a Roma" delle istanze padane. E "fare il culo a Monti in Parlamento".
"Il Banco di Napoli? Troppo sudista. Anzi no, adesso è venuto al Nord". Dalle carte del processo di Verona emerge una vicenda sconcertante. L'istituto partenopeo era concessionario (dal 1871) degli sportelli interni al Parlamento. Con la Pivetti presidente a Montecitorio, i leghisti volevano cacciarlo. Ma invertirono rapidamente rotta quando si seppe che la Bipop stava per acquistarlo. E anche oggi... Una banca “meridionale” (il Banco di Napoli), all’interno del Parlamento non piaceva ai leghisti che volevano cacciarla. Ma gli uomini del Carroccio cambiarono idea quando quegli sportelli bancari “meridionali” per deputati furono acquistati da un istituto bancario settentrionale, il Banco Popolare di Brescia, nel 2007 entrato nel gruppo Ubi. A rivelare questo giallo sulla mancata “espulsione” da Montecitorio del Banco di Napoli è stata l’ex presidente leghista della Camera, Irene Pivetti, in un interrogatorio reso al procuratore di Verona Guido Papalia e al sostituto Antonino Condorelli. “Durante il mio periodo di presidenza – racconta ai pm la Pivetti - si è verificata una vicenda abbastanza sconcertante riguardante il Banco di Napoli”. “Ricordo – aggiunge - che io avevo intenzione di ridiscutere la questione relativa alla concessione ad un istituto di credito dell’agenzia bancaria all’interno della Camera dei deputati, concessione che dal 1871 è stata da sempre riconosciuta al Banco di Napoli”. “Per questo motivo – dice ancora l’ex presidente della Camera – ho predisposto una gara di appalto e ricordo che dopo l’apertura delle buste il Banco di Napoli è risultato tra gli ultimi istituti partecipanti. Nonostante ciò l’istituto partenopeo ha fatto pressione su tutti i componenti l’ufficio di presidenza per ottenere la riammissione nella rosa ristretta dei primi aventi diritto a partecipare alla gara definitiva”. “Ricordo – spiega la Pivetti – che protestai duramente per questa procedura esternando le mie proteste a tutti i componenti della presidenza e primi fra tutti Balocchi”. Maurizio Balocchi era il segretario amministrativo della Lega, nonché questore della Camera. “Notai allora con mia grande sorpresa – continua l’interrogatorio – che Balocchi, che in un primo tempo s’era dimostrato particolarmente ostile al Banco di Napoli, aveva cambiato opinione mostrando di voler accogliere le richieste di quella banca. Quel suo cambiamento fu decisivo per l’ammissione in gara della concessione al Banco di Napoli in quanto i voti leghisti allora erano determinanti”. Ma cos’era successo in quel periodo alla Camera? Perché il voltafaccia dei Lumbard che prima volevano far fuori dalla Camera il Banco di Napoli, e poi addirittura votarono per riammetterlo quando non aveva più i titoli per partecipare al bando?. Il finire degli anni Novanta fu un periodo di grande confusione del mondo bancario tra acquisizioni, fusioni, incorporamenti e cessione di sportelli tra un gruppo finanziario e l'altro per aggirare trust e per consolidare i mercati. Operazioni in qualche caso finite in clamorosi crac. Bipop dopo svariate traversie alla fine del Duemila sarebbe poi confluita in Unicredit, mentre il Banco di Napoli (compresa il tanto "discusso" sportello della Camera), in Intesa San Paolo. Il retroscena di questa strana manovra politico-finanziaria tutta in casa Carroccio è svelato dalle carte giudiziarie del processo di Verona. Il motivo del cambio di rotta leghista sta con ogni probabilità nell’acquisizione dell’istituto napoletano da parte di un istituto settentrionale, per questo più gradito agli uomini di Bossi. Il procuratore di Verona su quella operazione avviò un’indagine giudiziaria, incaricando il professor Franco Della Sega e il dottor Maurizio Grassano di “accertare il prezzo, le modalità dell’acquisizione e del pagamento". E stando alla perizia contabile disposta dalla procura, la Banca Popolare di Brescia acquistò tra il ’96 e il ’97 – e dunque proprio nel periodo delle manovre leghista antipartenopee a Montecitorio - le 50 filiali del Banco di Napoli. I ct accertarono che il prezzo di acquisto fu di duecentonovanta miliardi di vecchie lire pagati dalla Bipop in due tranche, una di 247 il 28 ottobre ’96, l’altra di 42 il 20 marzo ’97. Alla fine della complessa operazione, l’istituto creditizio bresciano accumulò una situazione debitoria complessiva di circa mille miliardi, procurandosi le risorse necessarie all’acquisto sia tramite il ricorso al mercato interbancario, sia (per ovviare a un conseguente deficit patrimoniale), tramite l’emissione di un prestito obbligazionario Bipop per circa 250 miliardi quotato prima alla Borsa Valori lussemburghese. E solo in un secondo tempo in quella italiana. Il procuratore veronese a tal riguardo aveva chiesto ai suoi consulenti anche di trovare “i sottoscrittori di quelle obbligazioni”, individuati in “banche d’affari, istituti di credito e fondi comuni di investimento”. Il passaggio di proprietà da Napoli alla più padana Brescia, ecco spiegato il voltafaccia della Lega alla Camera. Ma c’è di più. Il maresciallo Carlo Alesci della polizia giudiziaria veronese accertò nel ’98 che, una volta passato nelle mani dei banchieri settentrionali, “il Banco di Napoli aveva svolto articolate trattative con la Lega per concederle un mutuo necessario all’acquisto della sede del Carroccio a Milano in via Bellerio”. Trattative che, però, osserva il maresciallo, non andarono a buon fine. Il Banco di Napoli “bresciano” torna, anche se marginalmente, nelle “relazioni” della polizia giudiziaria relative alle indagini sull’acquisto da parte della Lega dei gazebo usati per il referendum secessionista del 1997. Ebbene, tutti quei gazebo furono pagati per circa 750 milioni di vecchie lire con assegni firmati da Balocchi ed “emessi dall’agenzia numero uno del Banco di Napoli, sportello interno a Montecitorio, dal conto corrente intestato alla Lega Nord, Italia Federale”. Il Banco di Napoli della Camera pare non avere pace. Dopo la Pivetti negli anni Novanta, ad occuparsene, nel Duemila, è il deputato radicale Rita Bernardini che da anni ha messo sotto la lente d’ingrandimento i conti della Camera. Il 29 settembre del 2009 ci fu una delibera dei Questori di Montecitorio con la quale s’è disposta la proroga della convenzione col Banco di Napoli fino al 31 dicembre 2010. Contestualmente s’è deliberato l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento della nuova convenzione. Anche nel 2012i, però, pare che ci sia un giallo. Lo conferma la stessa Bernardini: “Nonostante le mie richieste di informazioni – dichiara la deputata radicale – dell’attuazione della delibera dei Questori di un anno fa non ho saputo più nulla. Né si trova nulla, sotto la voce gare pubblicche, sul sito www.camera.it”. Che siano intervenuti anche questa volta misteriosi protettori del “lombardo” Banco di Napoli?
Quelle "camicie verdi" armate che dovevano proteggere il Senatùr.
Documenti e testimonianze raccontano di una vera e propria struttura clandestina incaricata di salvaguardare l'incolumità del "capo". Avevano pistole regolarmente denunciate o con matricole abrase. Qualche volta vennero "beccati" da uomini della Digos e denunciati per porto d'armi abusivo. Una struttura clandestina di "camicie "verdi", uomini armati pronti a tutto, proteggeva Bossi ai tempi della secessione degli anni Novanta. Il particolare è stato svelato dalle carte del processo di Verona del procuratore Papalia. Tutto ha avuto inizio il 14 settembre del 1996 durante il rituale padano dell'attraversamento del Po di Umberto Bossi a Boretto di Reggio Emilia. In quel frangente, si legge in una relazione della Digos di Verona, "a uno degli uomini della sicurezza personale del parlamentare cadeva un'arma". Il particolare, ovviamente, non sfuggì ai poliziotti che seguivano passo passo, per conto della magistratura, gli sviluppi politici della "secessione" leghista. "L'uomo - si legge nell'appunto riservato della polizia - veniva identificato per Ferrari Fabio, figlio di Genesio, segretario provinciale della Lega di Reggio Emilia. L'arma del Ferrari, regolarmente denunciata, aveva la canna priva del previsto numero di matricola". La Digos a quel punto perquisì la casa del bodyguard in camicia verde denunciandolo dopo aver "rinvenuto e sequestrato una ulteriore arma", questa volta "priva del numero di matricola perché abraso". Poco più di un mese dopo, sempre la questura di Verona scoprì che in un comizio svoltosi a Rovigo, un agente della Digos di scorta a Bossi "fu minacciato da parte di uno della security personale" del leader leghista. L'uomo, Locatelli Aurelio, armato di pistola, "pur essendo dotato di licenza di porto d'armi", fu comunque denunciato "per aver portato l'arma nel corso di una pubblica manifestazione". Le indagini sulle camicie verdi e sulla guardia nazionale padana proseguirono fino a quando, nel settembre '97, ci fu una svolta. Carlo De Stefano, il capo dell'Ucigos, l'antiterrorismo dal quale dipendono tutte le Digos, firmò - utilizzando la formula "per il capo della Polizia" - un rapporto riservatissimo sulla scorta personale di Bossi composta da uomini armati indirizzata all'allora ministro dell'Interno, Giorgio Napolitano. "Il 3 agosto '97 - scriveva il capo dell'Ucigos - in Rovato, provincia di Brescia, s'è svolta la terza festa della Lega Franciacorta alla quale parteciparono, tra gli altri, gli onorevoli Pagliarini, Molgora e Tirelli". "All'interno della vettura sulla quale viaggiava Pagliarini, intestata a Davoli Matteo, operaio, c'era un lampeggiante del tipo in uso alle Forze di Polizia, nonché una paletta del 118". Le indagini, riferisce De Stefano, accertarono che "la Lega avrebbe istituito un "nucleo scorte" composto da una quindicina di persone provenienti da diverse località della Regione, e coordinate da un responsabile di Milano presso la sede di via Bellerio". "Le persone preposte alla scorta - concludeva con preoccupazione la nota riservata del prefetto De Stefano - sarebbero autorizzate a reagire contro chiunque ostacolasse il loro servizio".
La Lega trafficona
Questa è la definizione che dà “La Repubblica” alla sua inchiesta. Così la definisce: C'era una volta "Roma ladrona". Adesso al centro dell'attenzione della nuova Tangentopoli c'è il Carroccio. Dall'inchiesta sul tesoriere Belsito, che ha portato alle dimissioni di Bossi, alle vecchie e delicate vicende bancarie, fino alle mazzette all'amico Brancher e a una cinquantina di casi "minori" che vanno dalla corruzione alla "parentopoli" in salsa da Giussano.
Escort, mazzette ed evasioni. La carica dei 'mariuoli' padani.
· LOMBARDIA Dario Ghezzi – Ex capo della segreteria di Boni. Accusato di corruzione nella stessa inchiesta. Si è dimesso il 13 marzo 2012;
· LOMBARDIA Marco Paoletti – Consigliere regionale leghista, accusato di corruzione nell'inchiesta che coinvolge anche Boni e Ghezzi. E' stato espulso dal partito;
· LOMBARDIA Monica Rizzi –Ex assessore allo Sport della Regione Lombardia, indagata dalla procura di Milano per abuso di titolo (dichiarava una laurea mai ottenuta) e dalla procura di Brescia per trattamento illecito di dati personali (è accusata di aver realizzato falsi dossier contro altri esponenti leghisti per favorire l'ascesa al Pirellone di Renzo Bossi). Si è dimessa dall'incarico il 16 aprile 20121;
· LOMBARDIA Francesco Belsito – Ex tesoriere del Carroccio, indagato per frode e finanziamento illecito di partiti. Si è dimesso in seguito alla maxi inchiesta della procura di Milano;
· LOMBARDIA Angelo Ciocca – Consigliere regionale della Lombardia, è stato il più votato tra gli esponenti del Carroccio ad essere eletto. E' stato coinvolto, senza essere indagato, nell'inchiesta della Dda di Pavia sulle infiltrazioni 'ndrangheta al nord per i suoi presunti rapporti con l'avvocato Pino Neri, considerato uno dei capi dell'organizzazione criminale al nord;
· LOMBARDIA Roberto Castelli – Indagato per abuso d'ufficio per il suo piano di edilizia carceraria, da ministro della Giustizia, affidato all'amico Giuseppe Magni. E' stato condannato della Corte dei Conti a rimborsare 33 mila euro perché la consulenza era "irrazionale e illegittima";
· LOMBARDIA Luca Talice – Ex assessore alla sicurezza della Provincia di Monza, è stato rinviato a giudizio per violenza sessuale nei confronti di due militanti del Carroccio;
· LOMBARDIA Fabio Rolfi – Ex vicesindaco di Brescia, indagato nel 2010 per peculato. Avrebbe messo in conto al comune circa 2000 euro di spese per cene svolte in giorni festivi;
· LOMBARDIA Roberto Manenti – Ex sindaco di Rovato, in provincia di Brescia, condannato per stupro nel 2009. Sarebbe stato responsabile di alcuni episodi di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza romena. Manenti si è ripresentato come candidato sindaco della Lega Lombardo Veneta alle elezioni amministrative che si terranno a Rovato nel 2012;
· LOMBARDIA Aldo Fumagalli – Ex sindaco di Varese, è sotto processo per peculato e concussione. Tra i fatti contestati, anche la presunta pressione su alcune cooperative in affari con il Comune per l'assunzione di alcune amiche. E' uscito dalla Lega nord e ha aderito alla Democrazione Cristiana;
· LOMBARDIA Alessandro Patelli – Il "pirla", come fu definito da Umberto Bossi. Ex tesoriere della Lega, ammise nel 1993 di aver incassato 200 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, azionista di maggioranza della Montedison, causando a Umberto Bossi una condanna per finanziamento illecito nell'ambito del processo Enimont;
· LOMBARDIA Mauro Galeazzi – Ex assessore ai lavori pubblici di Castel Mella, in provincia di Brescia, arrestato nel 2011 con l'accusa di peculato e corruzione è stato poi prosciolto per il primo reato;
· LOMBARDIA Marco Rigosa – Capo ufficio tecnico e assessore di Rodenigo Saiano, nel bresciano, ancora indagato nella inchiesta che coinvolge Galeazzi per il presunto reato di corruzione;
· LOMBARDIA Giampaolo Maloberti – Ex consigliere provinciale a Piacenza, condannato per truffa i danni dello Stato dal Tribunale di Milano per non aver pagato le multe dovute allo sforamento delle quote latte;
· LOMBARDIA Davide Allegri – Assessore all' Urbanistica del comune di Cortemaggiore, nel piacentino, indagato per concussione e abuso di ufficio. Si è dimesso dall'Amministrazione;
· VENETO Marino Finozzi – Assessore regionale al turismo in Veneto, indagato per truffa a danno di un creditore nel 2010. Il suo nome, secondo quanto riferisce l'Espresso, comparirebbe anche nel filone reggino dell'inchiesta che vede coinvolto Belsito per truffa ai danni dello Stato;
· VENETO Cesare Biasin – Ex sindaco di Silea, in provincia di Treviso, ora consigliere comunale. Imputato per sfruttamento della prostituzione, il processo è in corso. E stato espulso dal partito nel 2010;
· VENETO Luigino Vascon – Assessore all'agricoltura della Provincia di Vicenza, è stato indagato per furto d'acqua, ma il reato è andato prescritto;
· VENETO Gianfranco Vivian – Esponente vicentino del Carroccio vicino alla parlamentare Manuela del Lago ha patteggiato una condanna per appropriazione indebita;
· VENETO Alessia Segantini – Sindaco di Zimella in provincia di Verona, indagata per concorso nel reato di riciclaggio dalla procura scaligera. A dicembre 2011 i pm ne hanno chiesto il rinvio a giudizio;
· VENETO Alberto Filippi – Senatore di Vicenza, è sotto inchiesta per evasione fiscale e false fatturazioni, è stato espulso dal partito;
· VENETO David Codognotto – Ex assessore a San Michele al Tagliaemento, nel vicentino. Colto in flagranza di reato ad aver intascato una tangente da 15mila euro, è accusato di concussione. E' stato espulso dal partito;
· VENETO Alessandro Costa – Ex vigile urbano e assessore alla sicurezza nel Comune di Barbarano Vicentino. E' indagato per sfruttamento della prostituzione: gestiva siti di annunci a luci rosse. Si è dimesso dall'incarico ed è stato sospeso dal partito;
· VENETO Massimo Signorin – Vicesindaco di Arzignano, in provincia di Vicenza, espulso dalla Lega, indagato per evasione fiscale totale e distruzione di documenti contabili. Avrebbe evaso 500mila euro al fisco 2.
· VENETO Tiberio Businaro – Sindaco di Carceri, in provincia di Padova. Sotto inchiesta per bancarotta e falso ideologico, è stato sospeso dal partito. Sarebbe, secondo gli investigatori, coinvolto in affari con una holding campana vicina alla camorra;
· VENETO Camillo Gambin – Storico esponente del Carroccio ad Albaredo d'Adige (Verona), arrestato nel 2010 per falsi permessi di soggiorno rilasciati in cambio di denaro;
· VENETO Gianluigi Soardi – Sindaco leghista di Sommacampagna, in provincia di Verona, ed ex presidente dell'azienda del trasporto pubblico cittadino Atv. Incarico che ha lasciato in seguito alle indagini della procura di Verona su presunte spese gonfiate e ingiustificate. E' stato condannato a tre anni e due mesi per peculato;
· EMILIA ROMAGNA Gianluca Pini – Segretario della Lega Nord in Romagna, indagato dalla procura di Forlì per millantato credito. Avrebbe ricevuto 15mila euro da un avvocato per favorire l'esito positivo del suo esame al concorso per notai;
· EMILIA ROMAGNA Angelo Alessandri – Esponente di spicco della Lega in Emilia Romagna, ha collezionato 70 multe per eccesso di velocità tra il 2008 e il 2009. Ne ha impugnate 58, chiamando in causa la norma che autorizza le auto blu con scorta a superare i limiti di velocità in caso di provate esigenze istituzionali. Le altre dodici sono state invece messe in conto al partito perché, secondo Alessandri, si trattava di eventi legati alla propria attività politica. Un conto, questo, da circa tremila euro;
· EMILIA ROMAGNA Marco Lusetti – Vicesindaco di Guastalla (Reggio Emilia), nel 2010 è stato accusato di irregolarità nella gestione dell'Enci (Ente nazionale per la cinofilia) di cui era commissario ad acta: avrebbe ordinato a se stesso bonifici per 187 mila euro, senza incassarli, con soldi dell'ente;
· EMILIA ROMAGNA Fabio Rainieri – Deputato della Lega, a processo per dichiarazione fraudolenta tramite false fatture. Sul procedimento interverrà la prescrizione;
· PIEMONTE Matteo Brigandì – Ex assessore al Bilancio della Regione Piemonte, è stato processato per truffa, a causa di falsi rimborsi nelle zone alluvionate. Condannato in primo grado, assolto in appello. Ex membro del Csm, venne allontanato con l'accusa di aver fornito a "Il Giornale" i documenti che riguardavano un vecchio provvedimento disciplinare nei confronti di Ilda Boccassini;
· FRIULI VENEZIA GIULIA Edouard Ballaman – Ex presidente del consiglio regionale friulano, si è dimesso dopo essere finito nel mirino della Corte dei conti per una settantina di viaggi non giustificati fatti in auto blu. E' sotto processo per peculato, oggi siede in Parlamento;
· FRIULI VENEZIA GIULIA Enrico Cavaliere –Ex presidente del consiglio regionale del Veneto, imputato insieme a Stefani nello stesso processo, assolto nel dicembre 2011;
· FRIULI VENEZIA GIULIA Stefano Stefani – Senatore della Lega Nord, processato per bancarotta a Udine per il crack della società Euroservice, in seguito a una complessa operazione immobiliare ideata, secondo l'accusa, per finanziare il Carroccio. E' stato assolto in primo grado. In passato è stato anche componente del Cda di Credieuronord la banca voluta dalla Lega e naufragata nei debiti;
· FRIULI VENEZIA GIULIA Maurizio Balocchi – Ex tesoriere della lega ed ex sottosegretario all'Interno. Protagonista di uno scambio di favori incrociati con Ballaman. Secondo quanto riportato dal 'Corriere della Sera', avrebbero assunto uno la compagna dell'altro, per aggirare la legge che vieta di assumere parenti nel medesimo ufficio. E' morto nel 2010.
Dal Piemonte al Veneto, gli affari di famiglia.
· PIRELLONE Cavalli d'oro – Nel 2008 la moglie di Giancarlo Giorgetti, deputato ed esponente di spicco del Carroccio, ha patteggiato una condanna a due mesi e dieci giorni per truffa a enti pubblici. La moglie del politico leghista, titolare di corsi di equitazione in una onlus, aveva "gonfiato" il numero degli allievi dei corsi di formazione per ottenere 400mila euro di finanziamento dal Pirellone;
· IL FRATELLO Franco Bossi in Europa – Ha studiato fino alla terza media, ma è riuscito a diventare assistente parlamentare di Matteo Salvini dal 2004 al 2009 al Parlamento Europeo con uno stipendio lordo di 12.750 euro al mese;
· LA MOGLIE Manuela Marrone e la scuola Padana – Maestra elementare, 57 anni, è sposata con il Senatùr dal 1984. Con lui ha fondato la Lega Nord. Nel 1998 ha costituito a Varese la “Libera Scuola dei Popoli Padani” detta “Bosina” (dalla materna al liceo linguistico, tutte paritarie) retta da una cooperativa. Una scuola nata “in contrapposizione alla riforma che prevede fino a sette insegnanti diversi invece della maestra unica”. Tra il 2008 e il 2009, la “Bosina” ha ricevuto dallo Stato prima 300 e poi 500 mila euro per “ampliamento e ristrutturazione” dell’edificio in cui ha sede. I soldi sono arrivati dal “Fondo per la tutela dell’ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio” detto più prosaicamente “legge mancia”;
· PIEMONTE La figlia del capogruppo – Michela Carossa, figlia del capogruppo della Lega Nord alla regione Piemonte, è responsabile del gruppo politico femminile leghista di Torino. Adesso lavora alla segreteria del presidente della Regione, Roberto Cota. Nel 2008 si batteva in piazza per l’obbligo delle impronte digitali per i cittadini extracomunitari;
· PIEMONTE Capo di qui, capogruppo di là – Isabella Arnoldi (moglie del capo di gabinetto di Cota, Giuseppe Cortese). Capogruppo leghista al consiglio comunale di Novara, Isabella Arnoldi è anche capo dello staff dell’Assessore allo Sviluppo Economico del Piemonte, Massimo Giordano;
· BRESCIA Concorso per signore – Sara Grumi, figlia dell’assessore leghista di Gavardo (Lago di Garda), Guido Grumi. Katia Peli, nipote dell’assessore provinciale all’Istruzione Aristide Peli di Brescia. Silvia Raineri, moglie del vicesindaco leghista di Brescia, Fabio Rolfi. Cristina Vitali e Anna Ponzoni, collaboratrici del leghista Giorgio Bontempi, assessore alle Attività produttive della Provincia di Brescia. Margherita Febbrai, collaboratrice della Padania. Queste sei signore, tutte con forti legami politici nel mondo leghista bresciano, partecipano al concorso per otto posti di “Istruttore amministrativo” della provincia di Brescia indetto nel 2008. Un concorso a cui s’iscrivono oltre settecento persone. Poco più di un terzo (circa 240) si presentano alla prova scritta. E’ una prova “a crocette” che tutti descrivono come molto difficile, con risposte trabocchetto. In 38 la superano e si presentano all’orale. Le nostre signore prendono voti altissimi: dal 30 (unico della Raineri) al 27 di Peli e Ponzoni. Una sesta del gruppo, Margherita Febbrai (collaboratrice della Padania) prende 28. Gli altri candidati sono tutti o quasi staccatissimi con voti dal 23 al 21. La cosa suscita qualche sospetto e qualche protesta. Risultato: la prova orale si svolge in pubblico. Le cinque signore vanno molto meno bene (tra il 25 del duo Pontoni-Vitali al 21 della Raineri). Ma, grazie all’exploit dello scritto le cinque signore passano (siamo a febbraio 2010) ed avranno un posto sicuro. Solo la Febbrai (con 21) si classifica al decimo posto e resta fuori;
· VERONA La moglie del sindaco – Recentemente, la signora Stefania Villanova in Tosi ha fatto sapere che non voterà per il marito che si ricandida alla poltrona di primo cittadino. Gli preferirà il candidato Pdl. Eppure dovrebbe essere grata al marito grande seguace di Bobo Maroni, famoso per le posizioni piuttosto autonome e critiche all'interno del centrodestra. I due si sono conosciuti quando Tosi era assessore regionale alla Sanità e lei impiegata in Regione a 25 euro l'anno. Quando lui è stato eletto sindaco, al suo posto è arrivata un'altra leghista, Francesca Martini e la moglie di Tosi è stata promossa a capo della segreteria (stipendio da 70 mila euro), posto che ha conservato col nuovo assessore Luca Coletto. Dicono che sia brava e determinata e che, anche se non ha grandi studi (non è laureata), il vero assessore alla sanità è lei;
· LO SCAMBIO DELLE SIGNORE Io assumo la tua, tu assumi la mia – Maurizio Balocchi (chiavarese, tesoriere della Lega prima di Belsito) è morto nel 2010. Quando era sottosegretario agli Interni (2005-2006), Balocchi assunse la allora fidanzata di Edouard Ballaman (allora deputato leghista, poi presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia), Tiziana Vivian, e lui ricambiò assumendo la moglie di Balocchi, Laura Pace. In questo modo, entrambi riuscirono ad aggirare la normativa che impedisce l'assunzione di parenti negli uffici pubblici di cui una persona è responsabile. Ballaman è stato accusato di un uso disinvolto dell'auto blu che aveva a disposizione quando era presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia per un danno erariale superiore ai 22 mila euro. Tra le altre cose, quando si sposò (non con la Vivian) pare abbia usato la macchina di servizio per andare in viaggio di nozze;
· TOMBOLO (PADOVA) L'incarico al fratello dell'assessore – Nel 2006, la Regione Veneta finanzia la costruzione del nuovo polo scolastico di Tombolo (Padova) per una cifra vicina ai 900 mila euro. Maurizio Conte, consigliere regionale leghista e segretario della Lega di Padova, è fra i più attivi nel promuovere il finanziamento. Poco tempo dopo, il comune di Tombolo affida progettazione e direzione dei lavori all'architetto Tiziano Conte, fratello di Maurizio per una parcella da 260 mila euro. La cosa viene sollevata dal Pd. Maurizio Conte si difende affermando che il fratello ha vinto un regolare concorso secondo l'ex deputato Pd, Piero Ruzzante, che ha sollevato il caso, non ci sarebbe stato nessun concorso;
· VENETO Le designazioni in agricoltura e zootecnia – Carte alla mano, il democratico veneto Piero Ruzzante denuncia una serie di designazioni di esponenti leghisti ai vertici di tre enti regionali. Corrado Callegari, impiegato di banca mestrino, segretario della Lega Nord, viene nominato amministratore unico di Veneto Agricoltura: una carica da 15 mila euro lordi al mese. Callegari diventerà poi anche deputato e, per un po' cumulerà cariche e stipendi. Antonello Contiero, ex autista di autobus a Rovigo, diventa amministratore unico di Intermizoo, l'azienda zootecnica regionale. Stipendio da 5mila euro mensili;
· BERGAMO Il doppio incarico dell'assessore – Nel 2009, l'architetto Silvia Lanzani riceve l'incarico per la progettazione preliminare di un impianto di sterilizzazione dell'ospedale di Treviglio. Un incarico da 13.754 euro. Il presidente dell'ospedale è il leghista Cesare Ercole. La Lanzani, oltre a svolgere attività professionale, è anche assessore alle Infrastrutture della Provincia di Bergamo;
· LA FAMIGLIA DEL SINDACO Verona, la politica degli affetti – Un dossier presentato dal segretario provinciale del Sel di Verona, Giorgio Gabanizza, denuncia una serie di clientele a favore di esponenti leghisti della zona: “La sorella del sindaco di Sona e assessore provinciale Gualtiero Mazzi, ha trovato lavoro in una controllata di Amia, la Serit, mentre la moglie è in Amia; in Amt la sorella dell'assessore regionale Luca Coletto; la figlia del segretario organizzativo della Lega nord, Giannino Castagna, si è sistemata in Amia; il fratello del vicesindaco di San Giovanni Lupatoto e consigliere provinciale, Giuseppe Stoppato, è in una controllata di Amia, la Transeco; il compagno del già sottosegretario Francesca Martini in Acque Veronesi; il nipote di Giampaolo Sardos Albertini, esponente della Lista Tosi, assunto in Amia e infine la moglie di Flavio Tosi promossa da impiegata a dirigente in Regione». Bertucco sottolinea: "È la politica degli affetti. In alcuni casi non si tratta di reati ma di mancanza di decenza morale".
Deputati e senatori, consiglieri comunali, provinciali e sindaci di piccole città. Nelle carte delle procure del Nord, e non solo, sono finiti molti esponenti leghisti per corruzione o reati legati alla pubblica amministrazione. Ripudiati dal partito, molti hanno abbandonato l'attività politica. Ma c'è anche chi, con una condanna per stupro alle spalle, è pronto a ripresentarsi alle prossime elezioni amministrative. Dalla banca padana alle truffe sul latte. Quanti pasticci in casa del Carroccio secondo Walter Galbiati. Oltre all'inchiesta che sta facendo tremare i vertici del movimento, la Lega paga ancora i conti della sua sfortunata avventura bancaria alla fine degli anni '90. Sponsorizzata dall'allora capo di Bankitalia Antonio Fazio, alla ricerca di una sponda in Parlamento, e salvata dal 'furbetto del quartierino' Gianpiero Fiorani, Credieuronord, l'istituto di credito sognato dal Senatur, è naufragato poi tra i debiti. Colpa, anche, delle operazioni spericolate per nascondere il maxi raggiro da 100 milioni di euro da parte di allevatori vicini al partito. Prima di mettere gli occhi sul complicato mondo delle Fondazioni bancarie, i leghisti hanno cercato di farsi la banca in casa. Si chiamava Credieuronord ed è risultata poco più che una meteora nel firmamento degli istituti di credito. Nata nel 1998, finanziata da piccoli risparmiatori padani, l'istituto è andato pochi anni dopo in liquidazione. Da lì sono passate alcune torbide storie della finanza del Nord. Un tentativo di salvataggio dell'istituto era arrivato da Gianpiero Fiorani con la sua Popolare di Lodi, un gesto interpretato dalla procura di Milano, che indagava sulla scalata di Fiorani alla Banca Antonveneta, come "un favore" alla Lega per mitigare la posizione del partito contraria al mantenimento della carica di governatore della Banca d'Italia a vita, allora in discussione in Parlamento e ricoperta da Antonio Fazio, alleato di Fiorani. E' lo stesso banchiere lodigiano, nell'interrogatorio del 5 gennaio 2006 di fronte ai pm milanesi Greco, Perrotti e Fusco a spiegare cos'era per lui Credieuronord: "A Fazio serviva l'appoggio della Lega in Parlamento. Giorgetti si era impegnato a sostenere il governatore in cambio del salvataggio della banca". Ai leghisti, invece, come Giancarlo Giorgetti sarebbe servito salvare Credieuronord dal fallimento per coprire le operazioni spericolate dei vertici del movimento e le intermediazioni fittizie con le cooperative di allevatori create per nascondere la truffa delle quote latte non pagate. Qui nella banca padana vi erano i conti dei produttori del latte, vicini alla Lega, finiti al centro di più inchieste per una truffa da 100 milioni di euro attuata aggirando le normative europee, somme che dovevano essere versate all'erario, ma di cui si sarebbero appropriati gli stessi allevatori. Nel filone dell'inchiesta milanese, in primo grado è stato condannato a 5 anni e mezzo di reclusione Alessio Crippa, rappresentante di una cooperativa del latte e definito il 'Robin Hood'dei produttori. Con lui altri 15 allevatori e produttori a pene comprese tra uno e due anni e sei mesi. Il giudice ha imposto un risarcimento all'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) per 300 milioni di euro e ha confiscato beni per 18 milioni. La ricostruzione della vicenda, invece, si ritrova nelle motivazioni con cui il tribunale di Saluzzo ha condannato per truffa una sessantina di allevatori cuneesi, tutti soci delle cooperative Savoia fondate da Giovanni Robusti, leader dei Cobas del latte piemontesi e successivamente europarlamentare del Carroccio. I giudici Fabrizio Pasi, Fabio Cavallo e Fabio Franconiero raccontano così il raggiro: "Dal momento in cui gli allevatori fatturavano il latte che eccedeva le quote loro assegnate, venivano effettuate (dalla cooperativa) tre registrazioni. La prima estingueva il debito nei confronti del fornitore del latte facendo sorgere contemporaneamente un debito nei confronti degli organi competenti per il superprelievo (la multa n. d. r.). La seconda registrazione registrava lo spostamento del denaro dal conto della banca utilizzata dalle cooperative per incassi e pagamenti a un conto acceso presso la banca Credieuronord. La terza registrazione, che seguiva di pochi giorni le altre due, veniva effettuata in corrispondenza dell'uscita del denaro dal conto della banca Credieuronord". Il denaro tornava così agli allevatori che non pagavano la multa. Oltre ai soldi delle quote latte, da Credieuronord erano passati anche quelli dello "scandalo dei fallimenti" che hanno invischiato la commercialista Carmen Gocini e i fratelli Borra. Dalla banca sarebbero stati prelevati contanti la cui destinazione non è mai stata chiarita.L'architetto, gli imprenditori, il politico. Mazzette a Boni per sbloccare le pratiche, così come l’ha raccontata Emilio Randacio. Tutto comincia dalle rivelazioni di Michele Ugliola, ultimo pentito dell'inchiesta che ha toccato i vertici istituzionali del Consiglio Regionale della Lombardia. Agli inquirenti ha svelato il sistema-Pirellone: l'architetto faceva da mediatore con gli imprenditori, accordandosi con loro sulle cifre necessarie per velocizzare la autorizzazioni sulla riconversione delle grandi aree industriali. Il destinatario: l'esponente leghista, allora assessore all'Edilizia e al Territorio. "Sei o sette mazzette". Portate in una busta, all'undicesimo piano del Pirellone, direttamente negli uffici della segreteria dell'ex assessore regionale all'Edilizia e al Territorio, il leghista Davide Boni. Michele Ugliola, il pentito dell'ultima inchiesta che scuote la giunta del governatore lombardo, Roberto Formigoni, nemmeno se le ricorda più esattamente quelle mattina, quando metteva banconote di grosso taglio in una busta e bussava alla porta del capo segreteria del politico lumbard. Ricorda, però con precisione, come arrivavano quei soldi ("circa 300 mila euro in tutto incassati, oltre un milione e sei quelli promessi"). Era il passepartout necessario a sbloccare pratiche edilizie. Sesto San Giovanni, Santa Giulia, Lonate Pozzolo, fascicoli per convertire ex aree industriali che sarebbero ammuffite senza un occhio di riguardo. Almeno su sei pratiche, Ugliola incontrava gli imprenditori, li ascoltava e poi suggeriva la soluzione: ci vediamo con lo staff di Boni. Nel suo ufficio l'incontro, poi, tutti a tavola nel ristorante milanese specializzato in pesce, Riccione, dove Boni, secondo le parole di Ugliola, dettava le condizioni. La tariffa media erano 800 mila euro a pratica. L'architetto tuttofare, fatturava operazioni inesistenti dopate e una volta incassate ne retrocedeva in contanti in una busta, all'ufficio del leghista. "Ci trovavamo con il suo segretario alla mattina presto", ha svelato. Questo lo scenario che Ugliola, un passato da tangentista di provincia nel '96 a Bresso, nel milanese, (quella volta ha patteggiato meno di due anni). Verbali, almeno sei, riempiti davanti ai pm Alfredo Robledo e Paolo Filippini, per ricordare responsabilità, cifre, accordi sottobanco. E che sono costati un'indagine per corruzione per Boni, per il suo ex capo della segreteria, Dario Ghezzi (l'unico che si è dimesso), e una sua consulente. Accuse riscontrate già da una serie di fatture false acquisite agli atti, ma anche da altre confessioni. Come quella di un compagno di partito di Boni, il consigliere regionale Marco Paoletti. Un passato da assessore allo sport a Cassano D'Adda, al confine con Bergamo, e il vizio di spartirsi tangenti insieme alla sua giunta, in cambio di varianti ai piani regolatori.
PADANIA: PO’ LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
“TERRONI FUORI DAI MARONI”
Sembra l’inno di vittoria di Roberto Maroni a discapito di Bossi e del suo entourage. Per il potere si passa sui corpi di figli ed amici: uguale come sempre; uguale come tutti. Italiani……
Certo. Quale è il collante tra i razzisti padani: l’odio per i meridionali. Per questo si svela il vero volto dei leghisti: prendersela sempre e comunque con i più deboli. Ed i più deboli nella Lega Nord Padania sono i rinnegati meridionali. Essi sono lo zoccolo duro del movimento, ma si sa, se lo vai a chiedere a loro quale sia l'origine dei loro cognomi, ti diranno: meridionale io? No! Forse i miei antenati. Così come ebbe a dire la Rosy Mauro, da poco emigrata al nord. Rosy Mauro, l’odierna appestata ed emarginata rappresentante leghista.
Aizzare la massa leghista alla secessione. Già. Ma quale? Si paventa una secessione non dal sud Italia ma tra gli stessi barbari (sognanti, si intende). Tutti contro tutti. Il passo indietro di Umberto Bossi dà il via alla guerra di successione nella Lega Nord: cerchisti contro maroniani (e viceversa), base contro dirigenti, ma anche veneti contro lombardi. Bobo Maroni deve fare i conti con quella parte della base che lo ha contestato in via Bellerio con dei volantini che rappresentavano il "bacio di Giuda" e una foto di un abbraccio di "Bobo a Umberto". I "cerchisti" sono rimasti sorpresi dalle dimissioni di Bossi che, a loro dire, le aveva escluse. Non sono soltanto le inchieste giudiziarie a preoccupare i 'lumbard'. Il futuro della Lega deve fare i conti con le fratture interne. Non ci sono più soltanto i 'maroniani' contro i 'cerchisti'; c'é la volontà di contare di più nel partito da parte dei veneti. In principio la Lega era Liga ed era “roba” veneta. Anche perché, a voler utilizzare la storia e i numeri come discrimine, in entrambi i casi i veneti sembrano avere qualche pretesa da accampare. La Liga Veneta, infatti, storicamente è arrivata prima della Lega Lombarda. Ed è stata prima fino al 1991, anno della fusione con i “lumbard” di Bossi. Sempre in Veneto la Lega ha il bacino elettorale indubbiamente più cospicuo: basta ricordare i plebisciti di Galan prima e Zaia poi in regione. E poi c’è il caso Treviso, la città, scrive sul Giornale Stefano Filippi “con più voti al Carroccio, più amministratori locali e più militanti”. C’è, però, poi un altro aspetto: il fronte “veneto” della Lega è tutt’altro che politicamente compatto. Ci sono sindaci “bossiani” come Massimo Bitonci e “maroniani” come Tosi. Ma soprattutto, quella della Lega veneta è una tradizione individualista “di cani sciolti”, ovvero di amministratori che hanno costruito il loro consenso sul territorio senza essere legati a questa o quella corrente. Come l’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, detto lo “sceriffo” per l’atteggiamento decisionista e le sparate provocatorie. Leader, insomma, che funzionano nel “locale” ma che difficilmente possono pensare di dare la scalata a un partito.
Ma da Vittorio Veneto a Motta di Livenza, da Vedelago a Borso del Grappa serpeggia, sempre più forte, la voglia di staccarsi dalla Lega lombarda e riprendere il cammino della Liga veneta. In fondo, tutti i casini nascono tra i lumbard. Nel Veneto dove la Lega, alle Regionali 2010, ha contato 788.581 voti, cresce il desiderio di far da sè. Voglia di azzerare il patto federale del 1989, l’abbraccio con la Lega lombarda e piemontese che ha dato vita alla Lega Nord. Regalando due governatori e una messe di parlamentari, sindaci e amministratori, ma evidentemente intaccando la purezza del movimento.
Certo la purezza del movimento: via i terùn, ma anche i lumbard.
Lo scorso Natale 2011, quando il cerchio magico picchiava duro contro Roberto Maroni accusandolo di volersi prendere la Lega, l'ex ministro dell'Interno chiese un incontro alla moglie di Umberto Bossi. Lei, la signora Manuela Marrone, è indicata come fulcro del clan di Gemonio nonché vera leader del Carroccio. Alla fine, il faccia a faccia non si fece. La Manuela snobbò la richiesta di Bobo.
I rapporti tra i due sono gelidi da tempo. L'ultima volta che si videro fu nel 2010, a casa Bossi, quando Maroni si presentò per portare il regalo di Natale a Umberto. Poi, il nulla. Solo frasi riportate e tanto veleno, con la signora pronta a ripetere al marito: attento a Roberto, vuole prendere i soldi della Lega e farsi un altro movimento. Gli stessi concetti venivano ripetuti al leader da Rosi Mauro e dagli altri esponenti del cerchio magico. Anche per questo Bobo ha deciso di non forzare la mano diventando capogruppo alla Camera al posto di Marco Reguzzoni. Per dimostrare di essere disinteressato ai quattrini (a Montecitorio il gruppo padano può gestire alcuni milioni di euro) lasciò campo libero al trevigiano Gianpaolo Dozzo, "accontentandosi" della testa del rivale Reguzzoni. In più, nonostante il passo indietro di Umberto e del Trota, pare che la famiglia del fondatore non voglia mollare. Tanto che all'inizio ha giustificato a Bossi senior lo scandalo dei rimborsi elettorali come una vendetta di Bobo, forte degli agganci con la magistratura e i servizi segreti che ha coltivato da responsabile del Viminale. E la base lo sa. La polemica è nata dalla contestazione di alcuni militanti in via Bellerio. "Traditore, traditore". Così i militanti hanno urlato a un'auto con i vetri oscurati che usciva dalla sede della Lega. I manifestanti pensavano che a bordo di quella macchina ci fosse Roberto Maroni. L'ex ministro dell'Interno, in lizza per la leadership del Carroccio e da tempo rincorso dalle voci sulla sua presunta volontà di voler scalzare Bossi, non si trovava però a bordo di quell'automobile. Il volantino - I militanti della Lega Nord, presenti fin dalla mattina di giovedì 5 aprile 2012 davanti a Via Bellerio per manifestare il loro sostegno a Umberto Bossi, hanno anche poi distribuito dei volantini sui quali era riportato un brano del Vangelo di Matteo e sul quale vi erano le foto del Senatùr e di Maroni, accostate a quelle di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ossia una doppia versione del Gesù (Bossi e Berlusconi) e del Giuda (Maroni e Fini). Chiarissimo il testo che accompagna l'immagine: "Il traditore aveva dato loro un segno dicendo: 'quello che bacerò è lui, arrestatelo'. Subito si avvicinò a Gesù e disse: 'Salve rabbi'. E lo baciò".
Invece l’epilogo: vergogna padana, anziché orgoglio padano. Ma è proprio per la ricorrenza dell’orgoglio padano a Bergamo del 10 aprile 2012, armati di scope e ramazze, le camicie verdi chiedono di fare pulizia. "Sono giorni di passione, di dolore. Ma anche di rabbia e di onta perché trattati da partito di corrotti". Con queste parole Roberto Maroni sintetizza il clima che si respira nella Lega, sottolineando "l'orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e con la mafia". Il ritornello è uno solo: "Bisogna fare pulizia, chi sbaglia paga e chi ha preso i soldi li dovrà restituire". E così l'ex ministro, chiedendo di anticipare il congresso federale a giugno, snocciola uno ad uno i passi indietro, prima quello di Umberto Bossi e poi quello di Renzo Bossi. E tra la folla che fischia i nomi del figlio del Senatùr, quello di Francesco Belsito e quello di Rosi Mauro, Maroni annuncia: "Giovedì l'ex tesoriere sarà espulso e ci penserà la Lega a dimettere il presidente del sindacato padano che finalmente sarà guidato da un padano vero". Ed ecco dove si voleva arrivare: fuori i terroni dalla lega. Ed ai terroni ben gli sta di rinnegare le loro origini e di calpestare la dignità ed onore loro e della loro terra. Non solo loro rubano e la colpa la danno a “Roma Ladrona”. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ospite di Ballarò su RAI 3 sbotta: ma questi padani alla fonte del Po cosa bevono: acqua o grappa?? Esce il vero volto dei “duri e puri” polentoni: come se fosse cosa di cui vantarsi. Maroni gioca in casa a Bergamo, con la platea piena dei suoi sostenitori. Gli altri: epurati.
"Da oggi si cambia", dice Maroni elencando le sue regole per una nuova Lega Nord: "Uno: i soldi alle sezioni e ai suoi militanti. Seconda regola: meritocrazia. Terza regola: largo ai giovani. Quarto: fuori chi viola il codice padano". Ma soprattutto - il più amato dei triumviri lo ricorda spesso - "la Lega non è morta e riparte da qui. Basta con la caccia alle streghe, con i complotti, con le scomuniche, con le fatwe e con i cerchi, ora è importante l'unità del movimento". E il Senatùr rincara la dose: "Vogliono dividerci per colpirci. Bisogna smettere di dividersi: crea varchi per il nemico, che è il centralismo romano". Bossi arriva a chiedere persino un giuramento "su chi deve dirigere la Lega, perchè non ci siano più discussioni nè divisioni". Poi aggiunge: "Il cerchio magico non esiste. Ora dobbiamo essere tutti uniti: noi non scompariremo, basta fare il gioco degli altri". Per quanto riguarda l'inchiesta, il leader della Lega è convinto che "le cose sono organizzate: è una specie di complotto. Quello che è avvenuto è il tentativo di distruggere la Lega. Non possono farla sparire per decreto e fanno il ragionamento: se togliamo i soldi del finanziamento...". E, dopo aver ricordato come Belsito è arrivato al Carroccio, Bossi commosso si è scusato con il popolo padano: "A me spiace non solo per la Lega ma anche per i miei figli. Chiedo scusa perché i danni sono stati fatti da chi porta il mio cognome". Si passa sui corpi di figli ed amici. Bah!
E insomma pare che Maroni si sia preso la rivincita di quando nel 1994, a un passo dall’espulsione, fu costretto ad un umiliante autodafe’, tanto da far dire alla Pivetti, allora ancora in auge, che sembrava un “rieducato di Pol Pot”. L’esibizione del feticcio Bossi sul palco di Bergamo costringendolo a umilianti pubbliche scuse è però al tempo stesso un segnale di forza e di debolezza. Il segnale di forza consiste appunto nell’esibizione del feticcio, a mo’ di burattino. Il segnale di debolezza risiede nel fatto che Maroni, per aspirare al comando, deve esibire il feticcio, per ottenerne, anzi estorcerne, l’investitura di fronte ai militanti. Insomma Maroni ammette implicitamente che non ha la forza, o la voglia, prendere il partito manu militari dimostrando, alla fin fine, di non aver capito la genesi dei problemi della Lega che risiedono, tra le altre cose, nel personalismo del partito, la cui transizione passa per investitura dall’altro, come in una monarchia, e non in una elezione dal basso. Il “cerchio magico” quale espressione della corte del principe ne è la conseguenza diretta, e il sostituire il despota rincoglionito con un sovrano sognante, non cambia i termini della questione, perché il sovrano necessita comunque di una corte e al “cerchio magico“ ben presto si sostituirà una “confraternita maronita“. Inoltre la questione è anche pericolosa per lo stesso Maroni. Basta guardare il povero Alfano, che dopo essere stato nominato, ha scoperto che gli manca quel quid per diventare effettivamente il leader del partito, nonostante gli innumerevoli guai del suo predecessore. Purtroppo per Maroni questa concezione è insita nella Lega fin dalle sue origini. Il “padroni a casa nostra” sottintende che il problema non e’ l’organizzazione della casa, ma il suo padrone, nella visione leghista. E così anche il loro tanto gabellato federalismo non è altro che una somma di centralismi regionali, che non intaccano i problemi della cosa pubblica della sua organizzazione, gestione ed efficienza, e infatti appena si sono assisi sulle cadreghe locali hanno cominciato a comportarsi come tutti gli altri.
Umberto Bossi e Roberto Maroni sono saliti insieme sul palco a Bergamo per la serata dell'orgoglio leghista e sono stati accolti dal coro "Lega" scandito dalla base. Insieme a loro, anche Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago, oltre al segretario provinciale di Bergamo, Cristian Invernizzi e il presidente della Provincia, Ettore Pirovano. I giovani padani si sono presentati con simboliche scope di colore verde, simbolo della pulizia che vogliono fare dentro al partito. "Sono giorni di passione - ha detto Maroni - di dolore ma anche di rabbia per l'onta che abbia subito per essere considerati un partito di corrotti, per Umberto Bossi che non si merita quello che è successo. Ho provato anche orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e la mafia. Da stasera noi ripartiamo con le nostre straordinarie battaglie. La Lega non è morta e non morirà mai. La Lega è potentissima, non ci sono cerchi che tengano". Il partito, ha aggiunto, dimetterà Rosy Mauro e venerdì espellerà Francesco Belsito. «Mi spiace che Rosi Mauro non abbia accolto la richiesta del nostro presidente, ma se non si è dimessa ci penserà la Lega a dimetterla - ha annunciato l'ex ministro dell'Interno - Così finalmente - precisa - forse potremo avere un vero sindacato padano, guidato da un padano vero». Maroni ha parlato poi del leader storico: "Umberto Bossi non si merita quello che è successo. Conosco Umberto da 40 anni e non c'entra niente". "Dobbiamo anticipare entro giugno il congresso federale per dare una guida salda alla Lega", ha proseguito. Poi è intervenuto Umberto Bossi che ha detto: "Siamo capaci di ripartire e siamo stati vittima di un complotto", ha detto l'ex segretario. "Penso che quando ci presenteremo davanti al Padreterno - ha insistito - ci chiederà quanto volte siamo stati capaci di ripartire. Questo vuol dire Pasqua: ripartenza. Siamo vittime di una specie di complotto, come è possibile che nessuno si è accorto che l'amministratore, come dicono ora alcuni, era vicino a famiglie mafiose". "'Non e' vero che Maroni sia un traditore, bisogna che si smetta di divedere la Lega: questo crea varchi per il nemico che è il centralismo romano. La cosa principale che dobbiamo decidere questa sera è un giuramento su chi deve dirigere la Lega, perché non ci siano più discussioni né divisioni", ha detto ancora. Ma un'ammissione importante il leader leghista l'ha fatta, scusandosi per il figlio Renzo: "Chiedo scusa perché danni sono stati fatti da chi porta il mio nome".
Intanto, dopo voci di imminenti dimissioni di Rosi Mauro da vicepresidente del Senato, è stata la stessa esponente leghista a smentire nella serata del 10 aprile 2012 a “Porta a Porta” di Bruno Vespa questa possibilità. «Perché dovrei? - ha detto nel corso della registrazione di 'Porta a Porta' - Innanzitutto voglio spiegare come stanno le cose e dire la verità, e poi vedremo -ha aggiunto - In questi giorni - ha proseguito - mi sono accorta del potere che ha l'informazione e ho il diritto di difendermi. Lo farò parlando in Aula in Senato. Non ho nulla da nascondere e ho tutte le prove per rispondere alle accuse». Rispondendo poi a una delle principali contestazioni ha sostenuto: «La Lega Nord non ha mai dato un euro a Rosy Mauro, ha fatto donazioni solo a Rosy Mauro in qualità di segretaria del Sindacato Padano. La direzione del partito era informata». Quanto all'accusa di essersi comprata una laurea in Svizzera con i soldi della Lega, la senatrice ha spiegato: «Non mi ha mai sfiorato l'idea». Mauro ha poi smentito che Pierangelo Moscagiuro sia il suo compagno. «Questa - ha risposto - è un'altra nefandezza, qui mi hanno colpito anche nella vita privata. E' assurdo ed è inconcepibile». Allo stesso modo ha negato di essere identificabile con "la Nera" delle intercettazioni telefoniche. «Altro non è che l'infermiera svizzera che segue Umberto Bossi da quando è stato male" e i "29 mila euro di cui si parla saranno i mesi che dovevano pagarle». Cosi Mauro smentisce tutto: la relazione con Pier Mosca, la laurea comprata in Svizzera, il nomignolo che le hanno dato. "Pierangelo Moscagiuro è il mio caposcorta, non è il mio compagno. Questa è un’altra nefandezza. Tutti questo è assurdo e inconcepibile. Questo lo vedremo in altre sedi". Così la vicepresidente del Senato, a Porta a Porta. "Questa vicenda ha fatto male a molte persone. Uno stillicidio e mi ha fatto male", ha aggiunto l'esponente leghista. Rosi Mauro ha ribadito che Moscagiuro "è il mio caposcorta, non è in aspettativa e non è stato assunto dal Senato". L'Italia ha scoperto dell'esistenza di Pier Moscagiuro, l'ex poliziotto diventato cantante (dal singolo Kooly Noody con Enzo Iachetti fino alle esibizioni sul palco in stile Elvis Presley) e soprattutto finito a libro paga della vicepresidenza del Senato. E Franco Bechis, in un articolo su Libero, ricordava anche i pettegolezzi che hanno coinvolto i due amanti: "E' sulla bocca di tutti il racconto di un giorno in cui i due, chissà come, fecero scattare l'impianto anti-incendio dalla stanza della vicepresidenza mettendo a soqquadro l'intero Senato". La hit di Pier Mosca è diventata un tormentone. Kooly Noody è cantata in duetto con Enzo Iachetti e fa parte dell'album "Tra dire e tradire". Il testo vorrebbe essere una sorta di denuncia sociale. Ma Pier Mosca risulta soprattutto uno dei beneficiari dei compensi girati del tesoriere Belsito. Nell'interrogatorio di Nadia Dagrada, segretaria amministrativa della Lega, viene fuori che al poliziotto sarebbero arrivati circo 60 mila euro per pagarsi diploma e laurea in Svizzera.
Sempre la Dagrada lo definisce "amante" della Mauro. Poi la Mauro risponde sulla laurea farlocca: «Io ero asina a scuola. Mai sfiorata dall’idea di prendermi la laurea in Svizzera. Mai avuto contatti con la Svizzera». E anche sui presunti pagamenti a suo favore: «Mai avuto spese mediche pagate. Assolutamente no, è ridicolo». L'esponente leghista, poi, spiega che il nomignolo "La Nera" sarebbe un enorme malinteso: "Non sono io, sarà facile verificare che si tratta dell’infermiera svizzera che ha in cura Bossi da quando è stato male. Infermiera che si chiama Nera. E credo che quei 29mila euro siano la somma che dovevano da mesi a quell'infermiera". Insomma un nome proprio scambiato per un soprannome. "Da giovedì scorso ad oggi mi sono sentita messa in croce. Io non ho fatto niente, non ho niente da nascondere", ha concluso la Mauro.
Ed hanno ancora il coraggio e la faccia tosta di parlare, anziché coprirsi il viso dalla vergogna.
Alla manifestazione della Lega a Pontida erano presenti moltissimi cosiddetti padani, come se la Padania fosse uno stato e Ponte di Legno la capitale. Ciò nonostante la propaganda leghista si diverte a celebrare rituali e ad invocare la secessione. Lungi da noi l’idea di crederci, rimane comunque il fatto che tale invocazione, è musica per il popolo padano. Ma è veramente padano questo popolo o è invece per lo più, il popolo dei figli dei meridionali cresciuti in Padania?
Paradossalmente, non sono pochi i leghisti di origine meridionale (come lasciano intuire i loro cognomi) che, dopo aver vissuto il razzismo sulla loro pelle, a loro volta discriminano i nuovi arrivati.
Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano e giunto al suo secondo anno di pubblicazione. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo, che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota, termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Per noi è veritiera quest’ultima tesi, e molti dirigenti leghisti ne sono una prova. Il governatore del Piemonte Cota ne è una dimostrazione vivente, lui figlio di un avvocato di San Severo di Puglia, così come l’europarlamentare Speroni, pugliese anche lui e che dire della signora Bossi cofondatrice della Lega ma siciliana doc. Per non parlare poi dei diversi amministratori leghisti nei comuni, nelle province e nelle regioni, che sono nati o hanno genitori meridionali.
Diteci voi quindi se questo non è altro che razzismo dei razziati, che vi ha indotto a diventare meridionali leghisti, per una storia sottaciuta ai più e falsata nei giudizi della gente comune. Dalla rabbia verso un sud che non vi ha garantito benessere e occupazione, ai pregiudizi della gente del Nord, verso questo meridione inetto, assistenzialista, lamentoso e scarsamente produttivo. Dallo sfruttamento delle vostre braccia da parte degli industrialotti del nord, alle scritte sui ponti padani inneggianti all’eruzione dell’Etna. Capiamo che per sopravvivere a tale barbarie, non vi restava altro che emulare lo stile padano, al fine di non rimanere vittime di voi stessi, per il resto dei vostri giorni. E da qui, che le generazioni figli dei meridionali, hanno assunto verso il loro sud uno spirito ostile, credendo fino in fondo ai pregiudizi e a quel disprezzo leghista verso il povero meridione. Siete diventati i più spietati nemici del sud, ignorando però le ragioni storiche, sociali, culturali ed economiche che hanno reso il sud perdente verso il nord. Cari figli nostri del sud se solo conosceste la vera storia meridionale, il leghismo diventerebbe una barzelletta da raccontare in una serata goliardica con gli amici. Ma non preoccupatevi, se non l’hanno fatto i libri di storia, lo faremo noi il vero racconto del sud e dell’unità d’Italia armata. Vi racconteremo a puntate dai mille in poi. Per adesso cari Cota e c. cercate di liberarvi del razzismo dei razziati…..al resto ci pensiamo noi.
Tratto dal libro di Pino Aprile, Terroni, che vi invito a leggere: “Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie estive. Era cambiata: vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e alto. Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e ridicolo. «Ma cosa fanno di così terribile?» le chiese mia madre, incuriosita. Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare una risposta. Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda: c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali? Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia: «Sporcano i monumenti». Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi. Quella mia cugina è leghista.”
E voi? quante “cugine leghiste” avete conosciuto? Io purtroppo un bel po', rinnegati/e che dopo una settimana che sono al nord parlano con accenti ridicoli ed usano i loro intercalari. Ebbene, mi chiedo se hanno il coraggio di dire ai loro genitori che si vergognano delle loro origini e della loro famiglia. E' vero, sarà perchè una volta non si "affittava casa ai terroni" e oggi "non si affitta casa agli stranieri", ma questa Lega, ha uno strano rapporto con quelli che chiamano con orgoglio 'terroni'. Prima li insulta in campagna elettorale, ma poi li sposa (vedi a casa Bossi), gli mette i soldi del partito in mano (vedi Belsito, nato a Genova, ma calabrese di origine) e ci fa affari e magari cerca anche qualche voto o accetta di 'mettersi a disposizione' (vedi mister 19mila voti Angelo Ciocca, eletto in regione Lombardia, non indagato dall'antimafia ma pizzicato in compagnia a Pavia di tale Pino Neri, oggi a processo a Milano per associazione a delinquere di stampo mafioso). Vedi magari anche quel "gamma" di Lecco, primo leghista eletto in un consiglio comunale nei primi anni '90 che, secondo le parole di un collaboratore di giustizia, spesso si incontrava col boss Franco Coco Trovato. Lo chiamiamo "gamma" perchè su di lui c'è aperta una indagine dell'antimafia di Roma, anche se l'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli ha candidamente ammesso di rispecchiarsi in quel personaggio tratteggiato nel libro "Metastasi" di Gianluigi Nuzzi. Sui terroni ci faranno le campagne elettorali insultandoli, ma poi li frequentano. E qualcuno frequenta pure quelli sbagliati... Ma secondo loro è un complotto dei poteri forti perchè si sono messi all'opposizione, e non una indagine partita dalle denunce di un militante indispettito dall'uso fatto dei soldi arrivati al partito dopo i rimborsi. Saperlo... che uno degli indagati della vicenda Belsito, avrebbe tra l'altro, stando alle indagini, favorito il clan calabrese della 'ndrangheta dei De Stefano...Fortuna che ci sono meridionali onesti, ma quelli evidentemente sono quelli di cui la Lega Nord non tiene conto.
Rosy Mauro, la leghista terrona che rinnega le origini meridionali. Rosy Mauro nata il 21 luglio 1962 a San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, cresciuta nella provincia di Lecce a Squinzano e diplomata in ragioneria, nel 1980 si è trasferita a Milano per lavoro; ha iniziato l'attività sindacale in azienda nelle file della UIL a 21 anni. Nel 1990 è stata eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. La prima uscita, nel ' 90: "Vedete? Sono pugliese e leghista. Il Carroccio non ce l' ha con i meridionali". L' ultima uscita: "Mi iscrivo alla Guardia nazionale di Erminio Boso. Il Nord se ne va: diventa indipendente". Rosy Mauro fa la sindacalista ma soprattutto la leghista. La chiamano "la pasionaria del Carroccio": perchè corre, scrive, parla, si agita, si indigna, si arrabbia. Sempre in nome di Bossi. "Rosy è un vulcano", dicono gli amici. "Rosy è un vulcano", confermano i nemici. Per svegliare dal letargo la Lega milanese, Bossi l'ha appena nominata segretario cittadino. E così lei si ritrova con il triplo incarico: leader locale del movimento, consigliere comunale, attivista del Sal (il sindacato filo Lega). Schizza da una sede all'altra. Con un pensiero fisso: "Rilanciamo il "porta a porta" come facevamo una volta". Ma ora è proprio lei, la pasionaria, che fa tremare il Carroccio.
Per una strana storia di amicizie e di rifiuti. Rosy Mauro viene da Squinzano, nel Leccese: il padre lavorava in campagna e la madre alla Manifattura tabacchi. Arriva a Milano, entra in un'azienda metalmeccanica, si iscrive alla Uil. Ma il vero amore arriva nel' 90: si chiama Bossi. Prima si avvicina "in modo carbonaro", poi fa il grande passo: "Lasciai la Uil, delusa da Benvenuto, e abbracciai la Lega. Il primo obiettivo? Fare un sindacato regionale. Autonomista. Senza ordini da Roma". Guida le varie campagne leghiste, è dappertutto. Eccola, anni fa, ripresa dalle telecamere mentre fischia e urla contro il sindaco di Bologna Walter Vitali al congresso della Lega. Un putiferio. Tanto che lo stesso Bossi perde la pazienza: "Stavolta abbiamo esagerato". Nel febbraio del' 94 si fanno le liste per la Camera: Rosy Mauro, a sorpresa, non c'e'. Deve accontentarsi del consiglio comunale. E sempre con Bossi. Anche al processo Cusani. Anche in vacanza: la foto in piscina con il senatur, a Ponte di Legno, fa il giro dei settimanali. Si incatena davanti a Montecitorio per tre giorni e tre notti "per ricordare che il referendum sulle trattenute sindacali è stato calpestato". Passano quindici giorni e ricompare a Pontida: si iscrive alla Combat guardia nazionale. Diventa "legionaria" del senatur: "Saremo pronti a difendere la libertà del Nord. Ma anche a proteggere Bossi, perchè è il bersaglio numero uno: meglio vigilare prima che piangere dopo". l ritratto che i maligni fanno del Senatur Umberto Bossi, in questi mesi di crisi leghista culminati nell'indagine sui fondi "distratti" dal tesoriere Belsito dai rimborsi elettorali del partito, è quello di un uomo "stritolato" tra due donne di ferro: la moglie Manuela Marrone e quella che, sempre i "maligni", chiamano la "badante" del leader leghista. Due padane (la firma della Marrone compare sull'atto fondativo della Lega nel 1984, mentre la Mauro vanta un lunga militanza politica culminata nella vicepresidenza del Senato), ma anche due donne del sud: la Marrone per il padre siciliano e la Mauro per essere brindisina, di San Pietro Vernotico.
Strano destino, quello del leader padano circondato da donne meridionali.
La moglie - Descritta come schiva ma decisa, raramente ha rilasciato interviste o fatto dichiarazioni. A qualche congresso è salita sul palco, ma sono stati episodi sporadici. Il suo impegno è tutto per la scuola Bosina di Varese, che, spiega il sito dell’istituto, lei «maestra di scuola elementare di lunga esperienza» ha fondato nel 1998. Sulla scuola nel 2010 ci sono state alcune polemiche per un finanziamento di 800 mila euro dal Governo. Di lei s'è parlato anche quando Gianfranco Fini, in rottura con Berlusconi e i suoi alleati, la definì una "baby-pensionata", in quanto destinataria di un assegno dal 1992. Sarebbe lei a indossare i pantaloni in casa Bossi, sopratutto da quando il Senatur è stato colpito dall'ictus dell'11 marzo 2004. E, secondo i ben informati, ci sarebbe lei dietro la nascita del cosiddetto "cerchio magico", ossia quel gruppo di fedelissimi che da qualche anno circonda Umberto Bossi e della quale Rosy Mauro è primo esponente. Come sarebbe stata lei a premere per l'avvio della carriera politica del primogenito Renzo Bossi, "Il Trota", approdato nel 2010 al Consiglio regionale della Lombardia.
La "badante" - Nel 1980 si trasferisce a Milano per lavoro e inizia l'attività sindacale nelle file della UIL. Dieci anni dopo viene eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. Consigliere comunale a Milano, dove è eletta nel 1993 col sindaco lumbard Marco Formentini, nell'aprile 2005 entra nel Consiglio regionale della Lombardia attraverso il listino (cioè senza prendere voti di preferenza) del Presidente Roberto Formigoni. Nel 2008 il grande salto a Roma, dove è eletta al Senato nella circoscrizione Lombardia e viene addirittura nominata vicepresidente dell'aula di Palazzo Madama. Epico l'episodio del dicembre 2010 quando, irritata per le richieste dell'opposizione utilizzare il voto elettronico per ogni emendamento al ddl gelmini, ha disposto votazioni a raffica, suscitando le proteste dei senatori del centrodestra e perdendo il controllo dell'aula. Dopo il via libera a quattro emendamenti del centrosinistra, la seduta veniva sospesa e le votazioni riprendevano più tardi con presidente Renato Schifani a tenere le redini dell'aula di Palazzo Madama. Negli ultimi anni è stata una presenza costante in tutte, o quasi, le foto del Senatur.
Leghisti terroni. In Svizzera vincono gli slogan anti italiani. Forse questo signore non lo conoscete ancora. Ve lo presento. Si chiama Giuliano Bignasca. A dispetto del nome italianissimo, italiano non è. E' svizzero. E non è uno scherzo. Anzi. Contro gl'italiani ce l'ha assai. E su slogan fortissimamente anti-italiani ha fondato la sua campagna elettorale nel Canton Ticino. E già. Perché il Giuliano è il dux della Lega Ticinese. Che, udite udite, ha appena ottenuto un trionfo alle elezioni cantonali. Il successo è fondato su slogan e parole d'ordine che noi italiani conosciamo bene. Perché son gli stessi sui quali i primitivi lumbard hanno fondato la loro politica razzista, egoista e localista. Anti-italiana. Insomma. A farla breve. Il Giuliano sta alla Svizzera come l'Umbèrt sta all'Italia. Così si comprendono perfettamente valori e spessori della creatura in questione. C'è però una cosa che, nello squallore generale, mi fa davvero morir dal ridere. Che quando gli sfascioleghisti longobardi se la prendono coi terùn se la prendono, ovviamente, con noialtri. Ma quando il Giuliano se la prende coi suoi, di terùn, se la prende coi longobardi nostrani. In una parola. Coi leghisti. Buffo, eh? Molto, ma molto prima di quanto si potesse immaginare, la storia sta dimostrando definitivamente che il mondo è una gran palla. Nel senso che è rotondo. E così non è poi tanto facile individuare esattamente se noi stiamo a nord. A sud. O magari al centro. Perché la verità è che stiamo tutti a nord di qualche sud. E, naturalmente, stiamo tutti a sud di qualche nord. Da questa verità elementare dovrebbe discenderne un'altra, che purtroppo tanto elementare probabilmente non dev'essere, se così tante creature, in ogni parte del mondo, non riescono a comprenderla. Ossia che, in realtà, in quella gran clessidra che è il tempo umano siamo tutti, ma proprio tutti, piccolissimi granelli di sabbia che si ritrovano mischiati. Sballottolati diqquà e dillà. Disù e digiù. Che importanza può avere il vicino che il destino mi mette accanto, a condividere un pezzo di strada? Anzi. Siamo talmente tanto mischiati ed appiccicati. Le cose del mondo son così tanto interconnesse tra di loro. Che solo chi non ha capito proprio niente può essere convinto che sia possibile distinguere, con una linea. Una frontiera. Magari un dialetto. Il destino di coloro che, nella storia, camminano gomito a gomito. Davvero può essere ragionevole pensare che il destino del granello di sabbia che mi sta accanto non c'entra nulla con me.
Davvero può essere ragionevole pensare che la sua sofferenza, come la sua felicità, siano qualcosa di staccato. Di avulso. Di indipendente? Ecco. Il Giuliano è l'esempio vivente di quanto il mondo sia rotondo. E di quanto giri, giri, giri senza posa. Da oggi, se vorrete, all'ennesimo imbecille insulto che faranno alla nostra meridionalità potrete rispondere con un altrettanto «terùn sarai tu». Tanto potete stare tranquilli. Un altro nord si trova sempre. Per tutti.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio. Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.
Conformità per conformità, l'omologazione appare su "Il Giornale". Allora, Salvini, le è piaciuto Benvenuti al sud? «Francamente mi aspettavo di più. Soprattutto di ridere e sorridere di più. Invece molte gag e alcuni passaggi mi sono sembrati un po’ scontati. Comunque, complessivamente è un film gradevole». Non sarà Renzo Bossi, il figlio di Umberto detto il Trota, con il quale il regista napoletano Luca Miniero avrebbe voluto assistere alla proiezione del suo film campionissimo d’incassi (vicino a 16 milioni e lanciato verso i 20) ma, quanto a uscite hard e sbandate antimeridionaliste anche Matteo Salvini non scherza. Trentasettenne, europarlamentare nonché capogruppo leghista in consiglio comunale a Milano durante un raduno a Pontida venne colto a cantare «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani…». «Un coro da stadio dopo una birra di troppo», minimizzò lui. Che però, pur smentendo qualsiasi relazione tra i due fatti, qualche giorno dopo si dimise da deputato e optò per il seggio di europarlamentare a Bruxelles. Al primo spettacolo del pomeriggio la sala non è pienissima. Ma a sentire le risate, il pubblico sembra divertirsi. Anche Salvini si lascia andare a qualche risolino. Nella parte iniziale del film, Alberto (Claudio Bisio), direttore dell’ufficio postale del paesino brianzolo, è intriso di pregiudizi e cultura leghista. La moglie Silvia (Angela Finocchiaro) fa parte della squadra di Rondinelle, le ronde al femminile, che perlustra quartieri immacolati. «Ma sì, ci può stare un po’ di presa in giro – accetta Salvini – anche se certi passaggi sono un po’ troppo caricaturali. I brianzoli vengono dipinti come gente che pensa al gorgonzola e all’aiuola di casa. Forse si poteva pensare a qualcosa di più elaborato. Ecco: diciamo che la storia è tagliata giù con il falciot».
Però il giubbetto antiproiettile che Bisio indossa nel viaggio verso il Cilento ci può stare… «Diciamo che i numeri dimostrano che quando si va a Napoli e dintorni non si vive proprio in perfetta tranquillità», ammicca Salvini. «Detto questo, purtroppo la cronaca ci dice che i pirla e i delinquenti abbondano anche a Milano. Il giubbetto antiproiettile potrebbe essere dato in dotazione in tanti posti». Il Bisio cripto-razzista non scandalizza Salvini. Anzi, in alcune gag l’europarlamentare ha ritrovato un pezzetto della sua esperienza di deputato. Soprattutto quando arriva al sud e non capisce una parola… «Ricordo la difficoltà dei miei primi tempi a Roma, nei negozi, al ristorante. Restavo sbigottito». Quindi, nel film non c’è nulla che l’abbia particolarmente irritato. «Guardi, ho visto anche Cado dalle nubi di Checco Zalone, dove in un certo senso c’è il procedimento inverso, un pugliese che emigra a Milano e s’imbatte in alcuni ambienti leghisti, dipinti in modo un po’ gretto. Quello che conta è ridere da tutte e due le parti, anche dei propri difetti». Però. «Però, non c’è bisogno di andare a Napoli per trovare un po’ di sole. Da milanese, se vado a Recco trovo il sole, il mare.
E anche la focaccia». Non dirà che non è mai andato in vacanza al sud: «Quando avevo quattro o cinque anni sono stato in Calabria e in Sicilia. Adesso alcuni amici mi hanno decantato e invitato in Salento. Non escludo di andare a verificare di persona. Una città che invece non è tra le mie priorità turistiche è proprio Napoli». Già, i napoletani puzzano. «Quello era e rimane un coro da stadio. Noi abbiamo la nebbia. Se dovessi scegliere le mie mete meridionali punterei sempre sulla Sicilia e la Puglia». Il regista Luca Miniero ha detto che «quelli del Nord sono bravi a fare i razzisti solo da lontano». «Grammaticalmente, razzismo significa sentirsi superiori agli altri. Penso che non ci sia nessuno così stupido da ritenersi superiore. Ma quelli che vengono considerati luoghi comuni spesso sono fatti facilmente riscontrabili». Per esempio? «Beh, s’infervora Salvini: «Il numero dei falsi invalidi nelle province della Campania, l’assenteismo per malattia, il numero esorbitante di dipendenti pubblici: tutti fatti comprovati. Qui il razzismo non c’entra. E poi solo a Napoli esiste un movimento che si chiama Disoccupati organizzati». Meglio organizzati che sbandati. Comunque, a proposito di pregiudizi, pensa che anche a lei qualche volta potrà capitare di ricredersi? «Ho sbagliato tante cose e altre ne sbaglierò ancora», concede Salvini. «Per esempio, a Milano molti dei migliori militanti leghisti, vengono dalla Puglia o dalla Calabria. Ciò che fa la differenza non è il luogo di nascita di una persona, ma il modo di ragionare che non dipende solo dalla latitudine. Detto questo, non cambierei Milano, la sua cultura e la sua filosofia del vivere per niente al mondo». Qualcuno dei militanti leghisti di origine meridionale potrebbe venir buono per il seguito, Benvenuti al nord.
Salvini teme che vengano rispolverati i soliti luoghi comuni dei «nordisti razzisti e un po’ polentoni». Ma lui un’idea ce l’ha: «Lo ambienterei a Chiavenna in Valtellina. Ma va bene anche a Bergamo o a Varese, dove la Lega ha il 40 per cento». A proposito di Benvenuti al nord, il sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo ha respinto il set di una commedia in cui Abatantuono è un imprenditore ostile agli extracomunitari. Ma dopo che una tromba d’aria allontana tutti gli immigrati della zona e l’economia locale entra in crisi perché i pomodori marciscono nei campi e le fabbriche rallentano la produzione, la faccenda si complica. Il film si girerà a Bassano del Grappa, ma a Treviso c’è chi si lamenta per i mancati introiti. «Non so bene quali siano i veri motivi della decisione del sindaco di Treviso», premette Salvini. «Certamente, respingere la produzione di un film importante può penalizzare l’economia locale.
Ma credo che, ormai, città come Treviso o come Verona, sempre dipinte come culle di razzismo, siano stanche di essere usate per alimentare questa fama». Già, i razzisti stanno tutti al nord. Tornando a Bisio, come si spiega il successone di Benvenuti al sud? «È una parodia, una favola che può mettere di buonumore. Però non mi sembra un capolavoro. Ecco, diciamo che Amici miei è un’altra cosa».
CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE. I Media: Lega Nord Padania Ladrona. Giornali e tv ne parlano: Non solo Roma ladrona, ma anche Padania ladrona.
IL CASO. Bufera sulla Lega, il tesoriere va via. "Denaro pubblico alla famiglia Bossi". Le accuse dei magistrati: truffa ai danni dello Stato e finanziamento illecito ai partiti. "Elementi di opacità nella tesoreria del Carroccio fin dal 2004". Al lavoro le Procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria. Contatti con la 'ndrangheta. Maroni: "Adesso facciamo pulizia nel partito". Il resoconto di Emilio Randacio su “La Repubblica”. Soldi pubblici gestiti "nella più completa opacità" da almeno otto anni, tanto da far sorgere il sospetto che siano andati a coprire le spese personali, cene, alberghi e viaggi dei figli di Umberto Bossi - tra cui Renzo, 'il Trota', sovvenzionato anche per la campagna elettorale - e della senatrice Rosy Mauro, ma anche la ristrutturazione della villa di Gemonio del leader del Carroccio. Fondi che sarebbero stati "sottratti" alla casse della Lega pure per prendere il volo verso la Tanzania e Cipro con investimenti su cui ora la magistratura vuole vederci chiaro. Così come vuole analizzare a fondo quei rendiconti elettorali, pare truccati, che hanno tratto in inganno i presidenti di Camera e Senato, cioè coloro che li hanno certificati dando il via libera a finanziamenti, come l'ultimo da circa "18 milioni di euro", irregolari.
Dopo le presunte tangenti del caso Boni (Davide, il presidente leghista del consiglio regionale lombardo), arriva un'altra batosta che colpisce al cuore il Carroccio. Questa volta a finire nelle maglie della giustizia è Francesco Belsito, diventato non solo sottosegretario nell'ultimo governo di Silvio Berlusconi, ma tesoriere della Lega. Belsito si è visto piombare negli uffici milanesi di via Bellerio - crocevia di tre inchieste: una di Milano, una di Napoli e una di Reggio Calabria - la guardia di finanza e i carabinieri del Noe. Nell'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini, è accusato, assieme agli imprenditori Stefano Bonet (già in affari con l'ex ministro Aldo Brancher) e Paolo Scala, di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. Belsito è arrivato in serata nella sede della Lega in via Bellerio a Milano e ha presentato le dimissioni. Il passo indietro era stato auspicato da diversi esponenti del partito, dopo le perquisizioni e la notizia delle indagini, a cominciare dall'ex ministro Roberto Maroni. Che commenta: "E' una buona notizia, adesso bisogna andare fino in fondo e fare pulizia dentro il partito, cominciando dalla nomina di un nuovo amministratore capace di aprire tutti i cassetti". Dopo le dimissioni non sono state avanzate, per ora, ipotesi riguardo a una sostituzione o alla nomina di un commissario: sarà il consiglio federale a deliberare sulla questione.
"Visto che è stato tirato in ballo il nome di Umberto Bossi mi sento di escludere in maniera assoluta ogni suo coinvolgimento", è stato invece il commento del governatore lombardo Roberto Formigoni.
Sulla stessa lunghezza d'onda l'ex premier Silvio Berlusconi: "Chiunque conosca Umberto Bossi e la sua vita personale e politica, non può essere neanche lontanamente sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunchè di illecito. E in particolare per quanto riguarda il denaro della Lega, del movimento al quale ha dato tutto se stesso. Perciò esprimo a Umberto Bossi la mia più affettuosa vicinanza". "Altro che Roma ladrona. Alla fine i nodi vengono sempre al pettine - ha invece commentato Felice Belisario, presidente dei Senatori dell'Italia dei valori - La Lega, che si è sempre messa sul piedistallo dell'integrità morale, adesso si ritrova nei guai fino al collo". Due i filoni su cui i pm del capoluogo lombardo da tempo, anche in seguito alla denuncia di un militante della base leghista, hanno acceso i riflettori: il primo riguarda i fiumi di denaro finiti nelle casse del partito fondato da Bossi presentando rendiconti, questa l'ipotesi, "irregolari"; il secondo la "distrazione" di parte di quei fondi, alla fine dello scorso dicembre, da parte del tesoriere, non si sa in base a quali poteri statutari, per acquisire tramite la Banca Aletti (dove la Lega ha un conto corrente) quote in un fondo Krispa a Cipro e quote in un fondo in Tanzania per circa "6 milioni". Operazioni, queste, avvenute per gli inquirenti con la complicità dei due imprenditori. E proprio uno dei due imprenditori è anche complice di Belsito nella vicenda, autonoma rispetto a quella sull'andirivieni dei finanziamenti pubblici alla Lega, che riguarda la Siram, multinazionale che si occupa di energie rinnovabili e servizi ambientali, anch'essa perquisita dalla guardia di finanza. Dai primi accertamenti, fra il 2010 e l'anno scorso, i due avrebbero architettato una maxi truffa che, grazie a un giro di fatture false, avrebbe consentito al colosso di usufruire in modo indebito di un credito di imposta pari al 40 per cento dei costi sostenuti per l'attività di ricerca e sviluppo. E Belsito in questo caso si sarebbe speso come "procacciatore d'affari" in virtù delle sue relazioni politiche, perché anche sottosegretario. Ma il capitolo che ha provocato un terremoto in via Bellerio, dove i militari hanno sequestrato carte e pc in vari uffici - compresi quelli di Daniela Cantamessa, una delle segretarie di Umberto Bossi, e di Nadia Dagrada, dirigente amministrativo e responsabile del settore gadget, acquisendo anche documentazione sul Sindacato padano, fondato da Rosy Mauro - è quello, come si legge nel decreto di perquisizione, che riguarda la gestione della tesoreria del partito "avvenuta nella più completa opacità fin dal 2004". Una "gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito", soldi pubblici provenienti dal 4 per mille dell'Irpef o sotto forma di rimborsi elettorali, che, come emerge da una serie di intercettazioni riportate in un'informativa del Noe (a coordinare le indagini è il 'capitano Ultimo', lo stesso che catturò Totò Riina), Belsito avrebbe anche usato per contribuire alle spese per gli svaghi dei figli del Senatur, ma anche in parte per la moglie di Bossi e per Rosy Mauro (non sono indagati): cene, alberghi e viaggi. E la ristrutturazione della villa di famiglia a Gemonio: in un'intercettazione si sente dire che quelle spese vanno a finanziare "i costi della famiglia". In sostanza ci sarebbe stata una sorta di viavai di denaro e il tesoriere, che è stato anche nel consiglio di amministrazione di Fincantieri, avrebbe a volte anche versato sui conti della Lega soldi "in misura superiore ai redditi da lui percepiti" - altro punto di indagine su possibili fondi neri - o prelevato in banca somme in contanti, come i 95mila euro del dicembre 2010 con giustificazione "alimentare la cassa del partito". E poi ancora quei 6 milioni sottratti per essere dirottati negli investimenti in Tanzania e a Cipro e che Belsito dice di aver restituito alla Lega ma su cui gli inquirenti, che hanno sentito numerosi testimoni, tra cui pare anche la stessa segretaria di Bossi, vogliono far luce. Così come vogliono fare chiarezza sui rendiconti per le spese elettorali finiti alla presidenza di Camera e Senato per il via libera ai rimborsi. Sull'ultimo, quello alla base dei 18 milioni erogati ad agosto, ci sono seri dubbi: si riferisce al 2010 e - scrivono i pm negli atti - "vi è la prova della falsità".
L'INCHIESTA. Triangolazioni sospette per milioni. E con Belsito spunta la 'ndrangheta. E' a Reggio Calabria uno dei tre filoni dell'inchiesta sul tesoriere leghista. Giri di fatture e compravendite sospette con società in tutta Italia e un faccendiere in rapporti con il potente caln dei De Stefano. Il reportage di Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Il terremoto giudiziario nella Lega arrivato con l'avviso al tesoriere Belsito e il blitz nella storica sede milanese di via Bellerio, è partito seguendo un sospetto personaggio calabrese. Su Belsito sono ben tre le inchieste aperte: Milano, Napoli, Reggio Calabria. A lui la Dda di Reggio è arrivata seguendo gli affari di Romolo Girardelli, un procacciatore di business in odore di 'ndrangheta. Girardelli, o meglio "l'ammiraglio", come lo chiamavano nell'ambiente, nel 2002 era stato indagato per associazione di stampo mafioso. Gli investigatori lo ritengono vicino ai vertici del clan "De Stefano", famiglia potentissima della città dello Stretto con interessi in Liguria e Francia. Il faccendiere fin dal 2002 è legato a Paolo Martino e Antonio Vittorio Canale, braccia economiche della cosca. Il Pm reggino Giuseppe Lombardo e gli specialisti della Dia gli stavano dietro da tempo, nella speranza di mettere le mani sul tesoro della "famiglia". Una pista buona, che ha poi portato a scoprire anche i rapporti tra la presunta testa economica dei De Stefano e il tesoriere della Lega. Girardelli, secondo l'inchiesta, di affari ne aveva procacciati anche a Belsito, all'imprenditore Stefano Bonet e all'avvocato Bruno Mafrici. "L'ammiraglio", oltre che broker era socio di fatto di Belsito in una immobiliare con sede a Genova. Ma non è tutto, perché gli inquirenti hanno ricostruito una serie di passaggi milionari tra grandi società che si occupavano di consulenza e ricerca. Affari per diversi milioni di euro che consentivano utili sotto forma di crediti d'imposta. Giri di soldi e di "regali" che coinvolgono direttamente il tesoriere della Lega e alcuni altri manager di grandi aziende. C'è ad esempio il caso della Siram che "acquista" servizi per circa 8 milioni dalla Polare del gruppo Bonet (di cui Giradelli è responsabile della sede genovese). La Polare poi è in affari con la Marco Polo da cui compra consulenze per 7 milioni. Ed è attraverso quest'ultima che la stessa cifra torna nuovamente a Siram. Un triangolo strano per i magistrati reggini, che ritengono che nei diversi passaggi alcune centinaia di migliaia di euro restino impigliate in diverse mani. Tra queste quelle di Belsito. L'inchiesta accerta che gli vengono liquidate circa 250 mila euro in due trance.
Un caso analogo è quello che coinvolge Siran, Polare e Fin.tecno.
Sono 8 gli indagati dell'inchiesta che si muove su tre diversi filoni. Quello reggino che riguarda gli interessi della 'ndrangheta, quello milanese legato a Belsito al riciclaggio e all'appropriazione indebita e quello napoletano dove ha sede una delle società coinvolte nel giro. Le ipotesi di reato sarebbe la truffa allo Stato per i falsi crediti d'imposta e il finanziamento illecito dei partiti oltre che riciclaggio di denaro su conti esteri.
Tre procure contro Belsito: "Soldi pubblici ai Bossi". I pm di Milano, Napoli e Reggio Calabria accusano il tesoriere Belsito di aver truccato i bilanci. Viaggi per i figli e Rosi Mauro, fondi per il Trota e per la casa di Gemonio. Il resoconto di Luca Fazzo ed Enrico Lagattola su “Il Giornale”. Spericolati investimenti, false fatturazioni, denaro che viaggia estero su estero, bilanci truccati, fondi neri destinati al vertice del partito, pericolosi (e per nulla padani) legami con la ’ndrangheta. È un uragano giudiziario quello che ieri si abbatte sulla Lega Nord. Il Carroccio finisce nel fuoco incrociato di tre Procure: Milano, Napoli e Reggio Calabria. La sede del partito, in via Bellerio, viene perquisita dalla Guardia di finanza (che porta via documenti del Sinpa, il sindacato di cui è segretaria Rosi Mauro), così pure la segretaria personale di Umberto Bossi, Daniela Cantamessa. Undici gli indagati, dalla Lombardia alla Campania, dal Veneto alla Calabria. E su tutti spicca il nome di Francesco Belsito, il tesoriere del partito, che si è dimesso ieri sera. Il cassiere del Carroccio è sotto inchiesta per appropriazione indebita, truffa, riciclaggio e finanziamento illecito. È lui, secondo i magistrati, ad aver «gestito nella più completa opacità la tesoreria della Lega fin dal 2004». È ancora lui, spiegano i pm, ad alterare la contabilità del partito. Ed è sempre Belsito a impiegare i soldi pubblici sfilati alle casse del Carroccio «per le esigenze personali dei familiari del leader della Lega Nord». Umberto Bossi non è indagato. Ma l’ultimo siluro è per il Senatùr. L’inchiesta della Procura di Milano - coordinata dai pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Roberto Pellicano e condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria- parte da alcune operazioni sospette che riguardano gli investimenti di Belsito, denunciate da un militante leghista il 23 gennaio scorso, e prende di mira proprio gli investimenti del Carroccio in Tanzania e a Cipro. Denaro che, secondo gli inquirenti, non si sarebbe in realtà fermato nel continente africano né nell’isola del Mediterraneo, ma avrebbe preso la strada di ritorno per tornare nella disponibilità del tesoriere.
L’indagine milanese si incrocia con quelle dei carabinieri del Noe, coordinata dalla Procura di Napoli, e della Dia di Reggio Calabria. Dal Noe negli uffici milanesi arriva un documento che «fornisce elementi inequivocabili sul fatto che la gestione della tesoreria della Lega Nord è avvenuto nella più completa opacità fin dal 2004 e comunque, per ciò che riguarda Belsito, fin da questi ha cominciato a ricoprire l’incarico di tesoriere». «Egli - si legge negli atti - ha alimentato la cassa con denaro non contabilizzato e ha effettuato pagamenti e impieghi anch’essi non contabilizzati o contabilizzati in modo inveritiero». Quali? Nelle intercettazioni telefoniche, viene fatto riferimento ai «costi della famiglia». La famiglia di Umberto Bossi. «Tali esborsi- insistono i pm- vengono effettuati per esigenze familiari del leader della Lega Nord», in «contanti o assegni o contratti simulati». Cene, alberghi, viaggi per la moglie e i figli del Senatùr, per Rosi Mauro, e per la campagna elettorale di Renzo Bossi (consigliere regionale in Lombardia dal 2010), per ristrutturare la villa di Gemonio. La truffa allo Stato viene contestata perché «il rendiconto della Lega è inveritiero, non dà conto della reale natura delle uscite, né della gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito». E non è un dettaglio da poco. Perché i rimborsi elettorali vengono calcolati in base alla validazione del rendiconto da parte degli organi di revisione del Parlamento. E per il bilancio 2010 (ritenuto truccato dai pm) lo scorso anno al Carroccio sono stati riconosciuti rimborsi per 18 milioni di euro. Da Pontida a Dodoma (capitale della Tanzania), esisterebbe un link. Ed è qui che entra in scena un secondo indagato: Stefano Bonet. Di chi si tratta? Bonet è un commercialista tuttofare, sotto inchiesta oltre che a Milano anche a Napoli ( pm John Woodcock e Vincenzo Piscitelli) e Reggio Calabria (pm Giuseppe Lombardo). È Bonet a intrattenere i rapporti con la Siram spa, colosso dei servizi energetici con sede nel capoluogo lombardo, controllata dai francesi di Veolia e Edf, che nell’inchiesta svolge un ruolo chiave. Dai fondi neri creati da Siram attraverso Bonet, e in parte ceduti allo stesso Bonet, provengono probabilmente i fondi occulti della Lega. Nell’inchiesta la Siram viene definita «la lobby di Giovanni Pontrelli»,il suo direttore generale, che avrebbe versato a Belsito 250mila euro. Tra gennaio e febbraio 2010, le società Polare e Marco Polo Tecnhology- di cui Bonet era amministratore - realizzano «movimenti circolari di denaro fittiziamente giustificati con fatture relative a costi per investimenti in ricerca e sviluppo ». Più precisamente, «la Siram aveva versato alla Polare una somma di 5 milioni di euro dei quali era rientrata in possesso attraverso pagamenti effettuati ad altre società, tutte legate al “gruppo Bonet”». Quei soldi, per il commercialista, sarebbero arrivati grazie al «patrocinio politico» di Belsito, sponsor di un fantomatico «progetto Sirio ». In cambio il tesoriere della Lega ottiene che l’investimento a Cipro venga effettuato tramite Bonet su un conto gestito da Paolo Scala (indagato), che a Larnaka fonda la Krispa Enterprises. Tra il 27 e il 28 dicembre 2011, da uno studio milanese, Belsito fa partire i soldi destinazione Cipro: ma invece del milione e duecentomila euro concordati ne spedisce il quadruplo, quattro milioni e otto. «Devono essere semplicemente parcheggiati, poi andranno dove devono andare », si legge in una intercettazione. Scala e Bonet ne parlano allarmati qualche giorno dopo. E Bonet rivela che i soldi sono del «gruppo», cioè della Lega. Scala: «Non so cosa sia, lui (Belsito, ndr ) mi ha detto che escono da lui». Bonet: «Devono essere del gruppo quelli».«Dobbiamo andare a fare un po’ di giri per andare a creare quelle strutture necessarie per andare a segregare questi importi e per pilotare gli investimenti. Non è che domattina viene fuoriuna fogna e andiamo a finire tutti... ». Infatti.
Secondo di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” qualcuno dice che la Lega è cambiata nel 2000, quando decise di riappacificarsi col Cavaliere. Di sicuro è mutata dall’11 marzo 2004 in poi, quando Umberto Bossi rischiò di morire. È da quella mattina che sulla scena piomba la famiglia del Senatur. Gli inquirenti che ieri hanno perquisito la sede di via Bellerio parlano di «gestione opaca» proprio a partire da lì. Dal 2004 è salita sul ponte di comando Manuela Marrone. È la maestra di origini siciliane che ha sposato il capo lumbard il 12 gennaio 1995 a Palazzo Marino, con la benedizione di un commosso Marco Formentini. Con l’ex ministro in ospedale, parecchi scommettevano sullo sgretolamento del movimento. È andata diversamente. Il fortino di via Bellerio ha retto perché il potere non è scivolato lontano da Gemonio. “La Manuela” ha tutelato il marito tagliando i contatti col mondo, a eccezione di pochi privilegiati. È in quelle fasi drammatiche che nasce il cosiddetto cerchio magico, ovvero il gruppo di fedelissimi in stretto contatto con il leader e i suoi familiari. All’inizio ne fa parte pure Giancarlo Giorgetti, il segretario della Lega Lombarda con cui i rapporti si sono poi raffreddati. Stesso discorso per Roberto Cota.
Marco Reguzzoni, allora presidente della Provincia di Varese, era uno dei pupilli della signora Bossi e lo è tuttora. Rosi Mauro, l’anima del sindacato padano (Sinpa), è nelle grazie di Manuela e scala in un amen le gerarchie del partito, fino a quando – con Umberto che torna sulla scena – gli s’appiccica nelle uscite pubbliche. Nel 2007 acquista casa davanti alla villa del Senatur a Gemonio. Bossi sta male a marzo, dicevamo. A novembre dello stesso anno il Parlamento europeo assume come assistenti di Francesco Enrico Speroni e Matteo Salvini il fratello del capo padano, Franco, e il figlio primogenito di Bossi, Riccardo (il pilota di rally avuto con Gigliola Guidali). Nella Lega spunta per la prima volta un’accusa sanguinosa e collegata al suo capo: nepotismo. Nulla, in confronto ai veleni delle ultime ore. Nell’informativa del Noe si parla di denaro che sarebbe stato utilizzato dai familiari del leader e dai suoi strettissimi collaboratori (tra cui la Mauro) per alberghi, cene, viaggi. C’è la ristrutturazione della villa di Gemonio e la campagna elettorale del Trota. Una storiaccia. E che - se confermata - sarebbe ben più grave dell’affaire Montecarlo che investì Gianfranco Fini.
Pochi anni fa erano state le disavventure scolastiche di Renzo a riempire i giornali. Prima viene bocciato a 15 anni. Poi rifà due volte la maturità. Nell’ultimo caso decide di presentare ricorso. È il leader ad annunciare in un comizio: «Renzo ce l’ha fatta». Non si sa dove. In Italia o all’estero? «Quando stava male mio padre, avevo i giornalisti che mi aspettavano fuori da scuola. Da lì decisi di non dare più certe informazioni» spiegò il Trota a Libero nell’ottobre 2010. Il mistero rimane, anche perché il diploma non s’è mai visto.
Nel 2005, ancora ragazzino, aveva fatto la prima apparizione pubblica con papà. Si affacciò dalla casa di Carlo Cattaneo, in Svizzera, per urlare alla piazza: «Padania libera!». Da lì iniziò a essere sempre più presente. Non solo nei comizi. Pure a Roma.
Nei vertici di governo. A casa Berlusconi. Quando il Corriere gli dedica una paginata, la madre s’inalbera perché non lo vuole così esposto. Bossi smorza: «Lui mio delfino? Al massimo è una trota». Nasce il nomignolo. Nel 2010, però, Renzo finisce al Pirellone incassando quasi 13mila preferenze. Nel frattempo il cerchio magico cambia ma prospera. Vi fanno parte anche il capogruppo a Palazzo Madama Federico Bricolo e, naturalmente, il tesoriere Francesco Belsito. I rapporti nel movimento si fanno sempre più tesi. È gelo soprattutto con Roberto Maroni. La famiglia lo accusa di volersi prendere la Lega sfilandola a Umberto. Renzo nega l’esistenza del cerchio: «Qualche giornalista ha la sindrome Tolkien» dice a fine 2010. Nel novembre 2011 cambia idea: «Non esistono più né cerchisti né maroniani, è tutto a posto». Nel frattempo, alcuni vecchi amici di Umberto faticano addirittura a parlargli, tanto è impenetrabile il cordone di sicurezza che lo circonda. Per esempio, si raffreddano i rapporti con Bruno Caparini, il padre del deputato Davide e che ospita il segretario a Ponte di Legno. Il Trota, approdato al Pirellone, è sempre più al centro della scena. I militanti s’arrovellano: era giusto candidarlo? Di sicuro sono fioccati veleni, con l’assessore lombardo Monica Rizzi accusata di aver fatto confezionare dossier per attaccare altri padani e favorire l’ascesa del rampollo. Il Trota gira con un suv Bmw (intestato a lui) e su un’Audi A5 che risulta di una concessionaria comasca. Vive tra Gemonio e Milano. Spesso si fa vedere a Brescia e sul lago di Garda. Ha frequentato anche alcune vippine da tv. È amicone di Valerio Merola. All’ultimo congresso di Varese l’hanno fatto risultare militante anche se non lo era. Condizione che ne avrebbe dovuto impedire la candidatura alle regionali. Il fratello Roberto Libertà, studente d’Agraria, vive a Gemonio e spesso bazzica una cascina ristrutturata a Brenta, Varese. Eridano Sirio, il più piccolo, è ancora lontano dai riflettori. C’è curiosità per i legami tra Belsito, il tesoriere che ha lasciato l’incarico ieri sera, e la famiglia. Gli inquirenti hanno dato un occhio pure alla Pontida Fin, cioè lo scrigno della Lega. Contiene gli immobili del partito. Tempo fa, all’amministratore unico Ugo Zanello arrivò la richiesta di trasferire le proprietà a una fondazione. Nel luglio 2010, con la Lega al governo, spuntano 800mila euro di finanziamento per la scuola Bosina di Varese, quella della signora Marrone. È lei che, col passare del tempo, è sempre più indigesta alla base. Soprattutto, non la sopportano i militanti che guardano a Maroni. Però, quando a settembre il berlusconiano Panorama spara un articolo che descrive i malumori nei confronti della signora (definita «terrona», mentre la Mauro è «la badante»), tutta la Lega s’inalbera. Ieri sono stati perquisiti anche gli uffici del sindacato padano, che in serata ha parlato di «fraintendimento». Si fa un gran chiacchierare di una sede in Sardegna: sarà vero? Dal canto suo, la Marrone incassa ma resta nell’ombra. In pubblico non parla mai.
Neanche con i media di partito. Quelli che, nel febbraio 2011, erano stati affidati alla supervisione di Renzo Bossi. Papà ne fu felice. I professionisti che ci lavorano e i militanti, un filo meno.
Eccola qui, la vera Lega di Daniele Sensi.
I figli degli immigrati? «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Il piano svuota carceri? «Lo facciamo noi con un mitragliatore dal balcone». Napolitano? «Un terrone del cazzo, gli ci vorrebbe un colpo in testa». E' il gruppo su Facebook 'Padani si nasce', a cui aderiscono anche i parlamentari Reguzzoni, Rondini, Fugatti, Mura, Pittoni e Stiffoni. Eros Domenico è un militante leghista. Il suo profilo Facebook è una profusione di foto di cene e di manifestazioni del Carroccio. Maglietta col Sole delle Alpi addosso, ama ritrarsi al fianco di Matteo Salvini o ai piedi di una qualche statua dell'Alberto da Giussano. Ha un'opinione su tutto: sul piano "svuota carceri" («mi trasformo in cecchino con un bel mitragliatore sul balcone e via con lo show»); sulle origini meridionali di Giorgio Napolitano («Napoli merda, Napoli colera») e sui due cittadini senegalesi uccisi martedì scorso a Firenze: «Meglio così, due in meno da mantenere». Sempre su Facebook, ha fondato "Padani si nasce, cuore leghista", gruppo - chiuso e riservato - dell'orgoglio padano. Ne fa parte anche Giovanna, bresciana, «casalinga, moglie e mamma», immagini di Topolino, Bambi e Winnie The Pooh sul proprio profilo pubblico. Sulla cittadinanza ai figli degli immigrati ha le idee chiare: «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Quanto ai loro genitori invece si chiede: «Perché, quando aprono la porta, c'è una puzza strana che fa schifo?». Opinione condivisa da Remo, un odontotecnico di Mantova: «Sapessi che odoraccio quando vengono da me, sono peggio della capre», mentre Anna Paola prova a rispondere: «Puzzano perché non si lavano dopo che fanno l'amore, per non parlare della loro puzza naturale, che è nauseabonda. Tempo fa ho sentito dire in televisione che il loro sesso ha un odore disgustoso, indelebile, che non va via neanche se lo lavi con un sapone speciale». Appartiene al gruppo anche "Maestra Marzia", insegnante di una scuola elementare che sul web amministra un blog di filastrocche, ninne nanne, esercizi di scrittura ed altro materiale didattico «utile agli alunni in caso di assenze prolungate per malattia». Una maestra modello, che sulla propria bacheca condivide foto di «pasticcetti in cucina» e di Topo Gigio, ma che nel gruppo "Padani si nasce", da quando il presidente Napolitano ha definito «una follia» negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati, non si dà pace: «Non si trovano 3000 miseri euro per un ingranditore utile ad un mio alunno ipovedente, mentre si pagano almeno tre volte tanto i facilitatori linguistici per gli alunni cinesi che si rifiutano di ripetere anche la più semplice parolina di italiano. Cosa mai potranno invece dare i cinesi che sia di utilità comune?». Con soluzioni agli sbarchi di "clandestini" che vanno dal «napalm» a «una bella bomba, così saltano in aria», "Padani si nasce" è qualcosa di più di un semplice gruppo leghista di area. O almeno è il solo che possa vantare tra i propri membri tanti nomi eccellenti. Tra gli altri: il presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera Marco Reguzzoni; i deputati Marco Rondini e Maurizio Fugatti; i senatori Roberto Mura, Mario Pittoni, Piergiorgio Stiffoni e Michelino Davico; gli assessori della Regione Lombardia Daniele Belotti e Monica Rizzi; l'assessore alle politiche agricole della Regione Veneto Franco Manzato; il vicepresidente della Regione Lombardia Andrea Gibelli; l'europarlamentare Claudio Morganti; il segretario provinciale della Lega Nord di Milano Igor Iezzi, più una sfilza di sindaci e amministratori locali. Tutti iscritti ad un gruppo che per mettere a tacere quel «vecchio di merda» e «terrone del cazzo» di Napolitano propone «un colpo in testa» e, per ritorsione, «un attentato alle Coop». Un gruppo esplicitamente razzista («mischiare le razze non ha mai portato bene») e omofobo («dovremmo equiparare i gay ai pedofili così Vendola la finisce di fare il ricchioncello per strada») che, a fronte dei reati commessi da cittadini stranieri, vorrebbe «dare una ripulita», «aprendo la caccia con i pallettoni per cinghiali, almeno li traforiamo per bene». Con un trattamento di riguardo per gli immigrati malati di TBC («con loro usiamo la fiamma ossidrica, così non ne rimane nemmeno una cellula»), e per i rom: «Mettiamoli nelle stufe a legna, in modo da farne carburante alternativo». Perchè «i rom», spiega Luca, bresciano, amorevoli foto dei suoi bambini in bacheca, «ladri, stupratori e assassini nascono, ladri, stupratori e assassini moriranno: personalmente adotterei per loro le stesse politiche usate dal Führer». «Anziché stanziare fondi per l'integrazione dei rom, L'Unione Europa dovrebbe finanziare l'apertura dei forni», rilancia Alessandro, consulente aziendale nel comasco. Mentre Giovanna – quella appassionata di Topolino, Bambi e Winni The Pooh - euforica applaude: «Evvai! Che bello vederli bruciare!».
«Roma ladrona vuole i soldi dei lavoratori del Nord per tenere viva la vecchia pratica assistenzialista. Ad ogni giro ritornano, come nel gioco della roulette...», disse una sera all’Ansa Umberto Bossi, correva l’anno 2003. «Voglio essere cattivello... non tutti sanno che c'è una insegnante che è andata in pensione nel '92 a 39 anni: è la moglie dell'onorevole Bossi»: lo rivela Gianfranco Fini a Ballarò del 25 ottobre 2011.
La Lega Nord per l'Indipendenza della Padania, meglio nota come Lega Nord o più semplicemente Lega, è un partito politico nato come federazione di vari movimenti autonomisti regionali, tra i quali, in particolare, la Lega Lombarda e la Liga Veneta. I bersagli dei loro strali sono gli extracomunitari e i meridionali. Le accuse contro questi sono fondate su assiomi che delineano una mancanza di cultura o che sono frutto di una cultura distorta. Gente che si sente dura e pura e autoctona, ma, spesso, nelle sue fila vi è gente proprio di origine meridionale ed extracomunitaria. I loro territori non hanno radici storiche e culturali degne di nota, per cui l’odio verso gli altri è la loro linfa vitale e il programma politico si tramuta in calunnie e diffamazioni. Originariamente sostenitrice del federalismo, dal 1996 la Lega Nord ha proposto la secessione delle regioni settentrionali, indicate collettivamente come Padania.
Successivamente ha riproposta il progetto di uno Stato federale, da realizzarsi attraverso il Federalismo fiscale e la devoluzione alle regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato. Propone altresì di aumentare il peso politico delle regioni del Nord Italia, ritenuto non adeguato al peso demografico ed economico delle stesse, nonché di promuovere e valorizzare le culture e le lingue regionali, per fare dell’Italia una “Babele”. La Lega è formata da più Leghe: ognuno con i propri campanili e le loro differenze, che alla minima occasione si fanno notare e che sono foriere di odio interno. A riguardo un articolo di Carlo Puca su “Panorama” del 18 gennaio 2011 rende bene l’idea. “Roberto Calderoli, dentista, già ministro per la Semplificazione e leader dei cosiddetti «bergamaschi» (che poi tutti bergamaschi non sono: per esempio Gianna Gancia, la sua compagna, è presidente della Provincia di Asti). È normale, dunque, che in una Lega divisa in correnti più di quanto si racconti i «varesotti» siano in stato d’allerta. Il loro leader è il già ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quando Bossi abbandonerà la vita politica, il Carroccio avrà un problema enorme: trovare il nuovo leader. Tenere assieme i bergamaschi con i varesotti, i piemontesi con i veneti, i lombardi con gli emiliani sarà assai complicato. E non soltanto per le diversità su base territoriale: i nordisti sono divisi tra loro pure all’interno delle singole zone d’influenza. In Emilia-Romagna, dove il partito è in forte crescita, una riunione di partito è addirittura finita in rissa. Erano in discussione le candidature al consiglio comunale. Figurarsi cosa mai accadrà nel prossimo giro per il Parlamento…Date le premesse, per sedare gli animi certo non basterà Renzo «Trota» Bossi, il figlio che il Senatùr vorrebbe (addirittura!) ministro. Men che mai basterà l’altro figlio di Bossi, Eridano Sirio Bossi. Insomma: non basterà il feticcio di un cognome, seppur pesante, a salvare la Lega da una prevedibile diaspora.”
CARROCIOPOLI: Bossi, un mare di bugie.
La presentazione e le recensioni di "Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere", saggio di Eleonora Bianchini edito da Newton Compton. Un'inchiesta appassionata che ridisegna il ventennio leghista dagli anni del "celodurismo" all'ossessione del federalismo fiscale. I lati oscuri di un partito pieno di contraddizioni: minacce di secessione che si alternano ad abili mosse politiche per acquisire un peso sempre maggiore nel governo del nostro Paese; vilipendi alla bandiera, diti medi alzati e pernacchie in TV che fanno da contrappunto a raffinate strategie orchestrate nei palazzi e nelle ville del potere. Ma come ha fatto questo movimento, da sempre spina nel fianco della democrazia italiana, a ottenere un simile consenso? Eleonora Bianchini, con una prosa secca e incisiva, mette al muro il partito del Carroccio, svelando i falsi moralismi di chi grida contro "Roma ladrona", ma chiude un occhio sugli scandali finanziari della "Padania ladrona". «Il nostro popolo», affermava Bossi, «è pronto ad attaccare. Si dice che il Paese stia andando a fondo, ma io conosco un solo Paese, che è la Padania. Dell'Italia non me ne frega niente». Ma una volta scoperti i verdi scheletri nell'armadio anche il leghista duro e puro potrebbe vacillare. Una giornalista ricostruisce la storia e le dinamiche del consenso del Carroccio. Rivelando come il partito di Bossi abbia due volti. Uno al nord, dove continua a far sognare un federalismo che non farà mai.
uno a Roma, dove pensa solo a divorare posti di potere. L'ultima, in ordine di tempo, è la proposta di un consigliere comunale di Padova di non finanziare la locale maratona perché "vincono sempre neri in mutande". Ma alle dichiarazioni shock, partite da esponenti di ben altro rilievo, la Lega Nord ha ormai abituato gli elettori: forse persino assuefatti, visto che se ne sentono quasi tutti i giorni.
Dagli anni delle minacce di secessione, della caccia ai terroni e dei riti celtici si è passati al federalismo fiscale e alla lotta all'islam e all'immigrazione (clandestina e non solo). E in un paese che non ha memoria e che dimentica troppo in fretta, il lavoro di Eleonora Bianchini ("Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere" - Newton Compton) prova a mettere in ordine gli eventi. Quasi un manuale per leggere la Lega Nord attraverso tutta la sua storia.
"L'espresso" ha parlato con l'autrice, giornalista e blogger che lavora tra l'altro per il network Blogosfere.
Perché la Lega non dovrebbe far leggere il tuo libro, come recita il titolo?
"Il mio lavoro ricostruisce la storia del partito in questi anni: le origini, le parole d'ordine, gli slogan, le dichiarazioni, le promesse.
Un elenco di fatti, niente invettive preconcette. E questo li ha fatti innervosire: il loro quotidiano, "la Padania", lo ha subito definito "un libro che esercita mistificazioni politiche", ma senza entrare mai nel merito dei fatti concreti che sono stati raccolti".
Iniziamo da Alberto Da Giussano e la Padania...
"Pochi ricordano che Alberto da Giussano è stato copiato dalla biciclette Legnano, perché a Bossi piaceva il logo. Quanto alla Padania, i suoi confini sono stati scelti a tavolino e nella storia della Lega sono anche risultati piuttosto "elastici" per non lasciare fuori nessun potenziale elettore. Adesso però la Padania esiste davvero nella mente dei sostenitori e, nei primi anni del movimento, queste immagini hanno aggregato molto i leghisti e contribuito a costruire un'aura intorno alla dirigenza".
Dal partito di lotta al governo. Come è cambiata la Lega Nord?
"Il cambiamento è stato enorme, da quando è iniziata la corsa al potere e alle poltrone: lo scandalo di Credieuronord, la conquista delle regioni per avere le banche, la parentopoli interna. L'approccio al potere è simile a quello di tutti gli altri partiti che la Lega critica e di cui ha invece preso i peggiori difetti. Anche in tv, c'è stata la lottizzazione della Rai in pieno stile Prima repubblica. Intanto sono cambiati anche i nemici: dalla guerra ai "terroni" si è passata a quella agli islamici".
Terroni, islamici, immigrati, rom. Le dichiarazioni shock e i suggerimenti a bruciare, impallinare o altro in questi anni non sono mancate. Qualcuno le definisce folklore.
"La Lega ci ha assuefatto. Ormai ci siamo abituati a fare spallucce su affermazioni aberranti, quando in altri paesi non avverrebbe lo stesso: alla Lega invece viene perdonato tutto. Sono le famose "sparate" che servono per coltivare il consenso "di pancia" al Nord mentre a Roma si pensa solo a lottizzare e a conquistare fette sempre maggiori di potere".
Passiamo dalla parole ai fatti. Come governa la Lega?
"A livello locale si devono riconoscere degli esempi dignitosi. A livello nazionale invece si usa lo specchietto per le allodole del federalismo per occupare posti di potere a Roma e nelle istituzioni centrali. Nessun leghista ha mai risposto, concretamente, ad alcune domande semplicissime su questo ipotetico federalismo: quanto costerebbe? Quali direttive avrebbe? Chi lo paga? Se fosse davvero il provvedimento che dice la Lega, in cui tutti guadagnano e nessuno paga, sarebbe un sogno. Invece serve solo a mantenere in vita un sogno in periferia per occupare poltrone al centro".
La Lega sembra essere il fenomeno editoriale di questo Natale.
Tanti libri ne parlano e sono tutti testi molto critici.
"Il partito di lotta che diventa partito di governo fa emergere tutte le sue contraddizioni e con queste arriva il disincanto nei confronti del movimento. Ormai le due facce della Lega non si possono più coniugare tra loro: il partito non è né duro e puro né un alieno della politica i Palazzo, tutt'altro".
Però i consensi almeno fino a oggi, sembrano in crescita.
"Il mito del federalismo fiscale attrae voti perché promette di abbassare le tasse al nord. Finché il federalismo non viene attuato, resta un immaginario Sacro Graal di benessere. Infatti viene sempre rimandato".
Aveva negato di essere stato iscritto al Pci. Aveva escluso che il figlio prendesse soldi dalle Coop padane. Aveva smentito gli affari poco limpidi del partito. Un libro-inchiesta rivela: era tutto vero. Si intitola "Umberto Magno, l'imperatore della Padania" la biografia non autorizzata del leader della Lega Nord che è uscito in libreria il 2 dicembre 2010 per Aliberti (480 pagine). E' un'accurata inchiesta di Leonardo Facco, giornalista che ha conosciuto la Lega (e Bossi) da molto vicino, avendo tra l'altro lavorato per quattro anni al quotidiano "la Padania". L'autore parte dagli "albori della Lega", quando un giovanotto della provincia di Varese senza un lavoro riesce a coagulare attorno all'idea autonomista – non senza screzi e fatti poco chiari – prima alcune decine di amici, poi centinaia e infine migliaia di persone pronte a dare il loro consenso a un progetto politico sempre in bilico tra il federalismo e la secessione.
Bossi è la Lega e la Lega è Bossi, secondo Facco, nonostante la malattia abbia ridotto il senatùr all'ombra di quel personaggio movimentista del passato recente. Per dimostrarlo, l'autore racconta fatti, episodi, ricordi personali, con tanto di documentazione (sono quasi 400 le note bibliografiche). «Bossi», sostiene l'autore, «è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni, in primis, dei militanti e simpatizzanti. I crac delle Cooperative Padane, del Villaggio in Croazia e della banca padana rappresentano l'epitome del modo di fare politica del "lumbard", circondato da sempre di yes-men (and women) in carriera». Nel libro ci sono diversi fatti inediti, mai conosciuti e-o raccontati: dalla strana busta paga del figlio primogenito a spese dei militanti ignari, fino alla famosa questione della militanza comunista del giovane Umberto: da lui sempre negata, ma ora provata da un documento scoperto in una vecchia sezione del Pci. E poi si va dai tempi in cui elogiava "Mani pulite" alla sequela di condanne penali incassate dai leghisti odierni. Un capitolo, infine, è dedicato alla vita privata di Bossi che «ama la famiglia tradizionale» ma, secondo l'inchiesta di Facco, non sembra negarsi svaghi al di fuori di essa. «E' un'inchiesta che dovevo a me stesso perché ho un passato da leghista, ho creduto in questo movimento e sono stato anche sul Po, alla metà degli anni '90», dice l'autore. «Era giusto scrivere questo libro adesso, in cui la Lega si sente particolarmente forte e pensa di fare il pieno di voti.
Bisogna che tutti gli elettori sappiano chi è il padrone del partito che pensano di votare: un cialtrone, né più né meno».
Ma non è tutto. Due pentiti scrivono la storia di Carrocciopoli, così come ripreso da Alessandro Da Rod sul Riformista.
Due libri coinvolgono i due alti esponenti del partito. Il già titolare della Semplificazione è accusato di furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Il già Ministro della Giustizia e viceministro delle Infrastrutture invece sarebbe il candidato “Gamma” favorito dalla malavita calabrese.
Due pentiti. Due libri. Un camion di letame sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Non c’è dubbio che giovedì 2 dicembre del 2010 non passerà alla storia del Carroccio come una giornata qualunque. Perché presentare nello stesso giorno due libri come Umberto Magno, l’imperatore della Padania di Leonardo Facco e Metastasi di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, significa scoperchiare l’intero vaso di Pandora di via Bellerio, svelando ciò che il Carroccio ha sempre cercato di nascondere: problemi interni, finanziamenti ai figli di Umberto Bossi, intercettazioni scomode e quant’altro. Il primo è il più pesante. Facco, leghista della prima ora, ex giornalista della Padania, ha riportato in 480 pagine tutta la vita del Senatùr, raccontandone misfatti, debolezze sessuali e di potere. Nel secondo i due cronisti di Libero, non hanno incentrato il loro libro sui rapporti tra la ’ndrangheta e la Lega Nord, ma hanno comunque inserito in un capitolo una storia scomoda per i leghisti. Quella di “Gamma”, leghista di Lecco che ha iniziato a fare carriera nel suo feudo grazie anche all’aiuto dei voti della malavita organizzata. Ex ministro della Giustizia, dirigente di una certa importanza, nessuno ha osato dire il suo nome, ma l’unico che ha alzato la voce per replicare alle illazioni è stato Roberto Castelli, viceministro alle Infrastrutture. Negli ambienti del Carroccio, si vocifera che ci sia una cosa che accomuna i due libri in uscita in questi giorni nelle librerie. Entrambi, in un modo o nell’altro, vanno a colpire, oltre al Senatùr, i due esponenti che in questi mesi hanno perso più posizioni di potere all’interno del partito. Da un lato Castelli, dall’altra Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione. È utile ricordare che il leghista lecchese fu l’unico questa estate a rilasciare un’intervista al Giornale in cui raccontava pubblicamente dei problemi interni al partito. Come allo stesso tempo accadde a Calderoli, finito sulla graticola per l’affare Brancher, il ministro breve del Federalismo, anche lui comparso su svariati quotidiani per difendersi dalle bordate che gli arrivavano dagli uffici di via Bellerio.
Sarà un caso, ma in mesi così difficili per la Lega Nord, tra cerchi magici, colonnelli, varesini e veneti, nel libro di Facco ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più sul potente ministro dell’Interno Roberto Maroni. In realtà c’è ben poco, se non un richiamo al caso Antonveneta, passando per spedizione in Serbia e la storia dei finanziamenti alla sua portavoce Isabella Votino. Quisquilie se messe in relazione ai file alla Wikileaks che riguardano Castelli e Calderoli. Perché se il primo viene di fatto associato alla malavita organizzata dal pentito Giuseppe Di Bella, sul secondo vengono persino pubblicati i documenti che testimonierebbero un presunto furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Partiamo dal ministro per la Semplificazione. A pagina 311 di Umberto Magno, Sacco racconta la storia delle “Coop made in Padania Scrl” creatura bossiana organizzata per finanziare il partito, finita in disgrazia quasi come Credieuronord. Presidente delle Coop in un primo momento era proprio Calderoli. E attraverso le parole di Mario Morelli, ex consigliere di amministrazione della catena di supermercati, Facco ripercorre tutti i disastri dei calderoliani, tra dentifrici in esubero, immobili pagati uno sproposito, flop economici e conti lasciati in sospeso. «Bossi, Calderoli e altri padani - si legge nel libro - pensavano che un pizzico di coraggio, un tantino d’inventiva, un po’ di voglia di fare mischiata all’improvvisazione fossero elementi sufficienti per il successo». In realtà la vicenda, oltre ad avere tratti grotteschi, tra cui quello di 24 milioni di buste di deodorante con il sole della alpi rimaste invendute, finì molto male. Morelli, infatti, a cui fu data la presidenza dopo l’addio di Calderoli nel 1999, si ritrovò di fronte in poco tempo un debito di circa un miliardo di lire e un’azienda sull’orlo del fallimento. «Una mattina - racconta Morelli - Calderoli mi convocò nel suo ufficio chiedendomi di sostituirlo in quell’incarico. Motivò la sua richiesta col fatto che questo incarico incideva negativamente sul rapporto politico che aveva con Bossi». Del resto, quando Morelli parlò della situazione al Senatùr, Bossi non la prese affatto bene. «Mi rispose con parole di fuoco - ricorda Morelli - indirizzate contro il mio predecessore Calderoli: tuoni, fulmini e saette». Non solo. Il caso scottante è che al fallimento delle Coop è conseguita la protesta di chi quei soldi li aveva versati nelle tasche di Calderoli. Emblematica la lettera di Genesio Ferrari, ex segretario della Lega emiliana che chiede indietro i dieci milioni di lire versati anche grazie all’aiuto dei militanti: «Il tutto si è risolto in una bolla di sapone». Quanto a Castelli, si è già scritto molto. Ma il dato è comunque pesante, perché nel ’90 ci fu il boom di voti per i leghisti. Il pentito Di Bella, vicino al boss della 'ndrangheta, Coco Trovato, racconta a Nuzzi e Antonelli che la parola d’ordine tra le ’ndrine di Lecco era votare “Lega”: Gamma era il loro uomo di riferimento.
LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA. CANDIDATI AL PARLAMENTO: ELEZIONE 13 APRILE 2008. CONDANNATI, PRESCRITTI, INDAGATI, IMPUTATI E RINVIATI A GIUDIZIO.
Fonte “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez.
Lega Nord (8)
Bossi Umberto: Condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont; condannato in via definitiva per istigazione a delinquere e per oltraggio alla bandiera; indagato e imputato in altri procedimenti penali. Il 16 dicembre 1999 la Cassazione l’ha condannato a 1 anno per istigazione a delinquere, per aver incitato i suoi, in due comizi a Bergamo nel 1995, a «individuare i fascisti casa per casa per cacciarli dal Nord anche con la violenza». Tremaglia, suo futuro collega ministro, l’aveva denunciato. Altra condanna definitiva nel 2007 a 1 anno e 4 mesi (poi commutati in 3.000 euro di multa, interamente coperti da indulto) per vilipendio alla bandiera italiana, per aver dichiarato nel 1997: «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». Niente sospensione condizionale della pena, che però è coperta da indulto (che cancella anche quelle pecunarie fino a 10 mila euro): insomma, Bossi non pagherà nemmeno un euro. Inoltre ha un altro processo in corso per lo stesso reato, per aver detto, sempre nel 1997, durante un comizio: «Il tricolore lo metta al cesso, signora... Ho ordinato un camion di carta igienica tricolore personalmente, visto che è un magistrato che dice che non posso avere la carta igienica tricolore». Nel 2002 la Camera ha negato ai giudici l’autorizzazione a procedere, ritenendo le espressioni rientranti nella libera attività parlamentare e dunque coperte da insindacabilità; ma nel 2006 la Consulta ha annullato la delibera di Montecitorio, disponendo che Bossi sia processato come un comune cittadino. Il Senatùr è invece uscito indenne dal lungo processo per resistenza a pubblico ufficiale, in seguito agli scontri con la polizia che perquisiva, il 18 settembre ’96, la sede leghista di via Bellerio a Milano: condannato a 7 mesi in primo grado e a 4 in appello, Bossi s’è visto annullare con rinvio la seconda condanna dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo processo d’appello. E qui, nel 2007, è stato assolto.
Ancora aperto, invece, il processo di Verona per le camicie verdi della cosiddetta Guardia nazionale padana costituita nel 1996: Bossi, con altri quarantaquattro dirigenti leghisti, deve rispondere in udienza preliminare di attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, nonché di aver costituito una struttura paramilitare fuorilegge.
Ma, almeno in questo caso, rischia poco o nulla: allo scadere dell’ultima legislatura, la maggioranza di centrodestra ha riformato i primi due reati (punibili ora solo in presenza di atti violenti), in modo da assicurarne la decadenza al processo di Verona. L’ennesima legge ad personam. Una volta tanto non per il Cavaliere, ma per il Senatùr. Il procuratore di Verona Guido Papalia, però, tiene duro sull’accusa residua di associazione paramilitare. Allora, nel 2007 la Camera regala l’insindacabilità ai deputati imputati, tra i quali Bossi, Calderoli e Maroni, quasi che la Guardia Padana fosse un’«opinione». A quel punto Papalia ricorre nuovamente alla Consulta con un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, come ha già fatto contro un analogo provvedimento impunitario adottato dal Senato per salvare Gnutti e Speroni.
Bragantini Matteo: Nel 2004 è stato condannato in primo grado a 6 mesi di carcere e a 3 anni d'interdizione dall'attività politica, per istigazione all’odio razziale e propaganda di idee razziste. Nell’agosto-settembre 2001 la Lega Nord di Verona aveva organizzato una campagna (“Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città”) contro la comunità Sinta di Verona. Nelle motivazioni, i giudici di primo grado scrivono che Bragantini e i suoi 6 coimputati, fra i quali l’attuale sindaco leghista di Verona Flavio Tosi, hanno “diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato… un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato”. Il 30 gennaio 2007, la Corte d’appello di Venezia riduce la pena da 6 a 2 mesi, assolvendo i leghisti dall'istigazione all'odio razziale, confermando la condanna per la propaganda razzista e i risarcimenti ai sette Sinti (2500 euro per ciascuno) e all’ente morale Opera Nomadi (8 mila euro), costituitisi parte civile. Bragantini è ricandidato alla Camera per la Lega Nord nel Veneto1.
Brigandì Matteo: Arrestato e condannato in primo grado il 24 novembre 2006 a 2 anni di reclusione dal Tribunale di Torino per truffa aggravata ai danni della Regione Piemonte (a cui dovrà risarcire 255 mila euro): avrebbe, in veste di assessore regionale al Legale, aver architettato un raggiro ai danni della Regione per regalare 6 miliardi di lire pubblici all’amico imprenditore Agostino Tocci, titolare di una concessionaria di auto di lusso, a titolo di “rimborso” per inesistenti danni subiti dalle alluvioni del 1994 e del 2000.
Calderoli Roberto: Indagato a Milano per ricettazione nell’inchiesta sulla Bpl di Giampiero Fiorani. Il quale sostiene di averlo foraggiato per garantirsi l’appoggio politico della Lega durante il suo tentativo di scalata alla Banca Antonveneta: con il suo sottosegretario Brancher, l’allora ministro delle Riforme si sarebbe spartito 200mila euro. Salvo per prescrizione nel processo per i tafferugli con la polizia nella sede leghista di via Bellerio a Milano (resistenza a pubblico ufficiale), Calderoli è scampato al processo in corso a Verona per le camicie verdi (attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, struttura paramilitare fuorilegge) grazie a una legge ad personam e all’insindacabilità regalatagli dal Senato (contro cui però la Procura ricorrerà alla Consulta).
Caparini Davide: Salvo per prescrizione nel processo per resistenza a pubblico ufficiale nel processo sui tafferugli con la polizia durante una perquisizione nella sede leghista di via Bellerio a Milano.
Castelli Roberto: Indagato per abuso d’ufficio patrimoniale per alcune consulenze facili al ministero della Giustizia durante il secondo governo Berlusconi, s’è salvato grazie al voto del Senato, che nel dicembre 2007 gli ha regalato l’immunità totale per i suoi presunti reati ministeriali, negando l’autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Roma. Per gli stessi fatti la Corte dei Conti l’ha condannato a rimborsare un danno erariale di 98.876,96 euro e gliene ha contestato un altro di circa 400 mila euro.
Maroni Roberto: Condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, in relazione ai tafferugli durante la perquisizione della sede leghista di via Bellerio a Milano. Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il terzo.
Stefani Stefano: Indagato a Roma per concorso in truffa ai danni dello Stato e riciclaggio, ha ottenuto la richiesta d’archiviazione del procedimento perché la Procura non ha potuto usare le intercettazioni indirette che facevano sospettare qualcosa di poco chiaro nella vicenda dei finanziamenti pubblici al quotidiano «Il Giornale d’Italia». In pratica, come molti suoi colleghi parlamentari, anche Stefani è un miracolato dalla legge Boato che – prima della sentenza della Consulta del 2007 – rendeva inutilizzabili le intercettazioni in cui compariva la voce di un eletto dal popolo.
Scandalo Lega. Giulietto Chiesa su “Il Fatto Quotidiano”: Come dicono gli oratori prolissi: sarò breve. Questa faccenda della Lega Nord mi fa venire in mente due o tre cose (tra le tante). La prima è che là dentro, nel Palazzo, il più sano ha la rogna. Voglio dire che l’intreccio delle complicità e dei ricatti reciproci fa sì che ci sia un dossier per ognuno. E che, all’occorrenza (se qualcuno rompe l’omertà) questo fascicolo vedrà la luce. Nel caso specifico la Lega, espulsa dal potere, rompeva le scatole al nuovo potere della troika. Così adesso sappiamo di quale tempra fosse forgiato quel cosiddetto “partito”. Lo sapevano tutti, lassù, nel Palazzo. Adesso è uscito il dossier. Ed è cominciata la caccia a quel serbatoio di voti che se ne va in libera uscita. Naturalmente bastava guardare quelle facce, quei gesti, quella volgarità becera, quell’ignoranza che trasudava da ogni gesto di quegli “eletti del popolo” che divennero perfino ministri del governo italiano, per capire dove eravamo arrivati. Ma ve li ricordate i giornalisti, e i politici, che nei talk show, s’inchinavano di fronte al ludibrio? Ve lo ricordate il Presidente della Repubblica che stringeva le mani a uno che si era appena pulito il culo con la bandiera tricolore, e che sputava sulla Costituzione Repubblicana?
La seconda cosa che mi viene in mente, appunto, è la straordinaria ipocrisia del sistema politico e informativo italiano. Che adesso, dopo avere espulso Bossi, gli tributa gli onori di grande leader rinnovatore. Perché lo fanno? Perché erano suoi complici nel degrado. Lo salutano rendendogli gli onori, come in un simbolico ammainabandiera. Pensano al loro tramonto, incerti se sarà nel silenzio o se dovranno scappare inseguiti dai forconi.
SCANDALO LEGA NORD: LA REAZIONE DEI LEGHISTI. Come fossi un appassionato di antropologia, analizzo la reazione allo scandalo dei leghisti (dirigenti, militanti, simpatizzanti e semplici elettori). Le risposte sono in continuo mutamento, anche in considerazione del procedere dello scandalo e del susseguirsi di notizie, ma si riescono comunque ad intravedere delle macro categorie . Ecco quelle che ho intravisto finora:
il complottista, per lui è tutto un complotto ordito dal potere imperante che, a pochi giorni dalle elezioni amministrative (ma guarda che caso!!!), tenta di colpire la lega in quanto unica opposizione. Non crede a quanto scritto dai magistrati, ma considera quest'ultimi "soldati" al servizio dei potenti. Bossi è solo un eroe sognatore e per questo viene colpito. E i poteri forti del complotto? Il governo Monti, il Sud, Roma, gli alieni, i puffi, cambia poco. Ogni complottista trova il giusto colpevole. La cosa importante è urlare a voce alta al complotto, cercando magari anche le prove per smascherare i complottisti;
l'incredulo, sono due giorni che, faccia sgomenta e smorfia di dolore scolpita sulla bocca, il nostro leghista continua a ripete: non ci credo, non è possibile. E' lì che turbina le mani dinanzi al viso, come a scacciare la dura verità. Ma è troppo difficile accettare questa verità. Troppo difficile. Per questo si rifugia in un limbo nel quale non deve porsi domande. Un limbo di incredulità nel quale non servono domande o risposte. Basta non credere alla cosa per non porsi il problema. Semplicemente non accetta la questione;
il camicio verde, è un pò che "il Bossi" lo contesta sottovoce (anche perchè in lega, almeno fino a ieri, chi contestava il "capo" a voce alta veniva accompagnato rapidamente alla porta). Almeno da quando ha smesso di parlare di fucili, secessioni, indipendenze ed altre amenità. Lui è un soldato. E un soldato è fedele alla bandiera, non al generale. Morto un generale se ne fa un altro. Fosse per lui, la secessione partirebbe domani mattina. Ma non spreca energie a dire "ve lo avevo detto che il Bossi si era rammollito". No. Risponde alla scandalo aizzando i suoi per partire alla guerra contro tutto e tutti;
il duro e puro, per lui, se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. Fosse anche il Trota. Per lui la lega è una fede. E come per le religioni, o si crede o non si crede. Bossi deve mettersi "di fianco" (non da parte, si badi bene), ma la lotta continua. Difficile fargli notare che fino a ieri, quelli come lui dicevano che "Bossi è la lega e la lega è Bossi". E quindi, se cade il "capo", deve cadere pure la lega. Lui è duro e puro. Lui è un leghista col membro sempre in tiro. Scandalo o non scandalo, va dritto per la sua strada;
il caritatevole/compassionevole, per lui l'Umberto non è da mettere in discussione. E' la malattia che l'ha reso facile vittima del "cerchio magico". E' la malattia che non gli ha fatto capire quanto accadeva intorno a lui. E i veri delinquenti, quelli del cerchio magico, ne hanno approfittato. Inutile fargli notare che fino a ieri Bossi guidava la lega e, quella che oggi agli occhi dei caritatevoli è descritta come una malattia così invalidante per il suo intelletto, aveva già colpito il Senatur;
il barbaro sognante, finge di essere triste, ma è da un pezzo che sogna una lega guidata da Maroni. Ma bisogna essere cauti. Il rischio di prendersi del Giuda è altissimo. Ecco perchè reagisce in modo anonimo allo scandalo. Si, ogni tanto butta lì qualche frase del tipo : bisogna fare pulizia, ricominciare; ma lo fa cautamente. Tanto ormai, lo scettro della lega è in mano a chi ha gli occhiali rossi e i baffetti da impiegato del Catasto anni '50;
il veneto, lui è il più contento. Lui vuole solo la Serenissima e il Leone di San Marco e con i lombardi spocchiosi ha poco da spartire. Tosi o Zaia, basta che si torni in Veneto a sbraitare frasi sconnesse sull'indipendenza. Lo scandalo serve solo a rincarare la dose:basta con 'sti lombardi che se la tirano e ci considerano solo dei contadinotti ignoranti che spussano anca se coi sghei;
il lombardo, esattamente complementare al veneto, il lombardo però ha una carta in più. Finora la lega nord era "lombardocentrica" e questo scandalo può far perdere potere in lega alla Lombardia. Maroni non è che lo esalti (nonostante le apparenze, Bobo è troppo berluschino), ma almeno è varesotto. Bisogna serrare i ranghi intorno a Bobo. E i veneti fa mia i barlafus!
la pasionaria Giovanna "Brambilla" D'arco come la pulzella d'Orleans, anche la "sciura Maria" ha le visioni. E le sue visioni hanno il volto dell'Umberto di 20 anni fa, lontano anni luce da quello sofferente di oggi, con lo spadone dell'Alberto in mano, ad indicare la strada. Lo scandalo? Niente è più importante della missione dell'Umberto. Se davvero ha rubato, poco importa.Lui è la guida, il condottiero, il sogno di libertà. Lui può anche rubare. Lui ha quasi dato la vita per la Lega e niente e nessuno potrà metterlo in discussione. E poi c'è la battaglia di Lepanto da rievocare.....;
il "solato", sono 20 anni che si dedica anima e corpo al sogno leghista. Sono 20 anni che si beve tutte le promesse urlate dal palco di Pontida. Ha investito anche soldi nella lega. Ha creduto a tutto. Ora deve affrontare la dura realtà. L'hanno fottuto. L'hanno fregato. Gli hanno dato una "sola" colossale. Una "sola" lunga più di 20anni. E con chi se la deve prendere? Ma non è arrabbiato con Bossi. E con se stesso che se la prende. Si copre il viso. Non basta dire "per me la Lega non rappresenta più niente". Non basta strappare la tessera del partito. E' della sua vita che sta parlando. E lui alla Lega ci ha creduto davvero. Si è preso del razzista, dell'ignorante, del barbaro, dello xenofobo. Si è pure messo le corna celtiche sul prato di Pontida. Come può ora dimenticare tutto? Si odia;
il nostalgico depresso, che bei tempi quelli. Le lacrime gli solcano il viso, scivolando lentamente però. Non sono lacrime di disperazione. Sono lacrime di nostalgia. Più salate. Più lente. Più dolorose e profonde. Quante "polentate" a cantare contro "Roma Ladrona", quanto orgoglio addentando la salamella appena cruda o carbonizzata, mentre si cercava di ricordare quella canzone cantata dagli alpini. Quanta vita trascinata via dal tempo. Quanti sogni, quante speranze. Il futuro è cupo. Meglio allora prendere un bicchiere di rosso corposo, solo un pò legnoso, e tentare di fermare le lacrime asciugandole con i ricordi. Il futuro è nel passato. Un passato che non tornerà. Per questo si deprime. Quant' era verde (padano) la mia valle....Molte altre "figure" si stagliano nell'orizzonte dello scandalo, e molte altre reazioni si paleseranno.
Nessuno però ancora ha detto le paroline magiche che noi non leghisti vorremmo sentire: I SOLDI CHE HAN RUBATO, SONO SOLDI ITALIANI E VANNO RESTITUITI.
Anni fa, ai tempi in cui si andava in giro per il mondo a promuovere le imprese lombarde, si presentava agli interlocutori stranieri la “Milano Da Bere” e il repertorio di dati e cifre sulle «Eccellenze di Lombardia»: una regione più ricca, più grande, più popolosa di oltre la metà dei Paesi che fanno parte dell' Unione Europea, prima in Italia per ricchezza prodotta, per numero di aziende, per importazioni, esportazioni, produzioni industriali, colture agricole, prima per numero di università, per qualità delle cure mediche, per formazione professionale, numero di brevetti registrati ogni anno e via elencando. Oggi scopriamo che fra i primati della Lombardia c' è anche quello di essere nel gruppo di testa con Calabria e Puglia per numero di consiglieri regionali inquisiti. Per carità, nessuno è da considerarsi colpevole fino a sentenza definitiva, ma è difficile immaginare che in tutti questi casi - e le inchieste in corso sono davvero tante - magistrati diversi abbiano preso un abbaglio o peggio siano strumento di un misterioso complotto. La giustizia dei tribunali ha tempi lunghissimi e l'attesa della verità giudiziaria è popolata e animata da sospetti, da complicità, da connivenze, da ricatti reciproci che nulla hanno a che fare con il buon governo. E nulla hanno a che fare con i colori od ideologie politiche. Nel marasma generale della sub cultura massonico - mafiosa, chi più, chi meno; chi di sinistra, chi di destra; chi del sud, chi del centro e chi del nord dell’Italia: si è tutti uguali. Quindi meglio non essere ipocriti e, quindi, meglio doverosamente tacere anziché essere smentiti da fatti sopravvenuti che ci tacciano per la vergogna.
ROMA LADRONA? NO. MILANO LADRONA!
Quattro su cinque secondo Barbara Massaro su “Panorama”. Per l’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale della Lombardia è record assoluto. Sale infatti a quattro il numero di indagati a vario tra i membri originari (cioè eletti alle consultazioni del maggio 2010) dell’Ufficio di Presidenza. L’ultimo in ordine di tempo è il Presidente del Consiglio Regionale lombardo, il leghista Davide Boni: l’ipotesi di reato è corruzione per un giro di tangenti milionarie che sarebbero state intascate nell’ambio dei lavori per la realizzazione di alcuni centri commerciali dell’hinterland. Ma Boni non è certo il primo uomo che al Pirellone ha dei guai con la giustizia. Proprio nel suo stesso ufficio si salva solo Carlo Spreafico (Pd), l’unico tra i cinque membri della presidenza a non essere finito sotto inchiesta. Insieme a Boni ci sono Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni, ex presidente della Provincia di Milano, ex vicepresidente del Consiglio; nel 2011 è stato indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito al partito; Franco Nicoli Cristiani (pdl), ex vicepresidente del Consiglio Regionale, già assessore all’Ambiente e al Commercio, arrestato a Brescia a fine 2011 per corruzione nel settore delle discariche e per un giro di tangenti relative allo smaltimento di rifiuti tossici nell’area del cantiere della BreBeMi; l’ex assessore all’ambiente Massimo Ponzoni (pdl) in carcere a Monza per bancarotta, corruzione, concussione e finanziamento illecito dopo essersi costituito nel gennaio 2012. Nella lunga storia del governatore Roberto Formigoni in Regione però sono tanti gli assessori e consiglieri finiti nei guai con la giustizia:
Guido Bombarda, ex assessore alla Formazione (pdl): arrestato nel 2004 per corruzione e tangenti. Al centro delle indagini della Finanza decine di corsi di formazione inesistenti organizzati, secondo l’accusa, attraverso la costituzione di società di comodo attraverso i quali veniva prodotta falsa documentazione attestante lo svolgimento di attività didattiche mai realizzate o comunque prive dei requisiti previsti, proprio per ricevere finanziamenti da enti pubblici;
Piergianni Prosperini, ex assessore al Turismo (pdl): arrestato 2 volte nel 2009 e nel 2011 per corruzione ed evasione fiscale. Ha patteggiato tre anni e cinque mesi;
Nicole Minetti, consigliere pdl: è in corso il processo per favoreggiamento della prostituzione;
Gianluca Rinaldin, consigliere pdl: è in corso il processo per corruzione e truffa e finanziamento illecito per la campagna elettorale del 2005;
Monica Rizzi, assessore allo sport (lega nord), indagata nel 2011 per presunti dossieraggi a favore di Renzo Bossi;
Daniele Belotti, assessore al territorio (lega nord), indagato per i suoi rapporti con i tifosi dell’Atalanta, l’ipotesi di reato è concorso esterno in associazione a delinquere;
Giancarlo Abelli, ex assessore alla sanità (pdl), arrestato (ha poi patteggiato) per un giro di riciclaggio nell’ambito dell’inchiesta sul re delle bonifiche ambientali Giuseppe Grossi.
ROMA LADRONA? L'accusa dei pm: "Lega ladrona".
Dopo lo slogan di Bossi "Roma ladrona" di vent'anni fa, oggi si ipotizza un'altra musica: "Lega ladrona", secondo Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Agli inizi degli anni Novanta Bossi lanciò lo slogan più fortunato e vincente del marketing politico italiano, quel «Roma ladrona» che diventò la colonna sonora della discesa del Nord nei palazzi del potere. Oggi, esattamente vent’anni dopo, proprio al Nord, purtroppo si ipotizza un’altra musica: «Lega ladrona», sostengono i pm di Milano che accusano il presidente del consiglio regionale lombardo, Davide Boni, leghista, di essere il collettore di tangenti (almeno un milione di euro) destinate al partito. Non crediamo sia vero, ma il solo fatto che un’accusa simile possa essere per la prima volta ufficializzata (se si esclude l’ormai archiviato caso Enimont) azzera presunte differenze che erano state spacciate addirittura per antropologiche. Anche per la Lega è arrivato il momento di fare i conti forse con debolezze umane oppure, sarà la storia a dirlo e noi ci auguriamo che sia così, con la follia di magistrati politicizzati. Si sa, le malattie colpiscono più facilmente quando il fisico è debole e stressato. E oggi quello della Lega è un corpo vulnerabile, provato da lotte intestine soffocate per mesi, forse anni, appesantito da un leader confuso diventato una macchietta dell’eroe che fu, azzoppato da una linea politica senza sbocco.
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI? Sembra di sì! Mercoledì 7 marzo 2012: Il leghista Boni indagato per tangenti. Nessuna traccia della notizia su 'la Padania'!
Centinaia di migliaia di euro di tangenti. Il leghista Davide Boni, presidente del consiglio regionale lombardo, è indagato per corruzione nel nuovo scandalo che ha colpito il Carroccio, l'accusa dei Pm è di aver ricevuto tangenti per oltre un milione di euro finiti poi in mano ad esponenti locali della Lega Nord ... ma nessuna traccia della notizia sul quotidiano leghista 'la Padania' ...Davide Boni, presidente del consiglio regionale lombardo, è indagato dalla procura di Milano. Si parla di un giro di tangenti da un milione di euro e, secondo i procuratori, una parte sarebbero finiti nelle casse della Lega. Nel calderone, insieme a Boni, ci sono Ghezzi – capo della segreteria dello stesso -, l’immobiliarista Zunino, il consigliere provinciale – anche lui leghista – Marco Paoletti, Edoardo Sala (ex sindaco di Cassano d’Adda), l’architetto Michele Ugliola e suo cognato Gilberto Leuci. Insomma, una notizia di primo piano per qualunque giornalista, così come pubblicato su tutta la stampa nazionale, ma non per quelli de “La Padania” che, nella prima pagina di mercoledì sette marzo 2012, non ne parla nemmeno per sbaglio, preferendo continuare l’assurda polemica lanciata da Bossi sul trasferimento a Padova del boss Riina Jr. e la solita tiritela: “I ladri ed i mafiosi sono sempre i meridionali”.
ROMA LADRONA? Secondo “La Repubblica”: lo è anche Milano ed i leghisti (quelli duri e puri). Un'altra inchiesta della Procura di Milano scuote i piani alti della Regione Lombardia e soprattutto squarcia un velo su un presunto giro di tangenti da oltre un milione di euro che sarebbero finiti agli esponenti locali della Lega Nord. Dopo i casi di mazzette che hanno riguardato Filippo Penati, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni - e dunque nell'ordine un esponente del Pd e due del Pdl - gli inquirenti milanesi sono ora sulle tracce di versamenti illeciti utilizzati, secondo l'accusa, dal Carroccio in ambito territoriale. Uno dei più noti esponenti lombardi del partito guidato da Umberto Bossi, il maroniano Davide Boni, attuale presidente del consiglio regionale, è finito indagato per corruzione (una decina di episodi), assieme al capo della sua segreteria, Dario Ghezzi, e a Marco Paoletti, fino a qualche mese fa consigliere provinciale della Lega, poi sospeso e passato al gruppo misto.
I fatti contestati. Gli altri indagati sono l'immobiliarista Luigi Zunino (ex numero uno di Risanamento), Edoardo Sala (ex sindaco di Cassano d'Adda), l'architetto Michele Ugliola e suo cognato Gilberto Leuci. Boni e Ghezzi, secondo la Procura, "utilizzavano gli uffici pubblici della Regione come luogo d'incontro per raggiungere accordi o per la consegna dei soldi". Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo e del pm Paolo Filippini, Boni e Ghezzi, a cui la guardia di finanza, nel corso di una serie di perquisizioni, ha notificato un'informazione di garanzia, avrebbero gestito "affari illeciti" e spartito tangenti che l'architetto Michele Ugliola e il cognato Gilberto Leuci avrebbero concordato con alcuni imprenditori, tra cui Luigi Zunino e Francesco Monastero (legato al gruppo Sile Costruzioni).
Il business dei centri commerciali. Il tutto sarebbe avvenuto affinché alcuni amministratori locali, anch'essi destinatari di parte dei profitti illeciti, favorissero gli interessi immobiliari degli imprenditori in diverse aree di Milano e dell'hinterland, soprattutto per la realizzazione di centri commerciali. In alcuni casi si tratta di progetti ancora "attuali". Boni, in particolare, avrebbe ricevuto tra il 2008 e il 2010 (quando era assessore regionale all'Edilizia e al territorio) buste di contanti anche nei suoi uffici in Regione. Mazzette per un totale di oltre un milione di euro, fra soldi promessi ed effettivamente versati, finiti anche nelle mani di Ghezzi e che sarebbero andati non nelle tasche dei due ma - questa è l'ipotesi degli inquirenti - a finanziare in ordine sparso le iniziative estemporanee della Lega, attraverso esponenti locali. E' per questo che i pm stanno valutando anche la possibilità di contestare il reato di finanziamento illecito ai partiti. Un quadro accusatorio che intende far luce su una sorta di 'sistema Lega' che non tocca via Bellerio, ma è basato su un metodo di rastrellamento e di distribuzione di profitti illegali, accomunato nei corridoi della Procura al vecchio meccanismo di Tangentopoli.
La replica di Boni e l'attacco delle opposizioni. "In relazione ai fatti oggi contestati anticipo fin d'ora la mia totale estraneità", è stato il primo commento di Boni dopo la notizia dell'avviso di garanzia. "Nel contempo confermo la mia piena disponibilità a chiarire la mia posizione e la mia estraneità con gli organi inquirenti, in modo da poter fare piena luce sulla vicenda nei tempi più rapidi possibili". Ma il il capogruppo del Pd in Regione Lombardia, Luca Gaffuri, dopo una riunione fra i gruppi di opposizione, chiede di "andare al più presto al voto" e invoca "subito le dimissioni di Boni". Alla richiesta di Gaffuri si sono associati anche Idv, Sel e Udc (ma quest'ultima ritiene con il capogruppo Giammarco Quadrini che "questo consiglio regionale debba andare avanti con il proprio mandato"). Boni è stato poi intervistato per la trasmissione 'Forte e chiaro' su Antenna 3. "E' naturale che un avviso di garanzia è un avviso di garanzia, non è il primo né l'ultimo che ho ricevuto. Riferendosi a un precedente caso giudiziario in cui fu coinvolto quando era presidente della Provincia di Mantova, Boni ha ricordato: "A quel tempo ci fu una condanna a otto mesi in primo grado e un'assoluzione in appello perché il fatto non sussisteva. Questa fu allora la situazione, per cui l'affronto serenamente. E' naturale che nel rispetto degli inquirenti credo che ci siano tutti i passaggi che poi col tempo vedremo. Sono sereno, mi dispiace non aver potuto seguire il consiglio regionale".
Formigoni: "Presunzione di innocenza". Sul caso interviene il presidente della Regione, Roberto Formigoni: "Mi auguro che Davide Boni riesca presto a dimostrare la sua totale estraneità - fa sapere il governatore - E' chiaro che seguiamo e seguiremo con attenzione l'evolvere delle vicende, ma vale il principio della presunzione di innocenza fino a giudizio emesso". Formigoni ha aggiunto di lasciare a Boni qualsiasi valutazione su eventuali dimissioni dalla presidenza del consiglio regionale. "Se fossero dimostrati degli atti dannosi nei confronti della Regione Lombardia - ha poi assicurato Formigoni a margine della presentazione di un libro - ci costituiremo parte civile come parte lesa: però attendiamo di sapere di più".
Le reazioni della Lega. Renzo Bossi, il figlio-consigliere regionale del Senatur, per tutta la giornata ha evitato di rispondere ai giornalisti. E' stato visto parlare al telefono più spesso del solito. Ma "non dico niente", ha detto a più riprese. E così alle cronache restano per adesso le paure di un complotto anti Lega. "Non dobbiamo chiedere soldi a nessuno, è sicuramente una coincidenza strana che si stia montando tutto un sistema intorno alla Lega, che è rimasta l'unica forza politica d'opposizione", ha detto l'europarlamentare Matteo Salvini. Il tesoriere del movimento, Francesco Belsito, ha assicurato: "Siamo estranei a fatti dove si fa riferimento a ipotetici versamenti presso la cassa del partito". Si capirà nelle prossime ore che cosa farà Boni di fronte al montare di quello che qualcuno ha già comunque ribattezzato il 'sistema Lega'.
Tutto cominciò a Cassano d'Adda. Nell'ambito dell'inchiesta - nata da una costola dell'indagine su presunte tangenti che ha coinvolto la passata amministrazione di Cassano d'Adda e che nel maggio 2011 ha portato in carcere l'allora sindaco Edoardo Sala - i militari della guardia di finanza hanno perquisito gli uffici di Boni e Ghezzi in Regione. Il blitz ha riguardato anche Zunino e Monastero, entrambi indagati assieme a Ugliola, Leuci e Paoletti. Boni - il quale ha dichiarato la sua "totale estraneità" ai fatti e ha dato la sua "piena disponibilità a chiarire" la sua posizione - e Ghezzi, come si legge nel decreto di perquisizione, "utilizzavano gli uffici pubblici della Regione come luogo di incontro per concludere accordi nonchè per la consegna dei soldi". Per gestire "affari illeciti", insomma, incontrando anche di recente gli altri coindagati.
Il sistema delle mazzette. Secondo i pm "è dimostrato il pieno coinvolgimento" di entrambi nel giro di mazzette, nel quale Ugliola - già coinvolto alla fine degli anni Novanta nella Tangentopolì di Bresso - fungeva da raccordo fra il livello locale e regionale. Un sistema che, a detta degli investigatori, riguarda anche altri piccoli imprenditori e che ha continuato a funzionare fino a qualche mese fa. A carico di Boni e del suo stretto collaboratore ci sono una serie di interrogatori resi a investigatori e inquirenti dai coindagati, tra cui un paio di verbali della fine dell'anno scorso di Paoletti e dichiarazioni dello stesso Ugliola (il primo a collaborare con i magistrati) oltre a una serie di intercettazioni, tra cui diverse telefonate tra Paoletti e Monastero. Alcuni atti dell'inchiesta sono stati trasmessi per competenza alla Procura di Monza, che indaga sul cosiddetto 'sistema Sesto' (in cui è coinvolto anche Penati), perché lo stesso Ugliola avrebbe intrattenuto rapporti con amministratori e imprenditori per progetti a Sesto San Giovanni.
Il flusso delle tangenti. Dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni messe a verbale da alcuni indagati - tra cui lo stesso Paoletti - Boni e Ghezzi avrebbero trattato un milione di euro dal 2008 al 2010. Denaro in contanti che, come risulta dalle conversazioni telefoniche e dagli interrogatori, il presidente del consiglio regionale e il capo della sua segreteria non avrebbero intascato, ma in qualche modo sarebbe arrivato ad esponenti locali del Carroccio: si suppone per finanziare iniziative del partito in ambito territoriale. Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto Robledo e del pm Filippini, il denaro veniva versato dagli imprenditori per ottenere facilitazioni per la realizzazione, in particolare, di centri commerciali nell'hinterland milanese. Un sistema nel quale a fare da tramite ci sarebbe stato l'architetto Ugliola, che avrebbe avuto rapporti con altri amministratori dei comuni della cintura di Milano e anche con quelli di Sesto San Giovanni. Alcuni atti dell'inchiesta sono stati trasmessi ai pm Walter Mapelli e Franca Macchia, che stanno indagando sul cosiddetto 'sistema Sesto' in cui è coinvolto anche Filippo Penati.
La maledizione dell'ufficio di presidenza. Il leghista Davide Boni è il quarto indagato nell'ufficio di presidenza del consiglio regionale in questa legislatura. Dei cinque componenti originari, eletti il 15 maggio 2010, solo uno il segretario Carlo Spreafico (Pd) non ha ricevuto avvisi di garanzia. Il primo a lasciare l'incarico per motivi giudiziari è stato Filippo Penati (Pd), ex sindaco di Sesto San Giovanni, ex presidente della Provincia ed ex capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani. Si è dimesso da vicepresidente dopo essere stato indagato per tangenti in una inchiesta sulla riqualificazione delle aree ex Falck e Marelli a Sesto San Giovanni e ora fa parte del gruppo misto. Al suo posto è stata eletta come vicepresidente Sara Valmaggi (Pd). Dopo Penati è toccato all'altro vicepresidente: Franco Nicoli Cristiani (Pdl). L'ex assessore all'Ambiente e al commercio è stato arrestato lo scorso novembre per tangenti. Scarcerato il 24 febbraio, nel frattempo si è dimesso non solo da vicepresidente ma anche da consigliere regionale (ruolo che aveva ricoperto ininterrottamente dal 1995): nell'ufficio di presidenza ha preso il suo posto un altro consigliere del Pdl, Carlo Saffioti. L'ultimo in ordine di tempo a essere arrestato è stato Massimo Ponzoni (Pdl), che si è costituito il 17 gennaio 2012, rientrato dall'estero dopo aver saputo che la Procura di Monza aveva emesso un provvedimento di arresto con l'accusa di bancarotta nell'ambito dell'inchiesta sul fallimento della società Pellicano. Quello stesso giorno si è dimesso da segretario del consiglio, dove lo ha sostituito Doriano Riparbelli.
LEGHISTI OMERTOSI E RAZZISTI? Boni, il cowboy della Lega cresciuto nel mito di Borghezio raccontato da Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”.
Uomo di fiducia dell'europarlamentare Mario Borghezio, il presidente del consiglio regionale lombardo Davide Boni si è sempre distinto nel Carroccio per gli attacchi contro i musulmani e per gli stivali camperos da cowboy con cui calcava le sagre leghiste. Ora è indagato per corruzione. Dice di essere estraneo ai fatti. E in Lega è partita la corsa a difenderlo, ma, dati i tanti nemici, c'è già chi pensa all'espulsione dal movimento. C’è un episodio che racconta nel miglior modo possibile la vita politica di Davide Boni, presidente del consiglio regionale lombardo della Lega Nord indagato per corruzione per una variante del piano urbanistico del comune di Cassano D’Adda. Un giorno, durante le polemiche per la scuola Islamica di via Ventura nel 2006, l’allora assessore all’Urbanistica arrivò di fronte all’edificio con degli stivali da cowboy bianchi per protestare tutto il suo dissenso contro l’occupazione islamica. «Perché se gli islamici vogliono la scuola, allora io chiedo una scuola per fare la cassoeula milanese!», spiegò in una sorte di milanese stretto con vocione alla Mario Brega di fronte ai giornalisti che rimasero tra il basito e lo stupefatto nel prendere appunti. È una frase del tutto insensata per un politico normale, quasi come i deliri di Bossi su Monti. Resta però che l’abbinamento cassoeula-mussulmani ha sempre infiammato la pancia padana, che verso personaggi come Boni o come il suo mentore Mario Borghezio ha sempre avuto enorme rispetto e venerazione. Non si tratta di un colletto bianco come il tesoriere Francesco Belsito, a cui i militanti rinfacciano i soldi spediti in Tanzania. Nè un Alessandro Patelli, l’ex tesoriere condannato per la tangente Enimont negli anni '90. E non stiamo parlando neppure di un consigliere di provincia preso con le mani nella marmellata per qualche soldo preso a una sagra di paese.
L’elettorato, infatti, venera tipi come Davide Boni. Alle manifestazioni sono in tanti spesso a chiedere dove «sta il Boni?». Perchè vogliono salutarlo e stringergli la mano, dopo averlo visto sulle televisioni locali urlare contro «le barbe lunghe degli imam». E proprio qui sta il problema dell’indagine partita nei confronti di questo leghista nato a Milano nel 1962, tra i più giovani presidenti di provincia a Mantova dal 1993 al 1997, quando aveva appena 25 anni. Perché la base ha sempre visto Boni come uno dei duri e puri del Carroccio. Come un Matteo Salvini. Personaggi intoccabili dalla magistratura, secondo il severo (?) giudizio padano. Non a caso, alle ultime elezioni Boni è stato il più votato tra i leghisti in regione con più di 13 mila preferenze, aumentando il suo consenso di 2mila unità rispetto lo scrutinio del 2005. Sposato con due figli. Amante delle macchine da corsa, ha una Porche Carrera, tra i più ricchi del consiglio regionale, il reddito del 2009 indica 217mila euro, Boni è stato tra i leghisti quello che ha speso di più per l’ultima campagna elettorale: 50 mila euro. Tutti di tasca propria. Ma nel Carroccio, va detto, non era più venerato come durante l’ultimo mandato di Roberto Formigoni in Lombardia. La voglia di visibilità che lo ha sempre contraddistinto in questi anni, (a volte è stato beccato pure a fumare in consiglio in spregio a ogni regola), lo ha inimicato alla maggior parte del gruppo consigliare leghista. I battibecchi con il capogruppo Stefano Galli sono all’ordine del giorno, in particolare sulle competenze di chi doveva intervenire sui vari argomenti all’ordine del giorno. In via Bellerio si racconta che negli ultimi tempi fosse rimasto un po’ isolato anche nello scontro tra i barbari sognanti di Roberto Maroni e il cerchio magico del Senatùr. Anche per colpa dell'indagine che lo ha travolto questa mattina mentre presiedeva in consiglio regionale. Un'inchiesta nata lo scorso anno che aveva coinvolto l'allora assessore di Cassano D'Adda Marco Paoletti, ora consigliere provinciale del Carroccio, uomo di fiducia proprio Boni e presunto tramite nel giro di tangenti. Forse anche per questo motivo, il cowboy del Carroccio aveva fatto fatica a prendere posizione. E qualcuno glielo aveva persino fatto presente. Soprattutto a Pavia dove era stato inviato come mediatore tra le fazioni in guerra, senza ottenere risultati tangibili. Il suo gruppo di riferimento, poi, è sempre stato quello di Borghezio e di Max Bastoni, attuale consigliere comunale di Milano, famoso per una cartello elettorale dal nome «Bastoni per gli immigrati». È la fazione leghista dei duri e puri che non le mandano a dire a meridionali, musulmani, comunisti o massoni. Sono vicini a iniziative come quelle della Guardia Padana, spesso mal tollerate in particolare dai maroniani che negli ultimi anni hanno cercato di smussare gli angoli dei discorsi politici dello stesso Senatùr.
Qualcuno ha una ricetta per Bossi? La domanda è posta da Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.
Ormai alle sue sparate (tipo quella su Monti) non ci si fa più caso. Eppure basta leggere questa piccola antologia dei suoi deliri per chiedersi come sia possibile che uno così in Italia sia divenuto ministro, anziché essere curato. Umberto Bossi. Pallottole, fucili, secessione dura, attacchi del popolo, armi, revolver, ira dei popoli, mitragliatori, legnate, facce da spaccare: le dichiarazioni di Umberto Bossi su Monti sono solo l'ultimo capitolo di una lunga saga fatta di continui riferimenti alla violenza. Eccovi un campionario sintetico degli ultimi vent'anni:
«Quando avremo perso tutto, quando ci avranno messo con le spalle al muro, resta il fatto che le pallottole costano 300 lire». (23 settembre 1993);
«[Silvio Berlusconi] Dovrai scappare dal Nord di notte con tua moglie e i tuoi figli e le valigie. Hanno capito che tu sei mafioso». (15 settembre 1995);
«I ripetitori sono i nuovi carri armati del colonialismo romano, per quelli veri basterebbero le armi anticarro e con 100 mila lire gliene buchi uno, ma contro quelli non basta non pagare il canone, vanno buttati giù, perché non devono più trasmettere a spese nostre». (9 agosto 1996);
«Amici magistrati, il rischio è che ci sia una Pasquetta, ma più che una Pasquetta come quella del 1916 in Irlanda: non verrebbero 1.500 uomini a imbracciare il fucile; saranno 150.000 e il giorno dopo un milione». (18 aprile 1998);
«Se non passa il federalismo il nord torna alla secessione ma quella dura, senza mezze misure, senza alcuna mediazione con lo Stato italiano». (4 dicembre 2003);
«Finora gli è andata bene. Noi padani pagavamo e non abbiamo mai tirato fuori il fucile, ma c'è sempre una prima volta». (26 agosto 2007);
«Abbiamo il dovere morale di liberare il nostro popolo da questa Italia schiavista. Il potere colonialista imbecille non capisce che il popolo aspetta solo il momento per attaccare, e quel momento verrà». (8 dicembre 2007);
«Si va al voto, oppure facciamo la rivoluzione. Facciamo la lotta di liberazione. Ci mancano un po' di armi ma le troviamo». (23 gennaio 2008);
«Se necessario, per fermare i romani che hanno stampato queste schede elettorali che sono una vera porcata, e non permettono di votare in semplicità e chiarezza, potremmo anche imbracciare i fucili». (6 aprile 2008);
«Ho fermato trecentomila bergamaschi pronti a imbracciare il fucile». (8 aprile 2008);
«Se Berlusconi mi telefona gli faccio sentire il rumore del mio revolver». (8 aprile 2008);
«Avremo tutti il mitragliatore in mano e sarà un piacere portarmene un po' all'altro mondo». (8 aprile 2008);
«Se la sinistra vuole scendere in piazza abbiamo trecentomila martiri pronti a battersi. E non scherziamo, mica siam quattro gatti, verrebbero giù anche dalle montagne con i fucili, che son sempre caldi». (29 aprile 2008);
«Non sarà bocciato [il lodo Alfano], speriamo bene. Non si può sfidare l'ira dei popoli». (7 ottobre 2009);
«Noi siamo destinati a veder nascere la Padania, non c'è santo che tenga. La Padania sta a noi se farla in maniera pacifica o violenta: io preferisco la via pacifica, perché per l'altra via c'è sempre tempo a utilizzarla». (28 giugno 2010);
«Berlusconi porta in piazza la gente e sono tanti, di più. La Lega si unisce a quell'operazione con il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. Sono un sacco di milioni persone e sono incazzate». (14 agosto 2010);
«Ai giornalisti bisognerebbe dare quattro legnate». (20 agosto 2011);
Perché questi [i giornalisti] scrivono sulla mia famiglia e prima o poi vi spacchiamo la faccia o vi denunciamo». (31 ottobre 2011);
«Fate bene i conti. In Padania ci sono milioni di persone pronte a combattere». (18 settembre 2011);
«Monti rischia la vita, il nord lo farà fuori». (5 marzo 2012).
IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI
Raccolta di pensieri del leader leghista: SUD E MERIDIONALI
1996 (21 febbraio) -:"C'è un Nord che non ne può più di magistrati, insegnanti e carabinieri che si comportano come truppe coloniali e terrone".
1996 (29 febbraio - 5 agosto) -:"Il Cip deciderà probabilmente di far sgomberare gli italioti dalla Padania. Per esempio, il Nord è pieno di magistrati terroni".
1996 (20 agosto) -:"Dopo la nostra dichiarazione di indipendenza del 15 settembre, nascerà il Nuovo Stato Padano: le tasse pagate dalla gente del Nord rimarranno al Nord, e in Padania finalmente non avremo più giudici e insegnanti meridionali, ma solo gente del Nord".
1996 (21 agosto) -:"Questo Stato dei terroni getta la maschera e si svela razzista".
1996 (23 agosto) -:"I fischi contro di me all'Arena di Verona? Mi han fischiato i fascisti e i terroni, i fascisti meridionali organizzati dalla Cisnal".
1996 (12 ottobre) -:"Quì c'è un terrone che si vuole far passare per un grande magistrato, una sorta di uomo forte della politica... E c'è uno Stato che continua con il dilagante assistenzialismo, come dimostrano le quote latte per gli allevatori del Sud".
1997 (15 febbraio) -:"La Padania è stata invasa dai meridionali. I congolesi de Roma ci schiavizzano. Vogliono mandare al Nord migliaia di immigrati per reprimere la libertà individuale dei padani".
1997 (27 aprile) -:"La Lega ha in mano il Nord, meno Milano e Torino che sono piene di immigrati meridionali, che preferivano votare un pezzo di merda piuttosto che aiutare il Nord. Adesso sappiamo che la Lega non potrà mai vincere dopo ci sono immigrati meridionali. Adesso il movimento sa che questi signori andranno avanti fino alla colonializzazione del Nord. Il Nord non deve illudersi: se vuole la libertà se la deve conquistare, perché gli altri non sono persone perbene, sono razzisti e colonialisti... Ora al Nord è tutto più chiaro: il Nord ha fatto venire delle persone e gli ha dato da lavorare e da mangiare, e questi farebbero qualsiasi cosa contro il Nord".
1997 (28 aprile) -:"Il Nord deve guardarsi dagli immigrati meridionali, che pensano che qualcuno gli debba qualcosa: almeno il 50 per cento di loro sono razzisti, danno un voto etnico. Formentini è stato buono e generoso con loro, e guarda come l'hanno ripagato:nemmeno 10 voti, dai meridionali. Quattro anni fa non c'era Berlusconi, ma appena è arrivato il loro padrino l'hanno seguito subito. Io avrei messo delle regole precise e chiare contro questi mafiosi, a cui dobbiamo pure mantenere i parenti".
1998 (17 Febbraio) -:"Il Nord non può stare con una banda di mafiosi... Mentre si danno 800 mila lire ai giovani meridionali per trovargli un posto di lavoro lontano da casa, invece di tenerli lì a creare posti di lavoro per combattere la mafia, nello stesso momento ecco che ci perseguitano. E' un fatto razziale, il sistema di potere deve colpire tutto quel che può colpire il padano".
1998 (7 Settembre) -:"L'unica vera battaglia che deve impegnarci d'ora in poi è quella per battere il meridionalismo e creare un blocco padano. Il meridionalismo è una filosofia che ha imperato a lungo e può essere battuta solo da un Nord coeso. Chi non vota a favore della Padania? I meridionali, quelli che non sono bene inseriti nel Nord. Perchè tra loro sono uniti, vengono da una lunga tradizione partita con il Regno delle Due Sicilie. E se il Nord è disunito, il Sud unito fa la sua partita".
1998 (25 Ottobre) -:"L'ideologia meridionalista è un dramma sia per il Nord che per il Sud".
DAL QUOTIDIANO LEGHISTA "LA PADANIA".
------------------------------------------------------------------------------Meridionali somari…
La Padania - 24 Luglio 98 - "Lo Stato discrimina i laureati Padani - Il valori legale del titolo di studio favorisce i meridionali nei concorsi", di Gianluca Savoini. "I laureati Padani sono forse meno bravi di quelli sfornati a raffica dalle università meridionali?... Le votazioni di laurea presso gli atenei del Sud sono assai più elevate (di manica larga) di quelle ottenute dai giovani studenti padani. La qualità della preparazione, il rigore degli studi, la serietà degli esami in Padania si avvicinano agli standard europei, eppure una laurea ottenuta a Milano è del tutto equivalente ad una ottenuta a Messina. E nei concorsi, dove il valore legale del titolo di studio permette il conseguimento di un punteggio finale migliore, i meridionali risultano avvantaggiati rispetto ai più "selezionati" colleghi del Nord.
----------------------------------------------------------------------------- Meridionali delinquenti…
La Padania - 24 Agosto 98 - Umberto Bossi. "C'è la Padania che è stata avviata e dopo 1200 anni il Nord si riunisce politicamente. Se non riuscirà a farlo con concretezza allora è morto, perché la mafia , la camorra e la classe politica del sud potrà entrare come un coltello nel burro. E quelli non hanno bisogno di cambiare, restano i delinquenti che sono sempre stati".
---------------------------------------------------------------- Napoletani, calabresi, siciliani…
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. " L'unica soluzione per riempire l'università è stata quella di aprire in modo indiscriminato agli studenti provenienti dal Meridione. I risultati non si sono fatti attendere: in pochi anni la Bocconi si è trasformata, al punto che chi oggi vi entra per fare un giro, sente parlare solo calabrese, siciliano e napoletano."
------------------------------------------------------------------------------disprezzano l'onestà"…
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Non dimentichiamo poi che gli studenti meridionali che vengono a studiare a casa nostra togliendo il posto ai nostri ragazzi non dimostrano alcun genere di rispetto e di considerazione verso la città che li ospita, disprezzando l'onestà, il senso civico e la laboriosità dei suoi abitanti.
------------------------------------------------------------------------"…ci fregano il lavoro…"
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Il meridionale che viene a studiare a Milano ha una sola cosa in testa: fregare ad un padano un buon posto di lavoro.
------------------------------------------------------------------------"…sono leccapiedi italioti."
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Il settore università della Lega ha elaborato una proposta chiara: almeno l'85% dei posti nelle nostre università deve essere assegnato con priorità ai residenti in regione da un minimo di 5 anni. Padani devono essere anche i docenti: i leccapiedi italioti dell'Ulivo vanno dunque cacciati senza dubbi e ripensamenti. Solo così finalmente potremo dire, entrando nei nostri Atenei: qui si respira aria di casa nostra."
--------------------------------------------------------------------------- Battaglia tra Nord e Sud
La Padania - 15 Settembre 98 - " Il sonnifero romano e il non mutare delle cose " di Elettra (pseudonimo): Roma ha sempre avuto due colonie: il Nord enorme potenza economica, il Sud serbatoio di voti. E' chiaro che finché il giochetto tiene non sarà possibile rinnovare nulla. La battaglia questo punto è tra Nord e Sud. Eppure c'è chi non l'ha ancora capito.
-------------------------------------------------------------------…stufi di mantenere i meridionali…
La Padania - 1 Febbraio 99 - "Assistenzialismo o invasione, il risultato è lo stesso. Si tratti di mantenere le sovrastrutture politiche meridionaliste o di accogliere i clandestini, il tutto continua ad essere fatto a spese del Nord", di Carlo Stagnato: Noi padani, non vogliamo pagare la bella vita a tutti i diseredati di questa terra, ma siamo pure stufi di mantenere l'intero Mezzogiorno d'Italia.
--------------------------------------------------------I padani, gli italioti e gli extracomunitari
La Padania - 22 Novembre 98 - "Una società a tre caste", di Gilberto Oneto: La società italiana è oggi organizzata su tre caste: ci sono i padani, gli italioti e gli extracomunitari. I padani (con tirolesi, toscani e sardi) hanno tanti doveri e pochi diritti; gli italioti tanti diritti e pochi doveri e gli extracomunitari solo diritti.
---------------------------------------------------------------------------- Discriminare è giusto…
La Padania - 21 Luglio 99 - "Se discriminare significa essere liberi di scegliere", di Carlo Stagnaro: Da oggi è vietato introdurre nei concorsi pubblici vincoli relativi all'altezza, all'età e alla residenza dei candidati. Questo si aggiunge alla già vigente e tristemente nota Legge Mancino. "Donne, drogati e musulmani e handicappati hanno più diritti di noi Padani…" Noi oggi siamo costretti a discriminare alcuni nostri simili a favore delle donne, dei musulmani, dei meridionali, degli handicappati, dei drogati e così via. Nei fatti quest'ultimi hanno più diritti di noi, godono di una reale, sebbene parziale, impunità legislativa e hanno maggiori possibilità di far valere i propri diritti, veri o falsi che siano. …ed è un nostro diritto. E' un sacrosanto diritto di ogni individuo, insomma, quello di " discriminare " (cioè preferire) qualcuno a qualcun altro in base a criteri personali. Una società in cui non è possibile discriminare non è una società libera.
------------------------------------------------------------------------------ E vai col Cantanapoli…
La Padania - 11 Ottobre 99 - "La TV italiana: Nord off-limits". Non di rado vengono mandate in onda trasmissioni del tipo "Cantanapoli" o cose del genere. Senza contare i concerti di grandi personaggi della musica leggera nazionale quando si esibiscono guarda caso da Roma in giù: due nomi su tutti, Baglioni e Renato Zero". Uniche variazioni al tema sono il festival di Sanremo (nel quale comunque è sempre garantito uno spazio alla musica partenopea). Basta con la bellezza mediterranea… Nemmeno in un concorso stupido come Miss Italia le settentrionali riescono ad emergere in qualche modo. Anche quest'anno ha vinto una tipica bellezza mediterranea (per la cronaca Pugliese).
-------------------------------------------------------------------------------- Senza parole
La Padania - 29 Novembre 99 - "Scuola, al Sud piace la Lombardia. Più della metà dei candidati siciliani, in caso di assunzione, ha chiesto di andare ad insegnare in una regione del Nord". · ….le domande arrivano soprattutto - c'erano dubbi, essendo un concorso pubblico - dal Mezzogiorno, con Campania e Sicilia in testa, e 15 candidati su 100 sono disposti a trasferirsi in un'altra regione pur di ottenere il posto di lavoro".
------------------------------------------------------------------------ Contro l'agricoltura del sud
La Padania - 2 Dicembre 99 - "Le proposte del Governo della Padania". Il Governo della Padania in occasione dell'apertura dei lavori del Millennium Round a Seattle, condanna la posizione del governo italiano che ha dichiarato di difendere, all'interno della conferenza, l'agricoltura mediterranea, con l'esclusivo interesse delle regioni meridionali.
-------------------------------------------------------------------------------- Senza parole 2
La Padania - 25 Febbraio 2000 - " Concorsi regionali all'Inps ". …Tutte le volte che l'istituto deve assumere, fa un concorso che normalmente si tiene a Roma. La maggior parte dei partecipanti proviene per varie ragioni (cattiva informazione o scarso interesse per un posto nella pubblica amministrazione al Nord, mentre al Sud c'è più attenzione per questi concorsi) dalle regioni meridionali. E quindi la maggior parte degli assunti, anche in Padania, viene dal Sud.
--------------------------------------------------------------------------------Su Berlusconi
La Padania - 8 luglio 1998 - Pag. 1. "Berlusconi mafioso? 11 domande al Cavaliere per negarlo. Dai miliardi per comprare il terreno su cui costruì Milano 2 alle società con parenti di Buscetta". "Signor Berlusconi, chi le diede nel 1968 l’equivalente di 32 miliardi d’oggi per acquistare i terreni?". "Per quale motivo, Cavaliere, fece amministrare importanti quote della Fininvest alla società Par.Ma.Fid. di Milano? Sapeva che gestiva anche i patrimoni di boss mafiosi?". Pag. 2. Il catenaccio che sovrasta anche la pagina successiva recita: "Berlusconi mafioso? Al signore di Arcore la parola: convochi una conferenza stampa per rispondere a queste domande". Poi i titoli di questa seconda pagina. "Tra il 1968 e il 1979 Berlusconi eseguì aumenti di capitale per centinaia di miliardi. Soldi di chi?". "Perché, signor Berlusconi, lei si ostina a tacere? Dica l’identità dei suoi finanziatori". "Le 22 holding misteriose su cui indagano a Palermo". Pag. 3. Titolone centrale: "Un impero di prestanome. Berlusconi ci dica perché li ha usati dal 1968 al 1984". Occhiello di questo titolo: "Oltre gli ‘anonimi’ flussi finanziari, c’è un altro mistero da spiegare". Pag. 4. "Casalinghe e praticanti notai, queste furono le prime coperture di Berlusconi. Perché?". Il testo, lunghissimo, minuzioso, pieno di cifre e di dettagli, che stava sotto questi titoli era preceduto da una presentazione molto veemente. Qui, dopo aver ricordato "i fortissimi capitali" che avrebbero consentito a Berlusconi di mettere in moto una potente macchina edilizia, e la sospetta mafiosità di questi aiuti, si concludeva così: il Cavaliere "sveli questo mistero. E prosegua facendo cadere gli altri schermi che impediscono di capire le fonti di così tanto denaro e le successive, strabilianti, scelte gestionali. Parli, Cavaliere. Parli o taccia per sempre".
PREGHIERA PER LA PADANIA LIBERA
O Gesù dagli occhi buoni
fai morire tutti i terroni.
O Gesù dagli occhi belli
Fa Morire solo quelli.
Oh mio caro e buon Gesù
Fa che non ne nascan più
Fa sparire quella razza
che da noi quassù si piazza.
Nella tua grande gloria
Falli fuori dalla storia
Non si senta più parlare
neppur quelli d'oltremare.
Poni fine per favore
A quell'unico tuo errore
Per la tua onnipotenza
ti chiediam l'indipendenza
O Signore te lo giuro
noi qui al Nord vogliamo il muro
che sorretto da due pali
porti via i meridionali
Dillo pure a giove pluvio
fa venir n'altro diluvio
che sommerga con ragione
tutto quanto il meridione.
Fa in modo che mia figlia
Non sia "Ciccio" che la piglia
CHE SIAN BRUTTI, CHE SIAN MOSTRI
MA CHE SIAN SEMPRE DEI NOSTRI
Così Sia
INNO DELLA LEGA LOMBARDA
O Gesù d'amore acceso
Quanti soldi abbiamo speso
Per sfamare quei coglioni
che si chiamano terroni
sono giunti qui a Milano
dopo la rivoluzione
per riempire la Padania
con la disoccupazione.
Quando arriva il bel Natale
chi sta bene e chi sta male
se ne tornan giù in Sicilia
a trovare la famiglia
fino a Pasqua stanno giù
quei fetenti de terù
e tra feste e malattia
da laurà sen parla mia
Oh Signore te lo giuro
noi qui al Nord vogliamo il muro
che sorretto da due pali
porti via i meridionali
Alle sette di mattina
noi andiamo a lavorare
loro sono in una zona
a pregare Maradona
Se parliamo di lavoro
quelli esclusi sono loro
tutti fermi dietro ai muri
pronti a fare gli scongiuri....
per tirar la conclusione
sulla razza del terrone
che comprende quella sarda
voterem lega lombarda
Vittorio Feltri scatenato alla presentazione del libro di Marco Reguzzoni, ex capogruppo della Lega Nord alla Camera. “Gente del Nord”, questo il titolo della pubblicazione. Ed è proprio alla domanda sul grado di “leghismo” dell’ex presidente Silvio Berlusconi che il direttore bergamasco de Il Giornale sfodera tutta la sua verve. “Berlusconi non può essere definito un padano, perché è sempre lì a circondarsi di terroni. Fa persino scrivere gli inni ad Apicella, poi per quello nuovo ha scelto Maria Rossa Rossi, detta anche Apicella regina. Basta guardare le frequentazioni dell’ex presidente Berlusconi per capire quanto sia “terrone”. “È andato persino a una festa a Casoria. Che io non ci andrei manco a prendere un caffè a Casoria.....Anzi è proprio da lì che sono iniziati i suoi problemi, mi pare”. Poi una battuta sul federalismo. “Non passerà mai! Fatevene una ragione voi leghisti. Anche se facessimo un referendum a sud voterebbero tutti contro, perché vogliono sempre abbeverarsi alla tetta del nord, mentre a nord, i parenti del sud darebbero il colpo finale”. Reguzzoni sorride: “Lo dici perché sei un secessionista convinto”.
Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo – che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, oppure sul suo sito – si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota, termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”.
Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo.
Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale.
Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Secondo Carlo Crispo su “Il Denaro” la Lega ha deliberato la riapertura del Parlamento della Padania e di lottare per la secessione. La Lega però si è guardata bene dal chiudere la Giunta Regionale di Formigoni. Gli Onorevoli “Leghisti”, del Parlamento “Italiano” non hanno rassegnato le dimissioni, continuano a percepire i lauti stipendi “Italiani” riservati ai parlamentari “Italiani”. In una recente apparizione televisiva l’ex ministro leghista Maroni, ha tenuto a precisare che i politici della Lega sono persone serie , e neanche avesse la coda di paglia, si è affrettato ad aggiungere che, in buona sostanza, non bisognava essere tratti in inganno dalle apparizioni teatrali di “Pontida”. Infatti, in un bel palco, durante il corso di dette manifestazioni, compaiono personaggi, con elmo, corna, spade e scudi, tutti mascherati con abiti variopinti, che intonano brani musicali, che, a ben vedere, però, rievocano l’unità nazionale. In dette pittoresche manifestazioni, (in cui traspare qualche gene meridionale, se non altro per la decisa “Teatralità”, riconducibile al bisnonno di “Scarpetta”), si inneggia alla secessione. I Leghisti, per buona parte discendenti da meridionali emigrati, patiscono la cosiddetta “sindrome di Santa Chiara” nel senso che se Napoli và male si dispiacciono, se Napoli va bene, si dispiacciono due volte. E’ comprensibile, ove si consideri che i loro ascendenti hanno dovuto, per necessità, lasciare la loro bella terra d’origine, per recarsi in luoghi sicuramente meno ameni, nei quali hanno sofferto e si sono distinti ed affermati per le loro capacità lavorative. Quello che non è comprensibile è che dai veri settentrionali avrebbero dovuto recepire oltre la dedizione al lavoro anche la generosità ed il cuore. I leghisti vivono male in quanto depressi per aver “perso l’ideale capitale: Milano”, ma, sopra tutto perché perennemente adombrati dai loro sentimenti di aspro e sordo rancore nei confronti dei meridionali. Non vogliono rendersi conto che l’Italia non è una azienda, l’Italia è una famiglia. In una famiglia, ove mai vi fossero fratelli in difficoltà, questi vanno soccorsi spontaneamente e con solidarietà. I problemi, in seno ad una famiglia, sono i problemi di tutti e vanno risolti insieme. Se la pianura Padana fosse invasa dalle acque, evento non improbabile in virtù dei rilevanti cambiamenti climatici, noi meridionali, “poveri” ma aperti e propensi all’amore, accoglieremmo con gioia i figli dei leghisti nelle nostre case piene di sole. Di converso, se eruttasse il Vesuvio, va temuto, in virtù di comportamenti oggettivi, il compiacimento dei leghisti, tanto attaccati ai conti; compiacimento, in parte, sicuramente dovuto al fatto che risparmierebbero anche le spese per seppellirci, avendo la cenere provveduto a tanto. Tornando al livore ed all’unica deprecabile attività politica dei leghisti, quella di fomentare l’odio tra i “fratelli” di Italia, particolare significato assumono le singolari dichiarazioni dell’onorevole Bossi, (del resto, noto per l’immenso spessore culturale), raccolte nelle registrazioni televisive, tra queste, di particolare rilievo è stata quella in cui si minacciava di imbracciare i fucili. Qualche personaggio di Casal di Principe, avrebbe mostrato deciso interesse all’argomento, sicuramente si sarebbe informato di quando i Leghisti sarebbero transitati con i “ventilati” fucili, se non altro, per “scipparglieli dalle mani”. Ricordiamo ai pittoreschi secessionisti che durante l’occupazione Americana, nel dopo guerra, a Napoli, nei quartieri Spagnoli, si “vendevano” i soldati americani e che gli stessi, nella migliore delle ipotesi, ritornavano, in caserma o sulle navi, in mutande. Va ribadito che la Lega è un partito che fonda le sue radici nei principi dell’egoismo e dell’ingiustificato rancore, per tanto, destinato a dissolversi, come tutte le forze del male, al cospetto del nostro amore incondizionato e della nostra solidarietà verso tutti i settentrionali; da Noi , ahimé, in buona parte discendenti. Certo la Lega si dissolverà per sua sponte, non prima però di aver tentato di ferirci, ingiustamente, a morte.
MILANO: CAPITALE MORALE ?!?
Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.
Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».
Tangentopoli non finisce mai. Tangenti, bufera sul Pirellone, arrestato anche il pdl Cristiani.
“La Repubblica” riporta: Maxi operazione fra Cremona, Milano e Bergamo. Sequestrati due cantieri della Brebemi, una cava destinata a una discarica d'amianto e un impianto per il trattamento dei rifiuti. Fra gli imprenditori e i politici in carcere c'è il vicepresidente del consiglio regionale lombardo. Il vicepresidente del consiglio della Regione Lombardia, il 68enne bresciano Franco Nicoli Cristiani (Pdl), è stato arrestato all'alba del 30 novembre 2011 dai carabinieri di Brescia. L'ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa nell'ambito di un'inchiesta per una presunta tangente da 100mila euro. L'operazione dei carabinieri di Brescia, supportati da personale del Ris e da un elicottero, ha condotto all'arresto di imprenditori, politici e funzionari pubblici. I reati contestati sono traffico organizzato di rifiuti illeciti e corruzione. Sequestrati la cava di Cappella Cantone (Cremona) destinata a una discarica di amianto, un impianto per il trattamento di rifiuti a Calcinate (Bergamo) e due cantieri della Brebemi a Cassano d'Adda (Milano) e Fara Olivana Con Sola (Bergamo). L'operazione ha impegnato 150 uomini dell'Arma. In carcere anche il coordinatore degli staff dell'Arpa (Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente) della Lombardia. "Colpito dalla notizia", ma anche "fiducioso nell'operato della magistratura": il presidente del consiglio regionale della Lombardia, il leghista Davide Boni, ha commentato in questi termini l'arresto del suo vice. "Sono rimasto profondamente colpito - ha detto Boni - dalla notizia della custodia cautelare: ho piena fiducia nell'operato della magistratura e confido nel fatto che il vicepresidente Nicoli sappia dimostrare l'estraneità ai fatti contestati". Il presidente Boni non ha aggiunto altro sui particolari della vicenda, anche perché, è stato fatto notare al Pirellone, la notizia dell'arresto a Brescia è stata appresa dalla stampa e non c'è alcuna comunicazione ufficiale sui tavoli della presidenza.
Ed ancora. Secondo “L’Espresso”: A Milano non piace lo scontrino. Nei bar milanesi è prassi non registrare in cassa il pagamento di un caffé. Un esempio minimo che però conferma la propensione a evadere il fisco in Lombardia. Dove, in media, si dichiara solo il 61% di ciò che si guadagna.
Milano, ore 15:30, Largo Cairoli. A pochi passi dal palazzo della Consob e a cinquecento metri dal Duomo. Chiediamo un caffé in un bar vicino alla sede della Credit Suisse. Il barista riempie la tazzina e intasca l'euro lasciato sul tavolo. Poi inizia una lunga discussione sulle malefatte del neo sindaco Giuliano Pisapia: «Aveva promesso che non avrebbe alzato le tasse!! Comunisti di m...". E' vero, il Comune ha alzato il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici, perché le casse meneghine languono. «Ha ragione, ma sarà anche a causa dell'evasione fiscale se i soldi non ci sono. E intanto, lei per questo caffè non ha fatto lo scontrino». Il bar di Largo Cairoli non è un caso isolato: nei locali milanesi non rilasciare lo scontrino al pagamento del caffè è ormai «una legge non scritta, una consuetudine» come confessa 'Filippo' un esercente meneghino che non vuole dire il suo vero nome. Una ricognizione in un'altra dozzina di bar di zone centrali della città, da corso Indipendenza al Duomo, da piazza San Babila a piazzale Loreto dimostra che il barista ha ragione: solo cinque esercizi battono lo scontrino alla cassa.
Un esempio 'minimo' e quotidiano di ciò che i dati sull'evasione fiscale mostrano a livello macroscopico. Altro che "capitale morale" e vittima degli illeciti fiscali del Meridione: anche a Milano l'evasione degli esercenti sulle piccole spese è una prassi consolidata. «Mediamente, su 100 persone che entrano da me – spiega 'Filippo' – solo cinque mi chiedono lo scontrino dopo aver consumato la colazione o un caffè. La maggior parte non solo non ci fa caso. Spesso è la stessa clientela a dirmi che non c'è bisogno. E' sempre stato così – si giustifica ancora 'Filippo'– ma negli ultimi anni l'Iva ci uccide. Io ho un flusso medio di 400 clienti al giorno, non ho dipendenti ma solo un socio, eppure ci sto dentro a malapena a fine mese». In effetti, il sito evasori.info (dove è possibile segnalare i casi di evasione fiscale) mostra come la maglia nera degli illeciti segnalati spetti proprio ai bar (oltre 36mila). E sono proprio gli esercizi di Milano e provincia, con oltre 280mila euro evasi in base alle segnalazioni, a segnare il record nazionale di illeciti per categoria. Anche sul sito Tassa.li (una nuovissima applicazione che permette, tramite iPhone, di segnalare in maniera anonima dove non sia stato emesso scontrino o ricevuta) gli illeciti fiscali riguardano soprattutto bar e ristoranti in provincia di Milano.
Se è vero che il dato potrebbe anche essere letto come maggiore propensione dei cittadini lombardi a segnalare, è opportuno ricordare che a luglio scorso lo Svimez – Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno – ha presentato un rapporto sull'evasione dove si confronta il reddito dichiarato con il Pil prodotto in ogni regione: il risultato è che lo scarto tra quanto guadagnato e quanto versato all'erario non si discosta molto tra Sud e Nord. In particolare, in Lazio si dichiara mediamente il 58% di quanto guadagnato, mentre in Lombardia il 61%.
«Se dovessi fare una stima partendo da me e dai colleghi che conosco – riprende il barista – direi che mediamente non viene emesso il 15% degli scontrini. Ma bisogna considerare che dal 2005 il prezzo del caffè è aumentato del 300% e anche lo zucchero costa molto di più. Noi non possiamo aumentare i prezzi di listino e così dobbiamo cercare di ridurre l'impatto dell'Iva: d'altra parte è il mio stesso commercialista che mi consiglia di battere pochi scontrini».
Vittorio Parisi, commercialista dello Studio De Canio Parisi, ritiene però che non che la responsabilità non è dei professionisti: «Sono i clienti che ci chiedono come risparmiare sulle tasse: non è il mio caso, ma è possibile che ci siano dei colleghi che, su specifica richiesta del cliente e in presenza di fatturati già significativi, suggeriscano di non emettere qualche scontrino. Spesso però succede anche il contrario: l'esercente ha emesso così pochi scontrini che alla fine dell'anno gli incassi non tornano con gli elementi da considerare ai fini degli studi di settore e così occorre battere più ricevute». E per quanto riguarda il peso dell'Iva, il commercialista non ha dubbi: «E' una partita di giro, ovvero s'incassa per poi girarla all'erario. E' un'uscita che occorre mettere in preventivo tempo per tempo». In pratica, come il pagamento dell'affitto. Ma le tasse sembrano essere un'altra cosa, almeno agli occhi dei gestori. E su quest'aspetto i baristi italiani ragionano nella stessa maniera, da Nord a Sud.
SE SI LAMENTA CHI GESTISCE IL POTERE POLITICO ED ECONOMICO, COSA DEVE DIRE IL POVERO CRISTO……...
Il ministero della Giustizia, attraverso il capo degli ispettori Arcibaldo Miller, ha chiesto alla Corte d'appello di Milano copia della sentenza relativa al Lodo Mondadori e dei motivi del ricorso in Appello di Fininvest. L'iniziativa è una diretta conseguenza dell'esposto presentato da Marina Berlusconi per conto di Fininvest sia al ministero della giustizia sia al procuratore generale della Cassazione, entrambi titolari dell'azione disciplinare a carico dei magistrati.
Arcibaldo Miller che mai si è mosso su istanza del dr Antonio Giangrande, Presidente dell'Associazione Contro tutte le Mafie, che ha avuto il coraggio di denunciare i magistrati, senza conseguire calunnia.
Arcibaldo Miller, del quale “La Repubblica” delinea le caratteristiche a firma di Liana Milella. "Di mattina compone la squadra degli ispettori pronti a fare le pulci ai colleghi di Napoli e di Bari che hanno indagato su Tarantini, e quindi anche su Berlusconi. Di sera Arcibaldo Miller, il magistrato che dal 2001 guida i segugi di via Arenula attraverso i ministri Castelli, Mastella, Alfano, Palma, si ritrova a sua volta sotto inchiesta per il suo coinvolgimento nell'inchiesta sulla P3, in cui è stato indagato. Il collegio dei probiviri dell'Anm apre una pratica per espellerlo dall'associazione. Il Csm sta verificando i presupposti per revocare lo stato di "fuori ruolo" di Miller. Il Pd, con Donatella Ferranti chiede che lasci immediatamente il posto di capo degli ispettori. È lapidario il ministro della Giustizia: «Miller non è stato toccato da alcuna indagine penale, il procuratore generale della Cassazione ha archiviato il suo caso». Non ha letto le carte. Quelle che hanno spinto il Csm ad occuparsi di nuovo di lui dopo aver archiviato, il 27 giugno 2011, l'ipotesi di un procedimento disciplinare. Un'archiviazione che suona come una condanna. Dove è scritto: «Appare pacifico che Miller ha partecipato alla riunione del 23 settembre 2009, presso l'abitazione romana di Denis Verdini, dov'erano presenti Flavio Carboni, Arcangelo Martino, Pasquale Lombardi, Marcello Dell'Utri, Giacomo Caliendo, Antonio Martone. In questa riunione si è discussa la candidatura a presidente della Regione Campania di Nicola Cosentino e si è concordata una condotta di illecita interferenza presso i componenti della Corte costituzionale». Miller la sfanga per la terza volta nella sua vita. Come quando finì - erano gli anni Novanta - nell'elenco dei frequentatori della casa d'appuntamenti di via Palizzi a Napoli. O come quando i pentiti Alfieri e Galasso parlarono di suoi rapporti con la camorra. Tutto finì archiviato. Davanti al Csm, quando gli contestarono i rapporti con i Sorrentino, imprenditori legati ai boss, lui si scusò: «È uno sbaglio che ammetto di aver fatto e ne pagherò le conseguenze». Da pm di punta della procura di Cordova, ebbe come suo uditore Woodcock. Adesso, di lui e degli altri che indagano su Berlusconi, per ordine di Berlusconi e Palma, vuole scoprire le deviazioni."
«La democrazia non si può piegare alle trame di qualche Procura e di qualche redazione». Lo afferma la presidente di Fininvest, Marina Berlusconi, in una lunga intervista al Corriere della Sera, in cui parla anche dell’esposto presentato dal Biscione avverso alla sentenza della Corte d’appello per il lodo Mondadori, che ha condannato la holding a risarcire la Cir con 564 milioni di euro. «Abbiamo scoperto un tarlo, una falla clamorosa che mina dalle fondamenta un castello di ingiustizie. Altro che leggi ad personam, qui siamo alle sentenze ad personam, al diritto cucito su misura: quando ci sono di mezzo mio padre o le nostre aziende, spuntano addirittura principi giurisprudenziali inediti e totalmente innovativi. Peccato che siano principi inesistenti, nati dal "taglio" di una frase addirittura sostituita da puntini di sospensione e dalla mancata citazione di altre».
Un conto sono le sentenze, un conto le interpretazioni, come la vostra. «Qui non si tratta di interpretazioni, questi sono dati di fatto. Sono scomparse frasi intere di una sentenza della Cassazione».
Sia esplicita, che cosa è successo, cosa hanno fatto i giudici? «Con il taglio e l'omissione di alcune frasi questa pronuncia della Cassazione, che ha un ruolo fondamentale ai fini della condanna, è stata letteralmente stravolta, ed è stato in questo modo creato un precedente giuridico ad hoc».
Sta dicendo che la sentenza è stata manipolata. Accusa i giudici di un falso? «Me ne guardo bene, l'esposto si limita a segnalare alle autorità competenti quanto è accaduto. È un fatto talmente evidente e grave che abbiamo non soltanto il diritto, ma addirittura il dovere di renderlo noto, al di là del ricorso in Cassazione che seguirà la sua strada. Il taglio e l'omissione di alcuni passaggi ribalta totalmente la tesi della Cassazione con la conseguenza che noi dobbiamo firmare un assegno da 564.248.108,66 euro. Incredibile? Assolutamente sì, è quello che ho pensato quando i legali me ne hanno parlato. Però, ripeto, le carte sono lì, basta confrontare i testi sul sito della Fininvest. Incredibile, ma vero».
Senta, a me paiono scaramucce giudiziarie, costose quanto vuole ... «Altro che scaramucce, stiamo parlando di più di mezzo miliardo».
Sì, ma è sempre la stessa storia. «Eh no. Partiamo dalla sentenza del 1991 della Corte d'Appello di Roma, quella che dava torto a De Benedetti, dalla quale tutto è cominciato. Dopo che uno, uno solo badi bene, dei tre giudici romani era stato condannato per corruzione, per cancellare gli effetti di quella sentenza d'Appello le norme davano a De Benedetti una sola possibilità: rivolgersi al giudice della revocazione. Non è una formalità, ma un istituto fondamentale, previsto dall' articolo 395 del Codice di procedura civile. La Cir però la revocazione, che le regole avrebbero peraltro imposto di discutere a Roma e non a Milano, non l'ha mai chiesta. I termini sono scaduti nel settembre 2007. Morale: azione improponibile, fine della storia».
Altro che fine della storia, poi il giudice Mesiano vi condanna a un risarcimento di 750 milioni. «Esatto. Questa è la dimostrazione che trovano sempre il modo per superare ostacoli che dovrebbero essere insuperabili. Mesiano punta sulla chance: non ci sono certezze, ma è molto probabile che un giudizio non viziato da corruzione nel '91 avrebbe dato ragione alla Cir. Un escamotage così poco sostenibile che la stessa Corte d' Appello lo "boccia" e cambia strada. Stabilisce che la sentenza che ci aveva dato ragione era nulla. Si arroga il diritto di rifare il processo e la Cir vince. Si sostituisce, quindi, al giudice della revocazione. E per farlo utilizza, nel modo sconcertante che le ho detto, la pronuncia 35325/07 della Cassazione».
Capisco che tutto ciò vi crei problemi. Insisto: questioni giuridiche, procedurali, da tribunali ... «Non ci sono solo procedure, ci sono anche i fatti. Eccoli: la Cir non ha avuto alcun danno da parte nostra; noi, che non avremmo dovuto pagare neppure un euro, abbiamo subito un esproprio di 564 milioni, un danno gravissimo per un gruppo che, non mi stancherò mai di sottolinearlo, è uno dei grandi protagonisti dell' economia del Paese, e che solo per dare una cifra, negli ultimi 10 anni ha versato nelle casse dello Stato la bellezza di oltre 5 miliardi di euro, più di 2 milioni al giorno».
Veramente è De Benedetti che lamenta un danno. «Ma quale danno? La vicenda si concluse con una transazione impostaci dalla politica che De Benedetti accettò entusiasticamente, come dimostrano le sue dichiarazioni di allora, senza neppure ricorrere in Cassazione e ci credo che fosse soddisfatto: si prendeva Repubblica, l'Espresso e i quotidiani locali di Finegil, una parte rilevantissima della Mondadori, politicamente ed economicamente».
Lascio a lei la responsabilità di quello che afferma su Cir e magistratura. Ma a me pare l'ennesima versione della persecuzione contro suo padre. «Persecuzione? Non avevo dubbi sul fatto che si trattasse di una sentenza politica, ora si scopre su che cosa si basa! Non tiro conclusioni, ma veda lei... Purtroppo la verità è che parlare di persecuzione non è più sufficiente. Ormai contro mio padre siamo alla barbarie quotidiana legalizzata».
Addirittura barbarie... «Certo, mi ha molto turbato leggere articoli di informatissimi notisti politici in cui si considera come un dato scontato che questa aggressione furibonda possa mettere in discussione la sua libertà personale, il futuro delle sue aziende e addirittura la sua incolumità. E nessuno fa un salto sulla sedia? Sì, barbarie quotidiana legalizzata, ma assolutamente illegale».
Illegale cosa? E allora tutte le inchieste aperte da Napoli a Bari, da Roma a Milano? «Si inventano inchieste a ripetizione su reati inesistenti e senza vittime solo per fabbricare fango. Poi il fango fabbricato viene palleggiato tra una Procura e l' altra e infine riciclato. Il processo, con relativa, inevitabile condanna, lo si celebra sui media. Quello in aula, se si farà e come finirà non interessa più a nessuno. So bene, e ci tengo a ripeterlo, che dietro tutto questo c' è solo una minoranza di toghe, che la magistratura come istituzione merita il massimo rispetto. Ma il risultato non cambia. E mi chiedo che cosa tutto ciò abbia a che fare con la giustizia, con l' informazione, con un Paese che si considera civile».
Me l'aspettavo, il problema sono i magistrati che intercettano e i giornali che pubblicano. «Stiamo parlando di centinaia di migliaia di intercettazioni, un numero spropositato, di cui si è fatto un uso fuori da ogni regola, mi riesce perfino difficile trovare le parole per definirlo, la verità è che se ci penso mi viene la nausea. Credo che raramente si sia assistito ad un tale spettacolo di inciviltà. Altro che bavagli: ma davvero qualcuno può credere e sostenere che si possa continuare così?»
Da Panorama l’elenco dei procedimenti penali a carico di Silvio Berlusconi aggiornati al 19 aprile 2012:
1. Proc. Pen n. 5746/93 R.G.N.R. “Viganò Verzellesi” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 28/01/1995) Reati contestati: corruzione archiviato l’8/08/2000;
2. Proc. Pen. n. 842/95 R.G.N.R. “Falso in bilancio Fininvest libretti al portatore” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;
3. Proc. Pen. n. 6081/95 R.G.N.R. “Edilnord Commerciale” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;
4. Proc. Pen. n. 6031/94 R.G.N.R. “Palermo riciclaggio” Reati contestati: concorso esterno in associazione mafiosa – riciclaggio concorso esterno in associazione mafiosa: archiviato il 19/02/1997 riciclaggio: archiviato il 25 – 27/11/1998;
5. Proc. Pen. n. 1370/98 “Stragi Caltanissetta” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 3/05/2002;
6. Proc. Pen. n. 3197/96 R.G.N.R. “Stragi Firenze” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 14/11/1998;
7. Proc. Pen. n. 3000/96 R.G.N.R. “Progetto Botticelli” Reati contestati: falso in bilancio – frode fiscale archiviato il 16/02/1998;
8. Proc. Pen. n. 11343/99 R.G.N.R. “Lodo Mondadori” Reati contestati: corruzione giudiziaria assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 12/05/2001 ha dichiarato di “non doversi procedere perché il reato si è estinto per intervenuta prescrizione” (concesse le attenuanti generiche), sentenza confermata in Cassazione;
9. Proc. Pen. n. 11262/94 R.G.N.R. “Tangenti GDF” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte di Cassazione del 19/10/2001 ha “assolto in ordine a tutti i capi di imputazione per non aver commesso il fatto”. Solo per il capo D) l’assoluzione è ai sensi dell’art. 530 co 2 (insufficienza probatoria), dichiarata dalla Corte d’Appello e confermata dalla Cassazione;
10. Proc. Pen. n. 9811/93 R.G.N.R. “All Iberian 1” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 23/11/1995) Reati contestati: finanziamento illecito ai partiti assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 26/10/1999 ha dichiarato di “non doversi procedere perché i reati si sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;
11. Proc. Pen. n. 10594/95 R.G.N.R. “Medusa” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/06/2000 ha “assolto dal reato ascritto per non aver commesso il fatto”, sentenza confermata in Cassazione;
12. Proc. Pen. n. 4262/95 R.G.N.R. “Macherio” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 28/10/1999 (sentenza definitiva) ha “assolto dal reato di falso in bilancio perchè il fatto non sussiste, dichiarato non doversi procedere per il reato di appropriazione indebita per intervenuta amnistia e confermata la sentenza del Tribunale per la frode fiscale perché il fatto non sussiste”;
13. Proc. Pen. n. 11749/97 + 12193/98 R.G.N.R. “Corruzione Ariosto SME” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 27/04/2007 ha “assolto dal reato per l’episodio di cui al capo A) per non aver commesso il fatto ai sensi dell’art. 530 co 2 cpp e per l’episodio di cui al capo B) perchè il fatto non sussiste ai sensi dell’art. 530 co 1 cpp” sentenza confermata in Cassazione;
14. Proc. Pen. n. 5888/02 R.G.Trib.(stralcio del n. 11749/97 + 12193/98) “Falso in bilancio Ariosto SME” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 30/01/2008 (sentenza definitiva) ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato ascrittogli perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”;
15. Proc. Pen. n. 735/96 R.G.N.R. “Consolidato” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del GIP del 13/02/2003 ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato di falso in bilancio ascritto perché gli stessi sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;
16. Proc. Pen. n. 2569/99 R.G.N.R. (stralcio del n. 9811/93) “All Iberian 2” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 26/09/2005 ha “assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”;
17. Proc. Pen. n. 2601/94 R.G.N.R. “Lentini” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/12/2005 ha confermato la sentenza del Tribunale “di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione”;
18. Proc. Pen. n. 262/97Y R.G.N.R. - Tribunale di Madrid “Telecinco” Reati contestati: reati societari – reati contro la Pubblica Amministrazione (diritto spagnolo) archiviato il 13/10/2008;
19. Proc. Pen. n. 22694/01 R.G.N.R. “Diritti” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale con sentenze del 7/07/2006 e 28/05/2007 il Tribunale di Milano ha dichiarato il non doversi procedere per i reati di falso in bilancio e di appropriazione indebita in quanto estinti per prescrizione. Per il reato di frode fiscale è in corso il dibattimento;
20. Proc. Pen. n. 6859/05 R.G.N.R. “Mills” Reati contestati: corruzione giudiziaria Assolto: 25/02/2012 il Tribunale ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione;
21. Proc. Pen. n. 40382/05 R.G.N.R. “Mediatrade Milano” Reati contestati: appropriazione indebita – frode fiscale Prosciolto: Il GUP di Milano ha “prosciolto per non aver commesso il fatto”; in data 01/12/2011 il PM ha depositato ricorso in Cassazione;
22. Proc. Pen. n. 31358/10 R.G.N.R. “Mediatrade Roma” Reati contestati: frode fiscale In corso l’udienza preliminare;
23. Proc. Pen. “Santa Margherita Alitalia (convegno del giugno 2009)” Reati contestati: aggiotaggio e insider trading Archiviato il 18/11/2011;
24. (*) Proc. Pen. n. 58833/07 R.G.N.R. “Intercettazioni Saccà” Reati contestati: corruzione archiviato il 17/04/2009;
25. (*) Proc. Pen. n. 1349/08 R.G.N.R. “Corruzione Senatori” Reati contestati: corruzione archiviato;
26. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Saint Just” archiviato il 26/01/2009;
27. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Voli di Stato” archiviato l’8/10/2009;
28. (*) Proc. Pen. n. 41895/09 “UNIPOL - Intercettazioni Fassino Consorte” Reati contestati: rivelazioni segreto d’ufficio. Disposto il rinvio a giudizio il 7/02/2012. In corso il dibattimento(richiesta di archiviazione del 16/12/2010 - 15/09/2011 il G.i.p. ha disposto l’imputazione coatta per Berlusconi - 22/09/2011 chiesto il rinvio a giudizio);
29. (*) Proc. Pen. n. 55781/2010 + 5657/11 R.G.N.R. “Caso Ruby” Reati contestati: concussione – favoreggiamento prostituzione minorile il 15/02/2011 il g.i.p. ha disposto con decreto il giudizio immediato (prima udienza dibattimentale: 6/4/2011);
30. (*) Proc. Pen. “Innocenzi – Anno Zero” Reati contestati: abuso d’ufficio Chiesta l’archiviazione;
31. (*) Proc. Pen. “Minzolini – De Scalzi” Reati contestati: abuso d’ufficio. In corso le indagini preliminari;
32. (*) Proc. Pen. “vilipendio alla magistratura” Reati contestati: vilipendio all’ordine giudiziario. In corso le indagini preliminari;
33. (*) Proc. Pen. Tribunale di Bari
Reati contestati: induzione a rendere false dichiarazioni all’Autorità
Giudiziaria
In corso le indagini preliminari.
(*) trattasi di procedimenti personali e quindi non riguardanti il Gruppo Fininvest. I dati relativi non rientrano tra quelli della c.d. “sintesi”.
Indagini per stragi a Firenze, Palermo e Caltanissetta: si tratta di tre indagini riguardanti le stragi di mafia degli anni 1992/1993, indagini già archiviate in passato (v. n. 5 e 6). Ad oggi non disponiamo di dati ufficiali, ma solo di notizie di stampa. Negli ultimi mesi ci sono state sia smentite (Firenze), sia conferme (Palermo), circa l’iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati.
Un libro ricostruisce Tangentopoli con retroscena e aneddoti.
«Berlusconi? Onestamente non posso dire che sia un mascalzone». Così parlò Carlo De Benedetti, il nemico pubblico numero uno del Cav. Parole dal sen fuggite? Tutt'altro. Ogni singola parola attribuita all'Ingegnere e contenuta nel libro di Paolo Guzzanti, «Guzzanti vs De Benedetti» (368 pp, Aliberti editore) è stata letta, ponderata e confermata dallo stesso editore di Repubblica ed Espresso. Dalla biografia scritta dall'ex vicedirettore del Giornale emerge il ritratto di un imprenditore che ammette di essere come Berlusconi: «È un autocrate come tutti noi imprenditori, ma come persona non è affatto cattiva ed è anzi sicuro di fare il bene. Il motivo per cui io lo combatto è che, essendo un imprenditore al comando del Paese, è per definizione un rischio per la democrazia. Anch'io, se mi mettessi a fare il politico, sarei un pericolo per la democrazia». Con Silvio siamo al rapporto di amore-odio. Anzi: «Io non lo odio, lo disapprovavo, è l'uomo che incarna un intero popolo in modo passionale, sentimentale, persino affettuoso. Lo dico da suo avversario: non è assolutamente una carogna».
Roba da far drizzare le orecchie ai colonnelli democratici. Anche perché di fianco all'elogio come imprenditore all'avversario Silvio, le accuse contro i vertici del Pd sono spietate. I primi a cadere sono D'Alema e Bersani: «Il segretario è inadeguato, lui e D'Alema stanno ammazzando il Pd». E su Baffino: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente, come il caso Puglia insegna. Su Berlusconi come uomo politico il giudizio è estremamente negativo, ma almeno Silvio ha fatto qualcosa. D'Alema e quelli come lui non hanno fatto niente». Il De Benedetti che ne esce fuori sembra il prigioniero politico della sua stessa armata, da sempre schierata col centrosinistra. Come quando è lo stesso De Benedetti ad ammettere che «Ezio Mauro talvolta si fa un po' prendere la mano da certi suoi giornalisti...». Insomma, è l'Ingegnere la vera vittima del mostro politico che ha contribuito a creare: «Mi odiano, ci odiano e adesso si sono messi in testa che Ezio Mauro voglia diventare il leader del Pd e questo li fa impazzire. Sono ridotti così male che hanno inventato questa leggenda». Un po' di vetriolo c'è anche per l'ex premier Romano Prodi, regista della mancata acquisizione della Sme da parte di De Benedetti a vantaggio della cordata voluta da Bettino Craxi e guidata da Berlusconi, i cui strascichi giudiziari hanno portato alla sentenza di risarcimento monstre da 600 milioni di euro. È tutta colpa del Professore: «Io detestavo Craxi, la cosa è nota, ma in quel caso aveva perfettamente ragione: era il presidente del Consiglio e Prodi compiva un'operazione di quella portata dando via aziende statali senza nemmeno fargli una telefonata. Prodi così fece incazzare Craxi come una belva». C'è ancora il tempo per ricordare quando stava per restare una notte in galera per «colpa» della moglie di Bruno Vespa, l'allora gip romano Augusta Iannini, dopo aver ammesso di aver pagato tangenti ai politici («C'eravamo dentro tutti - dice De Benedetti - questa è la verità e questo era il metodo...»). Quel giorno del lontano 1993 l'editore di Repubblica li ricorda così: «La gip Iannini mi fece un interrogatorio nel pomeriggio a Regina Coeli, presente la pm Cordova. Poi a un certo punto la Iannini se ne andò e con la Cordova finimmo l'interrogatorio. A quel punto chiesi di andare via, ma la Pm disse: “Per me lei può uscire, pero c'è da firmare e siccome a quest'ora non c'è più il gip lei stanotte sta qui”. Allora io prendo il mio avvocato, lo mando a casa della Iannini, perché non voglio passare la notte a Regina Coeli e, con il parere favorevole del Pm, la Iannini ha firmato. E quindi alle dieci di sera sono uscito dalla prigione».
Da quanto detto si riporta il commento di Tiziana Maiolo su “Il Giornale”.
L'abilità di un finanziere come Carlo De Benedetti si coglie da mille particolari. I soldi. La rete di relazioni. Il cinismo. La capacità di lasciare una poltrona al momento giusto e con sostanziose liquidazioni. La forza di ripartire dopo un rovescio. E anche la fortuna di uscire sempre immacolato dalle vicende giudiziarie in cui finisce coinvolto.
Sarà una coincidenza, una combinazione singolare, una concomitanza casuale; sarà semplicemente che l'imprenditore che si è sempre proclamato «diverso» dai colleghi non aveva commesso quanto gli era stato addebitato. Ma il tarlo di un maligno interrogativo resta: essere l'editore più giustizialista d'Italia, difendere a oltranza i magistrati che indagano su Silvio Berlusconi, è un'assicurazione sulla vita?
Il caso più lontano nel tempo è quello del Banco Ambrosiano, tempio della P2.
Siamo negli Anni 80: De Benedetti entrò nell'istituto di credito con il 2 per cento del capitale e la carica di vicepresidente (il numero uno era Roberto Calvi) e ne uscì 65 giorni dopo, alla vigilia del crac, intascando una plusvalenza di 40 miliardi di lire. Fu accusato di concorso in bancarotta fraudolenta ed ebbe una condanna a 6 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado, ridotta in appello a 4 anni e 6 mesi, e annullata senza rinvio dalla Cassazione.
Nei primi Anni 90 De Benedetti e altri sette manager furono assolti dall'accusa di elusione fiscale: il pm aveva chiesto per il presidente Olivetti la condanna a due anni e quattro mesi di reclusione e al pagamento di 15 milioni di multa per una presunta evasione di complessivi 37 miliardi di lire. Il sofisticato meccanismo si chiamava «dividend stripping» e consentiva, a certe condizioni, di usare i dividendi azionari come credito d'imposta. Inoltre, come ricordano Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio in «Mani sporche», De Benedetti «ha chiuso con due oblazioni da 50 milioni di lire ciascuna altrettanti processi per le manovre in Borsa sui titoli Olivetti (insider trading) e per i bilanci del gruppo di Ivrea (false comunicazioni sociali)». Sentenza, quest'ultima, revocata dopo la riforma del falso in bilancio voluta dal governo Berlusconi nel 2002.
Ma la vicenda più clamorosa fu il coinvolgimento di De Benedetti in Tangentopoli dopo l'arresto del direttore generale delle Poste, Giuseppe Parrella, e del suo segretario Giuseppe Lo Moro, il quale parlò di mazzette ricevute dalla Olivetti per la fornitura di telescriventi al ministero. Era il 1993, qualche anno dopo la battaglia per il controllo di Segrate sfociata nella sentenza. In maggio il finanziere anticipò i pubblici ministeri consegnando ad Antonio Di Pietro una memoria in cui ammetteva vari giri di tangenti perché «vittima del sistema»: in particolare oltre 10 miliardi di lire a Dc e Psi per l'appalto postale.
A novembre fu emesso un mandato di cattura a suo carico. De Benedetti si costituì, fu trasferito al carcere di Regina Coeli, interrogato nella notte dal pm Maria Cordova e dal gip Augusta Iannini, ottenendo gli arresti domiciliari e quindi la scarcerazione. Un trattamento di assoluto riguardo: mentre i manager di tante aziende aspettavano giorni prima di essere ascoltati da un magistrato e mesi prima di lasciare il carcere dopo aver vuotato il sacco, all'Ingegnere la rara tempestività della giustizia italiana consentì di evitare la cella. Da questo processo (l'accusa era corruzione) De Benedetti uscì in parte assolto e in parte prescritto.
Chi invece riuscì pienamente a trattare con i magistrati milanesi fu l’ingegner Carlo De Benedetti, che un bel giorno si presentò a un incontro concordato, raccontò la sua e tornò a casa con le sue gambe. Corse qualche rischio per la sua libertà invece al Palazzo di giustizia di Roma, dove non vigeva il «rito ambrosiano» e dove fu arrestato per un giorno, nello stupore dei suoi avvocati, che trovarono nella capitale due magistrati (non a caso due donne) poco inclini alla trattativa alla milanese. Il che può apparire stupefacente, vista la pessima immagine del tribunale di Roma, da sempre chiamato «porto delle nebbie», e la cui reputazione fu strumentalmente usata dai magistrati del pool ogni volta che si profilava un conflitto di competenza tra Milano e la capitale. (...). Il 30 aprile 1993 l’ingegner De Benedetti dichiara a la Repubblica, quotidiano con cui aveva qualche confidenza, di «non aver mai corrisposto finanziamenti ai partiti politici o a entità a essi collegate». Ma il Corriere della Sera del 17 maggio scriverà che «L’Ingegnere ha incontrato i giudici consegnando loro un memoriale sulle tangenti pagate dalla Olivetti». Stranamente due giorni dopo, il 19 maggio, esce una dichiarazione sul Wall street journal in cui l’uomo di Ivrea afferma con sincerità: «Se dovessi rifare tutto di nuovo lo rifarei: pagherei le tangenti ai politici per ottenere le commesse pubbliche». Il re della coerenza. La voce circolava in quei giorni. E De Benedetti aveva buoni avvocati e buoni orecchi. Così mise insieme un dossier e il 16 maggio 1993, di domenica, lontano da occhi indiscreti, nella caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano, si incontrò con i pubblici ministeri Di Pietro, Colombo e Jelo. (...). De Benedetti conosce bene la lezione, e racconta di esser stato sistematicamente concusso dalle Poste italiane e dai partiti di governo. Ha speso in tutto tra i 15 e i 20 miliardi di lire, di cui 10 miliardi e 24 milioni solo alle Poste. La frase che detterà alle agenzie sembra fotocopiata dallo schema fisso gradito alla Procura: «In Italia negli ultimi quindici anni c’è stato un regime politico che ha prevaricato e taglieggiato l’economia. Grazie all’opera di pulizia fatta dai giudici è diventato possibile sconfiggere la tangentocrazia». Due giorni dopo, forse pensando, giustamente, che i magistrati non leggano la stampa estera, dirà al Wall street journal che l’avrebbe rifatto. Nessuno glielo contesterà, nessuno dei suoi collaboratori verrà indagato e nei suoi confronti non verrà richiesta nessuna rogatoria estera. (...).
A Roma Carlo De Benedetti ha a che fare con due donne magistrato piuttosto agguerrite, la pm Maria Cordova e la gip Augusta Iannini. Giovanni Maria Flick, che sarà in seguito il ministro alla Giustizia del primo governo Prodi nel 1996, è il difensore di De Benedetti ed è sconcertato davanti a una richiesta di arresto che a Milano non c’è mai stata. Ma il Palazzo di giustizia di Roma, nonostante la cattiva fama, è più «normale». Come dirà ai giornalisti la gip Augusta Iannini: Per me, la legge è uguale per tutti. L’ingegner Carlo De Benedetti è uguale al signor Mario Rossi, al signor Paolo Bianchi. E se i signori Mario Rossi o Paolo Bianchi fossero accusati degli stessi fatti contestati nell’ordine di custodia cautelare all’ingegner Carlo De Benedetti, sarebbero stati arrestati. La situazione è imbarazzante per il presidente dell’Olivetti, che riteneva di aver pagato pegno a Milano, dove è solo indagato, e invece si ritrova con un mandato di cattura a Roma per lo stesso reato. La verità, a quanto pare, è che a Milano si sarebbero accontentati del memoriale e non hanno approfondito lo scandalo di tutte quelle apparecchiature obsolete, stampanti e telescriventi, vendute dall’Olivetti al ministero delle Poste, costate parecchio, mentre dieci miliardi di lire finivano in tangenti. Naturalmente nel memoriale De Benedetti scriveva che queste tangenti gli erano state «estorte», ma questo è quel che dicevano tutti gli imprenditori. Se Milano si era accontentata, i magistrati romani erano piuttosto seccati, avevano raccolto una gran quantità di documenti e avevano cominciato a fare due conti. Si era creato anche un piccolo incidente diplomatico interno al Palazzo di giustizia, perché il procuratore capo Mele si era molto irritato nello scoprire che la dottoressa Cordova, sua sostituta, aveva chiesto la misura cautelare per De Benedetti senza consultarlo. Ne seguì un parapiglia di dichiarazioni, in cui si inserì anche il pm milanese Gherardo Colombo, e che alla fine giovò al presidente della Olivetti, che fu «un pochino» arrestato per un giorno e anche in seguito, tra archiviazioni e reati caduti in prescrizione, se la cavò.
Parlamento italiano: pomeriggio del 20 luglio 2011. Già è mortificante il fatto che in quei luoghi non si votino le leggi, ma le autorizzazioni alla custodia cautelare in carcere per alcuni dei suoi membri. Ma già li è chiaro: in Italia la legge, come l’etica e la morale, non è uguale per tutti. Se sei del centrodestra sono tutti d'accordo a sbatterti in galera, se sei del centrosinistra invece ti graziano. E' questa la triste verità che emerge dai voti che hanno spalancato le porte del carcere di Poggioreale per il deputato Pdl Alfonso Papa e hanno salvato il senatore Pd Alberto tedesco. Ed è la stessa triste verità che ispira il diverso trattamento concesso a Piergianni Prosperini, l'ex assessore lumbard finito ai domiciliari perché accusato di aver ricevuto delle tangenti per favorire un imprenditore in una gara d’appalto per la promozione di eventi in Valtellina, e Filippo Penati del Pd, capo della segreteria politica di Bersani e consigliere regionale lombardo con incarico di vice presidente del Consiglio, ex sindaco di Sesto San Giovanni e Presidente della provincia di Milano, indagato perché avrebbe preso mazzette fino a 4 miliardi di lire. Questa è la giustizia all'italiana.
"Ho dimostrato a tutti di essere un uomo, chiedendo di votare per il mio arresto. Ma ora ho il dovere di restare al mio posto, in Senato". A Tedesco non lo sfiora nemmeno l'idea di lasciare la poltrona a Palazzo Madama. Assicura che andrà avanti, puntualizza che aspetterà che la magistratura faccia il suo lavoro e fa sapere che in futuro si batterà per l'abolizione della custodia cautelare. E, mentre il senatore piddì resta in parlamento, Papa ha già passato una notte in carcere. Eppure, come spiega il vicepresidente della Camera Antonio Leone, "a carico di Tedesco sussiste un impianto accusatorio ben più pesante di quello messo insieme per Papa dai pm napoletani". Finito nell'inchiesta che ha sconvolto la sanità in Puglia, l'ex assessore di Vendola è accusato di corruzione, concussione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso. Nel mirino dei pm di Bari ci sono i presunti appalti truccati e le nomine dei vertici dell'Asl: dal 2005 al 2009 la sinistra pugliese avrebbe, infatti, imposto i primari e gli imprenditori che avrebbero poi dovuto vincere le gare d’appalto. "La prassi politica dello spoil system - si legge nell'ordinanza del gip Giuseppe de Benedictis - era talmente imperante nella sanità regionale da indurre Vendola, pur di sostenere alla nomina a direttore generale di un suo protetto, addirittura a pretendere il cambiamento della legge per superare, con una nuova legge a usum delphini, gli ostacoli che la norma frapponeva alla nomina della persona da lui fortemente voluta".
Di tutt'altro spessore le accuse rivolte a Papa, finito nell'inchiesta P4 portata avanti dai pm Henry Woodcock e Francesco Curcio della procura partenopea. I reati contestati sono: corruzione, concussione, estorsione e favoreggiamento personale. Secondo il gip di Napoli, Papa, Luigi Bisignani, Enrico La Monica e Giuseppe Nuzzo "promuovevano, costituivano e prendevano parte a una associazione per delinquere, organizzata e mantenuta in vita allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia". Insomma, per la procura di Napoli Papa avrebbe fatto parte di "un sistema informativo parallelo" al fine di acquisire informazioni sulle indagini e usarle per avanzare "indebite pretese e indebite richieste" sugli indagati.
Per i due politici indagati sono state usate due pesi e due misure diverse. Mentre il Pdl si è dimostrato garantista con entrambi i parlamentari, a Palazzo Madama i numeri ci dicono che tutti i 34 suffragi necessari a negare i domiciliari provengono dalle fila della sinistra....
Insomma, l'opposizione ha usato, come al solito, due pesi e due misure. Proprio come viene fatto dalla magistratura. Risulta infatti emblematico le indagini che, in questi giorni, hanno investito la Lombardia. Filippo Penati ieri, Piergianni Prosperini oggi. Il capo della segreteria politica di Bersani ed ex presidente della Provincia di Milano è indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. L'accusa è di aver preso tangenti per circa 4 miliardi di lire tra il 2001 e il 2002 per la riqualificazione di due ex aree industriali e per i servizi di trasporto dei comuni dell'Alto milanese. Un illecito che Penati avrebbe proseguito fino a dicembre dell'anno scorso. Il decreto di perquisizione firmato dai pm di Monza Walter Mapelli e Franca Macchia parla di "gravi indizi di colpevolezza", eppure su Penati non grava alcuna misura di custodia cautelare. Gli arresti domiciliari, invece, sono stati dati per la seconda volta all'ex assessore lombardo Prosperini, accusato di corruzione e false fatturazioni in relazione alle tangenti "incassate" per favorire un imprenditore in una gara d’appalto per la promozione di eventi in Valtellina.
"Il voto di ieri ha dato la conferma della doppia morale della sinistra che vota contro gli avversari politici e salva i suoi sodali". Con queste parole il viceministro Roberto Castelli ha sintetizzato il film andato in scena ieri in parlamento. "Ora si capisce perché i capigruppo Pd si sono lamentati del voto segreto: temevano giustamente che in tanti disobbedissero agli ordini - fa eco il Pdl Lucio Malan - sempre che non fosse tutta una sceneggiata finalizzata a salvare l’ex assessore alla Sanità". D'altra parte, a questo punto, è solo il leader Idv Antonio Di Pietro a chiedere a Tedesco di dimostrare un po' di coerenza e dimettersi. Il Pd tace.
Uno scandalo da “Il Corriere della Sera” e “Libero” e “Il Giornale” :«Soldi anche al partito di Penati».
L'imprenditore Di Caterina accusa il dirigente Pd: «Spremuto come un limone».
Non c'è soltanto il costruttore, consigliere comunale ed ex candidato sindaco del centrodestra Giuseppe Pasini ad accusare il big del Pd lombardo Filippo Penati di avergli chiesto 20 miliardi di lire nel 2000-2001 per il via libera ai progetti urbanistici di Pasini sull'area ex Falck, e di essere poi stato destinatario di più di cinque miliardi tramite due intermediari che sono stati pagati in Lussemburgo (Piero Di Caterina) e in Svizzera (Giordano Vimercati): a parlare con i pm, infatti, è proprio anche Di Caterina, imprenditore del trasporto pubblico con la sua «Caronte».
Pasini raccontava che Di Caterina era stato il collettore indicatogli da Penati per le erogazioni pretese (a suo dire) dall'allora sindaco ds di Sesto San Giovanni, autosospesosi da vicepresidente del Consiglio regionale lombardo dopo essere stato indagato dai pm monzesi Walter Mapelli e Franca Macchia per le ipotesi di concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. E affermava di aver dato in contanti a Di Caterina due miliardi di vecchie lire in Lussemburgo. E Di Caterina? Conferma che è vero. Nei mesi scorsi ha reso anche lui molti interrogatori, inquadrando questa ricezione di soldi in una sorta di compensazione tra favori alla politica e recriminazioni imprenditoriali, ai quali ricollega tutta una serie di finanziamenti che afferma di aver fatto nella seconda metà degli anni 90 e fino al 2000 per le esigenze del partito di Penati, in alcuni periodi anche cento milioni di lire al mese. Come quelli di Pasini, anche i suoi verbali sono «segretati» ed è dunque arduo definirne i contenuti esatti. Ma il senso lo si afferra anche solo dalla scarna risposta di Di Caterina a chi lo ha interpellato: «Sono stato spremuto come un limone. Non se ne poteva più di questo convivere gomito a gomito con i dinieghi immotivati, con i ritardi, con gli ostacoli della politica e della dirigenza dell'alta amministrazione. Adesso ho grande fiducia nei magistrati».
Che davvero Pasini abbia pagato Di Caterina, ai suoi occhi fiduciario di Penati, è del resto provato da un documento acquisito dalla rogatoria in Lussemburgo (facilitata da Pasini) presso la banca alla quale bonificò a se stesso 4 miliardi di lire nel 2001. Parte di essi rimbalzarono in Svizzera e, a detta di Pasini, furono poi consegnati in contanti in strada a Chiasso a Giordano Vimercati, in seguito capo di gabinetto del Penati presidente della Provincia di Milano e anche rappresentante designato dalla Provincia in molte società partecipate (come la Serravalle). L'altra parte della provvista di denaro, invece, ebbe la destinazione dettata appunto dall'istruzione data da Pasini alla banca il 16 marzo 2001 e ora in mano agli inquirenti: «A debito del conto Pinocchio, vogliate mettere a disposizione per contanti L. 2.500.000 a favore di Di Caterina Piero. Alla sua presenza, attendere mia conferma telefonica».
Il monte-tangenti svelato da Pasini, intanto, sale ancora e si attesta sugli 8 miliardi di lire. Ai 4 o 4,5 miliardi per l'area ex Falck consegnati in Lussemburgo e Svizzera, e ai 1.250 milioni di lire per l'area ex Ercole Marelli (anch'essa di Pasini) «mascherati» dietro il saldo negativo di una permuta tra terreni con Di Caterina, il costruttore aggiunge un'altra tangente che colloca prima, nel 2000, addirittura al momento di comprare dai Falck l'area dove sorgevano le acciaierie. A suo dire, gli sarebbe stato fatto capire che l'acquisto dell'area gli sarebbe stato consentito o comunque facilitato dalla politica se avesse ingaggiato come consulenti due professionisti asseritamente vicini alle coop rosse emiliane, indicati in Francesco Agnello e Giampaolo Salami, ai quali Pasini paga compensi per 2 miliardi e 400 milioni di lire e che ora sono anch'essi indagati per l'ipotesi di concussione.
Filippo Penati continua a mostrarsi tranquillo. Indagato dalla Procura di Monza per concussione e corruzione e finanziamento illecito dei partiti, ribadisce la sua "totale estraneità ai fatti». E "per rispetto dell’istituzione" si autosospende da vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, ribadendo "fiducia nella magistratura". Nega, Penati, la versione dell'imprenditore 82enne Giuseppe Pasini. Colui che ha innescato la slavina denunciando il malaffare che, a suo dire, caratterizzava i rapporti politico-affaristici a Sesto San Giovanni, importante centro della periferia milanese di cui l’esponente del Pd è stato sindaco per due mandati, fino al marzo 2002 - allora, naturalmente, era Ds. Peraltro, gli avvisi di garanzia - una quindicina - hanno coinvolto un assessore e svariati funzionari comunali. E proprio al 2001 risalgono tre dei numerosi episodi denunciati da Pasini, con tangenti per cinque miliardi e 750 milioni di lire. Soldi che, attraverso intermediari o operazioni coperte, sarebbero stati poi da recapitare proprio a Penati. In un caso, due miliardi e mezzo consegnati in contanti da una banca lussemburghese, istruita da Pasini, a Piero Di Caterina, titolare di un’azienda di trasporti e a quel tempo considerato molto vicino all’allora sindaco di Sesto. E poi la classica valigetta piena di soldi, allungata da Pasini e dal figlio Luca a Giordano Vimercati, strettissimo collaboratore dello stesso Penati, durante una trasferta a Chiasso - per strada, come nei film. Infine, una sorta di mazzetta mascherata: Pasini che scambia un suo terreno di valore con un altro di Di Caterina, però molto meno fruttuoso, con un saldo negativo per il primo di un miliardo e 250 milioni di lire. Vimercati e Di Caterina sono anch'essi indagati nell’inchiesta. Ma l’elemento importante è che Di Caterina avrebbe sostanzialmente confermato il racconto di Pasini.
In ogni caso, questi episodi configurano più che altro il reato di concussione - Pasini spinto a pagare per ottenere vantaggi nello sfruttamento urbanistico della grande area dismessa in cui sorgeva l'acciaieria Falck, vantaggi che poi non si sarebbero concretizzati, costringendo l’imprenditore a svendere l’enorme lotto. Le altre due ipotesi d’accusa - corruzione e finanziamento illecito dei partiti - si riferiscono invece a circostanze successive. Anche risalenti a quando Penati era presidente della Provincia di Milano - dal 2004 al 2009.
In questo senso, gli inquirenti stanno indagando anche su vicende legate al Sitam, il Sistema integrato trasporti area milanese, cui aderiscono la maggior parte degli operatori delle linee di trasporto pubblico su gomma della provincia milanese e che in sostanza ne gestisce le tariffe - biglietti, abbonamenti e quant'altro. Peraltro, proprio all'interno del Sitam ha lavorato per anni la società di Di Caterina, Caronte srl. Cui poi, a seguito di accordi istituzionali con l'Atm - azienda municipale del trasporto milanese -, è stato tolto l'appalto. Con conseguenti polemiche scatenate dallo stesso Di Caterina, che tra l'altro reclamava un pagamento inevaso da parte di Atm di 8 milioni e mezzo di euro. L'imprenditore, un anno fa, aveva così indirizzato una lettera alle autorità locali - sindaci e questore e Carabinieri e Guardia di Finanza e anche Provincia. Con un passaggio che, letto alla luce degli episodi a lui stesso contestati, quasi suona come una minacciosa allusione: "Si è creata una situazione che impone di muoversi in una palude di relazioni di concussione indiretta, che si alterna, ovviamente, a momenti di aria di relazioni corruttive, che rendono il clima asfissiante in un brodo di complicità". Nello scritto veniva esplicitamente citato anche l'attuale sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini.
Anche un altro grosso imprenditore di Sesto ha segnalato episodi da approfondire. Così come i magistrati stanno investigando su questioni indirettamente legate alla vicenda Serravalle, l'autostrada Milano-Genova di cui la Provincia di Milano deteneva la maggioranza insieme con il Comune, e nonostante questo acquistò nel 2005 un altro 15 per cento di quote dall’imprenditore Gavio, per di più a cifre superiori al prezzo di mercato. Con un'operazione censurata dalla Corte dei Conti perché "onerosa e priva di qualsiasi utilità".
Per farla franca il vice presidente della Regione Lombardia Filippo Penati (Pd) coinvolto in un’indagine per mazzette, inventa «l’autosospensione». Una «cosa che nemmeno esiste», spiega un tecnico. «Sensibilità istituzionale», applaudono ovviamente quelli della sinistra. Ma sempre con molta attenzione al portafoglio. Questione di termini e di sostanza, perché c’è una bella differenza tra dimettersi e autosospendersi. Come sa bene Penati, l’illustre esponente lombardo del Pd, ormai sempre più chiaramente il partito della calce e martello. Pronto a fare un passo indietro, ma non certo a rinunciare a nemmeno un euro del suo pingue stipendio da 15.500 euro al mese (il 5 per cento in più di un parlamentare). Più benefit vari. Perché il beau geste di rinunciare alla funzione di vice presidente del consiglio regionale della Lombardia, non sfiorerà nemmeno il suo portafoglio. Con la beffa ulteriore che Penati non sarà nemmeno tenuto a partecipare alle riunioni dell’ufficio di presidenza. Limitandosi semplicemente a incassare stipendio e indennità di funzione per 11.500 euro. A cui ne vanno aggiunti 4.000 di diaria, più gettoni e rimborsi spese. Oltre allo staff personale (tra cui un dirigente da lui stesso scelto), segretaria, uffici e benefit. E i 51.600 euro all’anno che gli sono dovuti per aver rinunciato (bontà sua) all’auto blu. In quanto membro di un ufficio di presidenza di cui fa parte, ma a cui non partecipa più. In attesa di indennità di fine mandato e assegno vitalizio che spetta anche a chi partecipi a una sola legislatura. E che nel suo caso saranno maggiorati dai gradi di vice presidente. Ormai solo virtuali.
E così assume tutto un altro sapore la lettera inviata al governatore Roberto Formigoni e al presidente del Consiglio, il leghista Davide Boni. «A seguito del mio coinvolgimento nella vicenda giudiziaria relativa all’area Falck di Sesto San Giovanni - scrive Penati annunciando l’autosospensione - desidero ribadire la mia totale estraneità ai fatti. In merito anche alle notizie apparse sulla stampa voglio precisare che non ho mai chiesto e ricevuto denaro da imprenditori». Da subito, aggiunge, «non parteciperò più all’ufficio di presidenza e già dal prossimo consiglio siederò tra i banchi dei consiglieri di minoranza». Prefigurando così la sua pensione dorata all’ombra del Pirellone. Detto dell’indennità di Penati, resta quello appare sempre più come un regolamento dei conti all’interno del Pd. Non solo lombardo, visto che Penati ha ricoperto anche il prestigioso incarico di capo della segreteria di Pier Luigi Bersani. Col neo assessore della giunta Pisapia Pierfrancesco Majorino che gli manda via Facebook, ormai la nuova frontiera della sinistra, un messaggio al veleno. «Io, se fossi in Filippo Penati, anche per essere più forte nei confronti dell’opinione pubblica nel voler dimostrare la mia innocenza, mi autosospenderei dal Partito democratico». E Penati che si autosospende mettendo nei guai il Pd che ora resta senza un uomo di peso nell’ufficio di presidenza. Guerra di correnti che si incrocia agli affari delle cooperative rosse. Mazzette milionarie per la procura di Monza, circolate tra Sesto san Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia amministrata per anni da sindaco, e Milano dove Penati sbarcò tra i velluti della Provincia guidata con una certa passione per le scatole societarie e i travasi azionari. «Penati è innocente fino a prova contraria - attacca l’europarlamentare Matteo Salvini - Ma in Lombardia spesso la “sinistra degli ex onesti” è molto amica di palazzinari e cementificatori».
Questione morale? «Non c’è una questione morale», s’indigna il segretario regionale del Pd Maurizio Martina anche se tra gli indagati per il Pd c’è pure l’assessore di Sesto Pasqualino Di Leva. Perché alla fine è sempre questione di termini.
Duro botta e risposta tra Massimo D'Alema e il vicedirettore del Giornale, Alessandro Sallusti, durante la trasmissione Ballarò. Lo scontro ha visto tra l'altro D'Alema mandare il giornalista "a farsi fottere". Sallusti ha accusato D'Alema di "moralismo" facendo poi un paragone con la cosiddetta "affittopoli" dei primi anni '90, quando alcuni politici, tra cui lo stesso D'Alema, furono criticati perché abitavano in affitto in case di enti previdenziali pagando l'equo canone. Da allora nulla è cambiato. A Milano prima il Comune, poi il Policlinico, poi il Pio Albergo Trivulzio. La battaglia di “Libero” per portare alla luce l'Affittopoli milanese sta portando i suoi frutti. A "cedere" sulla trasparenza ha iniziato Palazzo Marino, dopo 18 giorni di campagna stampa. Sul sito web del Comune sono stati pubblicati indirizzi e intestatari degli affitti a prezzo stracciato in immobili di pregio. Quindi ha seguito l'esempio anche il Policlinico, con una lista-monstre online sul portale della Fondazione Ca' Granda. Tutti i giornali hanno dato l’elenco degli affittuari privilegiati degli immobili del Pio Albergo Trivulzio. Il caso è stato trattato anche su “Repubblica” di Milano: "Case in centro a 200 euro al mese, ecco la nuova affittopoli di Milano. Agiati professionisti tra gli inquilini del Comune, del Policlinico e del Pio Albergo Trivulzio. I canoni fino a quattro volte più bassi rispetto a quelli di mercato concessi ad amici e parenti". Un prestigioso trilocale di 150 metri quadri in corso Monforte, centro storico di Milano, si affitta tramite agenzia, quindi sul mercato dei privati, a 51mila euro l'anno: 4.250 euro al mese, spese incluse. A poche centinaia di metri da lì, 132 metri quadri con affaccio sulla Galleria Vittorio Emanuele costano all'inquilino che fa parte di un manipolo di "fortunati" poco meno di mille euro al mese. E basta fare ancora pochi passi per arrivare in corso Italia, dove 70 metri quadri costano 210 euro ogni mese. Anche se le condizioni di stabile e appartamento non sono all'altezza dell'indirizzo, il risparmio - va da sé - è notevole.
Comune di Milano, Policlinico, Pio Albergo Trivulzio: tre enti, migliaia di proprietà immobiliari in città e in provincia, un patrimonio poderoso di 3.700 tra case, negozi e locali in uso ad associazioni che, nonostante le promesse cicliche e i ciclici scandali, resta gestito, nella migliore delle ipotesi, con una buona quota di negligenza. Così si disegna una Milano a due facce: quella, maggioritaria, delle famiglie e dei single che devono riservare una grossa fetta del loro reddito all'affitto, spesa imprescindibile, anche a scapito di altre voci altrettanto necessarie. L'altra faccia è quella di una Milano del privilegio, che spesso non ha niente a che fare con il bisogno. Perché, se non è una colpa pagare un canone bassissimo rispetto a un mercato immobiliare tra i più cari d'Italia, è una colpa - degli enti pubblici - aver permesso che per decenni si stratificassero privilegi. Con il risultato che oggi tanti di quegli indirizzi in pienissimo centro sono abitati da professionisti - medici, architetti, giornalisti... - e da qualche amico e parente di. Non solo da quei bisognosi per aiutare i quali erano nati in anni lontani questi serbatoi immobiliari, ancor oggi rimpinguati da lasciti privati. I tre enti, sotto la spinta di partiti d'opposizione e giornali, hanno iniziato a pubblicare sui siti gli elenchi degli immobili. Ma è un'operazione trasparenza con qualche alone di troppo: a volte mancano le date di fine locazione, quasi sempre i nomi degli inquilini, o ancora ci sono generici raggruppamenti di immobili senza alcuna specifica economica. Fa una premessa Mario Breglia, presidente di Scenari immobiliari: "Alcuni palazzi sono malconci, gli enti non pagano le manutenzioni e quindi tocca agli inquilini anche ristrutturare". Ma i confronti sono pesanti. Il quadrilocale in via Dogana vista Duomo a 453 euro al mese, 5.400 euro all'anno? Sul mercato varrebbe cinque volte tanto. I 73 metri quadri in via Bagutta a 331 euro? Un'agenzia immobiliare chiederebbe almeno il triplo. "Il problema, però, non è quello di far pagare di più gli inquilini - argomenta Breglia -, quanto quello della mancanza di regole certe su chi ha diritto a quelle case, e sulle modalità di ricambio degli affittuari. Se un anziano padre ha la pensione minima non dovrebbe subentrargli allo stesso canone il figlio professionista. Milano ha fame di alloggi a canoni bassi per fasce sociali che, altrimenti, sono costrette a lasciare la città". In via Pellico, nel cortile alle spalle di boutique e bar famosi, c'è ancora l'84enne vedova del portinaio dello stabile. Ma nel palazzo successivo c'è anche il modello con pied-a-terre di 80 metri quadri a meno di 500 euro al mese, 5.700 euro in un anno. E in via Caminadella, viuzza chic in zona Cattolica, 177 metri quadri non arrivano a 2mila euro al mese, grazie ai contratti del Policlinico. Per comprendere come sia nata la giungla dei prezzi e dei favori è necessario andare indietro nel tempo fino alla fine degli anni Settanta quando Trivulzio, Policlinico e in parte anche il Comune affittavano le proprie case a prezzi di equo canone con bandi aperti che premiavano i bene informati. "I primi a sapere delle case in affitto erano i primari e i dirigenti dell'ospedale, ma anche i politici - racconta un anziano funzionario del Policlinico, oggi in pensione - lo dicevano agli amici, che facevano richiesta". Nulla cambia fino al 1992, quando la legge 359 introduce i "patti in deroga": ogni ente può decidere se affittare gli appartamenti che si liberano a prezzi di mercato oppure confermando l'equo canone. Trivulzio e Policlinico scelgono la seconda ipotesi per la maggior parte del patrimonio, il Comune valuta caso per caso. Palazzo Marino negli anni Novanta diversifica i nuovi contratti al punto che nello stesso stabile c'è chi paga l'equo canone, chi è "concessionario di spazi" e chi versa cifre vicine a quelle di mercato. Vicine, ma mai troppo: in via della Guastalla, zona Tribunale, 105 metri quadri costano all'inquilino 1.208 euro al mese. Per chi è già dentro le case nulla cambia invece fino al 1998, quando la legge 431 prevede che l'equo canone sia sostituito da tariffe concordate fra Comune, sindacati inquilini e associazioni dei proprietari immobiliari. Da quindici anni almeno, quando un appartamento si svuota viene messo in affitto al prezzo "libero" definito dall'agenzia del Territorio, in media tre quarti del valore corrente. "È sbagliato porre l'accento sui casi di privilegio - dice Marco Bistolfi, segretario provinciale del Sicet - la sopravvivenza del sistema dei prezzi concordati per il rinnovo dei contratti ha consentito a inquilini poveri di evitare il dramma degli sfratti". E a molti "fortunati" di risparmiare migliaia di euro all'anno.
Dal TGCOM: Affittopoli bis, arrivata lista vip. La busta con i 1064 inquilini di appartamenti di proprietà del Pio Albergo Tribuzio di Milano, ente pubblico senza scopi di lucro, è stata consegnata al presidente della Commissione Casa e Demanio, Barbara Ciabò (Fli). "Se verrà fuori che ci sono politici - ha detto Ciabò - che hanno abusato del loro ruolo per pagare di meno penso che il loro comportamento potrà essere definito moralmente indegno. Vedremo se ci sono delle irregolarità". La lista degli inquilini del Pio Albergo Trivulzio consegnata al Comune di Milano potrebbe non essere completa: è il sospetto sollevato durante i lavori della commissione consiliare Casa. Ad avanzare il dubbio è Barbara Ciabò. "Sembra che manchino 150 immobili - ha attaccato la consigliera futurista - se questo sospetto trovasse fondamento sarebbe gravissimo: un vero affronto al consiglio comunale di Milano". Ad alimentare i sospetti è stato anche Vincenzo Giudice, esponente del Pdl e dipendente del Pat: nell'elenco mancherebbero gli immobili di via Sottocorno e di via Menotti. Una chiave del giallo potrebbe essere legata al fatto che in questi anni i beni non presenti nell'elenco potrebbero essere stati venduti. Ed è proprio sul piano delle dismissioni immobiliari che il Pd è pronto a dar battaglia.
C'è Braida del Milan e un Montezemolo. C'è anche il direttore generale del Milan, Ariedo Braida, tra gli inquilini delle case di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Il suo nome figura infatti nella lista. Il dirigente rossonero vive infatti in piazza del Carmine, nel quartiere Brera, dove ha un contratto dal 1 aprile dello scorso anno: 17.300 euro il canone annuo, più 1.244 di spese per una casa di 84,59 metri quadrati. Tra gli altri nomi spicca anche un Cordero di Montezemolo, il cui nome è però stranamente soltanto puntato con una 'D'. Il soggetto dall'illustre cognome è intestatario dal 29 giugno scorso di un ufficio in piazza Mirabello di 43 metri, per cui paga un canone di 9.100 euro più 1.800 di spese.
Spunta la poliziotta del caso Ruby. Si trova, spulciando l'elenco, anche il dirigente della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Milano, impegnata nell'inchiesta sul caso Ruby, Maria José Falcicchia. Il nome della Falcicchia è legato a un'abitazione di 75 metri quadrati in via San Marco 20 angolo via Montebello 7, vicinissimo alla Questura, per il quale è previsto un canone di 11.262 euro più 980 di spese. Il contratto risale al 13 gennaio 2011. Tra gli altri nomi si nota anche Martino Pillitteri, figlio dell'ex sindaco Paolo e cugino dell'attuale assessore ai servizi civici del Comune.
A Carla Fracci un appartamento in via della Spiga. Il nome di Carla Fracci, maestra della danza classica, compare nella lista degli affittuari del Pio Albergo Trivulzio di Milano. La Fracci abita in via dell Spiga 5, nel cuore del quadrilatero della moda, in un appartamento di circa 187 metri quadrati per un affitto di 45.593 euro, più 6.148 euro di spese.
Pisapia: "Fango contro di me". "C'è stato un vortice di telefonate anonime, nel puro stile della macchina del fango. Il fatto è semplice: la mia compagna abita da molti anni, da prima che noi ci conoscessimo, in un appartamento di proprietà di un ente pubblico. Lei non è candidata a niente, è un privato cittadino, è semplicemente una donna che lavora. Paga il regolare affitto che è previsto". Così sul suo blog personale, Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra alla poltrona di sindaco di Milano, spiega l'affaire 'affittopoli' che coinvolgerebbe la compagna e giornalista Cinzia Sasso. Cinzia Sasso, storica penna proprio di Repubblica Milano. L'ipotesi è che la Sasso abbia avuto in locazione dal 1989 una casa del Pio Albergo Trivulzio a prezzi scontati. "Non è un reato, abitare in una casa di proprietà di un ente pubblico. Mentre certo è un problema l'incapacità degli enti che dispongono di un patrimonio immobiliare di gestire al meglio le proprie disponibilità - scrive Pisapia.
Sul punto si riporta la testimonianza di Filippo Facci, vero Giornalista e memoria storica degli eventi italiani e milanesi in particolare. "Anzitutto c’è un conflitto d’interessi, perché sono amico personale di Giuliano Pisapia. Tutto pensavo, inoltre, tranne che l’appartamento in cui vive la simpatica collega Cinzia Sasso, compagna di Pisapia, potesse interessare ancora a qualcuno, visto che me ne occupai la bellezza di 17 anni fa e che ne scrissi addirittura in un paio libri: nel 1994 e nel 1997. Quello che posso fare, ora, è rinfrescare la memoria circa un paio di episodi che nessuno ricorda, forse neppure Cinzia Sasso. La giornalista ha scritto una lettera al Corriere della Sera in cui diceva: «Sono la compagna di Giuliano Pisapia e abito in un appartamento di proprietà del Pat... siccome ho visto che alcuni nomi - ma non il mio - sono stati pubblicati, preferisco violare la mia privacy per raccontarti i fatti miei. Vivo da 22 anni in quell’appartamento... Dal 2008 il mio contratto è scaduto; nel frattempo ho trovato un’altra casa e ho mandato al Pat una lettera di disdetta del contratto di affitto». Probabile che Cinzia Sasso, mentre scriveva, fosse già stata contattata dal collega di Libero Edoardo Cavadini, a cui aveva detto: «Ero appena arrivata a Milano da Venezia e non avevo ancora conosciuto Giuliano, stavo con il mio ex marito. Con lui ho affittato la casa, ma sinceramente non ricordo come siamo entrati in contatto con il Pio Albergo Trivulzio, è passato troppo tempo». Ecco, su questo posso soccorrerla. A pagina 149 del mio libro-intervista a Paolo Pillitteri «Io li conoscevo bene» (roba del 1994) l’ex sindaco di Milano racconta questo: «Si immagini una mattina di primavera, oltre il Castello Sforzesco, vicino alla Triennale. Io me ne pedalavo in bicicletta per parchi e viali. Incontriamo una giovane coppia con un neonato in braccio, mi fermano: saluti, complimenti, soliti commentini e confidenze». Lei è Cinzia Sasso di Repubblica, lui è Giovanni Cerruti de La Stampa. Continua Pillitteri: «Poi un attimo di serietà e, come spesso mi capitava, una richiesta: il nucleo familiare ha bisogno di un nido, una casa, “tu che puoi, tu che sei il sindaco, tu che ci sei amico”: un classico. Il lunedì successivo cerco il presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, e gli chiedo se sia possibile assecondare la famigliola. Io, data l’urgenza, insisto. Ma non è che scossi troppo il pragmatico Chiesa, visto che la settimana dopo si fece viva per una risposta la mammina giornalista. In breve: risollecito Chiesa in modo pressante, quasi gli do un ordine: finché dopo qualche giorno m’informa che il tetto è stato trovato. I due, informati, ringraziano sentitamente, non tanto me ma un mio funzionario». Poi, però, arriva Mani pulite. «Le confesso che non mi sarei mai aspettato», concludeva Pillitteri, «di dover leggere nelle cronache dei loro giornali invettive feroci contro i clientelismi socialisti, questi craxiani “che avevano dato le case ai loro amici”. Sono rimasto senza parole». L’ex sindaco di Milano probabilmente si riferiva anche a quanto avrei annotato in un secondo libro, «Di Pietro, biografia non autorizzata» (1997): cioè che Cinzia Sasso, assieme a Giuseppe Turani, non ebbe problemi a pubblicare «I saccheggiatori. Facevano i politici ma erano dei ladri» (Sperling&Kupfer, 1992) e cioè un libro concentrato soprattutto sul sistema messo in piedi da Mario Chiesa, presidente del pio Albergo Trivulzio: un libro che fu scritto nell’appartamento che Mario Chiesa aveva procurato. Ciascuno sopravvive come può. Se faccio spallucce, ora, è perché ai tempi, quando scrissi il libro-intervista con Pillitteri, rivelai ben altri affitti di favore: ma non successe assolutamente nulla. Tra questi un equo canone ad Antonio Di Pietro (vicenda che sarebbe esplosa un paio d’anni dopo) e un altro a Giulio Catelani, allora procuratore generale a Milano. Non accadde nulla, perciò, neanche per il caso più trascurabile di Cinzia Sasso, tanto che la giornalista restò nell'appartamento e rinnovò il contratto nel 1999, come lei stessa ha raccontato. Non averlo disdetto con largo anticipo, rispetto alla candidatura a sindaco del suo attuale compagno, Giuliano Pisapia, è l’ingenuo errore che le si può addebitare."
LA MAFIA NON E' UNA ENTITA' ASTRATTA A CUI DARE LA COLPA NEL MOMENTO IN CUI NON SI PUO' O NON SI VUOLE TROVARE IL RESPONSABILE DI UN REATO. LA MAFIA E' UN ATTEGGIAMENTO.
Al sud Italia ci sono organizzazioni mafiose italiane: "Cosa Nostra" in Sicilia; "Ndrangheta" in Calabria; "Sacra Corona Unita" in Puglia; "Basilichi" in Basilicata; "Camorra" in Campania.
Mario Portanova è nato a Milano nel 1967. Giornalista, lavora per il settimanale Diario. Ha pubblicato con Giampiero Rossi e Franco Stefanoni, Mafia a Milano. (Editori Riuniti).
Abitualmente non si pensa al Nord Italia come vittima della criminalità organizzata, eppure le cose non stanno proprio così: puoi darci qualche elemento di comprensione in più?
"Le organizzazioni mafiose sono presenti e solide nel Nord Italia da decenni, soprattutto in Lombardia e Piemonte. Le analisi più recenti della Direzione nazionale antimafia segnalano consistenti presenze mafiose in Liguria, Valle d’Aosta e persino in Trentino-Alto Adige. A Milano, per esempio, l’arrivo di Cosa nostra risale agli anni Cinquanta, quando si stabilì in città Giuseppe Doto detto Joe Adonis, mafioso espulso dagli Stati Uniti. Luciano Liggio, il capostipite dei Corleonesi, abitava stabilmente a Milano quando fu arrestato nel 1974. E pochi ricordano che nel 1983 fu la ‘ndrangheta piemontese a uccidere il procuratore capo di Torino Bruno Caccia. Il consolidamento delle organizzazioni mafiose è avvenuto in parallelo con le grandi ondate migratorie dal Sud e con la pratica di mandare i mafiosi al soggiorno obbligato al Nord per allontanarli dai loro affari nelle terre d’origine. Le grandi operazioni antimafia in Lombardia degli anni Novanta hanno svelato le dimensioni del fenomeno: tra il 1990 e il 1994 gli arresti di mafia furono circa duemila. Tanto in Piemonte quanto in Lombardia, oggi l’organizzazione criminale più forte è indubbiamente la ‘ndrangheta, che controlla in particolare il traffico di droga ed è presente con le sue imprese anche nell’economia lecita."
Il denaro circola di certo a Milano più che altrove, i grandi capitali illeciti trovano un terreno interessante nel capoluogo lombardo. In quali settori, a tuo parere, vengono investiti e riciclati i guadagni "sporchi"?
"A Milano ci sono stati periodici allarmi sulla penetrazione dei capitali mafiosi in Borsa, ma non si è mai arrivati a nulla di concreto, probabilmente anche per la difficoltà di tracciare i soldi che circolano in piazza Affari. Negli anni Sessanta-Settanta ci fu il caso eclatante di Michele Sindona, i cui legami con la mafia siciliana sono stati accertati oltre ogni dubbio in sede processuale. Nel 1979 fu un killer della mafia italo-americana, William Arico, assoldato da Sindona, a uccidere a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore dell’impero del finanziere ormai travolto dalla bancarotta. L’ombra di Cosa nostra (e un ruolo certo della Banda della Magliana) appare anche nel caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano, per il quale ci sono procedimenti giudiziari ancora in corso. Le indagini hanno, però, dimostrato che la criminalità organizzata del Nord investe i suoi enormi guadagni illeciti sopratutto in attività economiche relativamente piccole: ristoranti e pizzerie, bar, negozi, imprese edili e immobiliari, concessionarie d'auto e in generale imprese che partecipano ad appalti pubblici. I patrimoni sono comunque enormi: nel 1993, alla famiglia "ndrangheta" dei Papalia, insediata a Buccinasco, nell'Hinterland sud di Milano, furono sequestrati beni stimati in 100-150 miliardi di lire."
Da qualche anno sono presenti nel nostro territorio altre "mafie" oltre a quelle nostrane: quali sono le più pericolose e in che modo operano?
"Certamente la mafia albanese, in particolare kosovara, ha un ruolo importante nel traffico di droga al Nord, così come le organizzazioni nordafricane. Nel traffico di droga, spesso le mafie straniere cooperano con quelle italiane. Come avviene nell’economia legale, agli immigrati stranieri vengono poi affidati i lavori di livello più basso, cioè il trasporto e lo spaccio. Gli investigatori guardano con sempre maggiore preoccupazione alla mafia cinese insediata nelle comunità del Nord Italia. È una mafia che opera quasi esclusivamente all’interno delle comunità cinesi, quindi molto difficile da perseguire. Le sue attività principali riguardano l’immigrazione clandestina, la droga, la prostituzione, la contraffazione, il lavoro nero in condizioni di schiavitù."
Nonostante l'evidenza dei fatti, con la cronaca che ci parla di continui arresti per associazione mafiosa con infiltrazioni in appalti pubblici e nel tessuto economico locale in tutto il territorio nazionale, qualcuno si ostina a relegare il fenomeno "Mafia" solo nel territorio del Sud Italia.
Invece la mafia siamo noi: i media che tacciono, le istituzioni che colludono, i cittadini collusi e codardi che emulano.
Quello che stiamo per raccontare è un «processo nascosto». Un altro processo che - come quello che si tiene a Palermo contro il generale Mario Mori e il colonnello Obinu - è totalmente uscito dalle cronache. E anche in questo processo - che si celebra davanti all’ottava corte d’assise di Milano - tra gli imputati ci sono nomi importanti delle forze dell’ordine.
Uno è, anche qua, il colonnello Obinu. Un altro nome, il più importante, è quello del generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. E, se la sua posizione non fosse stata stralciata, ci sarebbe anche un magistrato: Mario Conte. In tutto gli imputati sono ventidue, accusati di reati gravissimi: associazione delinquere armata dedita a importare e vendere enormi quantità di droga (eroina, coca e hashish) in tutta Italia.
Il primo a sentire puzza di bruciato fu un giudice Armando Spataro, allora sostituto procuratore a Milano. Nel gennaio del 1994 ricevette da Ganzer, col quale all’epoca aveva un rapporto di amicizia e stima, la richiesta di un’autorizzazione a ritardare il sequestro di una partita di droga. «Mi disse che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce».
Spataro firmò decreto di ritardato sequestro. Ma i piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu messa in atto. Fin qua niente di strano. Ma, dopo aver compiuto l’operazione, il Ros non diede più informazioni. Insospettito, Spataro si presentò negli uffici romani del Raggruppamento operativo speciale e chiese notizie attorno al sequestro dei due quintali di cocaina. Gli fu mostrata della droga conservata in un armadio. Si trattava solo di leggerezza nella gestione dei reperti? Di sciatteria? Quando, molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò l’ipotesi di vendere quella droga a uno spacciatore di Bari, Spataro decise di informare il capo della procura e alcuni suoi colleghi. E ordinò la distruzione della droga.
Il processo ruota attorno a questi comportamenti. Il Ros li presentava come tecniche investigative e, in effetti, di tanto in tanto effettuava operazioni antidroga. Secondo i giudici, invece, gli stessi carabinieri erano diventati protagonisti del traffico e le «brillanti operazioni» non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica. Un elemento fondamentale per l’inchiesta che ha portato al processo fu acquisito nel 1997 a Brescia dal giudice Fabio Salamone.
Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto «Il Rosso» gli raccontò che nel 1991 due carabinieri del Ros lo avvicinare in carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo della droga. In realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il 1997 ne furono reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti provocatori, come spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei trafficanti.
«Il Ros - scrivono i giudici nel rinvio a giudizio - instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione né alla loro denuncia... ordina quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». «Si tratta - annota la Procura di Milano - di istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti». Al giudice Salamone questo quadro è stato confermato, in alcuni importanti aspetti, da due sottufficiali dei carabinieri che figurano tra gli imputati.
Sempre secondo l’accusa, i comportamenti illeciti furono coperti e agevolati dal magistrato Mario Conte, che allora lavorava a Bergamo: il suo ruolo nelle «operazioni antidroga» era fondamentale perché, con la sua firma, forniva ai Ros la copertura legale. «Con Obinu e Ganzer - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio - il sostituto procuratore Conte promuove, costituisce, dirige, organizza l’associazione a delinquere. Ne delinea il modus operandi. Gestisce la collaborazione dei trafficanti Enrique Luis Tobon Otoya (colombiano ndr.), Ajaj Jean Chaaya Bou (libanese ndr.) e Biagio Rotondo, agevolandone l’attività anche durante i periodi di detenzione. Fornisce un contributo rilevante con direttive e provvedimenti, emessi anche al di fuori della competenza territoriale. Partecipando personalmente, in più occasioni, ad interventi operativi».
E c’è di più perché quando l’inchiesta di Salomone decolla, Conte viene trasferito proprio a Brescia, nell’ufficio accanto a quello del collega che lo sta indagando. Oggi Conte, rinviato a giudizio nel 2005 con gli uomini del ROS, per motivi di salute non figura tra gli imputati e sarà processato a parte.
Non è solo una storia di droga Secondo l’accusa tra le mani degli ufficiali sono anche passate molte armi. Come il carico della nave «Bisanzio», giunta Ravenna da Beirut nel dicembre 1993 che, oltre a migliaia di chili di stupefacente trasportava 119 kalashnikov, due lanciamissili, quattro missili e numerose munizioni, venduti in cambio di una somma di denaro di cui si è persa ogni traccia. Due erano gli acquirenti, la cui posizione è stata archiviata, entrambi legati alla famiglia mafiosa calabrese dei Macrì-Colautti. Perché è stato fatto tutto questo?
La procura di Milano lo spiega con poche inequivocabili parole: «Per pervenire a brillanti operazioni di polizia in attuazione di un metodo sistematico che consentiva di conseguire visibilità e successo». Carriera e visibilità. Ma anche soldi. Quasi tre miliardi di lire provenienti dalla vendita della droga, di cui il PM Conte e gli ufficiali del ROS, tra i quali Ganzer e Obinu, avrebbero «omesso il sequestro e la documentazione sulla successiva destinazione, appropriandosene». Simile sorte sarebbe toccata a svariati chili di stupefacenti che, importati in Italia dagli uomini in divisa, sarebbero finiti sul mercato.
Il «processo nascosto» era iniziato da quasi due anni quando, il 29 agosto 2007, il principale teste d’accusa si suicidò nel carcere di Lucca. Biagio Rotondo, «Il Rosso», era stato arrestato cinque giorni prima con l’accusa di detenzione abusiva di arma e ricettazione perché, durante un controllo dei carabinieri, all’esterno del ristorante dove lavorava era stata trovata una vecchia pistola nascosta in un tovagliolo.
Prima di togliersi la vita, Rotondo scrisse una lettera indirizzata ai magistrati. Il pubblico ministero Luisa Zanetti l’ha letta il 20 settembre 2007, nell’aula dove si celebra il processo: «Confermo che tutto quello che ho detto corrisponde a verità. È un momento tragico per la mia vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è per me insopportabile. Vi scrivo per farvi che non vi ho mai tradito e che la fiducia in me è stata ben riposta. Vi chiedo scusa per questo insano gesto...Spero che mi ricorderete con simpatia».
Ma non sempre tutto passa sotto silenzio.
Sarà importante leggere la sentenza del tribunale di Milano, che il 4 novembre 2009 ha deciso il non doversi procedere nei confronti di Pollari e Mancini, ex numero uno e numero due del Sismi, per l’esistenza del segreto di Stato e ha invece condannato due altri funzionari per favoreggiamento. La cosa rimane di difficile comprensione a caldo, perché è come se un omicida venisse assolto e un’altra persona venisse invece condannata per averlo aiutato a commettere un delitto che non è stato possibile accertare.
Naturalmente sono state diverse le reazioni degli imputati a seconda della conclusione del processo. L’ex numero due del Sismi, Mancini, per cui erano stati chiesti dieci anni, è uscito precipitosamente dall’aula e ha cercato visibilmente di contenere le emozioni, prima di essere affiancato dai suoi legali: «Nessuna dichiarazione», gli hanno suggerito.
A chi gli faceva notare come non fosse una sentenza di assoluzione nel merito, ma, appunto un non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato, Mancini aveva già risposto: «Guardate che non è una malattia».
Costernato, invece, il colonnello dei carabinieri Luciano Seno, condannato a tre anni per favoreggiamento: «Ma, come quelli sono assolti dal sequestro e io condannato? È una follia».
Difficile dargli torto.
Tira finalmente il fiato, questo carabiniere di Dalla Chiesa. La sentenza che l’ha condannato è per il processo ai vertici del Sismi e della Cia per il sequestro a Milano dell’ex imam Abu Omar. L'ombrello di un discusso segreto di stato ha preservato il capo dei capi, Generale Nicolò Pollari, ha preservato il suo diretto superiore, Marco Mancini, ma non lui. Che nell'indagine entra soltanto per avere passato il telefonino di servizio, così come richiestogli da Mancini, a un altro collega del Sismi, il generale Gustavo Pignero, già gravemente ammalato e ora scomparso. Mentre il giudice Oscar Magi leggeva il verdetto, Seno era in fondo all'aula. Solo. Lontano dai fotografi. Una valigetta in mano. «Ho obbedito a un ordine legittimo — ribadisce il colonnello — non ha mai saputo nulla del sequestro di Abu Omar se non dai giornali, e questo è il risultato... una follia del sistema. Chi imputa al Sismi un lavoro sbagliato e malfatto come la vicenda Abu Omar sbaglia di grosso, nessuno di noi avrebbe agito in quel modo...». Se gli chiedi se è stato un bravo carabiniere, il colonnello ritrova il sorriso. «Per me parlano le indagini, io non devo dire niente...». Si sfrega il mento, si aggiusta la giacca, il colonnello. E prima di salutare sussurra poche parole. «Fa male vedersi trattare come un delinquente».
Tutti si definiscono giornalisti, pochi lo sono veramente. Testimonianza “Per fatto personale”, scritta da Filippo Facci. "Alla fine del mio «Di Pietro, la storia vera» c’è un fuori-capitolo che racchiude alcune peripezie personali che ho sempre omesso di raccontare. Non farlo neppure stavolta sarebbe stata reticenza."
Avevo ventiquattro anni e volevo fare il giornalista. Nel gennaio 1991 vantavo già tre o quattro querele e fu allora che incontrai Antonio Di Pietro per la prima volta. Avevo cominciato presto, e dal giornaletto in cui spadroneggiavo, a Monza, approdai a delle collaborazioni con «l’Unità» e con «la Repubblica». Tuttavia le querele giungevano scientificamente solo al giornaletto che mi dava da vivere e che perciò dovetti lasciare.
Di Pietro lo conobbi appunto per una querela: era in toga e me l’indicarono; gli rivolsi un saluto formale che lui non ricambiò. Non gl’importava nulla di quella causa, lo si capiva. Sembrava mestamente annoiato dalle sciocchezze e dalle querele di me giornalistucolo, e quella sua burocratica indolenza non me la sarei più schiodata dalla mente. La querela non ebbe seguito.
Finito il militare, i miei contatti con «l’Unità» e con «la Repubblica» erano saltati. Mi ero sposato l’anno prima, a ventitré anni, ed ero disoccupato: l’unico contatto che riuscii a procurarmi fu con la redazione milanese dell’«Avanti!», dove per un paio d’anni avrei lavorato da abusivo. A me importava solo di fare il giornalista.
Mi diedi da fare. Di Pietro lo rividi nel dicembre 1991 quando mi mandarono a intervistarlo con la testuale premessa che era «amico nostro». L’incontrai di nuovo seguendo Mani pulite: l’«Avanti!» era ritenuto il giornale dei ladri e lo chiamavano «la gazzetta degli avvocati», e tra una diffidenza e l’altra i nervi di una mia collega avevano cominciato a cedere; avevano mandato avanti me perché secondo il mio caporedattore ero un «cane sciolto».
Ma un cronista dell’«Avanti!», al tempo, aveva poche alternative tra l’essere considerato un cane sciolto o l’essere considerato un cane. Ricordo quando entrai nella sala stampa del palazzo di giustizia e tutti uscirono, come capitò anche a un cronista del «Secolo d’Italia». Ricordo quando davanti a una clinica privata, dove un famoso finanziere era agli arresti ospedalieri, il gruppetto dei cronisti cambiava marciapiede a seconda della mia posizione. Quando mi capitò di pubblicare dei verbali d’interrogatorio che guastarono i piani di chi scriveva in pool, poi, un collega mi disse a brutto muso che secondo lui i miei verbali erano falsi. Un altro cronista mise in relazione la fuga notturna di un dirigente socialista con una mia possibile spiata. Lo scrisse pure.
In tutto questo la situazione si era fatta ancora più complicata perché la sede romana dell’«Avanti!» vedeva nella redazione milanese un avamposto craxiano – ciò che era – e man mano che decresceva il potere di Craxi cresceva anche il tentativo di isolarci e di toglierci peso. Io formalmente neppure esistevo: non avrei potuto neanche stare in redazione; il direttore di allora, su cui non esprimo un’opinione perché non ho l’immunità parlamentare, si chiamava Roberto Villetti e ogni tanto telefonava da Roma per sincerarsi che io fossi rimasto a casa o scrivessi comunque da fuori, quando invece in redazione praticamente ci dormivo. A un certo punto, in un periodo in cui peraltro non arrivava più una lira perché le tangenti erano finite – questo l’avrei appreso poi – Villetti prese a togliermi anche la firma dagli articoli: ma neppure sempre, a giorni alterni, quando capitava. Pensai di aggirare l’ostacolo ricorrendo alla doppia firma col mio caporedattore milanese, Stefano Carluccio, un amico: ma a un certo punto il direttore risolse togliendo solo la mia firma e lasciando quella di Carluccio sotto articoli che però avevo scritto io.
Nell’insieme: lavoravo da abusivo per il giornale dei ladri, ero disprezzato dai colleghi e da chiunque in quel periodo sapesse dove scrivevo, completamente gratis, in teoria non potevo neppure entrare in redazione e sotto i miei articoli c’era la firma di un altro. Però c’era la salute.
Continuai a seguire Di Pietro e Mani pulite anche quando l’atmosfera si fece ancora più elettrica e quando due persone che conoscevo, inquisite, si suicidarono. Scrivere sull’«Avanti!» certo mi forzava a guardare le cose da un punto di vista speculare, ma probabilmente c’entrava anche il mio carattere e un’età in cui avevo davvero poco da perdere. In ogni caso il clima che ribolliva nel paese non mi piaceva. Mi venne naturale raccogliere del materiale su cui lavorare: di giorno, quindi, seguivo la cronaca, e la sera ci ragionavo, approfondivo, scrivevo, ne discutevo sino a tarda notte.
Continuai a occuparmi di Di Pietro anche quando l’«Avanti!» chiuse i battenti e rimasi a spasso. Era la fine del 1992. Fu un brutto colpo, soprattutto perché ormai ero catturato dagli avvenimenti. La redazione era chiusa ma spesso ci dormivo dentro perché a casa c’era qualche problema. Presi a indagare, feci domande in giro, raccolsi ritagli di giornale. Un paese intero invocava manette e io intanto fingevo di fare il giornalista come di consueto: assumevo informazioni, le ordinavo, le assemblavo, ne parlavo: solo che, il giorno dopo, non usciva nessun mio articolo. Mi limitavo a ingrassare e limare un mio libro impossibile, una sorta di rivisitazione della carriera di Di Pietro e della sua inchiesta devastante. Non avevo nient’altro da fare, né di nient’altro m’importava.
Era il periodo dei governi che non riuscivano a governare, l’anno delle bombe a Milano e a Roma, delle speculazioni internazionali: l’atmosfera da torbido complotto era illuminata solo dalla mirabolante traiettoria di Antonio Di Pietro. Un sondaggio, tra «abbastanza», «molta» e «moltissima», gli attribuiva il 90 per cento della fiducia degli italiani. Neppure certi suicidi eccellenti avevano scosso l’opinione pubblica: il 60 per cento degli italiani riteneva che l’uso della carcerazione preventiva andasse bene così. Neppure quel clima da carboneria e la mia vocazione di bastiancontrario mi divertivano più: ero pur sempre un ragazzo di ventisei anni che voleva fare il giornalista. Cercai di defilarmi.
Scrivevo. Il libro era ormai denso e particolareggiato sino alla paranoia, quasi quattrocento pagine che ingenuamente e nelle maniere più improbabili tentai di proporre a qualche casa editrice. Non interessò a nessuno perché ero un perfetto sconosciuto, ma nondimeno perché era il periodo che era. Sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni » l’icona del magistrato più amato dagli italiani troneggiava su un titolo cubitale: Di Pietro facci sognare.
Conobbi Bettino Craxi semplicemente telefonandogli: fu poco prima che quasi lo linciassero all’Hotel Raphaël, all’inizio del 1993. Non dirò nulla di lui. Conobbi altre persone tra le più care, in quel periodo: uomini e ragazzi che difendevano storie che non erano le loro, e che dicevano follie che un giorno sarebbero state ovvie. L’effervescenza di Mani pulite mi disvelò codardie raggelanti e dignità insospettabili.
Il mondo delle persone normali, a poco a poco, mi perse. Sfumarono amicizie e affetti, il matrimonio era ormai consunto, mio padre intanto leggeva il forcaiolo «Indipendente» di Vittorio Feltri. Poi, un giorno di aprile, mi telefonò un personaggio di una fantomatica casa editrice straniera, uno che diceva di aver saputo del mio dattiloscritto da qualche collega di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano. Si disse interessato. Ci vedemmo due volte in un bar del centro e nel secondo incontro mi mostrò anche un libro pubblicato da questa casa editrice straniera, la Marshall di Dublino. Nel trattenere una copia del mio lavoro mi disse che uno scritto come il mio in Italia non sarebbe mai stato pubblicato, e con mio sbigottimento mi diede una busta che – verificai poi – conteneva 4 milioni in contanti. Gli lasciai anche due mie foto. Una, lo feci per scherzare, mi ritraeva che avevo circa un anno.
A metà luglio il settimanale «Il Sabato» pubblicò un dossier che conteneva tutta una serie di notizie imbarazzanti per Antonio Di Pietro. Erano cose che perlopiù conoscevo e che nel mio libro fantasma avevo sviluppato in parte meglio e in parte peggio. Furono sbrigativamente bollate come «calunnie» come capitava a ogni minimo rilievo mosso contro Di Pietro, ma fu un altro fatto a colpirmi. Mi suonavano stranamente familiari, di quel dossier, almeno un paio di passaggi. Ebbi l’impressione che l’estensore avesse quantomeno consultato il mio libro fantasma, ma fu solo un primo campanello d’allarme. Presto un altro episodio l’avrebbe terribilmente superato.
Il mio ex caporedattore, Stefano Carluccio, mi convinse a fare causa all’«Avanti!» così da ottenere almeno il praticantato d’ufficio, un riconoscimento legale che mi avrebbe permesso di fare l’esame da giornalista professionista. All’Ordine della Lombardia c’era Franco Abruzzo, ritenuto vicino a quel che rimaneva del Psi. La mia causa fu accolta. A Roma feci l’esame scritto e scelsi un tema sul cosiddetto «nuovismo» maturato dopo Mani pulite, anche se l’enfasi della titolazione avrebbe potuto indurmi a migliori consigli. Fui soddisfatto del mio lavoro, ma tempo dopo appresi che mi avevano bocciato. Diedi di nuovo l’esame scritto e scelsi l’analisi di un decreto legge sulla giustizia, il Decreto Gargani. Presi il voto più alto di tutta la sessione. Preparai l’orale e intanto non combinavo granché.
Nel dicembre 1992 avevo conosciuto l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, ex amicone di Antonio Di Pietro, e mi aveva già confidato qualche notevole aneddoto su Tonino, Ninì come lo chiamava lui. Passavo a trovarlo nella ridicola speranza che potesse aiutarmi a trovare lavoro e mi dava udienza anche perché era avvolto da una solitudine impressionante. Un giorno mi mostrò un faldone pieno di appunti infarciti di correzioni illeggibili, voleva una valutazione. La forma faceva abbastanza schifo e glielo dissi, ma gli proposi di fare un libro intervista purché corredato di domande e risposte vere. Pillitteri aveva lottizzato e piazzato giornalisti ai più alti livelli, ora aveva me. Ci mise un po’ ad accettare. A lavoro finito, l’ex sindaco mi favorì due appuntamenti con due editori, ma andò male. Nel febbraio 1994 tentai di mia iniziativa con la romana Newton Compton e sorpresa: accettarono. Mi posero dei tempi di consegna strettissimi così da uscire entro le elezioni del 27 marzo. Ero sbalordito.
L’esame orale da giornalista fu sempre in febbraio. Si doveva discutere una tesina scelta dal candidato e rispondere a un po’ di domande. I commissari sbirciarono il voto dello scritto e si compiacquero. Ma poi, di fronte a una commissione composta da magistrati e giornalisti, cominciai a discutere la tesina «Commistioni tra magistrati e giornalisti nell’inchiesta Mani pulite» perché ero fatto così. Anche un po’ scemo, a riguardarmi oggi, ma ero uno che non mollava mai. Gli altri aspiranti professionisti sgranarono gli occhi di fronte all’harakiri e l’esame non fu piacevole, durò almeno il doppio del consueto e anche la camera di consiglio si protrasse per un’ora secca. Fui promosso col minimo dei voti, grazie, appresi, a un commissario che poi venne a cercarmi.
Ero finalmente un disoccupato professionista e pensai che l’importante fosse non fermarsi. Cominciai a girare da un avvocato all’altro per raccogliere varie storie di malagiustizia, mia vecchia passione di quando sedicenne militavo nei Radicali. Cercai di condensare queste storie in un altro volume in cerca di fortuna. Ogni tanto ripensavo all’improbabilità di quell’editore straniero, tutte le stranezze, i contanti senza ricevuta, neppure un numero telefonico o un indirizzo dove rintracciarlo. Era sparito e pensai che potesse essere normale in un periodo in cui nulla lo era.
Un vecchio amico di mio padre lavorava alla neonata «Voce» di Montanelli, e provai lì. Erano in overbooking, ma il tizio mi procurò un appuntamento con Maurizio Belpietro, vicedirettore del «Giornale ». Quest’ultimo mi accompagnò dal capo della cronaca di Milano, Daniele Vimercati, e gli propose di mettermi alla prova. Ma non mi chiamò mai. Era un ottimo giornalista, era vicino alle posizioni di Bossi e io ero uno che aveva lavorato all’«Avanti!» da abusivo.
Un mattino mi segnalarono uno dei tanti anonimi su Mani pulite che circolavano per le redazioni. C’era una copertina grigia col titolo Gli omissis di Mani pulite e risultava edito da una certa «Marshall Ltd-Irlanda», firmato da Anonimo giornalista. Centonovantadue pagine fitte. Era il mio libro, Anonimo giornalista ero io. Sulla retrocopertina, piccolina, c’era anche la mia foto di quando avevo un anno.
Rimasi di sale. Da una parte la rabbia per quell’incredibile lavoro perduto nell’oceano degli anonimi, dall’altra un timore irrazionale di venire scoperto per aver fatto qualcosa che in realtà non volevo neppure nascondere. Fu difficile non parlarne con nessuno per mesi, per anni. Tanto più quando il settimanale «Panorama», poco tempo dopo, in un trafiletto, fece cenno al volume e titolò Veleni contro Mani pulite. Mi raccontarono che alcuni colleghi della giudiziaria si divertirono con la caccia all’autore e seppi che non sospettarono di me perché non mi ritenevano all’altezza.
Il libro intervista con Pillitteri, Io li conoscevo bene, uscì a marzo inoltrato. «Panorama» ci dedicò un’intera pagina e altri articoli uscirono sulla «Stampa» e sul «Messaggero». Spesso neppure mi nominavano, ma fui contento anche se dell’argomento principe del libro, Antonio Di Pietro e certi suoi legami imbarazzanti, preferirono non parlare.
Già lavoravo ad altro: la raccolta delle storie di malagiustizia mi appassionava. In luglio, nei giorni del disgraziato Decreto Biondi, il mio amico Luca Josi mi propose di presentarle sotto forma di libro in via di pubblicazione, anche se propriamente non c’era il libro e non c’era l’editore; diceva che si poteva contrapporlo a quanti, a fronte delle lagnanze garantiste, invocavano ogni volta esempi e casi concreti.
Nella saletta di un hotel romano, non certo grazie a me, intervennero Vittorio Sgarbi, l’avvocato Nicolò Amato e il professor Paolo Ungari. Uscì un trafiletto sul «Giornale» e uno sul «Corriere della Sera». Fu un risultato, dati i tempi. Qualche giorno dopo si fece vivo tal Roberto Maggi, già editore di Sgarbi con la sua Larus di Bergamo. Aveva letto il trafiletto sul «Corriere ». Disse che il libro gli interessava molto ma tutto venne rimandato a settembre. Gli credetti. Passai l’intero agosto a lavorarci sopra.
In settembre, dopo ripetuti rinvii, Maggi si rese irreperibile e compresi poi perché: stava per pubblicare La Costituzione italiana: diritti e doveri commentata da Antonio Di Pietro con prefazione di Francesco Cossiga. Presto avrebbe editato anche due testi di educazione civica sempre firmati dall’ex magistrato. Roberto Maggi cercò di convincermi che aveva grandi progetti e che non avrebbe avuto problemi a pubblicare anche me, perché era un liberale, e la cosa incredibile è che io credetti anche a questo. Continuai a lavorarci. Non ero cretino: ero di mente lineare, poco incline al barocchismo e al retroscena, figlio di mezzi tedeschi, soprattutto crederci era gratis.
Il mio ultimo appuntamento alla Larus di Bergamo fu il 3 febbraio 1995. Attesi due ore in una saletta e poi eccomi nell’ufficio di Maggi, dove appesa al muro c’era una gigantografia di Antonio Di Pietro firmata da Bob Krieger. Mi spiegò che non poteva permettersi di pubblicare il mio lavoro perché l’aveva mostrato all’ex magistrato. In sostanza aveva cercato di farsi bello con lui bloccando il mio libretto. Questo disse, almeno. Rimasi malissimo.
I primi di giugno 1995 ero a Monza a giocare a pallacanestro. Non possedevo un telefono cellulare e sul bordo del campetto d’un tratto comparve mio padre: mi disse che mi stavano cercando urgentemente dal «Giornale», quotidiano che intanto lui era passato a leggere. Finii la partita e solo molto più tardi, da una cabina del telefono, appresi che Di Pietro era stato inquisito a Brescia, e mi proposero di scrivere un articolo tipo «io l’avevo detto» sulla base di quanto avevo già scritto nel libro-intervista a Pillitteri. Dovetti precipitarmi al «Giornale» con la canottiera ancora madida di sudore e ricordo l’orrore negli occhi di Vittorio Feltri che allora se la tirava con l’eleganza british-campagnola. Scrissi un affresco sul reticolo di amicizie discutibili dell’eroe nazionale. Il giorno dopo, più di un quotidiano fu costretto a inseguirmi. «L’Unità», circa il libro intervista con Pillitteri, scrisse di «veleni», e «la Repubblica» che «il pamphlet rischia di diventare un best seller che pare già depositato agli atti dell’inchiesta di Brescia». Il best seller mi fruttò in tutto 1.081.623 lire. Cominciai a scrivere sul piccolo quotidiano «L’Opinione» grazie a una raccomandazione di Pillitteri, ma stavano per addensarsi nubi davvero nere.
Procure e redazioni, al tempo, erano invase da scritti anonimi contro la magistratura milanese, e si prospettava l’ombra di un Mister X che fungesse da suggeritore dei cosiddetti veleni indirizzati contro Di Pietro. Il clima da spy-story era a mille. Il 3 luglio 1995 sul «Giornale» lessi questo titolo: Mister X era già in un libro di due anni fa. Sottotitolo: Un memoriale anonimo pubblicizzò tutti i veleni e gli omissis del gruppo di Mani pulite. Testo: «Oggi andrebbe a ruba. Allora, nel maggio 1993, circolò per il tribunale come i samizdat clandestini del dissenso russo. Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet di 192 pagine, raccontava già tutto. Gli anonimi e i Mister X che sono venuti dopo avevano alle spalle quel superdossier».
Avevo la certezza che non sarebbe finita lì. Ebbi l’irrazionale sensazione che qualcuno mi stesse cercando. Non mi trovò la Spectre, ma Stefano Zurlo del «Giornale». Mi telefonò e mi chiese esplicitamente se Mister X fossi io. Negai. Per giorni. A un mio generalizzato timore si accompagnava la consapevolezza che la storia dell’inglese che scippa i libri dei giovani cronisti era incredibile, nel senso di poco credibile.
Cedetti, ovviamente. La verità per la verità interessava relativamente, lo sapevo bene: la scoperta di un ingenuo Mister X probabilmente avrebbe potuto smentire chi prefigurava dei potenti burattinai di centrodestra dietro la diffusione dei dossier anonimi. Decisi di correre il rischio. Al «Giornale» incontrai Maurizio Belpietro per la quinta volta in una quinta veste diversa: prima ero stato un imberbe che cercava lavoro, poi l’autore di un libro intervista con Pillitteri, poi l’autore di un libro inesistente su casi di malagiustizia, poi un giocatore di basket avvolto da un alone non propriamente di mistero, ora un Mister X di ventotto anni che viveva al quartiere Giambellino. Gli chiesi come avessero fatto ad arrivare a me e mi rispose che mi aveva riconosciuto dalla foto di bambino stampata dietro il dossier.
«Il Giornale», il 24 luglio, aprì la prima pagina con uno spaventoso titolone: Ecco l’autore del dossier Di Pietro. Sottotitolo: Filippo Facci, un giovane cronista dell’«Avanti!», scrisse due anni fa un rapporto in cui anticipava le accuse all’eroe di Mani pulite. Si insisteva ancora col «samizdat clandestino del dissenso russo». Stavo per finire in un mare di guai. La Procura di Brescia mi convocò e mi interrogò per sei ore: il samizdat russo finì agli atti. Anche il libro intervista con Pillitteri era già finito agli atti. Vi finì anche la faccenda del libro sui casi di malagiustizia fermato dalla Larus. Mi chiesero del presunto editore inglese o irlandese e risposi che mi si era presentato come «Olinco» o forse «Holinko», non avevo mai visto il suo nome per iscritto. Gli inquirenti, com’era prevedibile, mi chiesero se avessi mai ricevuto altri dossier anonimi e gli consegnai quelli che avevo. Vollero sapere se li avessi utilizzati per scrivere il mio libro e li invitai a verificare che in qualche caso li avevo addirittura smentiti. Il giorno dopo, sul «Giornale»: Caso Di Pietro, cronista sotto torchio. Sottotitolo: Sei ore e mezzo senza neanche una pausa caffè. Pochi giorni dopo trovai la casa perquisita e devastata da chi cercava chissà che cosa. Non mancava nulla, a parte qualche documento poco significante. Sporsi denuncia alla polizia e fui interrogato di nuovo a Brescia.
Settembre coincise con propositi di rinnovata normalità: scrivevo sempre per «L’Opinione», mi concentravo sul lato oscuro di Antonio Di Pietro e setacciavo nuovi casi di malagiustizia. Ogni tanto, almeno una volta alla settimana, sentivo Craxi al telefono. Mi chiamava lui. Gli piaceva che io venissi praticamente dal nulla, per quanto poteva saperne.
Il 12 settembre 1995 sulla «Repubblica» uscì un articolone titolato Il Mistero Holinko. Sottotitolo: Salamone indaga su un libro contro Mani pulite. Un estratto: Chi è il signor Anthony Holinko? E chi si nasconde dietro la Marshall Ltd, casa editrice fantasma con sede forse a Dublino? La Digos bresciana sta indagando sul misterioso emissario dell’ancor più misteriosa Marshall, la casa editrice che nel ’93 pubblicò il libro Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet che in Italia circolò semiclandestino, spesso in fotocopie, e che anticipava alcuni dei temi recenti delle accuse contro Di Pietro. Il pm Salamone sta cercando di capire se esistono dei legami tra la casa editrice irlandese e un’altra entità oscura apparsa sullo scenario recente di Mani pulite, l’agenzia investigativa americana, ma con ufficio di corrispondenza a Parigi, che avrebbe svolto, per conto di chissà chi, lunghe indagini sul passato dello scopritore di Tangentopoli.
Brescia. Dublino. L’America. Parigi. Il Giambellino. Un mattino mi contattò l’ex mezzobusto del Tg2 Alda D’Eusanio, mai conosciuta prima. Disse che aveva letto le mie disavventure e mi elencò dei colleghi che le avevano parlato bene di me, tutti nomi però a me sconosciuti. La incontrai a Roma e mi spiegò che per il programma «L’Italia in diretta», su Raidue, avrei potuto fare dei servizi su casi di malagiustizia purché non trattassero di politici. Accettai e iniziai la trafila per il contratto. Pensai che potessero c’entrare Pillitteri o Craxi.
Il 14 settembre ero ancora a Monza a giocare a pallacanestro. Trillò il cellulare che mi ero finalmente procurato: era Craxi. Cercai di capire se c’entrasse con la faccenda di Raidue: «La conduttrice mi ha parlato di come si potrebbe trattare il tema del garantismo», gli dissi, omettendo nomi e cognomi come era d’uso. Ma non riuscii a capire.
La conclusione della telefonata, testuale, fu la seguente:
Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…
Facci: Sì, forse, ma non è un problema…
Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…
In realtà c’era problema. Aspettando la Rai, mi ributtai sull’«Opinione » e su Di Pietro, tema che tirava molto. Furoreggiava l’inchiesta su Affittopoli e io mi ero fissato di trovare i dati sull’appartamento a equo canone che il Fondo pensioni Cariplo aveva concesso all’ex magistrato alla fine degli anni Ottanta. Ne avevo già scritto nel mio libro fantasma e nel mio libro intervista a Pillitteri, con tanto di indirizzo, ma la notizia non era mai deflagrata. Mi procurai lo schedario del Fondo pensioni Cariplo e un funzionario mi diede tutte le conferme del caso. Mi capitò di parlarne al telefono col mio amico Luca Josi. Sinché un mattino, per coincidenze varie, capii che «il Giornale» avrebbe probabilmente sparato la notizia l’indomani e mi prese il panico. Allertai il direttore dell’«Opinione», Arturo Diaconale, e scrissi l’articolo in un battibaleno. Nel tentativo di anticipare «il Giornale» telefonai a tutte le agenzie di stampa perché preannunciassero quel che «L’Opinione» avrebbe pubblicato, ma servì a poco. «Il Giornale» l’indomani sparò la notizia in prima pagina e quasi nessuno si accorse che sull’«Opinione» ne avevo scritto anch’io. Era il 22 settembre.
Il pandemonio fu il 29 settembre. Il pubblico ministero Paolo Ielo, al Tribunale di Milano, denunciò «campagne giornalistiche coordinate da Hammamet» e citò espressamente gli articoli che «il Giornale» aveva dedicato all’equo canone di Di Pietro: disse che la diffusione della notizia era stata pilotata da Craxi a Vittorio Feltri, e la riprova, aggiunse, ne era un’intercettazione telefonica tra Craxi e Luca Josi, il mio amico. Feltri venne additato come un robot craxiano e i telegiornali di mezzogiorno si scatenarono. Io ci misi poco a capire com’era andata davvero: io avevo parlato a Josi dell’articolo che stavo preparando per «L’Opinione» e lui probabilmente ne aveva fatto cenno a Craxi, ma le varie telefonate erano state intercettate e i magistrati avevano capito che si parlasse di un articolo per «il Giornale» anziché per «L’Opinione». Passai una mezz’ora disperata: che fare? Esporsi di nuovo? Temevo per il mio contratto con la Rai.
Mi esposi, chiaro. Telefonai al «Giornale» e feci pure fatica a farmi ascoltare. Il giorno dopo, morale, ecco un’altra intervista dove spiegavo tutta la dinamica. Vittorio Feltri titolò il suo editoriale Esigiamo pubbliche scuse e però scrisse così: «Filippo Facci, e non un mio redattore, ha attinto notizie da fonte socialista riguardo a Di Pietro … “L’Opinione” ha pubblicato la notizia in questione proprio su segnalazione di Luca Josi. Facci, che è persona onesta, ammette tutto ciò in un’intervista che riportiamo». Ma come? Era il contrario della verità: io nell’intervista non dicevo niente del genere, non avevo attinto a nessuna fonte socialista, avevo solo parlato a Josi di un articolo che stavo preparando. Ma niente da fare, Feltri ripeté le stesse cose al «Messaggero» e alla «Repubblica». In un’intervista al «Corriere della Sera» giunse a dire: «Avevo ragione. Abbiamo rintracciato Filippo Facci il quale ci ha confermato quel che sospettavamo». Cioè: adesso erano stati loro ad aver capito, e ad aver rintracciato me, ricettore di notizie provenienti da Hammamet.
Il robot craxiano ero diventato io. Telefonai al «Giornale» e l’indomani fu abbozzata una rettifica dallo stesso Feltri, ma era tardi: un altro delirante articolo di un cronista giudiziario, sempre e incredibilmente sul «Giornale» dello stesso giorno, mi citava tra gli «irriducibili collaboratori di Craxi» e cercava di dimostrare chissà che cosa con un collage di intercettazioni varie. Intanto «la Repubblica» titolava Craxi, il burattinaio e il «Corriere della Sera» È Craxi il segretario di Forza Italia. Tutti i giornali pubblicarono centinaia di intercettazioni tra Craxi e il resto del mondo. Altri telefonisti craxiani erano Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi, e giornalisti come Enrico Mentana, Emilio Fede e Bruno Vespa. Un altro telefonista, Alessandro Caprettini, direttore dell’«Italia settimanale», fu licenziato. Il mio ex compagno di scrivania all’«Avanti!» Luca Mantovani, portavoce del parlamentare di Forza Italia Vittorio Dotti, fu licenziato a sua volta perché aveva spedito a Craxi la copia di un’interrogazione parlamentare. Mancavo io.
Tra i telefonisti c’era anche Alda D’Eusanio, l’ex mezzobusto che mi aveva proposto il lavoro alla Rai. I giornali pubblicarono un’intercettazione dove lei diceva a Craxi «Sarò la tua voce» e l’associarono a un’altra intercettazione, questa:
Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…
Facci: Sì, forse, ma non è un problema…
Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…
C’era problema. «L’Unità» del 5 ottobre deprecava il mio «contratto milionario» (66 milioni di lire lordi per un anno) e tre interpellanze parlamentari fecero il resto. Il contratto venne stracciato con il consenso del presidente della Rai Letizia Moratti. In sintesi: avevo dato una notizia vera, l’equo canone goduto da Di Pietro, e avevo perso il lavoro.
Nel giorno in cui «l’Unità» sanciva la fine di ogni mia velleità contrattuale, oltretutto, «Panorama» mi ritirava in ballo per il libro fantasma: un lungo e complicato articolo citava un dossier anonimo che avevo consegnato alla Procura di Brescia, uno dei tanti, e lo definiva «in stile Fbi». Si ritirava in ballo il samizdat russo o irlandese scritto al Giambellino. Il quotidiano «L’Indipendente» titolò Di Pietro spiato dai servizi segreti, citandomi.
Avevo ventott’anni, volevo fare il giornalista.
Nel periodo successivo divenni una specie di pendolare tra Milano e Brescia, nella duplice veste di cronista e di testimone. Di Pietro ormai era nel mio destino. Un’altra mia inchiesta sull’«Opinione», dopo una testimonianza che rilasciai sempre a Brescia, fece aprire un filone d’indagine contro l’ex magistrato per alcune sue presunte concussioni al ministero della Giustizia. Senza farla troppo lunga: mi sarebbe capitato di far iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati altre due volte.
Di Pietro mi seppellì di querele e mi denunciò anche per calunnia. In una memoria difensiva chiese di appurare i miei rapporti con Craxi e di inoltrare rogatorie internazionali in Irlanda. Quando si discusse il rinvio a giudizio per calunnia, pochi mesi dopo, l’udienza preliminare durò sei ore e io e Di Pietro sfiorammo lo scontro fisico. L’ex magistrato ce l’aveva in particolare col mio libro fantasma: «È da quel dossier» disse «che sono cominciati tutti i miei guai». Ma quel dossier, che diversamente da altri non era un dossier ma solo un disperato e tentato libro, diceva tutte cose vere. Cose che reggono, ancor oggi, la prova del tempo. Fui prosciolto.
L’aria cambiò lentamente, ma cambiò.
Le storie di malagiustizia che riuscivo a trovare, grazie al rinnovato garantismo berlusconiano e al mio buon rapporto con Maurizio Belpietro, ottennero spazio sul «Giornale». Presi a collaborare anche con «Il Foglio» di Giuliano Ferrara. Ogni tanto, per esempio su «Panorama», uscivano articoli imbarazzanti che mi esaltavano come «il cronista che sapeva troppo ». Un quotidiano di Trento, non trovandomi, e in mancanza d’altro, intervistò mio padre. Dopo vari tentativi nel 1996 riuscii a trovare un editore anche per il libro sui casi di malagiustizia, intitolato Presunti colpevoli: lo pubblicò Mondadori. Altri giornali si soffermarono sul mio caso e a dirla giusta fu «Il Foglio»: «Dopo tre anni di peregrinazioni, Filippo Facci ha trovato l’editore, ma più probabilmente le condizioni politiche». Era la verità. Le stesse condizioni politiche, un anno dopo, mi permisero di pubblicare una prima biografia su Antonio Di Pietro sempre per Mondadori. Temendo chissà che cosa, Di Pietro disse alla «Repubblica»: «So cosa vogliono fare, … chi lo fa. E ho preso le mie contromisure. Anzi vorrei dare un consiglio: chi sta realizzando la diffusione di un pamphlet che mi riguarda, ci pensi due volte».
Il libro uscì lo stesso. In autunno, davanti al palazzo di giustizia milanese, per la stupida legge dei corsi e ricorsi, ci fu una manifestazione del centrodestra in cui il libro fu addirittura agitato da qualche manifestante, o questo almeno lessi.
I primi di giugno 1999 ero di nuovo a Monza a giocare a pallacanestro quando un mio compagno di squadra mi disse che alla sua fidanzata, studentessa alla Cattolica, avevano chiesto di me durante un esame. Impossibile, dissi. Era vero. L’esame era Storia del giornalismo italiano e nel tomo intitolato appunto Storia del giornalismo italiano dalle origini ai giorni nostri, a pagina 366, c’era un capitoletto titolato «Le fonti e le disavventure delle notizie». Si parlava di «tre casi limite, espressione di tre diversi momenti della storia italiana: portano il nome di Zicari, Pecorelli e Facci».
Di Giorgio Zicari ricordavo che era talmente ben informato che l’accusarono di essere colluso coi servizi segreti, di Mino Pecorelli che ebbe la fama di ricattatore prima di essere preso a revolverate nel 1979. Il terzo ero io.
"Curiosa e ambigua la vicenda di Filippo Facci, un giovane di 26 anni nel 1993, che rimane disoccupato quando l’«Avanti!» chiude il 31 dicembre 1992. Il quotidiano del Partito socialista, fondato il 25 dicembre 1896 da Leonida Bissolati, viene travolto dallo scandalo di Tangentopoli che distrugge la carriera politica di Bettino Craxi, costretto a fuggire in esilio nella sua villa di Hammamet, Tunisia. Facci è autore di un libro intervista al cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. S’intitola Io li conoscevo bene. Nel 1993, colleziona particolari e notizie su Antonio Di Pietro, ne escono centonovantadue pagine che documentano le amicizie pericolose del pubblico ministero più famoso d’Italia e simbolo del rinnovamento morale. Il dattiloscritto viene pagato 4 milioni da un oscuro personaggio, sedicente editore di una piccola casa editrice irlandese. Alcuni mesi dopo, pagine del libro iniziano a comparire sui quotidiani, ma il volume ancora non è stampato. Circolerà in seguito clandestinamente. I contenuti entreranno nell’inchiesta giudiziaria su Di Pietro che si concluderà a Brescia nel marzo 1996 con il proscioglimento dell’ex magistrato."
In autunno ricevetti qualche invito residuo a presentare la biografia su Di Pietro, e uno mi colpì in particolare: era del Rotary Club Milano Giardini, accanto al palazzo della stampa dove c’era la redazione dell’«Avanti!». Il giornalista che mi aveva invitato era lo stesso che anni prima aveva impaginato quel Di Pietro, facci sognare che troneggiava sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni». Fu lui a dirmelo. Quella sera, per farmi voler bene, dissi subito qualcosa che ripeto ancor oggi: «Negli anni di Mani pulite, la percentuale di italiani favorevoli ad Antonio Di Pietro ha oscillato tra il 90 e il 95 per cento. Se mi applaudite, ora, presumo che sia perché al tempo rientravate in quel residuo 5-10 per cento».
Nel maggio 2000, vagando per Milano in motorino, imboccai sparato via Giulio Uberti in netto contromano: un’auto blu dovette inchiodare e rischiò seriamente di mettermi sotto, la ruota anteriore del mio scooter si fermò a non più di un centimetro dal suo paraurti. Alzai il braccio per scusarmi. Mi avvicinai e vidi che alla guida c’era il pubblico ministero Paolo Ielo, autore peraltro di un paio di querele contro di me. Sembrava impietrito. Abbassò il finestrino e mi disse: «Facci, ma se poi ti mettevo sotto, chi ci credeva che era colpa tua?».
Antonio Di Pietro, per molti anni, rifiutò ogni invito in programmi televisivi dove fosse prevista la mia presenza. Ha cambiato atteggiamento dal 2005 in poi.
Dei colleghi che uscivano dalla sala stampa quando vi entravo io, ora, almeno quattro sono discreti amici. Il collega che mi accusò d’aver pubblicato dei verbali falsi è passato a scrivere gialli metropolitani, come in fondo faceva già allora. L’altro collega che m’accusò di aver favorito la fuga di un dirigente socialista ha sposato una mia amica.
Nel tardo agosto 2009, con il ritorno di Vittorio Feltri in via Negri, ho abbandonato «il Giornale» dopo quindici anni. Il collega che fece un collage di intercettazioni telefoniche sul «Giornale» e fece strappare il mio contratto, Gianluigi Nuzzi, oggi condivide il mio stesso incarico – inviato speciale a «Libero» – sotto il mio stesso direttore, Maurizio Belpietro.
Dal 1992 a oggi è passata una mezza generazione e ci sono giovani e meno giovani che di Antonio Di Pietro sanno a malapena che faceva il magistrato. Credo di aver scritto questo libro anche per loro.
MAGISTROPOLI.
Ex magistrato adescava i ragazzini. Sorpreso in hotel con un minore. L’arresto a ottobre: soldi ai ragazzi nelle stazioni dei treni. Un’intercettazione ha permesso alla Polfer di bloccare l’uomo con un rom di 16 anni, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera” del 11 novembre 2015. Un giudice, un magistrato, un irreprensibile uomo in toga fino a quando due anni fa era andato in pensione. Ma adesso è tutt’altro il profilo che, da un’inchiesta di prostituzione minorile e pedopornografia, emerge su un ex magistrato arrestato con l’accusa di adescare a pagamento minorenni, soprattutto romeni e nordafricani, nelle stazioni ferroviarie. Il 73enne (di cui non si farà qui il nome perché il suo essere stato giudice civile e penale in una piccola città lombarda rischierebbe in questa fase di rendere indirettamente identificabili alcune delle vittime minorenni) non è stato arrestato ieri, ma attorno al 20 ottobre, e tuttavia il segreto - diversamente ad esempio dai recenti casi del cappellano di un carcere o del musicista di una famosa band musicale - ha circondato sinora questa inchiesta del pm Bianca Maria Eugenia Baj Macario e del procuratore aggiunto coordinatore del pool reati sessuali Pietro Forno. Inchiesta partita da Roma, quando nel telefonino di un ragazzino in stazione viene trovato un numero che porta alla ex toga. Iniziano così pedinamenti e intercettazioni, e proprio una telefonata permette alla Polfer di sorprendere in flagranza di reato l’ex magistrato mentre in una camera d’albergo vicino a una stazione sta iniziando a compiere atti sessuali su un 16enne romeno. È presente anche un altro romeno 20enne, zio del 16enne, che dice di fare da «fornitore» di contatti di ragazzini per l’ex magistrato, in cambio a suo dire di 50 euro per mediazione. Falso, ribatte l’arrestato difeso dall’avvocato Cristina Bava davanti alla gip Cristina Di Censo, al pm Baj Macario e al Tribunale del Riesame che conferma l’arresto: con un passato di depressione cronica e difficoltà di deambulazione, nega intermediazioni, ammette impulsi verso visi fanciulleschi, ma giura d’aver cercato sempre e solo maggiorenni, al punto da pretendere sempre (prima degli incontri nelle stazioni e dei trasferimenti in hotel) documenti che attestassero la maggiore età. E allora i 6 minorenni valsigli l’arresto? Ragazzi che, a suo dire, gli avrebbero mostrato documenti falsi, tranne un caso in cui ammette di aver equivocato l’età. E i soldi? Sì, ma perché - asserisce - si affezionava ai ragazzini: a qualcuno dice di aver dato i soldi per il permesso di soggiorno, al 20enne (zio del 16enne) 500 euro affinché raggiungesse in Romania moglie e figlio. Da qui anche la versione che offre di un’intercettazione in cui chiedeva al 20enne romeno di mandargli «foto ricordo»: video pedoporno di nuovi ragazzini secondo l’accusa, solo le foto della moglie e del figlio secondo l’ex magistrato.
I giudici di Milano si trattano (molto) bene: prendono 169mila euro l'anno di stipendio. Il Recoconto de “Il Giornale”.
Al via l'operazione trasparenza voluta da Livia Pomodoro: presentato il bilancio 2010-2011 del Tribunale di Milano. Il primo presidente della Cassazione si porta a casa ogni anno circa 305mila euro. Ma anche le toghe meno blasonate (in Italia sono più di 10mila) non se la passano tanto male. Gli extra: 719mila euro sono stati spesi per gli straordinari, mentre 691mila per i pasti.
Mettiamola così: c’è chi sta peggio. Perché se è vero che il primo presidente della Cassazione si porta a casa ogni anno qualcosa come 305mila euro, anche le toghe meno blasonate e in Italia ci sono più di 10mila magistrati non se la passano tanto male. Lo spaccato arriva dal bilancio 2010-2011 del Tribunale di Milano. L’operazione trasparenza - voluta dal presidente del «Palazzaccio» Livia Pomodoro e da quello della Corte d’Appello Giovanni Canzio - permette di dare una dimensione ai costi della giustizia, e di fare i conti in tasca a pm e giudici. Partendo da un dato: quasi la metà delle spese serve a pagare i magistrati. I numeri, dunque. Il tribunale di Milano ha avuto un costo per la collettività che ha sfiorato i 90 milioni di euro, a fronte di 24 milioni di euro di entrate per l’erario derivanti da contributo unificato (in pratica, la tassa sulle cause civili e amministrative), dal recupero crediti, dai sequestri e dai depositi giudiziari. Per l’esattezza, per far funzionare il gigante di corso di Porta Vittoria sono serviti 88 milioni e 665mila euro. Di questi, 46 milioni e 516mila sono finiti nelle buste paga delle toghe, che a Milano sono 275 (21 i posti vacanti). In media - tenendo però presente che lo stipendio di un pubblico ministero appena uscito dal concorso è ben lontano da quello di un presidente di sezione - fanno 169mila euro l’anno ciascuno. A questa cifra, poi, vanno aggiunti i 17 milioni e 200mila euro di competenze fisse per i 102 magistrati della Corte d’Appello. E anche in questo caso, si sfiorano i 169mila a toga. Ma non ci sono solo i giudici. La macchina della giustizia, per andare avanti, ha bisogno anche dei «gregari». Ovvero, il personale amministrativo. A Milano, i dipendenti effettivi del Tribunale sono 573 (anche se la pianta organica ne prevede 703). Per loro, lo Stato ha versato poco più di 21 milioni di euro. Quelli della Corte d’Appello, invece, sono 189 (ne mancano 38), e sono costati 6 milioni e 300mila euro. Se poi si aggiungono gli «altri costi del personale» - sia di magistratura che amministrativo- il bilancio del tribunale lievita. A sommarsi, ad esempio, sono i 719mila euro per gli straordinari e le indennità accessorie («turnazioni, assistenza al magistrato, videoconferenze, guide blindate ecc.»), i 691mila di buoni pasto (la Corte d’appello spende 246mila euro in ticket restaurant), i 19mila di indennità di missione e gli 8mila per quella di trasferimento. Gran parte dei fondi erogati dal ministero, dunque, sono serviti a pagare magistrati e (in misura minore) dipendenti del sistema-giustizia. Il resto - poco più del 20% del totale - per tenere in piedi il Palazzo. Il Tribunale, ad esempio, è costato più di 3 milioni e 400mila euro in manutenzione e pulizia, quasi 2 milioni e mezzo in «gestione e consumi» (47mila euro per l’acqua, 612mila per l’elettricità, un milione e 300mila per riscaldamento e climatizzazione, 457mila per le bollette del telefono), un milione e mezzo di euro per le spese di vigilanza e oltre 400mila euro per le spese di facchinaggio. Un altro 10% del totale (circa 8 milioni e 700mila euro), è andato in spese varie, come viaggi (51mila euro), indennità per i giudici onorari (336mila euro), difensori d’ufficio (quasi 3 milioni e 800mila euro tra penale e civile). Poi, 365mila euro sono stati utilizzati per toner, carta, materiale di cancelleria, stampati e registri del Tribunale, 11mila per la manutenzione di fax e scanner, 53mila per gli archivi elettronici, 16mila per la manutenzione dei mezzi di trasporto, oltre 18mila per il carburante, e 2mila per le autostrade. Tra le spese definite «residuali», infine, c’è pure la Tarsu. E svuotare i cestini della giustizia, è costato 185mila euro.
Casta intoccabile, dalle vacanze agli orari liberi. Regole ad hoc per i magistrati. Le retribuzioni crescono in automatico. E nessuno paga per gli errori. È una corporazione - anche se talvolta si percepisce come contropotere - e come tale difende i suoi privilegi. Chi supera il fossato che separa la magistratura dalla società trova regole costruite su misura. Il giudice, tanto per cominciare, ha quarantacinque giorni di ferie che in realtà diventano cinquantuno. Un lusso che l’Italia non si potrebbe permettere, ma nessuna proposta di legge è riuscita a cancellare. Anche se l’arretrato che pesa sulla giustizia civile supera i cinque milioni di fascicoli, il pacchetto vacanze non si tocca. La soluzione, spiegano le toghe, è sempre altrove. Introvabile. Così il sistema di potere si sposa con una gestione perfettamente burocratica che livella in alto la categoria. Gli stipendi crescono di fatto quasi in automatico: ci sono le valutazioni, in tutto sette step, ma salvo casi davvero rari, un magistrato dopo ventotto anni arriva a guadagnare quasi settemila euro netti al mese. Settemila euro per tutti: per i pm di prima linea, per le star e per i travet, per il giudice di provincia e per quello della metropoli, per quello del Nord e per quello del Sud. Si può dirigere un ufficio nevralgico o svernare in un sonnacchioso e defilato palazzo di giustizia: non cambia nulla. Non ci sono orari e - ci mancherebbe - campanelle. C’è, qualche volta, la buona volontà: l’ex presidente del tribunale di Roma Luigi Scotti ha raccontato al Giornale che a suo tempo, solo lasciando bigliettini di saluto nelle stanze abbandonate dai colleghi per il rito del caffè, aveva registrato un aumento di produttività del 10 per cento. Ovvio: la professione ha una sua specificità che affonda le radici nella Costituzione. Ma basta poco per trasformare le garanzie in barriere salvacasta. La retribuzione va su come una funivia, agganciata al cavo dell’età, chi lavora poco se la cava con poco. E chi sbaglia spesso non paga. Nel periodo 1999-2006 su 1004 procedimenti disciplinari ben 812 sono finiti con l’assoluzione e 126 con una condanna ultrasoft, morbidissima, quasi come una carezza: l’ammonimento. Al Csm si è visto di tutto: un pubblico ministero che si era inginocchiato a chiedere l’elemosina a due passi dal tribunale è stato dichiarato incapace di intendere e di volere in quel momento, ma capace, capacissimo di chiedere arresti e di condurre inchieste dal giorno successivo. E dunque è rimasto serenamente al suo posto. Come quei magistrati che sono scivolati nel ridicolo: c’è chi ha concesso a un detenuto il permesso di incontrare il figlio per il compleanno dodici volte l’anno e chi ha fatto ipnotizzare un testimone per ricostruire la scena di un omicidio. Certo, le statistiche non dicono tutto: c’è anche chi si è tolto la toga prima di affrontare un processo a dir poco imbarazzante e dunque non fa numero, ma le sanzioni pesanti o peggio - quello che con terminologia laica si chiama licenziamento - sono merce rara. Rarissima. Il magistrato, in linea generale, vive in un porto protetto dove le onde della crisi non arrivano. E poi l’esperienza insegna che il giudice, in teoria un tecnico riservato e lontano dai media, spesso e volentieri finisce in vetrina. E da lì si lancia verso altre carriere. Fra le più gettonate, naturalmente, la politica. Molti giudici sono diventati parlamentari o amministratori locali. Poi, altro tratto davvero italiano, dopo aver militato nel Pd o nel Pdl sono comodamente ritornati al punto di partenza. In nome del popolo italiano.
IL CASO BOCCASSINI
In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco.
Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale".
“Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”
IL CASO MARRA
La prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso di avviare il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti del presidente della Corte d'appello di Milano, Alfonso Marra, a seguito del suo coinvolgimento nelle intercettazioni relative all'inchiesta sull'eolico. La decisione è passata con quattro voti a favore; in commissione ha votato contro soltanto il laico di centrodestra, Anedda. Non ha partecipato al voto Giuseppe Berruti, che nelle intercettazioni viene considerato il maggior ostacolo alla nomina di Marra.
In un'informativa datata 18 giugno 2010, parlando dell'attività svolta dal gruppo occulto, i carabinieri descrivono la "vicenda che ha visto protagonista il neo presidente della Corte d'appello di Milano. Non appena Marra - riferiscono i militari - ha ottenuto, dopo un'intensa attività di pressione esercitata dal gruppo (e in particolare da Pasquale Lombardi) sui membri del Csm, l'ambita carica, i componenti dell'associazione gli chiedono esplicitamente, peraltro dietro mandato del presidente Formigoni, di porre in essere un intervento nell'ambito della nota vicenda dell'esclusione della lista Per la Lombardia". Marra ha commentato: "Sono contento che il Csm abbia aperto la procedura così si chiarirà la mia posizione".
Intanto restano in carcere l'affarista sardo Flavio Carboni e il magistrato tributario Pasquale Lombardi. I giudici del tribunale del riesame di Roma hanno respinto, infatti, le istanze di remissione in libertà o concessione degli arresti domiciliari per i due indagati. I pubblici ministeri avevano dato parere negativo alle richieste dei legali.
In seguito a ciò, il 16 luglio 2010 è stato pubblicato l’editoriale del direttore di “Libero”, Maurizio Belpietro dal titolo: “La cricca dei giudici”. "Se uno di noi fosse sospettato di aver violato la legge e di essere al servizio di pericolosi criminali, il minimo che gli potrebbe capitare sarebbe di essere indagato, il massimo di finire in galera. Cosa che non accadrebbe se si trattasse di un magistrato. Nel qual caso infatti si verrebbe trattati con mille attenzioni, anzi, con mille attenuanti, perché la casta delle toghe è seria, non come quella dei politici, che fa finta di essere potente e poi finisce alla berlina ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Dunque, cari lettori, non fatevi ingannare dal caso Marra, il presidente della Corte d’appello di Milano finito nelle intercettazioni telefoniche della P3. Il suo trasferimento per incompatibilità è infatti la manovra per mettere tutto a tacere o, peggio, per imbrogliare le carte. Mi spiego. Se Marra fosse per davvero un magistrato in combutta con la cricca di Flavio Carboni e si fosse macchiato della grave colpa di aver brigato per favorire la P3 - cosa a cui io non credo - non dovrebbe essere trasferito ad altra sede, come si appresta a fare il Csm. Semmai, dovrebbe essere radiato, perché non ha le qualità morali per fare il magistrato. Il trasferimento al contrario stabilisce che Marra non faccia più il giudice a Milano, ma possa continuare a farlo altrove, come se nulla fosse accaduto. Del resto, il Consiglio superiore della magistratura è specialista nell’assolvere i suoi protetti.....".
IL CASO PIACENTINI
Il Presidente del Tar Lombardia Piermaria Piacentini accusato di abuso d’ufficio e corruzione. Sospetti su una consulenza a Balducci.
Il suo ufficio ha dato ragione al padre di Eluana Englaro contro la Regione Lombardia, ha avuto in mano la sorte delle elezioni regionali riammettendo le liste Formigoni dopo il pasticcio delle firme, e quasi ogni giorno maneggia contenziosi da centinaia di milioni di euro: proprio l’importanza del suo ruolo rende ancora più delicato il fatto che ora Piermaria Piacentini, presidente del Tribunale amministrativo regionale (Tar) della Lombardia, sia indagato dalla Procura di Milano per l’ipotesi di abuso d’ufficio e di corruzione. Uno stralcio dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla cosiddetta «cricca degli appalti», trasmesso insieme a intercettazioni in particolare sui rapporti tra Angelo Balducci (presidente del Consiglio dei Lavori Pubblici), Fabio De Santis (Provveditore alle opere pubbliche della Toscana) e l’avvocato Guido Cerruti, ritenuto dagli inquirenti fiorentini un «collettore » di tangenti nell’interesse di Balducci e De Santis.
Nel 2007 Infrastrutture Lombarde, società della Regione, indice la gara per la costruzione e gestione dell'autostrada regionale Broni-Pavia-Mortara da 1 miliardo e 800 milioni di euro, e nel luglio 2008 assegna in via provvisoria l'appalto alla Sabrom, escludendo il Consorzio Stabile Sis perché non avrebbe ricompreso nel piano finanziario i costi del personale. Il Consorzio Sis ricorre al Tar lombardo, il Tar il 23 luglio incarica il Provveditore alle opere pubbliche della Lombardia di verificare l'offerta Sis, e il 28 ottobre il Provveditore sposa la scelta di Infrastrutture Lombarde. Ma il Tar il 22 luglio 2009 dispone una nuova consulenza tecnica d’ufficio, che affida ad Angelo Balducci, il quale con la propria consulenza rimette in corsa il Consorzio Sis.
Fin qui la storia ufficiale. Che però le intercettazioni sembrano raccontare con altre sfumature. L’8 luglio 2009 Piacentini al telefono spiega all’avvocato Cerruti di aver perso un appunto e gli chiede di rimandarglielo per posta elettronica: «Senti Guido io ti devo chiedere... tu mi manderai a... ma io ti devo chiedere di rimandarmi via e-mail... se è possibile subito... l’appunto su... il modulo di ordinanza perché non so se me lo sono dimenticato a Roma eccetera e volevo sistemare (…) ci siamo capiti (…) tu me l’hai mandato... l’ho visto... ma non...». Cerruti lo rassicura, poi però chiama la sua collaboratrice di studio, avvocato Raffaella Di Tarsia, e si irrita per il fatto che il presidente del Tar abbia nuovamente perso la traccia per le nomine: «La realtà supera la fantasia sempre… perché il presidente… si è riperso tutto... allora vorrebbe subito... di corsa... via e-mail nuovamente la traccia… per nomine e cristi e madonne varie... Io non ti dico guarda veramente... tutto il disgusto e il disprezzo...Ma manda, dai!». Il problema è che Di Tarsia non ha più copia, avendo ritenuto opportuno distruggerla «...perché io giustamente l'ho frullata... l'ho buttata…». Cerruti si dispera, dando l’impressione che il documento abbia natura illegale: «Ma porca… ci vado io in galera... lo chiamo io...».
E chiama l’avvocato Patrizio Leozappa, genero del presidente del Tar del Lazio Pasquale De Lise, che secondo gli investigatori «risulta in stretti rapporti con Balducci e l’imprenditore Diego Anemone». Leozappa da un lato gli fa capire di avere una copia conservata in un luogo sicuro («Fammi fare mente locale perché mi pare che per prudenza l'ho messa da qualche parte»), ma dall’altro gli consiglia, sempre per prudenza, di non mandarla via mail a Piacentini. Cerruti però gli dice di non avere scelta: «Figlio mio, ma che dobbiamo fare? Mi ha chiesto l'e-mail e io gli mando l'e-mail... è la terza volta». Leozappa si offre almeno di togliere dal documento riferimenti pericolosi, «la pulisco dai!... la pulisco così evitiamo...». Di certo c’è che il 20 febbraio 2010 la consulenza di Balducci, depositata al Tar lombardo, rimette in corsa il consorzio Sis nella gara d’appalto. E i rappresentanti legali della Sis nella causa erano proprio Cerruti, Di Tarsia e Leozappa.
IL CASO GROSSI
Il giudice con i conti in Svizzera. La Grossi nei guai per la lista Falciani. Magistrato fallimentare, era indagata per gli incarichi a professionisti amici. Dal Lodo Mondadori a Villa Certosa, le sue cause si sono incrociate con gli affari di Berlusconi di WALTER GALBIATI ed EMILIO RANDACIO su “La Repubblica”.
"La zarina del Tribunale fallimentare di Milano, finita sotto inchiesta (e dimessa dal ruolo) per il giro di consulenze e incarichi assegnati a professionisti amici o ai quali era affettivamente legata, aveva i conti in Svizzera. Il nome di Maria Rosaria Grossi compare tra i 7mila nominativi della lista che la polizia francese ha sequestrato a Hervé Falciani, francese, ingegnere informatico ed ex dipendente della Hsbc Private Bank di Ginevra. Una lista di potenziali evasori del Fisco che la Guardia di finanza e l'Agenzia delle entrate stanno passando al setaccio. La posizione della Grossi è attiva fino al 2003 e probabilmente, grazie a scudi, condoni e prescrizioni, non determinerà conseguenze di carattere penale. Eppure quella sola presenza getta un'ombra in più sull'operato del giudice, la cui condotta è descritta minuziosamente nei verbali del procedimento bresciano, nel quale è accusata di concussione (per un episodio, mentre il pm Fabio Salamone ha chiesto e ottenuto l'archiviazione dal gip Roberto Gurini per il reato di abuso d'ufficio). L'udienza per decidere sul rinvio a giudizio è fissata per il 15 marzo 2011. A parlare negli interrogatori è Mauro Vitiello, magistrato in servizio al Tribunale di Milano, sezione fallimentare e dunque ex collega della Grossi: "Era sospettata di scambiare favori di natura economica con professionisti vari utilizzando il sistema della loro nomina nelle procedure concorsuali. Altra voce che correva sul conto della Grossi era relativa al fatto che avesse avuto relazioni sentimentali con avvocati e professionisti che lavoravano nello stesso settore dove lei svolgeva attività di giudice". Vitiello fa riferimenti espliciti: "La Grossi si occupò della vicenda lodo Mondadori (...) In particolare aveva fatto scalpore la circostanza che la causa fosse stata assegnata proprio alla Grossi, che a quel tempo aveva una relazione con l'avvocato Bruno Giordano, a sua volta avvocato, credo, in ambito assicurativo del gruppo Berlusconi". È poi un commercialista, Giovanni La Croce, a raccontare come la Grossi abbia chiesto a Marina Giordano, sorella di Bruno, di sostenere davanti alla procura che "i movimenti di denaro tra loro (i Giordano ndr) e la sorella del giudice, pari a circa 100mila euro, erano riferibili a prestiti non meglio precisati della Grossi". Marina Giordano, invece, aveva sostenuto che tali somme erano state affidate a lei in custodia dal giudice - e non in prestito - e che a un certo momento la Grossi ne aveva chiesto la restituzione. "La Grossi - spiega La Croce nei suoi verbali - sarebbe riuscita, a suo dire, a dimostrare agli investigatori bresciani che le somme raccolte nel 2008 pari a circa 100mila euro, proverrebbero dall'incasso di suoi affitti in nero e non invece, come sosteneva l'accusa, dall'incasso di ipotetiche tangenti". La Grossi sembra portar fortuna al gruppo Berlusconi anche nella trattativa che condusse all'acquisto di Radio 101 da parte del gruppo Mondadori. La "zarina" partecipò alle riunioni e alla formulazione del contratto. "L'avvocato Gatti - riporta La Croce - si disse meravigliato della partecipazione della Grossi che gli apparve anomala in quanto il ruolo del giudice sarebbe dovuto essere quello di mero controllo dell'attività degli organi preposti e non quella di diretta partecipazione alla trattativa". Lo zampino della Grossi compare anche nel fallimento dell'Arcado, dove rivestiva il ruolo di giudice delegato: alla Arcado, società dei Donà delle Rose, facevano capo i terreni adiacenti a Villa Certosa, che, attraverso la mediazione di una società delle British Virgin Island riconducibile al fiduciario Filippo Dolfuss, finirono poi alla Idra del gruppo Berlusconi.
IL CASO FORLEO
E CHIEDERE SCUSA ? Uliwood party di Marco Travaglio su l'Unità, 2 aprile 2008
Il tempo, dice il proverbio, è galantuomo. E aiuta a distinguere i galantuomini dai mascalzoni.
Da un anno due galantuomini, Clementina Forleo e Luigi De Magistris, vengono attaccati, perseguitati, infangati da una campagna politico-mediatica che avrebbe stroncato un bisonte. Ma non si sono lasciati abbattere. Hanno risposto colpo su colpo nelle «sedi competenti». Ora in quelle sedi la verità comincia a emergere. A Salerno, dove De Magistris ha denunciato i superiori per le fughe di notizie che poi venivano attribuite a lui, le indagini sarebbero a buon punto: non è lontano il giorno in cui chi l’ha condannato al Csm dovrà vergognarsi e chiedergli scusa. E da Potenza giungono notizie analoghe sul cosiddetto «caso Forleo».
La Procura lucana, cui si era rivolta la gip di Milano, ipotizza un complotto architettato contro di lei da due pm e da un tenente dei Carabinieri di Brindisi. Nella primavera-estate del 2005, mentre Clementina intercetta lo sgovernatore Fazio e i furbetti a colloquio con i loro protettori politici, i suoi genitori vengono minacciati di morte con telefonate (o semplici squilli notturni) e lettere anonime, poi si vedono incendiare la tenuta agricola e la villa in campagna, infine perdono la vita in un incidente d’auto. Senza ipotizzare l’incidente doloso (alla guida c’era suo marito, salvo per un pelo), la Forleo ha denunciato da tempo alla Procura di Brindisi gli inquietanti episodi che l’hanno preceduto. Per scoprire chi ne siano gli autori, occorreva acquisire i tabulati telefonici non solo dei genitori della giudice, ma anche dei numeri chiamanti e soprattutto mettere sotto controllo il telefono di casa dei minacciati (gli squilli, non attivando il traffico commerciale, nei tabulati non risultano).
Ma il pm Alberto Santacatterina chiede ai carabinieri solo i tabulati, senza intercettazioni. E quelli fanno ancora meno: si limitano ad acquisire i tabulati di casa Forleo, non quelli fondamentali - delle chiamate in entrata. Lei chiama il tenente Pasquale Ferrari - lo stesso incaricato della sua tutela in Puglia - per sollecitarlo a fare il suo dovere. Telefonata burrascosa («si vergogni di indossare la divisa», avrebbe detto la giudice), che l’ufficiale segnala al procuratore di Brindisi, dottor Giannuzzi. Questi però l’archivia subito a «modello 45» (notizie non costituenti reato): un innocuo sfogo personale e nulla più. Intanto la Procura ha chiesto pure l’archiviazione sulle minacce ai genitori. Il gip però respinge la richiesta, ordinando indagini più approfondite. Che però non vengono fatte e il caso finisce definitivamente in archivio. Così si comincia a dire che Clementina, avendo denunciato ad Annozero «tentativi di delegittimazione da soggetti istituzionali e forze dell’ordine», è una pazza visionaria: s’è perfino inventata le minacce ai genitori. Il Csm, per la gioia di un Parlamento ancora sotto choc per l’ordinanza Unipol-Antonveneta, apre una pratica per trasferirla: per avere screditato integerrimi colleghi e ufficiali «con accuse infondate».
In realtà erano fondatissime, ma qualcuno ha fatto in modo di ridicolizzarle. È, appunto, il presunto complotto su cui lavora la Procura di Potenza, orchestrato «al solo fine di dare una lezione» alla Forleo. Occhio alle date. L’8 giugno 2007 il procuratore Giannuzzi archivia il caso della telefonata al tenente. Il 20 luglio la gip chiede alle Camere di poter usare le intercettazioni sulle scalate anche contro alcuni politici e finisce nella bufera. Il 14 agosto, mentre Giannuzzi è in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, ancora per la telefonata: guardacaso, proprio quand’è di turno per le questioni urgenti (per quelle ordinarie bisogna attendere la ripresa autunnale) il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale e del pm Santacatterina.
I tre, sempre secondo la Procura di Potenza, «concordano tra loro il testo della denuncia» e la data della presentazione per gestirla con le proprie mani e “dare una lezione” a Clementina, «esponendo una versione diversa da quanto sarebbe realmente accaduto nella conversazione telefonica tra Forleo e Ferrari». Negro, di turno proprio quel giorno, apre il fascicolo e se lo intesta. Ma non potrebbe: l’affare non è urgente. E poi dovrebbe avvertire il capo, che ha già archiviato il caso. Fortuna che la Forleo, in vacanza in Puglia, si arma di registratore, cerca di capire cosa le stanno facendo e scopre la tresca, subito denunciata a Potenza e al Csm. A quel punto pare che Ferrari si dica disposto a ritirare la denuncia.
Ma lei tira diritto e chiede al Pg di Brindisi di avocare l’inchiesta a Negro. Il quale, per tutta risposta, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente. Ora sulla strana triangolazione Ferraro-Negro-Santacatterina sta facendo luce il pm di Potenza Cristina Correale che, nell’invito a comparire inviato per interrogarli, li accusa di abuso d’ufficio (e Santacatterina anche di falso). Quale abuso? Presentando la denuncia «in periodo feriale, nella settimana in cui era di turno il dr. Negro per far sì che il predetto venisse designato titolare del procedimento in violazione delle tabelle in vigore in ufficio, veniva arrecato intenzionalmente a Forleo un danno ingiusto». Cioè l’apertura di un processo per un fatto già archiviato. Altro danno: le indagini lacunose sulle minacce ai genitori.
Lì Santacatterina e Ferrari «indebitamente omettevano di curare l’effettiva acquisizione dei tabulati», anche se poi il pm, nel chiedere l’archiviazione del caso, «attestava falsamente» di averli «acquisiti ed esaminati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» (ipotesi di falso). Un bel quadretto che, se confermato dalle indagini, costringerà un bel po’ di politici, giornalisti, magistrati, alte e basse cariche istituzionali a chiedere scusa alla Forleo. E magari a vergognarsi. Sempreché le scuse e la vergogna, nel frattempo, non siano cadute in prescrizione.
IL CASO SANTANIELLO
“PENSIONATA” LA BLOCCA-SENTENZE. IL CSM HA ATTESO ANNI PRIMA DI INTERVENIRE, ANCHE SE TUTTI SAPEVANO COSA SUCCEDEVA.
(DNEWS, pg.10, 14 ottobre 2008) - Il giudice Rosa Santaniello, che il 20 ottobre dovrà nuovamente comparire in veste di imputata davanti al Tribunale di Brescia, non fa più parte della magistratura attiva dallo scorso mese di settembre.
E’ di ieri la notizia, riportata da Dnews, che sul consigliere della Corte d’Assise e d’Appello, accusata di avere bloccato decine di fascicoli nel corso degli anni, era già stata sanzionata tre volte dal CSM proprio per questa indole a “bloccare le cause”, questa volta rischia di abbattersi la scure della giustizia, visto che è stata rinviata a giudizio a Brescia di abuso di ufficio.
Non solo. Ad accusarla, come risulta dalle carte processuali, ci sono anche una serie di riscontri peritali, disposti dallo stesso PM di Brescia, dai quali traspare chiaramente che il giudice Santaniello non fosse in grado di svolgere appieno il delicato incarico che le era stato affidato. Da qui, la procedura di “dispensa dal servizio” , con la quale in pratica è stata pensionata, come ha confermato ieri il legale del giudice, l’avvocato Chiara Villante del foro di Brescia. Il caso, dunque, dal punto di vista della giustizia interna della magistratura si è chiuso qui, in attesa ovviamente che la causa pendente a Brescia (e intentata da un pregiudicato che ha dovuto attendere più di 16 mesi per vedersi rispondere ad una sua legittima richiesta – poi accolta – di attenuazione delle misure cautelari) arrivi alla sua naturale conclusione.
Restano però sul tappeto però una serie di domande. Era proprio necessario arrivare a tanto (ovvero ad una causa penale) prima di intervenire in maniera precisa? Le manchevolezze del giudice, del resto, erano note sia al CSM (che ha impiegato cinque anni prima di arrivare ad una sospensione di sei mesi) che al ministero, che era stato informato direttamente dal presidente della V sezione penale del Tribunale con una lettera del 15 aprile 2005 nella quale si chiedeva di intervenire urgentemente di fronte ad una situazione “di una gravità inaudita”.
IL CASO PINATTO.
EDI PINATTO: 8 ANNI PER SCRIVERE LE MOTIVAZIONI.
Condannato "giudice lumaca", otto mesi di carcere, pena sospesa.
Aveva impiegato otto anni per le motivazioni di un processo di mafia, i cui imputati nel frattempo sono stati rimessi in libertà.
Dopo la radiazione, è arrivata anche la condanna. Edi Pinatto, l'ex giudice del tribunale di Gela, in provincia di Caltanisetta, da 5 anni pm a Milano, è stato condannato a otto mesi di reclusione, con pena sospesa, per decisione del gup di Catania, Antonino Fallone, che ha accolto la richiesta del pm Antonino Fanara. Pinatto era accusato del reato di omissione e di ritardo di atti d'ufficio per aver impiegato otto anni per depositare la motivazione di una sentenza in un processo di mafia, i cui imputati nel frattempo sono stati rimessi in libertà. Una vicenda per la quale il Csm lo ha recentemente radiato dall'ordine giudiziario.
Oggi il gup ha disposto per l'ex giudice anche la sospensione temporanea dai pubblici uffici, pena accessoria sospesa, e un risarcimento danni allo Stato per i danni arrecati all'immagine della magistratura.
Il suo ritardo provocò, infatti, la scarcerazione di alcuni esponenti del clan dei Madonia imputati nel processo "Grande Oriente", essendo scaduti i termini di custodia cautelare. Solo nel marzo scorso Pinatto aveva depositato le motivazioni della sentenza emessa nel 2000 dal tribunale di Gela contro i sette componenti del clan mafioso, condannati complessivamente a 90 anni di carcere. Ma ormai gli imputati erano usciti dal carcere, il giudizio di appello non aveva potuto essere celebrato, in assenza delle motivazioni del primo grado.
Nel frattempo la vicenda era diventata un caso nazionale, su cui era intervenuto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E il Csm aveva avviato il procedimento a carico di Pinatto, che poi si è concluso con la sua radiazione dall'ordine giudiziario, una sanzione severissima e raramente applicata. I difensori del magistrato avevano chiesto l'assoluzione sostenendo che era oberato di lavoro e per questo non aveva potuto dedicarsi alla sentenza del processo.
IL CASO CASTELLANO
BNL, INDAGATO A PERUGIA IL GIUDICE CASTELLANO.
Lascia Milano e le sue funzioni di presidente del tribunale di Sorveglianza Francesco Castellano, il giudice indagato a Perugia nell'ambito dell'inchiesta sulla scalata di Unipol alla Bnl. Il plenum del Csm ha decretato il suo trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale per i suoi rapporti con l'ex presidente di Unipol Giovanni Consorte, a cui avrebbe fornito consigli sui suoi processi.
Era "sistematicamente disponibile", così i magistrati del Csm hanno definito il rapporto che il collega Castellano manteneva con Giovanni Consorte. Un rapporto molto poco ortodosso visto che il giudice teneva informato l'amministratore delegato di Unipol sui procedimenti penali in corso e che lo vedevano protagonista. Una punizione, quella del trasferimento, che è passata all'unanimità.
Era "sistematicamente disponibile", così i magistrati del Csm hanno definito il rapporto che il collega Castellano manteneva con Giovanni Consorte. Un rapporto molto poco ortodosso visto che il giudice teneva informato l'amministratore delegato di Unipol sui procedimenti penali in corso e che lo vedevano protagonista. Una punizione, quella del trasferimento, che è passata all'unanimità.
Fatta eccezione per il vicepresidente Virginio Rognoni che,come di consueto in casi analoghi, si è astenuto. In aula era presente il magistrato che poco prima in una appassionata autodifesa aveva rivendicato la correttezza del proprio operato, definendo "inconsistenti" le accuse del Consiglio e dicendosi vittima di una "campagna di stampa denigratoria". Per tutte queste ragioni Castellano con il suo 'difensore', il magistrato Pietro Dubbolino, aveva chiesto l'archiviazione della procedura. Ma inutilmente.
Secondo il Csm Castellano infatti non solo ha dato consigli a Consorte sulle sue vicende giudiziarie ma si è spinto fino a "caldeggiare le tesi" della sua difesa con il procuratore di Milano; e inoltre "non ha esitato" a riferire allo stesso Consorte, "a distanza di poche ore dalla casuale conoscenza dell'esistenza di un esposto contro Unipol" presentato dal Banco di Bilbao.
Comportamenti che nel loro insieme, scrive il plenum nella delibera, "impongono il trasferimento d'ufficio" del magistrato. I fatti contestati dal Csm a Castellano sono stati "accertati dall'istruttoria espletata, sottolineano i consiglieri di Palazzo dei Marescialli, e rivelano che da parte di Castellano c'è stata una "compromissione del prestigio" delle sue funzioni. La ragione centrale è il rapporto che il magistrato ha intrattenuto con l'allora presidente di Unipol; rapporto caratterizzato da parte di Castellano "non solo dalla costante e prolungata disponibilità a offrire consigli" a Consorte sulle "vicende giudiziarie che lo vedevano coinvolto", ma anche dalla "assunzione di concrete e rilevanti iniziative volte a intervenire sull'andamento dei procedimenti penali che coinvolgevano l'imprenditore".
MALAGIUSTIZIA
Non bastano i tanti, troppi fuori ruolo nella magistratura. In più ci sono tante toghe impegnate in incarichi temporanei extragiudiziari, mentre la giustizia affoga tra milioni di arretrati e accumula ritardi da record nel deposito delle sentenze. Tra queste, un giudice-lumaca, sotto processo al Csm per aver depositato sentenze con grave ritardo, che fa parte della Commissione per individuare gli standard di produttività delle toghe ed evitare proprio i ritardi dei colleghi.
Palazzo de’ Marescialli è di manica larga e autorizza non solo quelli che la toga la mettono nell’armadio per anni, anche decenni, per fare i parlamentari, gli amministratori locali, i ministeriali, i diplomatici in organismi internazionali, i membri dello stesso organo di autodisciplina della magistratura, ma anche quelli che a centinaia entrano in commissioni di studio, tengono insegnamenti universitari o corsi di specializzazione e formazione professionale, fanno lezione un po’ a tutti, nelle accademie navali e negli ospedali, all’Aci, a vigili e ingegneri, carabinieri, giornalisti e doganieri.
Sono stati 957 i nulla osta dati da Palazzo de’ Marescialli in 6 mesi. Finora c’era un tetto di 40 ore all’anno, che salivano a 50 in casi particolari, ma una sentenza del Consiglio di Stato ha aperto la porta, dando ragione ad un magistrato cui era stata negata l’autorizzazione perché superava appunto il limite fissato dalla circolare del Csm. Per il supremo giudice amministrativo il no non può essere legato solo al tetto orario, ma dev’essere giustificato con un previsto pregiudizio dell’attività quotidiana del magistrato.
Non preoccupa che ci sia già un esercito di fuori ruolo con incarichi permanenti a Palazzo Chigi, nei ministeri, alla Corte costituzionale, al Quirinale, al Csm, in commissioni e autorità, organismi internazionali e ambasciate, missioni varie all’estero. Sono 277, malgrado i circa mille e 400 posti vuoti negli uffici giudiziari, soprattutto nelle sedi disagiate, sempre più in affanno nel loro lavoro.
Almeno le toghe in servizio dovrebbero lavorare full time. E invece no: gli incarichi extragiudiziari per il Csm devono essere aumentati. Eppure, diverse volte la sezione disciplinare si è trovata alle prese con casi di magistrati sotto processo per i ritardi accumulati nel loro lavoro che come giustificazione sostenevano di essere stati impegnati in altri incarichi, regolarmente autorizzati dallo stesso Csm, che ora li incolpava. Questo mentre la prima condizione per ottenere il nulla osta è che non ci sia «interferenza dell’incarico con l’attività giudiziaria».
Il caso più recente riguarda il giudice di Milano Enrico Consolandi. Il Csm lo ha autorizzato a fare un seminario di 20 ore sul processo telematico all’università di Milano, malgrado egli sia sotto procedimento disciplinare proprio per ritardi nel deposito delle sentenze, rilevati da una recente ispezione del ministero della giustizia.
Il fatto più clamoroso è che Consolandi fa parte della Commissione del Csm, insediatasi a dicembre 2008, che si occupa di stabilire gli standard di produttività per i colleghi. Sembra peraltro, che in quella Commissione non sia l’unico ad essere stato individuato come giudice-lumaca. Ma non è tutto.
Un’altra regola del Csm è quella di non dare l’ok per attività part time a chi subisce un procedimento disciplinare. Per tanti c’è stato il rifiuto, ma Consolandi (pare appoggiato da una forte corrente di sinistra) è stato regolarmente autorizzato. Non era la prima volta. Perché aveva avuto l’ok per entrare nella Commissione del Csm sulla produttività, mentre pendeva sul suo capo un altro processo disciplinare. Nel 2007, dopo un violento alterco, aveva spinto in malo modo un anziano di 75 anni fuori dal suo studio, facendolo cadere e sbattere alla porta. Questi era finito al pronto soccorso con un ematoma e il giudice aveva subito un processo penale per lesioni. Il Csm, pur censurando il suo comportamento, lo ha assolto.
Altro caso che val la pena di ricordare quello del giudice del tribunale di Milano Guglielmo Leo. Tra il 1997 e il 2001 aveva depositato 13 sentenze penali con ritardi anche di 4-5 anni. «Ero molto impegnato - spiegò a Palazzo de’ Marescialli, durante il suo processo disciplinare- anche per il lavoro nel Comitato scientifico per la formazione del Csm, con molti viaggi a Roma e in altre città».
Pensare che, come abbiamo detto, la prima regola per l’autorizzazione sarebbe che il nuovo incarico non pesi negativamente sul lavoro d’ufficio. Per la cronaca, quel gip nel 2006 è stato assolto. Era «laborioso», anche se fuori dal tribunale.
Ecco perché ai magistrati si drizzano i capelli in testa a sentir parlare di «processo breve», 2 anni per ogni grado. Solo per depositare una sentenza c’è chi ci mette ben sei anni e mezzo.
Succede nel tribunale di Milano, che dovrebbe essere un modello per il sistema giustizia italiano, anche perché ci passano come si sa processi «eccellenti». Magari, però, se c’è un imputato come Silvio Berlusconi, si va più in fretta.
Un’ispezione del ministero della Giustizia ha esaminato l’attività del tribunale tra il 25 marzo 2003 e il 15 settembre 2008. Un’ispezione ordinaria, di quelle periodiche negli uffici giudiziari. Ma i risultati sono stati eclatanti: gravi ritardi, negligenze, errori. C’è chi accumula 2.066 giorni di ritardo nel deposito delle sentenze, chi 1.311, chi 928, chi supera l’anno in 123 casi, chi sfora i termini il 75 per cento delle volte. C’è anche chi si «dimentica» in prigione un detenuto che dev’essere scarcerato per ben 127 giorni.
Per tutto questo e molto di più il Guardasigilli Angelino Alfano ha deciso di promuovere l’azione disciplinare per 14 giudici. L’11 novembre del 2009 ha fatto la segnalazione al procuratore generale della Cassazione e Vitaliano Esposito sta ora facendo la sua istruttoria. Alla fine, chiederà di procedere o, in rari casi, di archiviare. Sarà la sezione disciplinare a giudicare le toghe sotto accusa. Il più delle volte, per ritardi anche gravi come questi, tutto si conclude con una censura che rallenta la futura carriera.
Carriera che è andata a gonfie vele, ad esempio, per uno dei giudici in questione: Elena Riva Crugnola nel 2008 è stata promossa all’unanimità dal Csm ed è diventata presidente di sezione del tribunale di Milano, sbaragliando ben 61 candidati. Valutazioni positive che più positive non si può: «entusiasmo», «buona produttività», «doti organizzative». Come si concilia questo quadro con il fatto che negli anni precedenti, si legge nell’atto di accusa di Alfano, abbia «omesso di rispettare i termini di deposito di 86 sentenze civili, (pari al 74 per cento di quelle complessivamente depositate), con un ritardo massimo pari a 669 giorni e ben 46 casi di ritardo superiore all’anno»? Ritardi, per il ministro, «reiterati e gravi, non giustificati e sintomatici di mancato rispetto, nell’esercizio delle funzioni, dei doveri di diligenza e laboriosità, con evidente lesione del diritto del cittadino a una corretta e sollecita amministrazione della giustizia, nonché pregiudizio della fiducia di cui un magistrato deve godere e conseguente compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario».
Colpisce anche che tra i giudici indicati come fannulloni ce ne sia uno, Enrico Consolilandi, che fa parte del gruppo di lavoro del Csm per stabilire le regole di produttività delle toghe. Forse il suo esempio non è dei migliori, se ha depositato fuori dai termini 78 sentenze civili e 8 penali (il 14 per cento del totale), con un ritardo massimo di 892 giorni e ben 21 casi che superano l’anno. Il record sembra raggiunto da Bartolomeo Quatraro che è arrivato a depositare una sentenza con 6 anni e mezzo di ritardo e altre 67 con oltre un anno: 86 in tutto fuori dai termini. Quanto a Maria Rosaria Mandrioli, tra le sue 59 sentenze in ritardo ne ha qualcuna che sfora i 1.311 giorni, oltre ad altre 3 oltre l’anno.
Per Bianca La Monica risultano 106 sentenze in ritardo, quasi il 40 per cento, anche di 439 giorni. Arriva a 928 giorni Angelo Riccardi, che non consegna nei termini 82 sentenze, mentre Federico Buono è sotto accusa per ben 396 sentenze (il 43,46 per cento): il suo massimo è 838 giorni ma in 123 casi supera l’anno. Angela Rosa Bernardini ambiva alla stessa promozione della Crugnola e poteva farcela, visto che esibiva al Csm «lusinghiere valutazioni sulle qualità professionali e personali», in particolare una «laboriosità molto elevata» e una «notevole produttività». Peccato che in quasi il 60 per cento dei casi depositava le sentenze in ritardo, 273 nel periodo in questione, arrivando a 579 giorni e oltre l’anno in 88 casi. C’è poi il caso a parte di Jole Milanesi, che ha tenuto in carcere Abdel Nabi El Gammal per 127 giorni, malgrado fossero scaduti i termini per la carcerazione cautelare.
Parliamo di processo breve. Così breve il processo, solo per i poveri cristi, che tanto vale non farlo. Fuori un imputato e sotto un altro. Quasi fosse una catena di montaggio, l’ultimo espediente per ridurre i tempi della giustizia è non praticarla affatto. O per lo meno, aggirarne la forma. Che, nel caso della legge, è pure sostanza. Così, prima della prima udienza del 10 febbraio 2010, prima che il processo d’appello cominci, ben prima che i giudici (tre) entrino in camera di consiglio, la sentenza c’è già. Mollata come scartoffia nel fascicolo processuale. Lo stesso che l’avvocato chiede di poter consultare all’inizio dell’udienza. Apriti cielo. Un foglio. Battuto al computer. Con firma del giudice relatore. Che conferma la decisione dei magistrati di primo grado e condanna Francesco Basile, 36 anni accusato di furto, a 8 mesi di reclusione. Avanti il prossimo.
A un passo dalla morte della giustizia, però, il rantolo che la salva. È il legale di Basile, l’avvocato Paolo Cerruti di Napoli, a evitare che si compia il destino già segnato del suo assistito. I media ne danno risalto. Trova la carta, la mostra in aula, solleva un polverone. Chiede il sequestro del documento e «ho fatto mettere a verbale che ho trovato la sentenza già fatta e firmata», dice visibilmente alterato. Cerruti la racconta così. «Per scrupolo prima dell’inizio del processo chiedo al cancelliere di indicarmi il fascicolo in modo da capire quali fossero i punti più controversi da discutere. Noto che sulla scrivania del presidente c’è un documento con scritto: “Tribunale di Monza, Basile Francesco”. Lo apro per vedere cosa ci sia annotato dei miei motivi di appello e leggo: “L’appello è infondato e va rigettato”. Accanto il giudice Giovanni Scaglione ha scritto punto per punto tutte le motivazioni di rigetto dei miei motivi di appello». «Se questo è quanto - rincara la dose -, la funzione dell’avvocato è assolutamente nulla, e siccome io ho un rispetto enorme per la magistratura, ho voluto tutelare la giustizia. Quindi ho fatto mettere a verbale che ho trovato la sentenza già firmata. Poi ho chiesto che venisse sequestrata in modo che il Consiglio superiore della magistratura verifichi se l’avvocatura sia stata offesa. Infine ho avvertito per telefono l’Ordine degli avvocati di Napoli e sono andato di persona dai responsabili di quello di Milano. Qui i giudici non hanno rispetto». Insomma, un gran casino.
Giovanni Scaglione, il presidente della prima corte d’appello finito nella bufera, si difende: «L’avvocato ha messo abusivamente le mani nelle mie carte».
In ogni caso, anche alla peggio canaglia spetta un processo. Breve finché si vuole. Ma almeno, che inizi.
DENUNCE PENALI MAI ISCRITTE NEL REGISTRO GENERALE.
Perché per molti mesi queste denunce sono sì esistite fisicamente, in carta e inchiostro nell'ufficio che in Procura registra appunto le denunce di reato dopo le indicazioni impartite dai procuratori aggiunti; ma formalmente non sono mai esistite, e quindi non sono ancora state prese in carico e coltivate dalle indagini di alcun pm, perché mai sono state registrate nel Registro Generale informatico.
Perché? Perché a fare quello che pomposamente è chiamato «servizio di data entry», ovvero a immettere i dati nell'archivio elettronico della Procura, invece dei 22 cancellieri che facevano questo lavoro anni fa, oggi in servizio effettivo si ritrovano solo 7 impiegati.
Che, come ovvio, nella registrazione delle denunce danno la priorità a quelle contro persone identificate. Così la massa di denunce contro ignoti, che una città come Milano produce al ritmo di 500 al giorno, periodicamente diventa una montagna dalla vetta non più scalabile.
Alla fine dal ministero, come in altri casi nel passato, è arrivato un mini stanziamento- extra per appaltare a una ditta privata il servizio di assorbimento dell'arretrato da questo limbo.
Dove, nel frattempo, il cittadino ha comunque già pagato una «tassa» senza saperlo. Se la denuncia non viene registrata, infatti, non parte l'indagine; ma se non inizia, nemmeno può finire con quel certificato di «chiusura indagine » necessario a ottenere dalla propria assicurazione il risarcimento per il furto in casa o l'auto rubata.
IL TRIBUNALE CONVOCA TOPOLINO E PAPERINA.
Il testimone Topolino? «È pregato di comparire innanzi al Tribunale il 7 dicembre». E non da solo: perché anche «i signori Titti, Paperino, Paperina» sono attesi «davanti al giudice monocratico» per deporre «quali testi nel procedimento penale 6342/05». Il timbro parla chiaro: «Io ufficiale giudiziario, richiesto come in atti, ho per ogni legale effetto notificato l'atto che precede a: Titti, Paperina, Paperino, Topolino». La «relazione di notifica», che la cartolina dell'Ufficio notifiche atti giudiziari di Milano attesta appunto essere stata fatta pervenire al supposto domicilio legale dei fumetti, conferma: non è uno scherzo della giustizia. Ma la bizzarra esecuzione di un teorico adempimento, richiesto effettivamente dalla Procura di Napoli: la citazione proprio di questi quattro testimoni da parte del pm all'udienza in programma venerdì, in un processo partenopeo a un cinese accusato di aver contraffatto gadget con le immagini dei personaggi dei cartoni.
Ovvio che si sia trattato di un paradossale lapsus di cancelleria. Che, una volta vergato, non è stato più fermato, anzi ha via via risalito tutti i livelli di una burocrazia ormai talmente paraocchiata da diventare cieca anche rispetto al ridicolo. L'imputato cinese è accusato a Napoli di aver contraffatto giochi e adesivi con le immagini di Topolino & Co. E in questi casi è il legale rappresentante dell'azienda danneggiata a essere chiamato dal pm per riferire al giudice che quello contraffatto era davvero un proprio marchio. Ma non è un caso che ogni giorno in Italia un processo su tre «salti» per un qualche difetto di notifica.
Nella montagna di adempimenti pratici nei quali si dibattono le cancellerie dei tribunali, in perenne affanno da carenza d'organici e assenza di risorse materiali, deve essere accaduto che il tapino cancelliere di turno abbia automaticamente trasposto nell'atto di citazione dei testi i nomi rimastigli impressi in una affrettata lettura del capo d'imputazione. Il resto è implacabile burocrazia che si autoperpetua. Che sia a mano (come la citazione della Procura napoletana) o dattiloscritto (come sulla cartolina dell'Ufficio notifiche milanese), il risultato non cambia: e «mediante consegna di copia a mani dell'ufficiale giudiziario», la notifica plana (come e anche meglio che in un cartone animato) nello studio legale di Milano che di solito patrocina Warner Bros e Walt Disney nei processi per contraffazione. Improbabile, però, che Paperino e Topolino si presentino a testimoniare. Pare siano già impegnati con i bambini di mezzo mondo sotto Natale. «Legittimo impedimento».
MORIRE A CAUSA DELL'INETTITUDINE DELLO STATO.
Martedì mattina 23 giugno 2009, quando uccise a coltellate l’ex moglie 33enne Monica Morra, che davanti all’asilo aveva in braccio il loro figlio di 2 anni, Massimo Merafina non sarebbe dovuto essere libero, ma avrebbe dovuto già trovarsi in carcere da almeno 3 giorni in forza di un ordine di arresto che sabato 20 giugno era stato emesso dal Tribunale di Sorveglianza e comunicato via fax per l’esecuzione alle forze dell’ordine. Ma il commissariato cominciò formalmente a cercare Merafina (senza trovarlo) solo lunedì 22 giugno. Un vuoto di 48 ore. Che si aggiunge allo sfortunato paradosso di una donna uccisa mentre era sottoposta (per tutt’altre vicende) a una «vigilanza mobile» di polizia. E all’ulteriore beffa (questa già nota) del fatto che la notizia di reato relativa a due denunce per stalking, sporte appena pochi giorni prima, (il 17 e 18 giugno) al commissariato Lambrate contro l’uomo da cui si stava separando, sia poi arrivata in Procura, benché redatta il 20 giugno, solo il giorno stesso del delitto, 23 giugno.
Il fax dei Servizi sociali.
Merafina, 45 anni, alcolista da 25, condannato nel 2008 a 1 anno e 6 mesi per detenzione d’armi, stava scontando la pena in misura alternativa al carcere, affidato dal Tribunale di sorveglianza (pur con due pareri negativi del commissariato) a un Servizio sociale. Ma sabato 20 giugno, alle ore 9.05, l’assistente sociale del Centro diurno «Il Girasole» comunica via fax urgente al Tribunale che il condannato «ha interrotto il programma terapeutico» e che il Servizio sociale, «con gli strumenti tecnici a disposizione, non può garantire la tenuta della misura alternativa e la tutela delle persone coinvolte nella sua vita familiare».
Il fax del Tribunale.
Quel sabato il giudice Cossia competente su Merafina non c’è, e il fax passa a un’altra giudice di turno, Ceffa. Che già alle 11.28 manda al commissariato un fax in cui «paventa il rischio di atti anche di etero-aggressività da parte di Merafina», motiva «l’inidoneità della misura» alternativa al carcere «a tutelare l’incolumità dei terzi e dei familiari», ne dispone la sospensione, e «ordina l’accompagnamento di Merafina in istituto penitenziario».
Il fax del Commissariato.
Il rapporto di trasmissione attesta che il fax è effettivamente partito; è stato ricevuto 22 secondi dopo da un fax intestato «Ps Quarto Oggia» (il commissariato di Quarto Oggiaro); e ha avuto «risult ok». E invece nella ricezione, evidentemente non preavvisata da alcuna telefonata del Tribunale, accade qualcosa che ok non è: per ragioni non chiarite (guasto tecnico? disattenzioni umane?), in commissariato il fax non c’è o si perde. È solo una fortuita circolazione di notizie tra assistenti sociali e polizia a far sì che lunedì il commissariato apprenda della revoca dell’affidamento in prova, revoca che formalmente riceve in fax dal servizio sociale. Stando agli atti dell’indagine sul delitto del pm Ester Nocera, è da lunedì che gli agenti cominciano a cercare Merafina nei bar, presso i conoscenti, nei luoghi frequentati. Senza successo.
La tutela della Questura.
Caso vuole che l’ex moglie intanto abbia da mesi una protezione della polizia. A inizio 2009, infatti, Morra ha deposto come teste in un processo contro due imputati di aver sparato nel 2006 a Merafina. Per metterla al riparo da possibili ritorsioni da parte degli imputati, il pm Sangermano il 13 febbraio 2009 chiede alla Questura una qualche forma di tutela; e il 19 febbraio il questore milanese Indolfi comunica «di aver disposto, in via preventiva, una vigilanza mobile dedicata, a cura della Polizia, presso l’abitazione della signora», insomma un’auto che ogni tanto passa sotto casa (peraltro poi cambiata dalla donna). Neanche questo, per sfortuna, la salverà.
IMPUNITOPOLI.
Giudice fannullone per cinque anni Assolto: "La moglie l'ha lasciato...". Fatto allucinante di abusi ed impunità riportato da “Il Giornale”.
Non stava bene, il giudice. E non da ieri. A dire il vero, erano anni che aveva la testa altrove. Cinque anni. Così preso dai suoi problemi familiari, il magistrato, da accumulare fascicoli sulla sua scrivania. Un monte di carte. Però non s’è arreso. O meglio, non ha mollato la presa. Quell’ufficio l’ha tenuto occupato, pur facendo poco o nulla di quanto gli veniva richiesto. E anche se a mezzo servizio (e forse anche meno), ogni mese è passato all’incasso. Stipendio e anzianità di servizio. Insomma, quel che si dice una carriera. Finché il giocattolo si è rotto. Finché, cioè, qualcuno non ha presentato un esposto al Csm e una denuncia penale. Così il magistrato è stato rinviato a giudizio dal gip di Brescia con l’accusa di omissione in atti d’ufficio. Con il pubblico ministero che ne ha chiesto la condanna a 4 mesi. E con l’imputato che ha ammesso che era vero, aveva accumulato ritardi, ma il fatto è che la moglie l’aveva lasciato e per questo non riusciva più a lavorare. E per dire quanto stava male, ha spiegato che il problema non riguardava solo il caso per cui si trovava a processo, ma qualcosa come 300 (trecento!) fascicoli. E com’è andata a finire? Assolto nel giro di una mattinata. Per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè, mica colpa sua. È che da quando la consorte l’ha mollato non ce l’ha più fatta.
La storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice della sesta sezione civile del Tribunale di Milano, parte da lontano. E inizia, più o meno, dieci anni fa. Quando sulla sua scrivania finisce una causa di separazione come ce n’è a migliaia nel Palazzaccio del capoluogo lombardo. Una pratica banale. Il magistrato era chiamato a stabilire - sulla base di una perizia - il valore di alcuni beni attribuiti da una precedente sentenza a un marito, ma che la moglie aveva fatto sparire. In altre parole, l’uomo - non potendo mettere le mani su quei beni - chiedeva di poterne almeno monetizzare il prezzo. Nel 2001, inizia la causa per l’accertamento del valore. Nel 2003, viene depositata la perizia (che fissa la cifra di 230mila euro). Poi, il buio. Codice alla mano, il giudice avrebbe avuto 30 giorni di tempo per firmare la sua ordinanza. Ma siccome siamo in Italia, come spesso accade quei trenta giorni vengono dilatati dal processo civile. Due mesi. Tre mesi. Sei mesi. Un anno. Due. Niente. La sentenza non arriva. L’avvocato che segue la causa tra marito e moglie cerca di sollecitare la pratica, ma dall’ufficio del giudice nessuna risposta. I colleghi del magistrato allargano le braccia, ammettendo di essere a conoscenza del problema ma non sapendo come risolverlo. Fino a quando il legale non decide che la misura è colma, e nel 2008 - cioè, dopo cinque anni di inutile attesa - presenta un esposto al Consiglio superiore della magistratura (che avrebbe sospeso la toga dalle funzioni) e una denuncia penale. E così il giudice «lumaca» finisce a processo.
Quel che accade davanti al collegio della I sezione del tribunale di Brescia, però, ha il sapore del grottesco. La prima udienza, infatti, è anche l’ultima. Al pubblico ministero e all’avvocato di parte civile, che si attendevano un’udienza «filtro» per iniziare a discutere del caso, viene comunicato che la vicenda va affrontata senza perdere altro tempo, che si procede all’immediata discussione, che ci sarà la camera di consiglio e la sentenza. È il 18 marzo 2010. Il giudice-imputato spiega al collegio che la ragioni di quel ritardo erano dovute al suo stato di prostrazione psichica (e a riprova porta due perizie), e che le sue difficoltà l’avevano portato a trascurare qualcosa come 300 fascicoli che gli erano stati affidati. Non esattamente un’attenuante. Avrebbe potuto prendersi un periodo di malattia, un’aspettativa, ammettere di non essere in grado di fare fronte al carico di lavoro e passare la mano a qualche collega. Avrebbe potuto - extrema ratio - persino dimettersi. E invece no. Ha accumulato ritardi su ritardi. E pace a chi chiede alla giustizia di essere - se non rapida - almeno decente. Il Tribunale, però, l’ha assolto per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè non c’è il dolo, e - soprattutto - l’imputato era afflitto da una condizione che gli impediva sì di assolvere le sue funzioni, ma non di vedersi accreditato lo stipendio ogni mese, per dodici mesi, nei cinque anni in cui non ha fatto nulla. Ma se non poteva lavorare, per quale ragione non l’ha responsabilmente ammesso prima di mettere un’altra zavorra al sistema? Tant’è, assolto. Subito. Nel giro di una mattinata. In due ore. E poi si dice che non esiste il processo breve.
ESAMOPOLI
A chi porta testi già "segnati", mai più di 25. Agli appelli gli studenti fanno la coda "Compra i miei libri e ti darò 30 e lode" di Teresa Monestiroli.
Alla Statale il caso dell´esame col trucco. Il prof controlla i volumi. Se sono nuovi li "vidima" e poi assegna il massimo dei voti.
Il trucco è semplice, ma diabolico.
Uno stratagemma raffinato per attirare centinaia di studenti agli esami garantendo il massimo dei voti con il minimo dello sforzo. In cambio dell´acquisto dei testi curati dal professore stesso, sui quali ovviamente lui prende una percentuale: da tre a cinque a seconda dei crediti, per una spesa che varia dai 60 ai 90 euro. A raccontare la tecnica sono gli stessi ragazzi: «Basta comprare i libri nuovi e l´esame è fatto. Durante l´interrogazione infatti il professore li controlla uno a uno, attentamente. Chiede sempre un argomento a piacere e mentre lo studente risponde segna il libro con la biro, di solito riempie una lettera nella prima pagina della bibliografia». Un puntino nero che vale un trenta e lode. E se i libri non sono nuovi?
«Quelli che vendono usati sono tutti già vidimati – continuano gli studenti – Se li hai tutti di seconda mano ti fa una domanda in più e il voto non supera il 25, salvo alcune eccezioni». Ecco come si passa l´esame di letteratura tedesca all´università Statale. Non saranno mazzette, ma basta passare una mattina insieme ai ragazzi seduti per terra in corridoio in attesa di sostenere la prova, per capire che il procedimento non è del tutto regolare. «La prima cosa che ti chiede, quando entri nella sua stanza – racconta Marco, iscritto a Lettere moderne – è di fargli vedere i libri. Poi arriva la domanda a piacere. Una, due al massimo. Il tutto dura non più di dieci minuti, anche meno. E mentre stai ancora parlando il prof ha già segnato sul libretto il voto: trenta e lode».
Piazza Sant´Alessandro, dipartimento di lingue, piano seminterrato. È qui che una volta al mese – o quasi – centinaia di studenti danno quello che nei chiostri della Statale tutti chiamano l´esame «fuffa». Il classico appello facile, che alza la media sul libretto e si prepara in fretta. Lo danno tutti, o quasi. All´ultima chiamata, qualche giorno fa, gli iscritti erano più di 150. Nel 2007, stando alle statistiche ufficiali dell´ateneo, è stato uno degli esami più gettonati della facoltà di Lettere e filosofia. L´hanno fatto in 580, contro due sole tesi seguite dal professore in questione. Per avere un´idea della media di facoltà, una letteratura straniera qualsiasi viaggia sui 150-200 esami l´anno, con decine di tesi discusse.
Lo stesso professore di tedesco, fino a qualche anno fa, non superava i dieci studenti ad appello, poi, improvvisamente, è arrivata una gran folla. Alcuni sono realmente interessati alla materia, come Francesco di Lettere classiche, che i libri li ha comprati solo a metà (si è diviso la spesa con un compagno di studi), ma li ha letti tutti con passione. «Che delusione – dice – La prima cosa che mi ha detto quando mi sono seduto è stata "Mi faccia vedere i libri". Poi mi ha fatto due domandine e via. Ho risposto bene, ma mi ha dato solo 28. Un voto che mi abbassa la media». Ma alla maggior parte dei candidati il tormento di Kafka e la tragedia di Hofmannsthal non suscitano alcuna emozione. «Devo dare un esame obbligatorio di letteratura o uno lingua straniera – spiega Giovanni di Scienze dell´Ambiente – Mi hanno detto che questo va via liscio. In effetti ho studiano due giorni e ho preso 28».
Il trucco va avanti da anni. «Il prof è già stato beccato quest´estate – racconta un altro ragazzo – ma sembra che non gliene freghi un tubo». Un primo scandalo scoppiò nel luglio scorso quando il giornalino dell´università Vulcano fece un´inchiesta. La storia rimbalzò nei blog degli studenti scatenando un acceso dibattito e il professore pare abbia ricevuto un richiamo da parte dell´ateneo. Allora la tecnica era più spudorata: durante il colloquio per concordare il programma allo studente veniva proposto di comprare i testi direttamente da lui «perché non è facile trovarli in libreria». Ora i libri si devono acquistare comunque, ma in Cuem, e il prof si limita a controllare che siano effettivamente nuovi. Quindi li segna con la penna, bloccando così il mercato dell´usato e il passaggio del testo di mano in mano. Il risultato è rimasto il medesimo: il numero degli studenti che fanno l´esame è ancora altissimo. Di questi solo una minima parte, quelli che hanno frequentato il corso, vengono interrogati dall´assistente. Gli altri passano sotto il professore. Che, tra le altre cose, tiene gli esami nella sua stanza. A porte chiuse, senza testimoni.
GASSOPOLI.
Associazioni dei consumatori sul piede di guerra contro la presunta truffa del gas che avrebbe imposto agli utenti un rincaro fittizio in media del 10%. Secondo una perizia dei consulenti della Procura di Milano, grazie a contatori vecchi e malmessi che non rilevano i dati in maniera corretta le bollette sarebbero salite a danno dei consumatori. La perizia era stata disposta dai titolari di un'inchiesta della Procura di Milano che riguarda nomi di spicco dell'industria energetica nazionale come le due controllate Eni Snam Rete Gas e Italgas, l'Aem, la municipalizzata del comune di Milano, e la Arcalgas.
Il documento depositato dai consulenti sintetizza così il problema: "Tutti i misuratori del campione – sono stati esaminati 55 contatori domestici, ndr - costruiti con membrane di materiale non sintetico, conteggiano al cliente finale un volume di gas maggiore di quello effettivamente erogato e le differenze in taluni casi sono di entità rilevante". Il motivo? Le membrane naturali nel tempo hanno perso la loro elasticità, "impedendo al misuratore di conteggiare l'effettivo volume ciclico".
Quattro associazioni dei consumatori si stanno già organizzando per proporre un´azione collettiva. Per Adoc è possibile prevedere una richiesta di rimborso di 1500 euro per utente. «La class action è possibile - spiegano dal Centro per i Diritti del cittadino - le aziende distributrici hanno lucrato miliardi di euro a spese dei consumatori». Il Codacons «dichiara guerra alle società del gas coinvolte nell´indagine» e invita gli utenti interessati alla class action a contattarli all´indirizzo di posta codacons. Milanolibero. it. Pronti pure al Movimento Consumatori, che riceve adesioni all´indirizzo infoassoconsumatorimilano. it.
«A Milano i potenziali ricorrenti - spiega il presidente Sandro Miano - sono 150mila». Infine l´Adiconsum chiede una «verifica della taratura di tutti i contatori del gas installati prima del 1998, il rimborso degli importi indebitamente addebitati ed eventuali sanzioni amministrative alle società coinvolte».
"Bollette del gas gonfiate, penalizzati tutti i clienti finali dagli enti pubblici ai consumatori". E' questa l'ipotesi della procura della Repubblica di Milano che ha indagato 11 persone tra cui l'amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni, e una decina di società. Truffa aggravata, violazione della legge sulle accise, uso o detenzione di misure o pesi con falsa impronta, e ostacolo all'attività degli organi di vigilanza sono le accuse contestate. L'ostacolo alla vigilanza, cioè l'attività dell'autorithy dell'Energia, è il reato più grave in questa inchiesta dal momento che prevede una pena compresa tra i 2 e gli 8 anni di reclusione ed è anche l'unico per il quale è possibile ricorrere alle intercettazioni.
Delle perquisizioni e delle indagini ha dato notizia lo stesso gruppo Eni con una nota ufficiale diffusa in mattinata e in cui si nega che ci siano in gioco influenze sulle bollette, ma evidentemente la procura è di diverso avviso.
Le perquisizioni della gdf sono avvenute nel capoluogo lombardo, Roma, Torino e Piacenza negli uffici dell'Eni e di altre società del settore energia. Per quanto riguarda il gruppo Eni, le società coinvolte sono Snam Rete Gas e Italgas.
Oltre a Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, e altri dirigenti di Snam e Italgas, sono indagati i vertici e i dirigenti di Aem e Arcalgas, Domenico Dispenza direttore generale della divisione Gas e Power di Eni, Carlo Malacarne a.d. di Snam Rete Gas, Giovanni Locanto rappresentante locale Italgas. E anche anche Giuliano Zuccoli, presidente e amministratore delegato dell'Azienda energetica milanese, Roberto Gilardi, Dario Cassinelli, Aldo Scarselli, tutti dell'Aem e società controllate. Poi Agostino Covati e Angelo Ferrari di Arcalgas.
Tutte le società coinvolte nelle indagini sono anche state iscritte nel registro degli indagati per la legge 231 del 2001 relativa alla responsabilità amministrativa delle società, cioè con l'accusa di non aver predisposto il modello organizzativo adatto a prevenire la commissione di reati.
Dice l'Eni: "Gli strumenti messi sotto indagine dalla Guardia di Finanza non incidono sulle misurazioni relative alla bolletta dei consumatori". Nel decreto di perquisizione i pm affermano tra l'altro: "Viene per così dire introdotta una nuova e illecita unità di misura che viola il principio di legalità in tema di metrologia".
Secondo i pm S.ndro R.imondi e Maria Letizia Mannella "l'indagine ha consentito di appurare che le transazioni vengono effettuate con strumentazioni di vario tipo le cui indicazioni vengono poi corrette allo scopo di convertire i volumi di gas a condizioni cosiddette standard - si legge nel decreto - con conversione autonomamente previste dall'erogante e non asseverata da alcuna norma di legge".
In procura a Milano, inoltre fanno osservare, che non ci sono sistemi omogenei di misurazione, che i misuratori venturimetrici non sono legali e che gli stessi erano stati esclusi dalla comunità europea. In sostanza l'inchiesta contesta la bontà e la validità delle misurazioni di un prodotto che arriva al cliente finale, comprendendo tutti dall'ente pubblico al cittadino-consumatore.
Va inoltre ricordato che tra gli appartenenti alla guardia di finanza impegnati nelle indagini sulle bollette del gas ci sono i quattro ufficiali, Virgilio Pomponi, Rosario Lo Russo, Vincenzo tomei e Mario Forchetti che secondo le accuse messe a verbale dal generale Roberto Speciale a luglio di un anno fa il viceministro Vincenzo Visco avrebbe tentato di fare trasferire in altra sede. Tre dei quattro ufficiali avevano partecipato anche alle indagini sulla scalata di Unipol a Bnl.
MALASANITA'
Tangenti sanità, sei arresti a Milano: ai domiciliari 4 primari di Pini e Galeazzi. Indagato anche ex magistrato. Sotto inchiesta anche il direttore sanitario dell'istituto ortopedico di via Quadronno. Nelle carte dell'inchiesta ricostruito il meccanismo corruttivo. Per Gustavo Cioppa, garante in regione della legalità, si ipotizza il reato di abuso d'ufficio e favoreggiamento, scrive Sandro De Riccardis il 10 aprile 2018 su "La Repubblica". Nuova inchiesta sulle tangenti nella sanità lombarda. Questa volta sono finiti ai domiciliari per corruzione quattro primari (due dell'ospedale Galeazzi e due del Pini) e il direttore sanitario del Pini mentre un imprenditore è finito in carcere. E' indagato anche l'ex sottosegretario alla Regione Lombardia durante la giunta Maroni, il magistrato in pensione Gustavo Cioppa, che al Pirellone esercitava un ruolo di garante alla legalità. Per lui (che è stato anche procuratore della Repubblica di Pavia), i procuratori aggiunti Maria Letizia Mannella ed Eugenio Fusco e il nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza ipotizzano le accuse di abuso d'ufficio e favoreggiamento. L'unico a finire in cella è l'imprenditore che è titolare di una ditta specializzata nel settore delle apparecchiature sanitarie, i medici, invece, sono agli arresti domiciliari, mentre il magistrato è indagato. L’inchiesta nasce dall’indagine che lo scorso anno ha portato in carcere il primario del Pini, Norberto Confalonieri, recentemente rinviato a giudizio. Gli arrestati. Tra gli arrestati c'è anche Paola Navone, direttore sanitario dell'Istituto ortopedico Gaetano Pini-Cto, fiore all'occhiello della sanità milanese. Sempre al Pini è finito Giorgio Maria Calori, primario di ortopedia, unità chirurgia ricostruttiva - revisione protesica e Carmine Cucciniello, direttore del dipartimento di ortopedia. Gli arrestati del Galeazzi, invece, sono Lorenzo Drago, direttore laboratorio analisi e Carlo Luca Romanò, responsabile del centro di chirurgia ricostruttiva. In merito all'inchiesta, l'ospedale Galeazzi dichiara "la propria estraneità alla vicenda ed esprime piena fiducia nella magistratura". L'imprenditore, infine, è Tommaso Brenicci, presidente della Eon medica srl di Monza che si occupa di apparecchiature elettromedicali. Il meccanismo corruttivo. Secondo la ricostruzione degli investigatori, l’imprenditore e i due primari del Galeazzi erano insieme soci di una società che aveva il brevetto di una sorta di medical detector, un macchinario per l’individuazione delle infezioni ossee. I due dirigenti medici lo hanno introdotto al Galeazzi. E successivamente, tramite il primario di Ortopedia del Pini, Giorgio Maria Calori, che era socio di Brennici in altre società, anche di diritto estero, è stato introdotto anche al Pini. I medici si prodigavano anche in studi scientifici e pubblicazioni in cui si esaltavano le qualità del macchinario. Un conflitto di interessi che ha portato oggi agli arresti. "Al Pini non ci sono gare, se sei amico...". "Il Pini è l'ospedale più facile del mondo! (...) perché non ci sono gare, se sei amico di un chirurgo usi i prodotti che vuole, cioè è tutto libero, tutto libero!": secondo l'ordinanza d'arresto, si esprimeva così l'imprenditore Brenicci al telefono senza sapere di essere intercettato parlando della "scarsa trasparenza e legalità nelle pubbliche forniture dell'Istituto Ortopedico Cto-Pini" di Milano. Il medico e la borsa per la moglie: "La Vuitton ce la regalano". "La Vuitton non ti piace? (...) Stefi è possibile che me lo regalino (...) e allora c.... non mi rompere i co.....!". Così il chirurgo Calori si rivolgeva alla moglie che lo rimproverava per una borsa di lusso che le aveva regalato "evidenziando la necessità di essere parchi e limitare le proprie spese voluttuarie". Emerge dall'ordinanza d'arresto e da un'intercettazione nella quale il medico faceva, però, capire alla consorte "come si trattasse di un regalo ricevuto" da lui da altre persone. Il cesto di Natale da mille euro e gli altri favori. La promessa di uno stage per la figlia in una delle società dell'imprenditore Brenicci, un cesto di Natale da 1000 euro e il pagamento spese per un congresso a Parigi e uno in Alto Adige. Sono le 'utilità', come scrive il gip nell'ordinanza, percepite da Paola Navone, direttore sanitario del Cto-Pini per introdurre all'Istituto ortopedico il dispositivo per la diagnosi di infezioni articolari commercializzato dallo stesso imprenditore. Navone e il piano anticorruzione in tv. Il direttore sanitario del Pini era tra i firmatari del 'Piano triennale per la prevenzione della corruzione e dell'illegalità 2016-2018'. Il 27 marzo, dopo il rinvio a giudizio di Confalonieri, la dirigente interveniva alla trasmissione televisiva 'Porta a Porta' e assicurava: "Il Piano anticorruzione verrà attuato al Pini al più presto". "Abbiamo fornito alle autorità che ce l'hanno chiesta - aveva aggiunto l'ex responsabile del Noc (Nucleo operativo di controllo della Asl di Milano) - la lista di tutte le attività sugli impianti protesici, che fanno parte di un flusso di dati che è controllato". L'ex magistrato e il progetto Domino. Infine, scrive il gip De Pascale, per aumentare il bacino di utenza dei pazienti e potenziare l'uso del dispositivo al Cto-Pini, Navone e Calori si sarebbero rivolti all'ex magistrato Cioppa affinché intercedesse presso l'assessore al Welfare Giulio Gallera e il direttore generale del settore per ottenere dal Pirellone l'approvazione del “Progetto Domino” che nel marzo 2017 accreditava il reparto diretto dallo stesso Calori come punto di riferimento regionale per il trattamento delle infezioni articolari. Per questo Calori avrebbe ricevuto, dall'imprenditore, oltre a una borsa di Vuitton per la figlia, il pagamento delle spese sostenute per partecipare a convegni, per una intervista televisiva in Rai, un contratto di consulenza come 'opinion leader' per una società tedesca e anche 30mila euro, come prestito infruttifero, per sostenere parte delle spese per aver acceso un mutuo per un importo di 1 milione e 350 mila euro. L'esposto di un anonimo finito agli atti. "All'interno dell'azienda Pini-Cto vengono spartiti soldi pubblici in modo clientelare, che dovrebbero servire invece per il bene della popolazione (...) le ditte fornitrici sono sempre le stesse ed i regali per alcuni primari e la direttrice sanitaria sono sempre più costosi". A mettere nero su bianco queste accuse è stato un anonimo che nel febbraio 2017 ha presentato un esposto "contenente accuse di clientelismo" all'interno dell'ospedale. Denuncia che è finita agli atti dell'inchiesta che ha portato all'arresto di sei persone, tra cui la direttrice sanitaria del Gaetano Pini Paola Navone.
Tangenti sanità Milano, 4 primari e un imprenditore arrestati. La falsa diagnosi e l’intercettazione: “Un delinquente vero”. Quote della società - di cui erano soci occulti - e i relativi utili, sponsorizzazioni per la partecipazione a programmi televisivi, contratti di consulenza, royalties per la vendita di prodotti sanitari, pagamenti delle spese per la partecipazione a congressi, ma anche promesse di prestiti o la sistemazione per i figli. Queste le mazzette, secondo gli investigatori, per i camici bianchi, scrive Giovanna Trinchella il 10 aprile 2018 su "Il Fatto Quotidiano". La sanità milanese ripiomba nel baratro delle bustarelle, dei favori, delle manovre per far pressione sui politici, dei regali. E poco importa che i camici bianchi finiti nel mirino della Procura di Milano guadagnassero fino a 300mila euro l’anno. Chiedevano e ottenevano “svendendo” la loro funzione, in un caso anche a scapito della salute dei pazienti. Quote della società – di cui erano soci occulti – e i relativi utili, sponsorizzazioni per la partecipazione a programmi televisivi, contratti di consulenza, royalties per la vendita di prodotti sanitari, pagamenti delle spese per la partecipazione a congressi, ma anche promesse di prestiti o la sistemazione per i figli. Avevano questa forma le tangenti versate a quattro primari e un direttore sanitario che in cambio favorivano l’acquisto dei prodotti – soprattutto ortopedici – delle società di un imprenditore di Monza. Senza contare i regali come una borsa Louis Vuitton, neanche tanto gradita, o un cesto natalizio da almeno mille euro contenenti culatello e salmone, una bottiglia magnum di champagne Roeder e tartufo. Medici non solo “corrotti” ma “imprenditorializzati” li definisce il gip di Milano, Teresa De Pascale, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare parlando di un vero e proprio “sistema” e di “palese conflitto di interesse”.
Gli arrestati. Indagine partita dopo l’arresto di Norberto Confalonieri. Ed è per questo che i militari del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza hanno arrestato per l’Istituto Ortopedico Pini-Cto, Paola Navone, direttore sanitario, Giorgio Maria Calori, responsabile dell’unità operativa di Chirurgia ortopedica riparativa, professore a contratto all’università di Milano dal 2002, e Carmine Cucciniello, direttore dell’Unità di ortopedia correttiva. Per il Galeazzi, Lorenzo Drago direttore laboratorio analisi e professore di Microbiologia all’università di Milano, e Carlo Luca Romanò responsabile di chirurgia ricostruttiva. Tutti ai domiciliari, mentre per l’imprenditore Tommaso Brenicci, il gip ha disposto il carcere. L’accusa è di corruzione così come contestata dai procuratori aggiunti Eugenio Fusco e Maria Letizia Mannella. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice per le indagini preliminari ricostruisce le assegnazioni di forniture di protesi ortopediche e apparecchiature mediche al Galeazzi e al Gaetano Pini, che sono i due più importanti ospedali milanesi specializzati in ortopedia. Il secondo è interamente pubblico, mentre il primo è privato convenzionato e fa parte del gruppo San Donato della famiglia Rotelli che l’aveva rilevato dal gruppo Ligresti dopo il tracollo seguito all’incendio della camera iperbarica alla fine degli anni novanta. La nuova inchiesta è partita dall’indagine su Norberto Confalonieri, ex primario del Pini Cto, arrestato lo scorso anno.
Le partecipazioni nelle società dell’imprenditore. Sei le società su cui ha hanno indagato le Fiamme Gialle: la Absool medica srl, Orbital High Tecnologies srl, Eon Medica srl, Bio-Cores rl, Kubik Medical srl, e 41 srl (il cui capitale sociale è ripartito tar Eon Medica, Best Patient, Life, Biomed Device, Flame). Gli investigatori hanno scoperto per esempio che la Best Patient è riferibile alla moglie di Romanò, mentre la Flame è riconducibile a Drago e che Matteo Cucciniello, risulta a sua volta “aver percepito – scrive il gip nell’ordinanza – redditi da società riconducibili a Brenicci”. Tra il 2012 e il 2014 l’ospedale Pini avrebbe acquistato prodotti per 2 milioni e 861mila euro. “Il Pini è l’ospedale più facile del mondo … perché non ci sono gare, se sei amico di un chirurgo usi i prodotti che vuole, cioè è tutto libero, tutto libero!”. E infatti il nosocomio, secondo le indagini, garantisce mediamente il 59% dei ricavi ottenuti negli ultimi anni dal gruppo Brenicci. Dopo la presentazione di un esposto, in cui si denunciava che la spartizione di “soldi pubblici in modo clientelare, che dovrebbero servire invece per il bene della popolazione (…) le ditte fornitrici sono sempre le stesse ed i regali per alcuni primari e la direttrice sanitaria sono sempre più costosi”, e l’arresto di Confalonieri gli indagati era consapevoli che potevano essere intercettati e quindi le conversazioni – anche se ormai gli inquirenti ne avevano collezionato diverse auto-accusatorie – si sono esaurite. Ma “spenti i telefoni si sono moltiplicati gli incontri” scrive il giudice. Nell’inchiesta, tra l’altro, è indagato per corruzione anche un altro primario del Pini, Bruno Marelli, non arrestato.
Ai domiciliari la dirigente che doveva occuparsi del piano Anticorruzione. “Il Piano Anticorruzione verrà attuato al Pini al più presto” aveva detto Navone il 27 marzo 2017, nel corso della trasmissione televisiva “Porta a Porta”, dopo l’arresto di Confalonieri. “Abbiamo fornito alle autorità che ce l’hanno chiesta – aveva spiegato Navone, 60 anni, che è stata, tra le altre cose, anche responsabile del Noc (Nucleo operativo di controllo della Asl di Milano) – la lista di tutte le attività sugli impianti protesici, che fanno parte di un flusso di dati che è controllato”. Secondo quanto riporta il gip la figlia della dirigente avrebbe ottenuto uno stage post laurea in una delle società dell’imprenditore finito in carcere. Proprio Navone risulta protagonista di un altro filone investigativo sulla approvazione di un protocollo di intesa sulle infezioni dell’apparato osteoarticolare denominato Domino approvato dalla giunta lombarda. L’interesse degli indagati era quello di accreditare l’unità operativa di Calori come punto di riferimento regionale per “canalizzare” i pazienti verso il Pini. Un interesse mostrato anche da Romanò e Drago per il Galeazzi che avrebbero utilizzato prodotto il cui brevetto era riconducibile a Brenicci e di cui erano titolari. Un piano però che ha trovato grandissimi ostacoli, quello gli indagati definiscono “un nodo in Regione”, fino a quando il 13 marzo 2017 il Pirellone ha approvato il progetto.
Le pressioni e le manovre non riuscite sull’assessore Gallera. Proprio per portare a casa questo risultato gli indagati avevano cercato sostegno in Gustavo Cioppa (indagato per favoreggiamento e abuso d’ufficio), ex procuratore di Pavia e sottosegretario alla presidenza della giunta allora guidata da Roberto Maroni. Gli indagati chiedevano a Cioppa “di intercedere presso l’assessore al Welfare Giulio Galleria e al direttore generale, Giovanni Daverio, al fine di ottenere l’approvazione al progetto che accredita l’unità di Calori come polo regionale di riferimento per il trattamento delle infezioni articolari”. Cioppa, secondo il gip, si è “si è distinto per il suo concreto appoggio assicurato presso gli ambienti istituzionali regionali per favorire il progetto…”. E grazie a manovre e pressioni gli indagati sono riusciti a far partecipare Gallera a un convegno. Del resto la stessa Navone, intercettata, spiega che non è l’assessore a essere competente: “… Non può firmare Giulio (Gallera, ndr) assolutamente perché è un atto della direzione generale, è un atto congiunto tra le direzioni generali quindi non può prevaricare un ruolo”. Proprio la Navone contava molto sul progetto: “… Vedrai che però se si mettono a posto le cose sposterà begli aghetti in Regione... perché quando metteremo a posto le protesi… quando noi metteremo a posto quella roba lì…”
Il medico “interventista” con il mutuo da pagare. Secondo il giudice il medico maggiormente coinvolto è Calori, che stando alle indagini, nonostante stipendio e tangenti, aveva una situazione finanziaria precaria in seguito a un mutuo per una ristrutturazione da 600mila euro. Per questo motivo aveva chiesto 150mila euro in prestito all’imprenditore che invece al telefono intercettato dice che vorrebbe regalargliene solo 20-30mila. Un bisogno così forte di denaro che il medico, stando al racconto di due persone intercettate, avrebbe chiesto a un’anziana “morta di fame” 300 euro per una visita e 1200 euro per una consulenza e alla richiesta di poter pagare in due tranche il camice Calori avrebbe risposto alla “vecchietta”: “Allora la perizia la prossima volta gliela farò in due tempi”. Le difficoltà di Calori spingevano il medico a essere più “interventista” del necessario, secondo lo stesso collega Cucciniello, sottoponendo a intervento anche pazienti che non ne avevano bisogno proprio per poter guadagnare di più. Una “inclinazione anche connessa alla continua ricerca di guadagno” ragiona il giudice. “Un delinquente vero” la definizione usata dall’altro medico raccontando all’imprenditore che Calori avrebbe detto a un paziente privato che doveva assolutamente operarsi per evitare un’amputazione perché affetto da un’infezione inesistente. Ma dagli accertamenti non era emersa nessuna infezione che potesse giustificare l’operazione. Un anestesista, ascoltato come testimone dagli investigatori, ha raccontato che Calori avrebbe voluto portare in sala operatoria un paziente con femore rotto e cardiopatico in assenza del cardiologo e quindi si era rifiutato, scatenando immediatamente la reazione furiosa del collega. Lo stesso Brenicci, che condivide con Calori la partecipazione a quattro società di diritto britannico, aveva un’opinione piuttosto bassa del chirurgo. Parlando con Cucciniello sbotta: “Che cazzo ti devo dire? Sinceramente però ti dico anche una cosa: che non è un mio amico… Che io conosco da trent’anni! Prende le stecche su quello che fa un altro”, e l’altro: “Una merda spaziale”.
“L’alleanza strategica” tra i medici. Per quanto riguarda le posizioni di Drago e Romanò il giudice ricorda in particolare la loro posizione di soci della società 41 srl e titolari del brevetto di dispositivo “microDDtect” contro le infezioni che avrebbero voluto promuovere all’interno del Galeazzi, ma non solo. In ballo c’era la centralizzazione delle procedure ospedaliere. Tra i progetti degli indagati c’era quello di creare un “unico centro regionale di diagnostica delle infezioni” presso il laboratorio del Galeazzi, di cui Drago era responsabile, per poter utilizzare con maggiore frequenza un sistema diagnostico brevettato. E per questo è “fondamentale il patto” con Calori che, chiosa il giudice, “forse avrebbero fatto a meno di stringere”. Romanò, intercettato a ristorante Dal Bolognese, dice a Brenicci: “Fare un po’ un’alleanza strategica su tante robe… quello che dicevo a Lorenzo (Drago, ndr) era proprio vedere se riusciamo a unire le casistiche, ad avere tanti casi, e che poi, se tu pubblichi due centri, tre centri, le riviste su cui riesci a pubblicare ti guardano con un altro occhio, cioè se tu fai una pubblicazione un singolo centro hanno sempre il dubbio se i dati sono veri non sono veri, sono tre, quattrocento… sai cosa dovremmo anche fare, Giorgino, dico da un punto di vista operativo… eh, ma un patto si fa con le cose che facciamo inserire… ma io sono uno che si diverte a far le guerre a gratis…”.
Il gip: “Occorre reprimere corruzione in maniera drastica ed efficace”. Nell’ordinanza il giudice per motivare il provvedimento sottolinea come “l’illegalità, la corruzione, il malaffare che permeano interi settori della Pubblica amministrazione, rappresentano un fenomeno dilagante e del pari sommerso sicché quando si riesce faticosamente a individuare – prosegue il giudice – i singoli episodi criminosi, scoverchiando la coltre di legalità diffusa che salda i rapporti illeciti tra le parti, come riscontrato nel caso di specie, occorre reprimere siffatta forma di corruttela in maniera drastica ed efficace”. Per gli indagati il magistrato sottolinea “un’allarmante disinvoltura nell’asservimento della funzione pubblica a piccoli e grandi vantaggi personali in totale dispregio per le istituzioni, perseverando nella erronea convinzione della sicura impunità”. Vantaggi che potevano anche significare concludere un business e andare in concessionaria a ordinare una Maserati Ghibli da 100mila euro.
RACKET DELLE POMPE FUNEBRI, CORROMPEVANO INFERMIERI A MILANO: 41 ARRESTI
Il business dei decessi arriva anche a Milano. Nella notte sono state arrestate 41 persone, coinvolte in un vasto giro di corruzione tra ospedali e imprese di onoranze funebri.
Molti degli arrestati sono infermieri di otto diversi ospedali o case di cura, che segnalavano alle pompe funebri dove e quando avveniva un decesso. L'operazione della polizia, coordinata dai sostituti procuratori del capoluogo lombardo Fabio Napoleone e Grazia Colacicco, si chiama "Caronte" e ha portato in carcere cinque persone. Tutte le altre sono invece agli arresti domiciliari.
Nella maggior parte dei casi le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione di segreti di ufficio. L'indagine è nata da un vecchio esposto di un titolare di un'impresa di pompe funebri e da una denuncia del maggio 2007 di un comitato di familiari di deceduti in ospedale.
«Tangenti tra i 500 e i mille euro». «Noi stimiamo che le tangenti date agli infermieri per comunicare alle pompe funebri il decesso del paziente sia tra i 500 e i 1.000 euro, a seconda dell'ospedale e delle città». A dirlo è l'associazione dei consumatori Codacons, secondo cui, in questo modo, «i funerali offerti costano il 30% in più». La Codacons aveva già più volte denunciato il fenomeno del racket delle pompe funebri, facendo notare come «il business del caro estinto genera un giro d'affari annuo di tre miliardi e mezzo di euro per più di 5 mila imprese di pompe funebri».
Quella odierna battezzata ‘Caronte’, non è la prima inchiesta sul racket delle pompe funebri che interessa Milano.
Numerosi i precedenti, il più eclatante dei quali nel 1992.
Proprio un indagine su corruzioni e truffe intorno agli affari per ‘il caro estinto’ in alcuni ospedali, tra cui il Pio Albergo Trivulzio, portò sulle tracce di Mario Chiesa, il ‘mariolo’ come venne definito allora da Bettino Craxi, primo arrestato di ‘Mani Pulite’ per una tangente di 7 milioni di lire. Nel 1997 un’altra operazione portò la Procura di Milano a chiedere l’arresto (richiesta non accolta dal Gip), di 22 tra infermieri e procacciatori di sei imprese (san Siro, Lombarda Foroni, San Cipriano, La Milanese, la Casoratese Ognissanti) oggi quasi tutte nuovamente coinvolte. Ancora: nel 2004, 5 impiegati del Comune vengono indagati dalla Polizia Locale per reati analoghi.
A livello nazionale, tra i casi più recenti, le indagini della squadra Mobile di Arezzo nel 2006 (4 impresari arrestati e 5 infermieri indagati), della Guardia di Finanza di Torino nel 2001 e nel 2007 (9 indagati di cui 5 arrestati tra infermieri e impresari dell’ospedale Le Molinette) e dai Carabinieri di Bari nell’aprile di quest’anno (51 indagati di cui 33 arrestati in numerosi nosocomi del capoluogo pugliese). Secondo i dati Codacons il business del caro estinto genera un giro d’affari annuo di 3,5 miliardi di euro per più di 5 mila imprese funebri.
"VEDI MILANO E POI MUORI". SANITA': ARRESTI AL SANTA RITA.
«Il chiodo non sterile? Mica lo butto Lo reimpianto al prossimo vecchio».
I colloqui tra i medici. E il primario disse: sono l’Arsenio Lupin della chirurgia.
Sono una galleria di orrori e nefandezze le 209 pagine dell’ordinanza cautelare che ha portato a 14 arresti nella clinica Santa Rita. Dure le considerazioni del gip Micaela Serena Curami sui tre medici di chirurgia toracica accusati di 86 lesioni gravi e 5 omicidi (hanno accettato il rischio che i malati morissero) per aver operato pazienti senza alcuna «considerazione per la loro sofferenza, non solo non alleviata, ma aumentata». «Una macelleria», dice un investigatore. «In tutti i casi la sofferenza cagionata da inutili se non dannosi interventi chirurgici diventa il mezzo per procurarsi guadagni », commenta il gip Curami, a scapito di «pazienti inermi e debilitati, molto spesso anziani e grandi anziani ».
Casi inspiegabili. A una donna di 75 anni (formalmente si ipotizza un tumore) viene fatta una quadrantectomia a una mammella. Non serviva, bastava un piccolo intervento in day hospital. Una 42enne aveva un nodulo di 5 millimetri e un noduletto di grasso: sarebbe stato sufficiente un prelievo con un ago, invece le tolgono l’intera mammella con svuotamento ascellare. «Inspiegabile», commenta il perito. A una ragazza di 18 anni viene devastato il seno con un «intervento ampio, indicato nei tumori maligni», ad «impatto estetico rilevante» e che è «inspiegabile, dato che si trattava di un semplice fibroadenoma» benigno da levare in anestesia locale. Una paziente di 51 anni viene operata alla mammella sinistra che le viene demolita, senza trovare un tumore maligno che pure era in ecografia. Verrà tolto «con grave ritardo» in un secondo intervento «inadeguato e molto demolitivo».
Sotto i ferri, addio polmoni. Sono una sfilza di «Assolutamente da non operare!» o di «Incredibile! » le considerazioni degli esperti dei pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano. Come per il caso di un 38enne con polmonite ed epatite C. Da trattare con antibiotici e drenaggio, gli tolgono un pezzo di polmone. Cosa che avviene in una decina di polmoniti. Una paziente di 71 anni ha la polmonite con versamento pleurico. Poteva essere curata con un drenaggio, invece la operano. Quando testimonia dalla Gdf, cade dalle nuvole, non sapeva che le avevano tolto parte di un polmone. Una 88enne viene operata tre volte (12 mila euro a intervento). Ne bastava una. Un «caso di gravità estrema» è quello dell’85enne con difficoltà respiratorie, uno degli omicidi contestati. Ha problemi di cuore e si sospetta un tumore al polmone. Invece di fare un prelievo con un ago da biopsia, viene portato in sala chirurgica nonostante il «rischio elevato». Mentre Brega Massone, che si autodefinisce «l’Arsenio Lupin della chirurgia», e Presicci stanno operando (gli hanno aperto il torace), l’uomo muore: «Il chirurgo sostiene la tesi, assai improbabile, di una rottura spontanea del cuore. Non è stata chiesta l’autopsia. Del sospetto tumore non c’è traccia». «Caso sconcertante», scrive il perito Sartori. C’è la 65enne malata di tumore, metastasi ovunque. Niente potrebbe salvarla, ma finisce sul tavolo operatorio per «puro accanimento». Muore dopo lunghe sofferenze.
Il chiodo non sterile. Il dottor Renato Scarponi (domiciliari) è intercettato mentre parla con una certa Stefania di un chiodo che non è utilizzabile perché è stata aperta la confezione e non è più sterile. Scarponi: «Lo reimpiantiamo!». Stefania: «Battista non ve lo risterilizza, che reimpiantate?». Scarponi: «Mica lo butterà». Stefania: «Ascolti una cosa… ho detto a Filippi "state attenti quando aprite una cosa perché costa 455 euro più Iva"». Scarponi: «Senti… io se vuoi sotto mia responsabilità lo reimpianto subito in qualsiasi malato». Stefania: «Magari subito... quando capita la misura giusta». Scarponi: «Ecco, però te lo reimpianto subito alla prima frattura pertrocanterica… per il futuro...». Stefania: «Ho capito. Ma se Battista non lo sterilizza?». Scarponi: «No, per il futuro… perché si deve opporre, scusi eh. È come una pinza chirurgica. (...) Se il malato ha 90, 95 anni ha una brevissima aspettativa di vita eh».
La tbc. Uno dei medici (intercettata) spiega all’amica come funziona in clinica parlando di Brega Massone: «Ha operato un ragazzo (…) poi lo ha dimesso, questo è stato male, (…) alla Marelli gli hanno trovato la tbc, questo era già andato alla scuola e ha infestato la classe. (…) Lui non eseguiva i protocolli per la tbc, cioè uno va da lui, lui non fa un minimo di indagine, hanno scoperto che operava, cioè tutto quello che operava, lo passava per tumore da comportamento incerto, quindi uno che aveva una tubercolosi veniva pagato 20 mila euro come tumore, insomma, hanno fatto un bordello». Una ragazza straniera arriva con una febbre a 40 che resiste alle cure. Nessuno sospetta che ha la tubercolosi, anche perché non le fanno gli esami adeguati, «nonostante la febbre elevata, viene sottoposta a vats (interventomininvasivo, ndr.) e resezioni polmonari».
Affari di casa. Intercettazione che chiarisce gli obiettivi da raggiungere. Parla un medico del Santa Rita: «Pipitone prenderà i più delinquenti del mondo che gli faranno guadagnare miliardi. (...) Se prende una macchina da guerra come Scarponi… che opera anche quelli che non hanno bisogno, che si mette a contraffare le cartelle… lui ci guadagna, poi i Noc fanno le ispezioni a campione, non è detto che acchiappino Scarponi, intanto lui ha guadagnato (…) questo è l’ennesimo mezzo che danno ai proprietari di merda di speculare, perché, parliamoci chiaro, quando un intervento viene pagato 8.000 euro e noi ne prendiamo 700, gli altri 7.300 se li intasca il Pipitone. (...) Se anche li cascano la colpa è dei medici e lui viene fuori pulito. Un chirurgo pagato a prestazione, se vuole guadagnare deve fare più prestazioni ».
Ricette ai pazienti morti, indagati 32 medici. Dopo gli iperprescrittori che firmavano ricette a valanga, tanto da finire (in pochissimi) sotto la lente di ingrandimento della Corte dei Conti, dopo quelli che hanno patteggiato per aver preso le «mazzette » dai laboratori di analisi, ora spuntano i medici che davano i farmaci ai morti, e non perché erano miracolosi. Sono 32 e sono nei guai con la giustizia che, al termine di un' inchiesta della Procura, li accusa di falso in atto pubblico. Stavolta, però, si tratta davvero di pochissime ricette: in 22 dei 32 casi gli investigatori hanno trovato una sola prescrizione falsa, in quello più corposo si arriva a sei.
Il punto è che la legge, oltre ad essere inflessibile, è molto severa a riguardo degli atti pubblici: la ricetta, infatti, è un atto pubblico firmato da un pubblico ufficiale, qual è il medico. Chiudendo l'inchiesta, il pm Tiziana Siciliano ha invitato i dottori a farsi interrogare. Hanno 20 giorni per farlo e per dare, se ne hanno, le loro spiegazioni. Come ha già fatto uno di loro che si è visto archiviare. I medici dovranno chiarire perché intestavano le ricette a pazienti morti da tempo, come hanno accertato l'inchiesta degli ispettori della Asl e le indagini dei militari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza, e se si tratti solo di banali errori. Che è quello che sostengono i rappresentanti della categoria, preoccupati che questa nuova vicenda finisca per danneggiare l'immagine dei medici di famiglia.
Tangenti: condanna a tre anni per Girolamo Sirchia. L'ex ministro della Salute è stato condannato dal tribunale di Milano insieme ad altre 7 persone e una società per presunte tangenti nel mondo della sanità. Amareggiato, Sirchia giudica la "sentenza fuori dalla realtà e non condivisibile".
Una condanna a tre anni di reclusione per l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia e l’interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria. È questa la decisione dei giudici della quarta sezione penale del tribunale di Milano nell’ambito del processo su presunte tangenti nel mondo della sanità milanese. La decisione del tribunale è stata anche più severa delle richieste formulate dall’accusa: 2 anni e 9 mesi di reclusione. Cosa che per gli avvocati di Sirchia, Paolo Grasso e Giovanni Maria Dedola, significa che la testimonianze prodotte dalla difesa sono state ignorate.
Sirchia è stato condannato insieme ad altre sette persone e una società, ma per tre imputati la condanna è coperta da indulto. Anche i tre capi di imputazione per cui Sirchia è stato condannato non sono lontani dalla prescrizione. Tra i condannati Gioacchino De Chirico, responsabile di Immucor Inc., a due anni e sei mesi di reclusione, come Fabio De Rubeis, manager di Haemonetics, e Giuseppe Strazziota, rappresentante esterno di Immucor. La pena più alta, tre anni e sei mesi, è stata inflitta a Giuseppe Trudu, direttore commerciale di Haemonetics Italia. Haemonetics Italia, imputata in base alla legge 231, è stata condannata al pagamento della sanzione pecuniaria di 125 mila euro. Gli imputati sono stati accusati a vario titolo di corruzione, turbativa d'asta e appropriazione indebita.
COMMENTO. Una sentenza "fuori dalla realtà e non condivisibile". Sono le prime parole dette a caldo dell'ex ministro della Salute, subito dopo la lettura del dispositivo in aula. "C'è un integralismo del giudizio di cui prendiamo atto. Sono ovviamente dispiaciuto perché malgrado le prove e le testimonianze portate ha prevalso il teorema dell'accusa. Ovviamente mi riservo di impugnare una decisione che reputo fuori dalla realtà". Sirchia ha sempre sostenuto la sua innocenza e la sua estraneità ai fatti contestati. L'ex primario del Policlinico ha inoltre sottolineato che per lui è un dovere "rispettare quello che il Tribunale decide ma è anche un dovere - ha detto - difendere la mia onorabilità". Il professore, assistito dagli avv. Giovanni Maria Dedola e Paolo Grasso, si è detto comunque amareggiato per essere uscito da un processo con una condanna coperta da indulto e una pena accessoria legata a un preciso episodio che presto cadrà in prescrizione. "Mi dispiace che il tribunale sia andato al di là delle richieste del pm.
SERVIZIOPOLI TELEFONICA.
Intercettazioni illegali, ventuno arresti nell'indagine su security Telecom Pirelli. In carcere anche uomini di polizia, finanza e carabinieri. In manette tra gli altri Giuliano Tavaroli e Emanuele Cipriani. Sequestrati 14 milioni.
Per l'accusa l'ex responsabile della sicurezza di Telecom e di Tronchetti Provera: "Agiva fuori sistema e non riferiva costantemente a nessuno se non al presidente".
Si fanno sempre più preoccupanti i contorni dell'inchiesta milanese sull'affaire che coinvolge il settore security di Telecom, con un fiume di intercettazioni illegali.
Una vicenda dai mille risvolti: dallo spionaggio nei confronti di Alessandra Mussolini prima delle elezioni regionali del Lazio a quello collegato al rapimento di Abu Omar. Che vede nel ruolo di spiati giudici, giornalisti, politici e uomini di altri servizi. E che è stata segnata tra l'altro dal suicidio di Adamo Bove, manager Telecom con compiti di alto livello nel settore della sicurezza.
Le manette sono scattate alle prime ore del mattino nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Milano: ci sono diversi ex manager, vari pubblici ufficiali, funzionari dell'agenzia delle entrate e 11 fra agenti e militari in servizio in Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Carabinieri. Decine e decine le perquisizioni in circa venti città, da Milano a Firenze, da Bologna a Prato a Torino, Novara e Como. I pm milanesi hanno firmato ordinanze anche per associazione a delinquere, corruzione, violazione sulla privacy, falso, riciclaggio e appropriazione indebita.
Il braccio destro di Tronchetti-Provera. Secondo il gip Paola Belsito, l'accusato numero uno, Giuliano Tavaroli, ex responsabile della sicurezza di Telecom e di quella personale di Marco Tronchetti Provera, "agiva con grande frequenza mediante operazioni fuori sistema e non riferiva costantemente a nessuno se non al presidente". Le intercettazioni illegali effettuate, secondo l'accusa, grazie a uomini della Telecom, sarebbero state spesso commissionate e pagate proprio da uomini del gruppo.
E' quanto è scritto nelle ordinanza di custodia emesse oggi nell'ambito dell'inchiesta sulle intercettazioni dei Pm Nicola Piacente, Stefano Civardi e Fabio Napoleone. "L'enorme mole di informazioni e dati riservati - si legge - illegalmente ottenuti e memorizzati nell'archivio rinvenuto nella disponibilità di Cipriani è per la stragrande maggioranza commissionata da uomini del Gruppo Telecom e Pirelli e pagata con denaro proveniente da tali società".
Accuse pesanti. Per Tavaroli, finito in manette oggi insieme all'ex investigatore privato fiorentino Emanuele Cipriani, amico del cuore di Tavaroli cui Telecom ha "esternalizzato" delicatissimi incarichi di sicurezza e nel cui computer sono stati trovati centinaia di file di intercettazioni e tabulati illegali. Tavaroli e Cipriani sono molto amici di un'altra figura di spicco finita nell'inchiesta, l'ex numero due del Sismi Marco Mancini, arrestato ai primi di luglio.
In manette anche Guido Iezzi, manager della Pirelli incaricato della sicurezza all'interno dell'azienda. L'accusa è di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione di segreti di ufficio. Al commercialista di Cipriani, Marcello Gualtieri, è stato contestato il reato di riciclaggio: avrebbe provveduto a nascondere in vari paesi europei, tra cui Svizzera, Belgio, Lussemburgo e Monte Carlo circa 14 milioni di euro di provenienza illecita.
Secondo gli investigatori il commercialista avrebbe anche avuto il compito di creare società fittizie all'estero.
Sequestri. Durante un blitz disposto da Milano, 11 milioni di euro sono stati sequestrati in Lussemburgo e due in Svizzera. I soldi erano depositati in conti cifrati e sono stati sequestrati grazie a una rogatoria internazionale. Sequestrata, inoltre, anche la villa a Firenze del valore di due milioni di euro di proprietà di Cipriani. In totale a Tavaroli e Cipriani è stata contestata l'appropriazione indebita di 20,7 milioni di euro.
Società di investigazioni. Al centro della vicenda c'è una società d'investigazioni di Firenze, la Polis d'istinto, i cui investigatori privati avrebbero carpito informazioni illegali oltre a quelle lecite, e un giro di fatturazioni gonfiate e fondi esteri. Nell'ordinanza emessa dal gip di Milano, Paola Belsito, si spiega il meccanismo: gli investigatori "ricevuto l'incarico da parte dei dirigenti delle security" fornivano loro "un resoconto delle attività condotte completo di informazioni illegali". Violazione della privacy. Tra le informazioni illecite vi sarebbero precedenti penali, informazioni tributarie, fiscali, anagrafiche, accertamenti bancari, fornite da chi si trovava in posizioni tali da trattarle, cioè agenti e militari compiacenti che in questo modo rivelavano segreti d'ufficio o violavano la privacy delle persone "monitorate".
Soldi in cambio di dati sensibili. Quanto ai capi d'accusa, per gli uomini delle forze dell'ordine arrestate c'è quello di "violazione del segreto d'ufficio". Gli arrestati, rendono noto i carabinieri, "avrebbero ricevuto dei pagamenti in cambio di rivelazioni di dati sensibili". Tra i reati contestati a Tavaroli e Cipriani c'è anche quello di appropriazione indebita: l'ipotesi scaturisce dagli accertamenti su un giro di fatturazioni di società estere, indirizzate al gruppo Telecom-Pirelli, che gli inquirenti sospettano possano essere state gonfiate per rendere disponibili somme di danaro.
I nomi. Le 18 persone colpite da ordine di custodia cautelare in carcere sono: Stefano Bilancetta, Fabio Bresciani, Moreno Bolognesi, Emanuele Cipriani, Alessia Cocomello, Gregorio Dovile, Antonio Galante, Marcello Gualtieri, Pierguido Iezzi, Giorgio Serreli, Antonio Michele Spagnuolo, Giuliano Tavaroli, Paolo Tilli, Spartaco Vezzi, Francesco Marella, Andrea Gianluca Magrassi, Cristiano Martin, Santi Nicita. Arresti domiciliari per Rolando Bidini, Giovanni Nuzzi, Nicolò Maria Fabrizio Rizzo.
SICUREZZOPOLI. BANDE IN DIVISA
Il caso denunciato da “La Repubblica”. Arrestato commissario di polizia, rubava i gioielli e i pc sequestrati. I colleghi hanno trovato nella sua abitazione il materiale prelevato dagli uffici di Greco-Turro. Insieme con oggetti preziosi e computer c'erano anche macchine fotografiche e altra merce.
Aveva in casa un centinaio di oggetti di valore di dubbia provenienza, alcuni dei quali spariti dall'ufficio reperti del commissariato di Greco-Turro a Milano. Per questo il numero due del commissariato, Nunzio Musarra, 59 anni, è stato arrestato dalla polizia con l'accusa di peculato in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Enrico Manzi. Le indagini, coordinate dal pm Grazia Pradella, sono partite dal furto di un personal computer custodito all'ufficio reperti del commissariato. Nella casa dell'uomo, perquisita dai colleghi, sono stati trovati gioielli e cellulari ancora incartati, orologi di marca e altri oggetti di valore, dei quali ora si sta cercando di ricostruire la provenienza. Fra gli oggetti c'erano anche un trapano e un asciugacapelli. Musarra era già stato indagato per lo stesso reato nel 1996. Il fascicolo era stato archiviato, però, e alla vicenda non era seguito alcun provvedimento interno: è quanto riporta il gip Manzi nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere, motivata con il pericolo di reiterazione del reato. Il pericolo di reiterazione emerge anche dal fatto che dopo aver subito una prima perquisizione, è andato avanti a sottrarre materiale poi ritrovato nella sua abitazione nel corso di un secondo accertamento. A far scattare l'indagine il primo ottobre 2011, come si diceva, è stato l'ammanco di un pc che inizialmente doveva essere distrutto e di cui in seguito l'autorità giudiziaria ha disposto la sola confisca. Al momento di cambiarne la destinazione, gli agenti si sono resi conto che il reperto era sparito. Un collega ha raccontato di aver visto Musarra portare via un oggetto simile e da questo episodio sono partiti i controlli che hanno portato alle perquisizioni domiciliari. Il 20 ottobre c'è stata la prima comunicazione all'autorità giudiziaria, il 26 novembre e il 15 dicembre le perquisizioni in casa e quindi il provvedimento di custodia cautelare in carcere. Il questore di Milano, Alessandro Marangoni, ha commentato: "Queste cose non ci fanno passare un buon Natale. L'ufficio ha comunque gli anticorpi per difendersi non dalle mele marce, ma da un traditore come in questo caso: lo dico con dolore, ma con serenità". Dai riscontri è emerso che l'abitudine di Musarra di sottrarre i reperti era datata nel tempo, visto alcuni reperti risalgono addirittura alla metà degli anni Novanta.
Si è concluso in data 14 luglio 2009 con le condanne di otto poliziotti a pene fino a 8 anni e mezzo di reclusione il processo che li vedeva accusati di aver costituito un’associazione per delinquere abusando del proprio potere mentre erano in servizio alle Volanti o alle Scorte tra il 2002 e il 2005.
Le condanne sono state emesse dai giudici della decima sezione penale del tribunale di Milano, che hanno dichiarato estinto il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione del promotore dell’organizzazione e dei due ideatori ed esecutori dei reati.
I condannati sono agenti che lavoravano presso la Squadra Volanti della Questura di Milano. Secondo la ricostruzione dell’accusa, in alcune occasioni si sarebbero fatti corrompere dagli spacciatori che perseguivano. Nel capo d'imputazione si legge che sono state eseguiti "una serie indeterminata di delitti, tra i quali peculati, furti, falsi in atto pubblico e perquisizioni".
A volte accettavano promesse "di pagamento della metà del valore dello stupefacente rinvenuto", altre volte "fingevano una regolare operazione di polizia allo scopo di impossessarsi di stupefacente e del denaro di prezzo dell’acquisto".
Di stesso tenore è l’atteggiamento tenuto dal tribunale di Brescia. Nell'ottobre del 2008 la condanna a 2 poliziotti, rispettivamente a 5 anni e 4 mesi e ad un anno e sei mesi, al termine del processo con il rito abbreviato. In data 13 luglio 2009 altre tre condanne ai poliziotti accusati a vario titolo e con responsabilità diverse di rapina e estorsione. Tre anni, un anno e 11 mesi, otto mesi. Secondo l'accusa i poliziotti in forza ai tempi alla questura di Brescia avrebbero preteso droga e cellulari durante alcuni controlli nei confronti di alcuni spacciatori.
Ma quanto raccontato da "L'UNITA' con il titolo "La banda in divisa" è allucinante.
Quello che stiamo per raccontare è un «processo nascosto». Un altro processo che - come quello che si tiene a Palermo contro il generale Mario Mori e il colonnello Obinu - è totalmente uscito dalle cronache. E anche in questo processo - che si celebra davanti all’ottava corte d’assise di Milano - tra gli imputati ci sono nomi importanti delle forze dell’ordine.
Uno è, anche qua, il colonnello Obinu. Un altro nome, il più importante, è quello del generale Giampaolo Ganzer, attuale comandante del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. E, se la sua posizione non fosse stata stralciata, ci sarebbe anche un magistrato: Mario Conte. In tutto gli imputati sono ventidue, accusati di reati gravissimi: associazione delinquere armata dedita a importare e vendere enormi quantità di droga (eroina, coca e hashish) in tutta Italia.
Il primo a sentire puzza di bruciato fu un giudice Armando Spataro, allora sostituto procuratore a Milano. Nel gennaio del 1994 ricevette da Ganzer, col quale all’epoca aveva un rapporto di amicizia e stima, la richiesta di un’autorizzazione a ritardare il sequestro di una partita di droga. «Mi disse che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce».
Spataro firmò decreto di ritardato sequestro. Ma i piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu messa in atto. Fin qua niente di strano. Ma, dopo aver compiuto l’operazione, il Ros non diede più informazioni. Insospettito, Spataro si presentò negli uffici romani del Raggruppamento operativo speciale e chiese notizie attorno al sequestro dei due quintali di cocaina. Gli fu mostrata della droga conservata in un armadio. Si trattava solo di leggerezza nella gestione dei reperti? Di sciatteria? Quando, molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò l’ipotesi di vendere quella droga a uno spacciatore di Bari, Spataro decise di informare il capo della procura e alcuni suoi colleghi. E ordinò la distruzione della droga.
Il processo ruota attorno a questi comportamenti. Il Ros li presentava come tecniche investigative e, in effetti, di tanto in tanto effettuava operazioni antidroga. Secondo i giudici, invece, gli stessi carabinieri erano diventati protagonisti del traffico e le «brillanti operazioni» non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica. Un elemento fondamentale per l’inchiesta che ha portato al processo fu acquisito nel 1997 a Brescia dal giudice Fabio Salamone.
Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto «Il Rosso» gli raccontò che nel 1991 due carabinieri del Ros lo avvicinare in carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo della droga. In realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il 1997 ne furono reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti provocatori, come spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei trafficanti.
«Il Ros - scrivono i giudici nel rinvio a giudizio - instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione né alla loro denuncia... ordina quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». «Si tratta - annota la Procura di Milano - di istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti». Al giudice Salamone questo quadro è stato confermato, in alcuni importanti aspetti, da due sottufficiali dei carabinieri che figurano tra gli imputati.
Sempre secondo l’accusa, i comportamenti illeciti furono coperti e agevolati dal magistrato Mario Conte, che allora lavorava a Bergamo: il suo ruolo nelle «operazioni antidroga» era fondamentale perché, con la sua firma, forniva ai Ros la copertura legale. «Con Obinu e Ganzer - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio - il sostituto procuratore Conte promuove, costituisce, dirige, organizza l’associazione a delinquere. Ne delinea il modus operandi. Gestisce la collaborazione dei trafficanti Enrique Luis Tobon Otoya (colombiano ndr.), Ajaj Jean Chaaya Bou (libanese ndr.) e Biagio Rotondo, agevolandone l’attività anche durante i periodi di detenzione. Fornisce un contributo rilevante con direttive e provvedimenti, emessi anche al di fuori della competenza territoriale. Partecipando personalmente, in più occasioni, ad interventi operativi».
E c’è di più perché quando l’inchiesta di Salomone decolla, Conte viene trasferito proprio a Brescia, nell’ufficio accanto a quello del collega che lo sta indagando. Oggi Conte, rinviato a giudizio nel 2005 con gli uomini del ROS, per motivi di salute non figura tra gli imputati e sarà processato a parte.
Non è solo una storia di droga Secondo l’accusa tra le mani degli ufficiali sono anche passate molte armi. Come il carico della nave «Bisanzio», giunta Ravenna da Beirut nel dicembre 1993 che, oltre a migliaia di chili di stupefacente trasportava 119 kalashnikov, due lanciamissili, quattro missili e numerose munizioni, venduti in cambio di una somma di denaro di cui si è persa ogni traccia. Due erano gli acquirenti, la cui posizione è stata archiviata, entrambi legati alla famiglia mafiosa calabrese dei Macrì-Colautti. Perché è stato fatto tutto questo?
La procura di Milano lo spiega con poche inequivocabili parole: «Per pervenire a brillanti operazioni di polizia in attuazione di un metodo sistematico che consentiva di conseguire visibilità e successo». Carriera e visibilità. Ma anche soldi. Quasi tre miliardi di lire provenienti dalla vendita della droga, di cui il PM Conte e gli ufficiali del ROS, tra i quali Ganzer e Obinu, avrebbero «omesso il sequestro e la documentazione sulla successiva destinazione, appropriandosene». Simile sorte sarebbe toccata a svariati chili di stupefacenti che, importati in Italia dagli uomini in divisa, sarebbero finiti sul mercato.
Il «processo nascosto» era iniziato da quasi due anni quando, il 29 agosto 2007, il principale teste d’accusa si suicidò nel carcere di Lucca. Biagio Rotondo, «Il Rosso», era stato arrestato cinque giorni prima con l’accusa di detenzione abusiva di arma e ricettazione perché, durante un controllo dei carabinieri, all’esterno del ristorante dove lavorava era stata trovata una vecchia pistola nascosta in un tovagliolo.
Prima di togliersi la vita, Rotondo scrisse una lettera indirizzata ai magistrati. Il pubblico ministero Luisa Zanetti l’ha letta il 20 settembre 2007, nell’aula dove si celebra il processo: «Confermo che tutto quello che ho detto corrisponde a verità. È un momento tragico per la mia vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è per me insopportabile. Vi scrivo per farvi che non vi ho mai tradito e che la fiducia in me è stata ben riposta. Vi chiedo scusa per questo insano gesto...Spero che mi ricorderete con simpatia».
Dopo questo non si deve dimenticare che è stato condannato a 12 anni, dal Tribunale di Milano, l'ex generale della Finanza Giuseppe Cerciello, accusato di corruzione.
O si è in attesa degli sviluppi dello scandalo dei falsi pass, denunciati 16 vigili.
I permessi di parcheggio sequestrati sono quelli normalmente concessi a infermieri, assistenti domiciliari e forze dell'ordine: l'indagine è partita dal ritrovamento di uno su un veicolo commerciale. In casa di un agente della polizia locale 98 pass in bianco, il kit e una macchina per la falsificazione.
Vigili urbani di Milano in piena bufera. In data 23 luglio2009, dopo l'iscrizione nel registro degli indagati del comandate Emiliano Bezzon, per un presunto giro di mazzette legato alle autorizzazioni di alcuni locali notturni, ora è scoppiato lo scandalo dei falsi permessi per la sosta, taroccati e venduti a peso d'oro da alcuni ghisa. L'indagine, che ha portato alla denuncia di quattro ufficiali, 12 agenti e 20 commercianti, è nata all'interno dello stesso corpo della polizia municipale. Il comandante della Zona 2, Paolo Pizzero, e la sua collaboratrice Marina Melandri nei giorni scorsi hanno notato le auto di alcuni negozianti parcheggiate nelle strisce gialle riservate ai residenti, che esponevano sul cruscotto i permessi normalmente rilasciati agli infermieri e agli assistenti sociali.
Fatti i dovuti accertamenti i due ufficiali non hanno esitato a segnalare l'illecito ai superiori: è scattata così 'indagine interna. Dopo una notte di interrogatori e verifiche, il nucleo radiomobile della polizia municipale è riuscito a smascherare 16 colleghi che falsificavano i pass e ha individuato 20 persone, in gran parte negozianti, che hanno ammesso di aver pagato dagli 80 ai 150 euro per comprarsi la comodità di parcheggiare davanti al proprio esercizio. Nel corso delle perquisizioni domiciliari i vigili hanno sequestrato 30 pass già compilati e venduti e hanno anche trovato, nell'abitazione di un loro collega, 98 tagliandi in bianco e l'attrezzatura per stampigliare l'ologramma e plasticare i cartoncini.
Il vicesindaco Riccardo De Corato: "Probabilmente andava avanti da anni".
SPRECOPOLI
ECCO QUANTO GUADAGNA UN POLITICO
Tra chi è al vertice, Formigoni guida la classifica con 12.217 euro al mese, poi Penati con 9.306 e Moratti (9.124). È polemica dopo l´annuncio della Moratti, bocciato dai partiti della Cdl, che voleva tagliare i compensi Super rimborsi spese per chi arriva da fuori Milano, i comunali hanno sconto Atm e i biglietti gratis per San Siro, tutti gli assessori hanno l´auto blu con autista. Chi sta al Pirellone è sicuramente il più invidiato, un semplice consigliere può arrivare anche a 9.400 euro netti ogni mese. Meglio a chi sta a Palazzo Isimbardi, dove c´è un´indennità fissa di 2.300 euro lordi. In dotazione telefonino e computer. A Palazzo Marino c´è una netta sproporzione tra i politici e i dirigenti. E chi non ha un assessorato prende un gettone di 120 euro lordi a presenza.
MORATTI E LE ASSUNZIONI D'ORO.
Letizia Moratti concede solo questo telegramma: «Abbiamo il massimo rispetto per l´azione della Guardia di finanza. Attendiamo l´esito delle indagini». Nel merito, assunzioni d´oro, il sindaco non commenta l´infornata di dirigenti comunali finita, a seguito di un esposto dell´opposizione, sotto la lente di controllo delle Fiamme gialle. Massima serenità di fronte all´inchiesta, dunque, la linea. Ma nel frattempo quel fascicolo riapre polemiche forti sul tema sensibile dei costi della politica. Tra l´Unione che accusa la giunta di «sprechi» e il sindaco di «incoerenza». Ma, soprattutto, con il fuoco amico della Cdl. Che blocca la riduzione delle indennità dei politici che vorrebbe fare Letizia Moratti, a partire dalla sua: «Lo stipendio di assessori e consiglieri non si tocca. Se vuole, il sindaco può solo dare in beneficenza una parte del suo».
COSTI DELLA POLITICA: I CONTRATTI D'ORO.
In Comuni e province della Lombardia dilagano le consulenze e gli sprechi: Si va dalle teche per conservare gli orologi a hovercraft mai usati ai superstipendi "a incentivo demografico". L'oscar del privilegio agli 80 consiglieri del Pirellone.
CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI
CONCORSI TRUCCATI?
Quando si partecipa ad un concorso con gravi oneri di trasferta e partecipazione e scatta nei partecipanti il dubbio che esso sia un concorso truccato, non fa niente se lo sia davvero (e il 99% delle volte lo è), quello che conta è la mancanza di fiducia nelle procedure concorsuali che ne minano dalle fondamenta la credibilità dei risultati. Ma tanto nessuno se ne fotte se qualcuno dubita dei risultati concorsuali e pensa che a vincere siano gli incapaci raccomandati: i vincitori (a torto o a ragione) rimarranno tali, alla faccia degli altri concorrenti esclusi. Così si esprime il dr Antonio Giangrande, sociologo storico, che su tema ha scritto il saggio pubblicato su Amazon: “Concorsopoli ed Esamopoli”. Tutto a dispetto dei miscredenti, che negano l’evidenza.
Monza. 10.04.2014 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la formulazione di una graduatoria per la copertura a tempo indeterminato di n. 2 posti di Collaboratore Professionale Sanitario – Ostetrica. Dei 1.077 ammessi al concorso, si presentano 484 candidati, e solo 7 vengono ammessi alla prova pratica, 5 dei quali con votazione 30/30. Il racconto di un candidato: la prova programmata per le 8.30 ha inizio solo alle 12.25, mi siedo al posto indicato e attendo che mi venga consegnata una busta per garantire l’anonimato, in realtà all’ingresso mi consegnano una cartellina aperta con all’interno la scheda candidato, il foglio istruzioni, la scheda risposte e una busta da lettere con i codici identificativi. Dopo aver inserito i dati anagrafici sulla scheda candidato ho attaccato il codice sulla scheda stessa e sulla scheda risposte, prima dell’inizio della prova sono stare raccolte non in un busta chiusa, a mano dal personale addetto tutte le schede. In seguito tra tre prove chiuse in singole buste, un candidato ne ha scelta una, le altre due non sono state nemmeno lette. Abbiamo quindi svolto la prova e alla fine è stata raccolta dal personale addetto la scheda risposte nuovamente a mano senza alcuna busta chiusa. Poi disarmati andiamo a casa. Dopo solo 4 ore la graduatoria è pronta: solo 7 ammessi alla prova pratica, ai non ammessi non è stata data comunicazione del punteggio conseguito.
Monza, bufera sul concorso dell’Asl. Esposto delle ostetriche escluse, scrive Rosella Redaelli su “Il CittadinoMB”. Per due posti di ostetrica a tempo indeterminato nei consultori della Asl si sono iscritte in 1070. In 480 si sono presentate, da tutta Italia, giovedì mattina, al Pala Desio per sostenere la prima prova scritta. Trenta domande, un’ora di tempo e un punteggio minimo per passare di 21. In serata, dopo la pubblicazione dei risultati, si è scatenato il putiferio via web. Solo in sette hanno superato la prova, in cinque addirittura con il massimo del punteggio, gli altri due con 21,5 e 22,5. Un risultato che ha scatenato più di un dubbio tra le partecipanti che venerdì mattina, 11 aprile, si sono date appuntamento davanti alla sede della Asl di viale Elvezia con tanto di striscione : “No ostetriche, no parti” e nel pomeriggio hanno presentato un esposto alle forze dell’ordine. «Ci sentiamo prese in giro - dicono Marina, Jessica, Maria e Chiara, partite da Pisa - non mettiamo in dubbio la preparazione delle colleghe, ma risulta quantomeno strano che tra di loro ci sia chi ha già lavorato in Asl. Allora perché fare un concorso nazionale, tra l’altro nella settimana della Fiera più importante di Milano, quando i costi degli alberghi sono triplicati?Non potevano ricorrere ad una graduatoria interna?». Le veterane dei concorsi dicono che la storia si ripete sempre uguale: «A Melegnano eravamo in 780 per due posti e le prime cinque già lavoravano nell’ospedale di Melegnano - racconta Chiara, laureata nel 2009 e ancora in attesa di un posto - ma non ho mai assistito a quello che è successo a Monza». Troppe le anomalie rilevate durante il concorso per tornarsene a casa e farsene una ragione. «Siamo state convocate alle 8,30 e abbiamo atteso quattro ore l’inizio della prova, c’è stata l’estrazione della busta numero due ,ma le altre due buste sono state aperte, senza essere firmate dalle testimoni e non sono state lette le domande. Il sospetto è che ci fossero già pronte solo le fotocopie della busta numero due». Altra stranezza: i dati anagrafici consegnati non in busta chiusa e con codici a barre numerati e quindi facilmente accoppiabili con la prova. E poi il risultato ottenuto da cinque candidate: un punto per ogni domanda esatta, mezzo punto in meno per ogni errore e 0,15 in meno per ogni risposta lasciata in bianco. «Non erano domande semplici- commentano le candidate- chi ha preso trenta ha consegnato una prova perfetta anche su materie non strettamente attinenti la professione». Nessuna irregolarità per il commissario generale della Asl Matteo Stocco: «È vero che tra le promosse c’è un’ostetrica che ha già lavorato in Asl, ma con un contratto concluso. Francamente non ci aspettavamo questi numeri per due posti di ostetrica all’interno dei consultori. Ho ricevuto le candidate escluse che hanno fatto accesso agli atti e potranno visionare le loro prove». Il concorso non è chiuso: dopo la prova pratica, martedì l’orale. In due avranno un posto a tempo indeterminato. Per le altre ci saranno altri concorsi, ma anche un futuro lavorativo diverso: «Dopo una selezione per accedere all’università e tre anni di studio impegnativo- commenta Simona, 23 anni-se va bene da lunedì farò la commessa part-time».
Ad un concorso per ostetriche a Monza indetto dall'Asl solamente 7 candidati su 484 avrebbero raggiunto un punteggio sufficiente. Ma un gruppo di bergamasche denuncia: “Tra le ammesse, come ci aspettavamo, nomi noti. Perché, ancora oggi, alcune procedure concorsuali non vengono espletate garantendo il corretto anonimato?”. Concorso per ostetriche:“Ammessi i soliti noti. Andremo per vie legali”, scrivono un gruppo di ostetriche bergamasche su “Bergamo News” e “su “L’Eco di Bergamo”. Ad un concorso per ostetriche a Monza indetto dall'Asl solamente 7 candidati su 484 avrebbero raggiunto un punteggio sufficiente. Ma un gruppo di bergamasche denuncia presunti favoreggiamenti e poca trasparenza nella procedura concorsuale: “Siamo un gruppo di ostetriche di Bergamo, e scriviamo al vostro giornale nella speranza che la situazione della nostra categoria possa essere conosciuta da quante più persone possibile. In Italia possiamo trovare migliaia di ostetriche che dopo tre anni di fatica tra lezioni e tirocinio si ritrovano solo con la propria passione in mano e nessuna possibilità lavorativa: una media di un migliaio di queste si presenta ad ogni concorso per ostetrica presente in tutta Italia, magari dopo aver percorso ore in macchina, con una spesa notevole, e sapendo di presentarsi insieme a un altro migliaio di colleghe per un solo posto di lavoro. Oggi (11 aprile 2014), a Monza, si è svolta la prima prova di uno di questi concorsi, indetto dall'ASL Monza-Brianza...e qui arriviamo al motivo della nostra segnalazione e della rivolta di tante altre colleghe che stanno comunicando quanto avvenuto a diversi giornali di tutta la regione e si stanno organizzando per procedere, in gruppo, per vie legali. Le domande giunte per il concorso di oggi erano ben 1.077: le prime due prove sono quindi state organizzate all'interno del Palazzetto dello Sport di Desio, proprio in questa settimana, in cui si svolge un importante evento di design a Milano che ha fatto salire alle stelle i prezzi di treni e hotel. Probabilmente è proprio per questo motivo che oggi, al PalaDesio, eravamo presenti “solo” in 484. L'orario di inizio era stabilito per le 8.30: tempo di entrare tutte nel palazzetto, eseguire le procedure di riconoscimento, e intorno alle 10, sembrava tutto pronto per iniziare. Si è invece proceduto con un secondo appello di tutte le 1.077 ostetriche inizialmente iscritte al concorso, tra l'altro con chiare difficoltà di comunicazione all'interno della struttura, durato fino alle 12 circa. Ed ecco che arriviamo finalmente al momento dell'estrazione della prova e della spiegazione della modalità di prova, che prevedeva la sottrazione di punti nel caso in cui venisse data una risposta sbagliata e anche nel caso in cui non si rispondesse a una domanda. Alle 12.25, dopo il ritiro delle schede anagrafiche (eseguito in modo non propriamente trasparente) iniziamo finalmente il quiz, composto da 30 domande di grado medio-difficile. In molte usciamo dubbiose, 50 minuti dopo, sull'esito della prova, ma con la consapevolezza che passare tale prova non fosse poi così impossibile. Dopo un pomeriggio di attesa, ecco i risultati pubblicati in internet: 7 ammesse alla prova pratica, 477 escluse. Tra le ammesse, come ci aspettavamo, nomi noti, a partire dalla ragazza che da quando è stato pubblicato il bando ha iniziato a dire a chiunque che “quel bando era stato fatto per assumere lei” dopo anni di lavoro in quella stessa struttura, fino a una neolaureata la cui relatrice della tesi di laurea è nella commissione del presente concorso. Cinque di queste sette persone hanno raggiunto il massimo punteggio (30/30) due di loro hanno invece raggiunto punteggi al limite della sufficienza. Ma ben 477 ostetriche, laureate, che studiano per ogni concorso che fanno, spesso con ottimi risultati universitari e con buoni risultati in altri concorsi eseguiti, non riescono nemmeno a passare la prova scritta. Dopo aver visto tante, troppe volte altre figure invadere i nostri ambiti di competenza, e dopo questa esperienza, siamo quindi qui, con l'amaro in bocca e solo la passione per la nostra professione a darci la forza per continuare, a chiederci: perché? Come è possibile che su 484 candidati solo 7 raggiungano la sufficienza? Perché, ancora oggi, alcune procedure concorsuali non vengono espletate garantendo il corretto anonimato? Perché tra le sette ammesse una ha lavorato in quella stessa struttura per anni e diceva pubblicamente, da mesi, che quel posto era destinato a lei? Perché un'altra delle ammesse ha avuto come relatrice della tesi di laurea un'ostetrica nella commissione di questo concorso? Nella speranza che questa lettera serva a stimolare l'intervento di chi di competenza e a portare a una maggiore comprensione della situazione della nostra figura professionale, vi ringraziamo per l'attenzione e la disponibilità”.
«Siete tutti dei buffoni, l'esame è da annullare». Un giovane aspirante avvocato si alza dalla sua sedia e corre verso il presidente della commissione, l'avvocato Marisa Meroni, che sta leggendo le tracce dell'esame davanti ai circa 4mila esaminandi. Prende in mano il microfono, interrompendo la lettura e grida: «Questo esame è una farsa, c'è già chi conosce le tracce».
DENUNCIA - È successo giovedì mattina 13 dicembre 2007 a Milano, durante l'esame di avvocatura che si teneva alla Fiera di Rho Pero. Con questa azione il praticante ha destato l'attenzione non solo dei suoi colleghi e dei commissari, ma anche quella dei carabinieri che a quel punto hanno verbalizzato la sua denuncia. Secondo alcuni testimoni, il giovane sarebbe stato denunciato per interruzione di servizio. Ad ogni modo l'esame è andato avanti: «Adesso ditemi se volete andare avanti. Se rimanete tutti al vostro posto, proseguo la lettura delle tracce» avrebbe detto a quel punto la presidente di commissione. Poi, tutto è filato liscio. Salvo la difficoltà dell'esame stesso: un ricorso per Cassazione che ha lasciato molti di stucco.
SU INTERNET - Diversi praticanti avvocato hanno invece denunciato irregolarità su internet. Su un blog, un anonimo ha scritto: «Alle 9,30 di oggi i candidati in coda all'ingresso del padiglione Fiera-Rho, pronti per sostenere la terza e ultima prova scritta, conoscevano già le tracce che di lì a poco sarebbero state dettate. Sapevano anche con esattezza su quale sentenza della Suprema Corte si sarebbe dovuta articolare la soluzione della questione giuridica sottesa all'atto giudiziario. Come è stato possibile? Semplice: in qualche commissione del sud, le buste sigillate erano state aperte tempo prima dell'esame, e il contenuto di tutte le tracce era stato divulgato. A Milano si è saputo solo al terzo giorno».
INGIUSTIZIA
I BAMBINI DI BASIGLIO
Se questa è giustizia!!! I Bambini di Basiglio. Da un resoconto testuale e video de “Il Corriere della Sera” I giudici della quinta sezione penale del tribunale di Milano hanno assolto «perché il fatto non sussiste» tutti gli imputati nell'ambito del processo avviato sui fratellini di Basiglio, tolti alla famiglia per un disegno osè. L'assoluzione era prevedibile dopo che lo stesso procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno l'aveva chiesta per i cinque imputati: una preside, due maestre, uno psicologo e un'assistente sociale. Erano accusati, a vario titolo, di falsa testimonianza, falso ideologico e lesioni colpose per i traumi che avrebbero provocato, in particolare al ragazzino di 13 anni. Il pm aveva chiesto l'assoluzione spiegando, nella requisitoria del processo a porte chiuse, che l'allontanamento dei due bambini dai loro genitori è stato profondamente sbagliato e che sono stati commessi tutti gli errori possibili in questa vicenda. Però, aveva sottolineato il magistrato, questi errori non hanno un rilievo penale. Alla lettura della sentenza erano presenti quattro degli imputati, alcuni dei quali sono anche scoppiati a piangere per la gioia e si sono abbracciati.
LA RABBIA DELLA MAMMA - «Non esiste, che schifo, che schifo la legge italiana. Scusatemi eh?!». Così, subito dopo la lettura del dispositivo, la mamma dei due bambini ha commentato la sentenza di assoluzione. «Ma come si permettono? - si è sfogata la mamma -. Hanno rovinato due bambini questi signori qua. I ragazzini soffrono ancora, soprattutto il più grande». Il figlio maggiore, portato via da casa proprio il giorno del suo compleanno, era rimasto traumatizzato. «Il bambino non ha dimenticato il volto di chi l'ha sbattuto in auto, strappato all'abbraccio della madre, minacciato, obbligato — senza riuscirci — a confessare pensieri e azioni mai fatti», aveva raccontato il padre. Più pacato, ma dello stesso tenore, il commento del legale della famiglia, Stefano Toniolo: «Siamo amareggiati, anche se temevamo questo verdetto, fatichiamo a capacitarcene. Leggeremo le motivazioni della sentenza».
HANNO LASCIATO IL PAESE - Oggi la famiglia non vive più a Basiglio, dove aveva vissuto per 10 anni. «La vita là era probabilmente difficile per loro - ha risposto l’avvocato Antonello Martinez a chi gli ha chiesto se si siano trasferiti a causa dell’accaduto -, qualche motivo ci sarà, se questi fatti sono successi». Durissimo il commento dell'avvocato: «Raramente ho poche parole come oggi. Non condivido la sentenza. Il processo, che si è svolto a porte chiuse, è stato durissimo: sembrava che la famiglia e i bimbi fossero gli imputati e noi sembravamo gli orchi cattivi». Il legale ha parlato di «una tappa molto triste del diritto italiano», e ha commentato: «Insomma, abbiamo scherzato, in un modo talmente tragico che il disegno, ritenuto necessario e sufficiente per portar via i bambini senza neanche convocare prima i genitori, nel processo è diventato una cosa assolutamente secondaria». Il legale ha spiegato che la sentenza non è impugnabile in sede penale, se non ai fini civilistici. «Non credo che lo faremo - ha detto -. Per la famiglia già la sentenza di oggi è stata una nuova traumatizzazione, per cui pensiamo di no». Quindi ha concluso, sottolineando: «Il tribunale dei minori ha ritenuto comunque che i bimbi non si dovessero prendere. Su questo non ci sono discussioni. L’assoluzione non significa che è stato fatto tutto bene».
LA VICENDA - Il 14 marzo del 2008 la bambina, di 9 anni, e il fratello di 13 anni erano stati tolti ai loro genitori per 69 giorni ed erano strati costretti a vivere in due diverse case d'accoglienza. Gli insegnanti della scuola frequentata dalla piccola, infatti, avevano segnalato ai servizi sociali di aver trovato un mese prima un disegno con allusioni erotiche sotto il banco della bambina. Tra gli operatori scolastici era nato il sospetto di relazioni malsane tra lei e il fratello, ed era partita una segnalazione alle autorità. Poi però, dopo che i bambini erano stati allontanati dalla famiglia, su disposizione del Tribunale per i minorenni, era emerso che a realizzare quel disegno era stata un'altra alunna e attorno al caso dei bimbi di Basiglio si erano mobilitate associazioni e politici, con fiaccolate ed altri eventi. Stando alle indagini coordinate dal pm Marco Ghezzi (poi andato in pensione), la preside e le due maestre avrebbero testimoniato il falso davanti ai magistrati, non raccontando che il disegno era stato fatto da un'altra alunna, pur sapendolo. Secondo il procuratore Forno, invece, gli inquirenti in realtà non glielo avevano mai domandato. Lo psicologo e l'assistente sociale, sempre secondo l'accusa, avrebbero costretto il fratello a confermare i sospetti sul disegno. Da qui l'accusa di lesioni colpose. Per il procuratore Forno però non è stato dimostrato il nesso causale tra le frasi dette dai due imputati al ragazzino e un eventuale trauma psicologico subito.
«NON SOLO PER IL DISEGNO» - «Capisco che è triste, però bisogna uscire dalla banalità con cui è stato trattato questo caso, perché si è parlato di questa vicenda come se l’allontanamento fosse stato disposto sulla base di un disegno e non è così», ha dichiarato l’avvocato Vinicio Nardo, difensore della preside. «La preside viene accusata di non aver parlato del disegno nella relazione ai servizi sociali e nella testimonianza, ma la vicenda è più complicata perché il disegno era solo il corollario necessario all’allontanamento - ha proseguito il legale -. Il comportamento della preside è stato legittimo. Se altri hanno sbagliato... lei non ha sbagliato nel fare quella relazione». Per Nardo, in ogni caso, «la vicenda è triste», ma va considerato che «c’è anche chi ha subito anni di processi».
FALSITA' SULLA FAMIGLIA - Il legale della famiglia, Stefano Toniolo, ha citato invece le «informazioni inesatte date ai servizi sociali nella segnalazione: per esempio si dava atto che la famiglia stava partendo per Palermo e non era vero, che la bambina in classe chiedeva insistentemente di giocare al dottore e non era vero, che avesse accumulato un tesoretto di 100 euro per dei presunti giochini, che saputo del disegno la mamma l’avesse messa in castigo, quando sapeva benissimo che era l’ennesimo scherzo fatto dalle compagne la emarginavano». Tutti i procedimenti aperti a carico della famiglia davanti ai giudici minorili sulla vicenda sono stati archiviati.
IL CASO BARILLA’
“Ho fiducia nella giustizia”, dice il protagonista del clamoroso errore cui la fiction s’ispira.
Daniele Barillà è un uomo mite, lo sguardo sereno, il sorriso aperto quasi fanciullesco, disarmante.
“Ho fiducia nella giustizia” dice, e la cosa sorprendente è che si è costretti a credergli.
Nonostante tutto, nonostante quest’uomo oggi quarantaduenne sia stato il protagonista di un clamoroso caso di errore giudiziario per il quale ha scontato sette anni di carcere e affrontato tre gradi di giudizio prima che venisse riconosciuta la sua innocenza.
Nel 1993 una Fiat Tipo color amaranto viaggia per le strade del milanese, alla guida il giovane imprenditore Daniele Barillà. D’improvviso l’auto è circondata dai carabinieri del Ros: Barillà è trascinato fuori dalla sua macchina e arrestato con l’accusa di traffico di droga.
Comincia così l’odissea giudiziaria che il regista Stefano Reali ha raccontato in L’Uomo Sbagliato, fiction di Raiuno.
Nei panni dell’imprenditore è Beppe Fiorello nuovamente alle prese con un personaggio scomodo, al centro di una vicenda che suscita rabbia e indignazione.
Tanto più visto che in questo caso i ‘cattivi’ sono proprio quelle forze dell’ordine e quella giustizia che per sua stessa definizione dovrebbe difendere gli innocenti e punire i colpevoli.
In realtà ad interessarsi del caso dell’imprenditore milanese fu un giornalista, Stefano Zullo che nel 1995 rilesse il caso Barillà, “ne parlai con il procuratore Borrelli – dice – e anche lui si disse convinto dell’innocenza di quest’uomo. Con una lettera alla procura di Livorno manifestò i suoi dubbi ma non venne ascoltato”.
La situazione si sblocca nel ’97 quando il capo dell’operazione che aveva portato all’arresto di Barillà, il colonnello Michele Riccio, venne arrestato per gravi irregolarità commesse durante varie indagini.
Furono così riaperti molti casi e anche quello di Barillà venne revisionato da Francesca Nanni una giovane PM della Procura di Genova.
“Posso dire che molti di quella ‘mitica squadra’ (di cui faceva parte anche il capitano Ultimo n.d.r.) che mi accusarono ingiustamente oggi sono in prigione – dice Barillà – mentre io sono qui, libero finalmente. Per questo credo ancora nella giustizia e nella sua capacità di correggere anche i propri errori”.
Ma non è tutta rose e fiori la vita di Barillà: “Anche oggi ogni volta che una pattuglia mi ferma vengo perquisito e mi smontano la macchina, per loro sono ancora qualcuno che è stato dentro per droga”.
Per non parlare degli enormi problemi economici che anni di carcere e il lunghissimo iter giudiziario hanno causato.
La Corte d’Appello di Genova ha infatti condannato lo Stato ad un mega risarcimento (4 milioni di euro) per gli anni che Barillà ha ingiustamente passato in prigione, ma i soldi tardano ad arrivare.
Barillà, nei lunghi anni passati in prigione è venuto a conoscenza di altri casi simili al suo?
“Tanti, e potrei fare anche i nomi ma sarebbe una mancanza di rispetto. Il vero male è questo maledetto patteggiamento. Molti, anche se innocenti, accettano pur di tornare alle loro case e poter riabbracciare i propri cari. Io potevo uscire dopo 6 mesi ma non ho patteggiato perché ero sicuro di poter dimostrare la mia innocenza. Spero con questo film di poter aiutare quelli che hanno subito la mia stessa ingiustizia”.
La ‘mitica squadra’…..
"Già! Di loro faceva parte anche il capitano Ultimo. Seguì la macchina sbagliata, al processo fu uno dei miei accusatori e la sua testimonianza risultò determinante. Quando ho incontrato Stefano Reali gli ho detto che il suo film su Ultimo ha probabilmente allungato la mia detenzione: chi poteva credere che un tale eroe avesse commesso un così grave errore?”
Sette anni di carcere, 24 prigioni diverse. Come si può sopravvivere a tanto sapendosi innocente?
“Fiducia nella giustizia e nella forza della verità. Come ha detto Zullo, l’innocenza lascia tracce proprio come la colpevolezza! Ma è stata una prova dura, un carcere ha le sue regole che bisogna imparare. Gli stupratori e chi violenta o uccide i bambini, beh quelli non hanno vita facile. Io ho trovato solidarietà e sostegno morale anche se ero un rompiscatole”.
Cioè?
“Giravo con in mano i verbali dei miei processi e dicevo a tutti che ero innocente. Qui siamo tutti innocenti – mi rispondevano – mica solo tu. Ho capito che ognuno ha i suoi guai. Lì dentro non contano le istituzioni ma l’umanità, e i detenuti sono uomini. Quando mi hanno scarcerato, dopo venti giorni avrei voluto tornare dentro, ormai era quella la mia casa”.
Si sa di tante violenze all’interno dei carceri...
“Ho visto dei pestaggi, quanto all’omosessualità non posso dire di essermene accorto. Fortunatamente io non ho subito queste violenze”.
IL CASO PALAU GIOVANNETTI
Pietro Palau Giovannetti, oltre ad essere il coraggioso Direttore Responsabile del giornale on line “La voce di Robin hood”, è tra i padri fondatori del "Movimento per la Giustizia Robin Hood" e della rete di "Avvocati senza Frontiere", organizzazioni no profit che, da oltre 20 anni, si battono per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera dagli interessi delle mafie e delle corporazioni, sostenendo quella parte sana e assolutamente minoritaria della magistratura, che non si presta a legittimare gli abusi che quotidianamente vengono perpetrati nelle aule di giustizia, dai poteri dominanti nei confronti dei cittadini più deboli e indifesi.
A fronte del suo impegno civile e delle sue coraggiose denunce nei confronti dei cd. "poteri forti" Pietro Palau Giovannetti ha subito oltre 750 procedimenti penali con le accuse più disparate e capziose per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle sue stesse denunce, mai esaminate, o dai suoi taglienti articoli giornalistici, i cui procedimenti nella stragrande maggioranza dei casi si sono conclusi con assoluzioni con formula piena o, con archiviazioni de plano per manifesta infondatezza delle notizie di reato.
Tra i tanti "procedimenti-farsa" sollecitamente istruiti a suo carico a tempi di giustizia scandinava dalle Procure e Corti di Appello di mezza Italia (da Torino, Treviso, Milano, Brescia, Trento, Trieste, Venezia, Alessandria, Bologna, Firenze, Roma, Palmi, Reggio Calabria), si registrano anche due singolari richieste di "perizie psichiatriche", da parte delle Procure di Milano e di Torino, nonché dalla Procura Generale di Milano, proprio come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est.
Per la mole di attività persecutorie a cui è stato sottoposto la sua figura è stata paragonata a quella di Danilo Dolci (pacifista nonviolento) che, come lui, dal 1952, dedicò la sua vita alla causa delle persone più deboli, in Sicilia, venendo ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca tutt'oggi asservita agli interessi della politica e della mafia siciliana.
La condanna venne infatti laconicamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato i maggiori intellettuali e Premi Nobel dell'epoca e l'arringa fosse stata pronunciata dal grande giurista Piero Calamandrei, tra i padri della Costituzione.
I CASI MARIANI E CROSIGNANI
Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze?
A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare.
Secondo il codice civile si può richiedere l'interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici.
Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti.
L'incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l'interdizione della Crosignani su richiesta dell'ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca.
La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono.
La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all'Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano.
E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all'Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre).
Delle due l'una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina.
Ancora sette anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi».
A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro.
Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte, divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione.
Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari.
Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l'inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d'interrogatorio nell'inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini».
Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia».
Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente».
Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l'allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno.
Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio e al Tribunale di Milano l'interdizione della madre.
E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell'incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani).
Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c'è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall'avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli.
Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte.
Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d'Appello di Milano.
Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti.
Mentre quella Claudia Mariani che chiede l'interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d'Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d'ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l'interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania».
Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all'udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d'ufficio dottor Vittorio Boni.
Claudia Mariani è ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani.
Questa inchiesta è stata pubblicata sul mensile Casablanca, che rischia di chiudere per "dimenticanze" dello Stato, e perchè forse l'antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.
Questo per quanto riguarda gli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
Un allarma in questo senso viene dalla Lombardia, dal Comune di Milano che ha lanciato una campagna di sensibilizzazione dei genitori sul problema della microprostituzione e della crescente diffusione della pornografia informatica fra i ragazzi.
“I dati sull’aumento della microprostituzione e delle frequentazioni abituali di sito pornografici da parte degli adolescenti sono preoccupanti – ha confermato l’assessore alla salute del Comune milanese, G.Paolo Landi di Chiavenna – Per questo abbiamo deciso di intervenire con iniziative di informazione e sensibilizzazione delle famiglie”. “E’ ancor più preoccupante – continua l’assessore – apprendere non solo che nei bagni delle scuole i ragazzi fanno sesso, ma soprattutto che in queste prestazioni sessuali, anche di tipo orale, non si ricerca solo il piacere, ma vengono accordate dalla ragazzine per arrotondare la paghetta, un fenomeno diffuso anche in rete con numerose ragazze che si spogliano on line con la webcam su chat erotiche”.
Sul Corriere della Sera intanto emergono storie sintomatiche come quella di Giorgia di prima media. Ha pubblicato la sua foto seminuda su Messenger, con una mano sposta la canottiera sul seno, e negli occhi una luce maliziosa che a quell’età non dovrebbe nè potrebbe avere; oppure la storia di Viviana che in cambio di un iPod offre prestazioni orali a 5 euro nei bagni del liceo. I ragazzi nelle agende dei loro cellulari si scambiano foto e indirizzi web delle loro compagne più “disponibili”, con tanto di indicazione su ciò che fanno, come lo fanno, dove, e la cifra che chiedono. “E questa è solo la punta dell’iceberg”, commenta ancora l’assessore milanese.
Gli esperti notano infatti anche il continuo abbassarsi dell’età del consumo di pornografia scaricando filmati da internet. Con la novità che questo “consumo” prima quasi esclusivamente maschile, sta ora coinvolgendo sempre più spesso anche le femmine.
Il centro e la periferia, la Milano bene e quella dei palazzoni degradati, i bambini e gli adolescenti, è un tarlo trasversale e poco rintracciabile questa sessuomania dai risvolti hard che colpisce i ragazzi milanesi. «E non è giusto far finta di niente, pensare 'non succederà a mio figlio', dimenticare la cosa come se riguardasse sempre e solo gli altri», spiega Luca Bernardo, primario della struttura di Pediatria e dell’area adolescenza al Fatebenefratelli. «Sono i numeri a dimostrarlo». Otto ragazzi che per questioni di bullismo sono arrivati a raccontare a medici e psicologi le loro vicende personali e quelle dei compagni, a rivelare un giro di microprostituzione. Con loro, anche quattro ragazzine tra i 14 e i 17 anni. «I rapporti avvengono nelle scuole o nei locali — racconta l’esperto — anche tra gruppi. E mai durante l’intervallo, ma ad orari stabiliti prima, durante la fase preliminare ». Quella in cui ci si mette d’accordo.
La materia di scambio: iPhone, iPod, schede per la ricarica del cellulare, vestiti e scarpe griffate. «Le ragazze si comportano come l’ape regina che attira a sé il maschio — continua Bernardo —, sono calme e disinibite. Di solito hanno qualche anno in meno rispetto ai partner. I maschi le scelgono consultando il book virtuale». Un fenomeno sotterraneo, difficile da far emergere. «Sono nicchie, zone oscure — commenta Michela Francisetti, preside all’istituto comprensivo Pertini — ma non è questo il punto. Il problema è quello che sta dietro, il disagio di una società che fa fatica a indicare un percorso educativo, l’immagine imprecisa che le giovani hanno di sé e che i coetanei hanno di loro».
COSI’ E’ MILANO, SE VI PARE.
PARLIAMO DI BERGAMO
PARLIAMO DI MAFIA.
Mafie al Nord, anche Bergamo non è esente, scrive Alessandro Belotti su “L’Eco di Bergamo”. Sono dati che destano preoccupazione quelli emersi dalla ricerca del centro Transcrime dell'Università Cattolica per il ministero dell'Interno e che fotografano l'espansione delle organizzazioni criminali nel Nord del Paese. La penetrazione delle organizzazioni criminali in Lombardia è infatti tale che la nostra regione si colloca al 9° posto a livello nazionale (20 in totale), con un indice di presenza mafiosa nell'arco temporale considerato (2000-2011) pari a 4,17. Scindendo il dato su 107 province, Bergamo si posiziona al 77° posto, con un indice pari a 0,39, mentre Milano e Brescia sono rispettivamente 26ª (8,15) e 36ª (3,15); per completezza al primo posto si colloca Napoli (101,57), mentre all'ultimo il Medio Campidano (0,01), provincia della Sardegna sudoccidentale. Il livello di rischio territoriale (ossia il microfattore legato alle caratteristiche del territorio che possono favorire l'infiltrazione delle organizzazioni criminali) per la nostra provincia è complessivamente basso: Bergamo si colloca al 106° posto (su 107) con un indice pari a 1,39, mentre Brescia e Milano sono rispettivamente 63ª (27,79) e 64ª (27,62), con Vibo Valentia al primo posto (100) e Vicenza all'ultimo (1,00). Non mancano, però, anche nella Bergamasca, le criticità, che riguardano in particolare le valli, zone nelle quali le mafie sembrano essersi arrampicate: stando alla ricerca, nel circondario di Foppolo l'indice di presenza mafiosa segna un livello molto alto, medio nel resto dell'Alta Val Seriana e nell'area che va da Cornalba a Parre, basso o nullo nel resto della provincia. Un dato che conferma quanto riportato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1994, secondo cui «la provincia di Bergamo è ritenuta, dagli esponenti della criminalità, una zona di transito piuttosto sicura, che offre ampie possibilità di mimetizzazione. In particolare, le valli sono molto frequentate soltanto nel periodo delle vacanze ed è agevole affittare delle abitazioni dove trattare affari o impiantare raffinerie di droga». La presenza delle specifiche organizzazioni criminali si concentra invece in città, pur con un indice molto basso: a Bergamo camorra e 'ndrangheta, organizzazione che, a livello regionale sembra aver assunto un ruolo di primo piano, anche se la stessa camorra fa rilevare una presenza importante. La 'ndrangheta, in provincia di Bergamo, secondo quanto emerso dalle indagini, poteva contare su due ramificazioni importanti, ossia di due cosche affiliate: quella dei Romano e quella dei Bellocco, sempre calabresi, operanti soprattutto nella Bassa orientale. Nella Bergamasca, come nelle altre province, le organizzazioni criminali reinvestono nell'acquisto di immobili i proventi derivati dalle attività illecite (traffico di stupefacenti e armi, estorsione, usura, prostituzione, gioco d'azzardo illegale, contraffazione e via dicendo): il tasso di ville, appartamenti (ogni 100.000 abitazioni) e terreni agricoli (ogni 1.000 chilometri quadrati di terreni a superficie agricola) confiscati nell'arco temporale 1983-2012 risulta essere basso (ma non nullo) analogamente a tutta l'area Est della Lombardia. Per quanto riguarda i settori economici a rischio di infiltrazione mafiosa, nel rapporto sono stati presi in esame quelli con i più alti livelli di specializzazione, ossia i settori delle costruzioni, della ristorazione e del mondo alberghiero: il tasso relativo alle aziende confiscate di questi settori (ogni 10.000 aziende registrate) nella Bergamasca si colloca all'interno della forbice tra 0,1 e 9,9. La permeabilità al fenomeno mafioso riguarda però molti altri ambiti dell'attività economica «legale»: il punteggio di rischio del settore Agricoltura, caccia e pesca risulta ad esempio medio-alto a Bergamo (63,6), così come a Milano (65,4) e Brescia (58,0); dati analoghi sono stati riscontrati nel settore «Sanità e assistenza sociale», dove la nostra provincia presenta un punteggio di rischio medio-alto, pari a 50,4. Più di dieci i decreti di confisca che hanno riguardato la nostra provincia provenienti da autorità giudiziarie di altre città, ossia Milano e Brescia (dove ha sede la sezione distrettuale antimafia), mentre sono state due le grandi inchieste giudiziarie sulla mafia che hanno toccato da vicino il territorio di Bergamo: l'operazione 'Nduja, che ha riguardato quasi 200 persone attive da anni fra la bergamasca e il bresciano (con accuse che vanno dall'associazione di tipo mafioso finalizzata al traffico di armi e stupefacenti, all'estorsione, dalle rapine all'usura) e il processo «Infinito», la cui sentenza di primo grado è stata emessa il 19 novembre 2011 con 110 condanne e pene fino a 16 anni di reclusione.
PARLIAMO DI MASSONERIA.
Elegantissima, abito bianco e golfino sulle spalle, Carla Fracci arriva negli uffici della questura di Bergamo a mezzogiorno, scrive Federica Cavadini su “Il Corriere della Sera”. Un quarto d'ora più tardi, accompagnato dalla figlia Rosita, si presenta Adriano Celentano, solito look, solita simpatia. Sono stati entrambi invitati a Bergamo come "persone informate dei fatti" dal magistrato che indaga sui misteri della clinica dei vip, dopo le accuse lanciate al fisioterapista Pierantonio Bettelli da Gabriella Carlizzi, giornalista ed ex paziente e da Cristiana Crivelli, dipendente del centro ed ex amante di Bettelli. Carla Fracci, trattenuta dagli inquirenti per più di due ore, esce e liquida i giornalisti con un no comment tanto garbato quanto tassativo. Più loquace "il molleggiato", che cede all'irresistibile richiamo delle telecamere: "La conversazione con i magistrati? Simpatica. I massaggi? Normali. Sono stato da Bettelli quattro o cinque volte, mi è sembrato una persona competente". Assolto, da Celentano. E, ma solo per sentito dire, anche dalla Fracci. Idem per Marco Columbro. Ma la sfilata dei vip continua, sono già stati sentiti anche Lorella Cuccarini e Zucchero Fornaciari e nelle prossime ore è atteso Luciano Pavarotti. Cosa cercano gli inquirenti? Prove, evidentemente. Ma il bello è che cercano prove su ipotetici reati di vario tipo, perchè le accusatrici ogni giorno rincarano la dose. Erano partite da una storia a luci rosse in cui Bettelli avrebbe coinvolto la Crivelli e poi avevano lasciato lo scenario hard per passare al giallo, sollecitando gli investigatori a far luce su tre morti sospette. Ieri le due donne hanno aggiunto nuovi elementi. "Temevo che Bettelli mi ricattasse, per questo non ho parlato prima, ha detto Cristiana Crivelli. Lui ha delle videocassette in cui compaio in atteggiamenti compromettenti". Cioè? "Mi chiese di avere rapporti sessuali di gruppo, con amici suoi. E io acconsentii. Ma non sapevo delle cassette". Poi il racconto si sposta su un episodio "americano". "Bettelli, accompagnato dall'amico Tony Renis, andò negli Stati Uniti per curare il mafioso Gambino". E dalla mafia a presunti rapporti con la massoneria, ma questa volta a parlare è Carlizzi: "Bettelli mi portò a una cena "segreta" a Bergamo. "E' una riunione della massoneria, a cui sono affiliato" mi disse. E nei giorni seguenti mi fece contattare da Giuliano Di Bernardo". Infine particolari inediti sulle misteriose morti: quella dell'architetto Giovanbattista Arzuffi, ricoverato per un braccio rotto e morto per un embolo; il suicidio di un ex dipendente di Bettelli e la scomparsa di un addetto alle pulizie trovato morto nella lavanderia del centro. "Ce l'aspettavamo la morte di Arzuffi, dice la Carlizzi, era incapace di intendere e di volere e in quello stato fece testamento lasciando tutto a Bettelli". E gli altri due? "Il suicidio avvenne un giorno festivo, al centro c'era solo Bettelli. E l'uomo delle pulizie è stato trovato in una pozza di sangue, con due pastiglie sotto la lingua. Strano, no?". Ma Bettelli cosa c'entra? "Non credo che abbia voluto eliminarli. Però è responsabile". E in che modo? "Lo diranno i magistrati". Per ora l'unica accusa confermata è che nella clinica dei vip, come ha raccontato Crivelli, "tutti lavoravano senza diploma". Il resto è un film giallo, a luci rosse, che sa di legal thriller, cioè "di tutto di più".
Bergamo è una città dove da secoli il potere della Chiesa è enorme, quindi in contrapposizione è da sempre stato fortissimo anche il potere della Massoneria. Il massone Simone Mayr è addiruttura sepolto in Santa Maria Maggiore. Garibaldi fu forse il massone italiano dell’Ottocento più noto e autorevole. Quindi dobbiamo considerare Bergamo Città dei Mille come Bergamo Città dei Massoni? Qui sotto la storia di Garibaldi come Massone. Dobbiamo considerare la sua adesione alla massoneria alla stessa stregua di quella che egli fornì a innumerevoli associazioni politiche o di mutuo soccorso, talvolta di orientamento assai diverso, di cui accettò la presidenza onoraria? Oppure essa rappresentò per lui qualcosa di diverso, una scelta più vincolante e impegnativa, che egli maturò a metà della sua esistenza e mantenne in modo consapevole fino alla morte? Gli elementi a nostra disposizione ci inducono a propendere per la seconda ipotesi. Per Garibaldi, specie dopo il 1860, la massoneria, sfrondata degli orpelli esoterici e rituali che egli dimostrò di non tenere in grande considerazione, fu un luogo di aggregazione e uno strumento organizzativo del quale cercò a più riprese di avvalersi per realizzare i propri progetti politici e culturali. E la massoneria a sua volta utilizzò Garibaldi, sia prima che dopo la sua morte, come straordinario testimonial e come veicolo di propaganda dei propri ideali. Ma procediamo con ordine. Garibaldi venne iniziato alla massoneria nel 1844, all'età di trentasette anni, nella loggia L'Asil de la Vertud di Montevideo, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana, non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran Loggia d'Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. Sempre nel corso del 1844 egli regolarizzò tuttavia la sua posizione presso la loggia Les Amis de la Patrie di Montevideo posta all'obbedienza del grande Oriente di Parigi. Al pari di altri influenti massoni italiani egli entrò quindi in massoneria in età relativamente avanzata (undici anni dopo l'affiliazione alla Giovine Italia) e durante l'esperienza dell'esilio. Le logge massoniche, com'è noto, in virtù dell'umanitarismo universalistico che le animava, offrirono importanti punti di riferimento agli esuli politici dei paesi europei governati da regimi dispotici e ostili a ogni apertura in direzione democratica e nazionalistica. Importanti furono anche i contatti che Garibaldi ebbe durante il secondo esilio, quando frequentò le logge massoniche di New York e intorno al 1853-54, prima di rientrare nel Regno di Sardegna, la loggia Philadelphes di Londra: qui si raccoglievano alcuni esponenti dell’internazionalismo democratico aperti ai contributi del pensiero socialista e inclini a collocare la massoneria su posizioni fortemente antipapiste. Soltanto nel giugno 1860, nella Palermo appena conquistata, Garibaldi venne elevato al grado di maestro massone. L’impresa dei Mille si stava imponendo all’attenzione della comunità internazionale e certo poteva giovare che egli ribadisse la propria militanza massonica, specie in considerazione della simpatia con cui le organizzazioni liberomuratorie di alcuni paesi, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, guardavano alla lotta per l’indipendenza nazionale italiana. Il ricostituito Grande Oriente Italiano, inizialmente dominato da esponenti vicini a Cavour, affidò però la carica di gran maestro a Costantino Nigra e conferì a Garibaldi soltanto il titolo onorifico di «primo libero muratore italiano», gratificandolo di una medaglia commemorativa di oro massiccio.
L'ORIENTE DI BERGAMO. Delucidazioni di Alessandro Olimpo.
LA CULTURA A BERGAMO nell’800
La storia della cultura non può limitarsi allo studio delle istituzioni, pure necessario, e nemmeno a quello delle biografie dei soggetti che vi hanno operato. Anche a Bergamo la cultura è, nell'800, una prerogativa della classe dirigente ( aristocratici, clero, borghesia). Questa analisi, tuttavia, poco ci può dire sulle ragioni e la genesi delle scelte operate dai singoli individui e sul peso che esse hanno avuto nel determinare l'indirizzo culturale della città. Allo stesso modo, non basta studiare separatamente la storia dell'Ateneo di Bergamo, del Liceo Sarpi, dell'Accademia Carrara, dei Teatri, o le biografie di Giovanni Maironi da Ponte, Giacomo Carrara, Lorenzo Mascheroni, Johann Simon Mayr, solo per fare alcuni esempi. E' solo nel complesso intreccio tra i piani qui richiamati che si può dare unità e concretezza alla storia culturale, non più segmentata nei suoi singoli aspetti. A titolo esemplificativo, dall'episodio relativo all'Elenco di Franchi Muratori della Loggia Bergamasca autori della ribellione di Bergamo del 1797 viene qui di seguito costruito un percorso che mette in luce la fitta trama dei rapporti culturali a Bergamo e da Bergamo per Roma, tra la fine del '700 e l'800. (LA REPUBBLICA BERGAMASCA - TRA ANCIEN REGIME ED ETA' CONTEMPORANEA). Tra i nomi dei massoni inclusi nell'elenco citato figurano Lorenzo Mascheroni, Antonio Tadini, Agostino Salvioni, Giacomo Costantino Beltrami, Giuseppe e Bernardo Ambrosioni, Antonio Piccinelli. Oltre all'appartenenza massonica, questi personaggi condividono la conoscenza delle tesi pedagogiche diffuse dalla loggia tedesca degli Illuminati di Baviera.
ORIENTE DI BERGAMO. Loggia non meglio identificata.
Alessandri conte Marco è Maestro Venerabile nel 1796. Alto funzionario della Repubblica italiana, verrà nominato senatore da Napoleone. Coprirà nella Massoneria i più alti gradi nel Grande Oriente d'Italia. Da un elenco compilato nel 1831 dal sedicente massone Torresani sugli ex massoni della Loggia: Bernardo Ambrosioni (viceprefetto di Breno) - prof. Giovan Battista Baisini (prete e professore del Liceo di Bergamo)- Luigi Beluschi (Pretore a Sarnico)- Pietro Benaglia (giudice della Corte di Giustizia)- dott. Vitale Benaglia - dott. Ambrogio Bogni-dott.Luigi Calvetti- ing. Giuseppe Cusi- ing. Giovanni Antonio Giavazzi- Giovan Battista Locatelli - Simone Mayr (musicista)- march. Giuseppe Pallavicini (consigliere di stato)- Pietro Parigi (sindaco a Sarnico) - avv. Silvestro Patirani - dott. Giovanni Antonio Piccinelli (chirurgo)- Antonio Ronchi (presidente della Corte di Giustizia)- Antonio Rota - avv.Giuseppe Salvi - don Agostino Salvioni M.V. (professore di Liceo)- dott.Patrizio Sequino - Angelo Viganoni (cancelliere di Pretura ad Edolo)-gen. Giovanni Villata-. L'origine di questo rapporto è la parentela tra l'"Illuminato" barone Tommaso De Bassus con Giuseppe e Bernardo Ambrosioni, bergamaschi. Gli Ambrosioni svolgono la loro attività di tipografi a Poschiavo, in Engadina, centro di diramazione delle stampe rivoluzionarie verso i territori lombardi e veneti. Per loro tramite, il barone riesce a far pervenire anche a Bergamo i suoi scritti. A De Bassus si deve anche l'arrivo a Bergamo del musicista J.S. Mayr, anch'egli "illuminato". Sia grazie ai contatti con gli Ambrosioni che a quelli con Mayr, i massoni di Bergamo hanno modo di far proprie le tesi pedagogiche europee. Mascheroni e il suo allievo e successore A. Tadini, entrambi insegnanti al Collegio Mariano (poi Liceo Sarpi), introdussero significative novità nel ruolo e dello studio delle materie tecnico-scientifiche. Accanto a loro, svolge compito analogo G. Maironi, noto per il suo Dizionario odeporico della provincia di Bergamo e per gli scritti di geologia, geografia e scienze naturali. Maironi fu tra i principali artefici della costituzione dell'Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo fondato nel 1811 in seguito a decreto napoleonico. Tra i suoi membri, oltre ai notabili della città, figurano anche allievi del liceo e dell'Accademia Carrara (fondata dal conte Giacomo Carrara alla fine del '700) e i già citati appartenenti alla massoneria bergamasca. Sia Maironi che Mayr ne sono presidenti, mentre A. Salvioni, bibliotecario della Biblioteca Civica, costituito per lascito testamentario del Cardinale Furietti, ne è segretario. Mayr, maestro di cappella in Santa Maria Maggiore, è però ricordato soprattutto per la sua attività di compositore di opere sacre e profane, e per la parallela attività di educatore nelle Lezioni caritatevoli di musica da lui fondate a Bergamo nel 1805. L'interesse alla formazione anche musicale dei giovani si spiega con la sua esperienza come "illuminato", e in particolare con il metodo pestalozziano. Le tesi di Johan-Heinrich Pestalozzi giungono a Bergamo anche tramite un suo ex-allievo, il pastore della comunità evangelica di Bergamo J.K. von Orelli, (vedi famiglia Orelli) che tra il 1807 e il 1808.
ORIENTE DI BERGAMO. Loggia LA RIUNIONE (o LA UNIONE).
Loggia di Rito Scozzese fondata il 27 Ottobre 1804 all'obbedienza del Grande Oriente di Francia. Il 20 Giugno 1805 insieme ad altre 5 Logge di Milano partecipa, con il Maestro Venerabile Ambrosini e il M. Ven. Aggiunto Locatelli,all'atto di fondazione del Grande Oriente d'Italia con Patenti del conte Degrasse - Tilly, proponendo Eugenio di Beauharnais Gran Maestro. Dal Quadro del Grande Oriente d'Italia del 1808 risulta ancora Maestro Venerabile Ambrosioni. Dal "Calendrier Maconnique indicatif des assembles ordinaires du G:. O:. de France, pour l'an de la V:. L:. 5813", Paris, Poulet, 24°,pp528, risulta Venerabile ancora Ambrosini. Nell'Aprile 1814, in seguito al trattato di pace di Schiarini Rizzino, firmato dal Gran Maestro Eugenio di Beauharnais e l'austriaco, Fratello generale Bellegarde, cessa di esistere la Massoneria obbediente al Grande Oriente d'Italia sedente in Milano. da: "Contributo allo studio della massoneria italiana nell'era napoleonica" di Ed. Stolper, Rivista Massonica, 1977 n°4. vi apre un centro educativo. Anche G. C. Beltrami, viaggiatore ed esploratore, (vedi quadri al Museo di Scienze Naturali e fondo Beltrami, Biblioteca A.Maj) in anni successivi a quelli della loggia massonica ha probabilmente indiretti contatti con l'ambiente degli "illuminati", grazie ai suoi rapporti con il politico, giornalista e pedagogo Marc-Antoine Jullien, amico di Pestalozzi. I personaggi citati si fanno carico a livelli diversi del problema della formazione delle masse. Così, accanto alle scuole, si fanno strada anche strumenti diversi di formazione culturale. In tal senso, gli almanacchi popolari rappresentano uno degli esempi più pertinenti perchè, economici e diffusissimi, costituiscono "un mezzo così potente e pur così facile di educazione" (C. Tenca).vedi Maj Mayr, ad esempio, scrive un "Almanacco musicale" (1826), G.A. Piccinelli, (vedi biblioteca Ospedali Riuniti) chirurgo all'ospedale di Bergamo, è autore di un "Almanacco per li medici chirurghi e speziali" (1788-1794). Opere come quest'ultima contribuiscono alla divulgazione di una corretta informazione medico-sanitaria, nel tentativo di sradicare pregiudizi e superstizioni. Se la storia dell'istruzione a Bergamo si identifica in gran parte con quella generale del Lombardo-Veneto prima e dell'Italia poi, ciò non significa che la città non abbia vissuto, diversamente da altre, la sua storia dell'istruzione. Il sistema scolastico a Bergamo, per ragioni di conflitto che verranno chiarite negli esempi, può essere definito sinteticamente come un sistema delle contrapposizioni. Questa specifica situazione locale è acuita dalla inadeguatezza e contradditorietà delle riforme attuate dai governi dominanti: vi è infatti una distanza incolmabile tra le riforme imposte dal legislatore (mai radicali per non sovvertire l'assetto sociale e politico) e la realtà sociale e culturale in cui le riforme vengono o avrebbero dovuto essere applicate. L' I.R. Scuola Elementare Maggiore Maschile di IV Classi, inaugurata intorno al 1820 sotto gli austriaci (ora Scuola Donadoni), proprio nella sua antica titolazione riassume alcuni degli aspetti di tale situazione. La riorganizzazione della scuola elementare resa gratuita e obbligatoria è uno dei fiori all'occhiello delle riforme attuate da Maria Teresa d'Austria e Giuseppe II nello Stato di Milano dal 1776 al 1790. Lo stesso governo austriaco, subentrato nel 1815 al dominio francese nel Lombardo Veneto, in piena continuità con le riforme teresine-giuseppine emana nel 1818 “il regolamento ed istruzioni per le scuole elementari”. Ma proprio l'obbligatorietà e la struttura fortemente gerarchica previste dalle norme finiscono presto per scontrarsi con il contesto di applicazione della legge. Alle scuole maggiori si contrapponevano quelle minori; a quelle maschili, le femminili; a quelle delle città, quelle di campagna. ciò determina notevoli squilibri e penalizzazioni, in quanto le scuole minori sono finanziate esclusivamente dalle esigue finanze locali e non consentono l'accesso al ginnasio ed al liceo; l'insegnamento nelle scuole femminili era ridotto rispetto alle maschili, nei periodi dell'anno in cui è maggiormente gravoso il lavoro agricolo ed è perciò prezioso l'apporto dei ragazzi, le scuole di campagna vengono disertate per l'incompatibilità degli orari tra i tempi della scuola e quelli del lavoro. Di qui l'esigenza del clero di Bergamo di sostenere la scuola serale detta di Carità (1814) e, più avanti per parte laica di promuovere attraverso la Società industriale bergamasca, scuole elementari serali ed estive. La riforma austro-ungarica per la sua radice laico-illuminista, e la rivoluzione di Bergamo del 1797 per l'affermazione dei principi giacobini ed anticlericali, sono all'origine della frattura, tuttora insanata, tra sostenitori dell'istruzione laica e clericale. Nel 1797 Lorenzo Mascheroni membro della società laica di Pubblica Istruzione, insegnante di matematica al collegio Mariano e all'Università di Pavia, in drammatico contrasto con le posizioni dei Gesuiti, afferma che le questioni di religione debbano essere confinate in ambiti strettamente spirituali e non interferiscano con l'insegnamento di materie come quelle scientifiche. Occorre ricordare che negli stessi anni il vescovo di Bergamo Monsignor Dolfin ancora confutava e condannava le tesi copernicane perchè in contrasto con il testo biblico. Verso la fine del 1860 cominciano ad operare in Belgio le prime leghe per l'istruzione e l'educazione del popolo. L'iniziativa trova subito in Europa entusiastiche imitazioni anche perchè questo nuovo servizio nasce al di fuori delle correnti politiche e di pensiero allora in auge, essendo dichiaratamente apolitico ed aconfessionale l'obiettivo primario è quello di mettere il popolo a contatto con il libro al fine di stimolare lo spirito critico. Le biblioteche circolanti si diffondono a macchia d'olio e alcune di esse saranno il fondamento delle biblioteche attuali.
ORIENTE DI BERGAMO. Loggia PONTIDA.
E' intitolata al paese bergamasco celebre per il giuramento fattovi dai capi della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa, nel 1196. Di Rito Simbolico,viene fondata il 21 dicembre 1879 da 8 Fratelli, all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia. Primo Maestro Venerabile è il dott. Arcangelo Ghisleri. Con Decreto n°30 del 29 gennaio 1881, Venerabile il prof. Leone Regazzoni , è sciolta a causa delle persecuzioni della chiesa locale. Viene ricostituita,di Rito Simbolico, con Decreto n° 40, del 13 settembre 1884, e installata il 19 aprile 1885,con il rag. Leopoldo Costa, Venerabile. Nel 1887 la Loggia, per prima, commemora gli Eroi dell'eccidio di Dogali in forma puramente civile. Nello stesso anno è Maestro Venerabile Adolfo Engel. La Loggia poi promuove la fondazione di un istituto di soccorso alle famiglie povere dei detenuti e riesce a far intitolare una via di Bergamo "XX Settembre". Nel 1887 offre £ 25 per i danneggiati dell'incendio di Botosani. Nel 1888 è Venerabile l'ing. Adolfo Engel, con indirizzo in via Broseta 7. Rappresentata da Antonio Volpi, Rossetti e Gio Batta Zitti prende parte alle inaugurazioni dei monumenti a Gaetano Pini ed Agostino Bertani a Milano il 27 ottobre 1888. Nelle elezioni generali amministrative del 1889 inizia e dirge la lotta che conduce alla sconfitta dei clericali in Bergamo. In questo periodo la Loggia dirige la Società di Cremazione. Il 9 giugno 1889 partecipa alla inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, in Campo dei Fiori, a Roma. Nel 1889 offre £ 25 per il monumento al G.M.Giuseppe Petroni. Dal 1889 al 1895 è Venerabile il dott. Leone Regazzoni, con indirizzo in via Pignolo 75. Il 3 settembre 1893 la Loggia commemora con molta solennità il F:. avv.Gonsildo Ondei, "genio tutelare" dell' Officina,passato all'Oriente Eterno. Nel 1894, d3volve £ 50 per i terremotati della Calabria. Si riunisce la 1a e 3a domenica del mese in Torresino ad Oriente della Fiera . Nel 1895 è inserita nel G:O:I: tra le Logge di 1a Categoria , quelle cioè che sono in regola con il tesoro e hanno trasmesso gli atti richiesti dalla Circolare n° 10 del 15 marzo. Partecipa con una rappresentanza alle celebrazioni in Roma del 20 settembre 1895. Nel 1896 e nel 1897 è Venerabile Lodovico Tosetti. Il 9 maggio 1897 è rappresentata all'inaugurazione del monumento al Gran Maestro Giuseppe Mazzoni. Partecipa alla conferenza Massonica per l'Alta Italia dal 18 al 20 settembre 1897 a Milano . Nel 1898 il Grande Oriente approva le elezioni di Loggia. Il 20 ottobre 1900 la Loggia propone all'esame del Grande Oriente una Tavola con la quale si sollecita un passo dell'Ordine a favore dei prigionieri politici. Nel 1903 devolve £ 25 per le vedove e gli orfani dei Boeri e il 20 settembre una delegazione della Loggia è presente con la bandiera a Bologna per l'inaugurazione del monumento ai caduti dell'8 agosto 1849. Nel 1902 e nel 1904 è Venerabile Carlo Caprotti. Nel 1905 contribuisce alla sottoscrizione per le feste massoniche del Centenario della nascita di Giuseppe Mazzini. Il 12 novembre 1905 partecipa con lo stendardo alla inaugurazione del Tempio Crematorio di Bergamo. Nel 1906 il G.O.I. approva le elezioni di Loggia. Nel 1907 contribuisce con £ 207 alle celebrazioni del centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Nel 1907 e 1908 è Venerabile Cesare Bizioli e, nel 1909 e nel 1910, l'ing. Baronio Baroni, di Foligno, con indirizzo in via Carlo Botta 4/a. Nel 1909 versa £ 100 per il monumento a Giosuè Carducci a Bologna. Esiste nel 1910 e nel 1911. Nel 1912 la Loggia devolve £ 100 alle famiglie dei caduti nella guerra d'Africa. Nel 1913 e nel 1914 è Venerabile Emilio Palazzuolo,via Simone Mayr 22. Nel 1915 è Venerabile ancora il Baroni. Nel 1919 pubblica un opuscolo per commemorare i fratelli defunti. Nel 1919 è Venerabile ancora Baronio Baroni, con indirizzo postale presso casa Engel, Treviglio. Nello stesso Anno è operante un triangolo a Treviglio (BG) costituito da alcuni fratelli della Loggia: Durante la notte del 18 Settembre 1924 la sede di via Brasetta viene saccheggiata dai fascisti che, prima di abbandonarla, la incendiano. Triangolo operante nel 1923 e fondato da alcuni Fratelli dalla Loggia "Pontida" di Bergamo. Le leghe professano tra l'altro l'intendimento di aprire scuole pomeridiane per i bambini poveri che numerosi oziano nelle strade. La “Gazzetta di Bergamo” nel 1891 presentando la Lega Bergamasca pone l'accento sulla finalità della proposta tesa ad agevolare il miglioramento economico delle classi lavoratrici fecondandone ed educandone i germi di onestà e di energia ed agguerrire le menti ignare contro ogni forma di pregiudizio ed errore. Principi questi che non si trovano nello statuto della lega, approvato il 22 Marzo 1891 dall'assemblea dei soci, nel quale si legge: "E'costituita in Bergamo una Lega per l'educazione del popolo. La Lega, non essendo opera di alcun partito, non serve agli interessi di alcuna opinione religiosa o politica. La Lega si propone di diffondere nel popolo l'educazione e l'istruzione con tutti quei mezzi che sembreranno più opportuni e specialmente colla istituzione di educatori feriali, di un patronato per gli alunni poveri, di scuole autunnali e di conferenze popolari". Si tratta quindi di una specie di dopo scuola per partecipare al quale anche i fruitori devono versare un seppur modesto contributo. Il che naturalmente esclude i poveri dalla possibilità di godere del nuovo servizio! La Lega di Bergamo non incontra un largo favore perchè nel Comitato promotore sono presenti elementi di marcata fede anticlericale e i rappresentanti del mondo scolastico noti per precedenti atteggiamenti di marcata insofferenza verso il mondo cattolico. A questo proposito L'Eco di Bergamo del 14 Marzo 1891scrive: "Disgraziatamente per la Lega tra quei nomi non ve n'ha uno solo che possa dare seria assicurazione ai cattolici che la Lega terrà nel dovuto conto la religione. Anzi, ve n'ha più d'uno che faccia ragionevolmente temere il contrario. Presidente del Comitato promotore è il Dott. Ciro Caversazzi cioè quegli che appena un paio di anni fa teneva una conferenza nella quale, ad uso di Mazzini, ammetteva solo una religione senza altari, senza templi, senza sacerdoti, senza vescovi, senza papa e senza dogmi. Fra i membri del Comitato troviamo il Prof. Cesare Curti, quel medesimo che figura primo dei promotori dell'arbitraria decisione colla quale vennero esclusi in massa tutti i sacerdoti della nostra provincia dall'ufficio di soprintendente scolastico; quel medesimo che spiega tanto zelo perchè nella Scuola normale femminile si facciano lezioni e lavori durante le feste cattoliche non contemplate nel calendario scolastico". L'Eco di Bergamo passa in rassegna tutti i componenti del Comitato e per la verità , dobbiamo ammettere che si tratta di un campionario liberal massonico che mette in agitazione la controparte cattolica, già per altro giustamente affetta dal timore di essere emarginata ufficialmente dalla funzione educativa in atto nelle diverse scuole e nelle molte associazioni da essa promosse nel corso degli anni. Fra l'altro il problema dell'educazione scolastica tiene i clericali bergamaschi in notevole apprensione perchè, da un momento all'altro, il governo potrebbe delineare la soppressione di questa loro attività.
ORIENTE DI BERGAMO. Loggia ADOLFO ENGEL.
Il titolo distintivo ricorda l'ing. Adolfo Engel, deputato e senatore del regno, Gran Maestro Aggiunto nel 1906 è Presidente del Rito Simbolico dal 1904 al 1909. Loggia, di Rito Simbolico, all'obbedienza del Grande Oriente D'Italia. Primo Maestro Venerabile è Augusto Gandini, con indirizzo presso il prof. Osiris Bizioli, via S.Alessandro 71. Appartenenti: Guglielmo Calvi ( App.1923) -dott. Davide Fieschi (App.1923)- Gaspare Lachsinger, industriale.
ORIENTE DI BERGAMO. CNGEI.
Osiris Bizioli è il promotore a Bergamo del nel 1914.E' dottore in chimica, insegna chimica al Regio Istituto Vittorio Emanuele II, è imprenditore farmaceutico - è infatti presidente della SALF che produce fiale di sciroppo per la tosse con sede in via Tiraboschi - è membro del Consiglio Sanitario Provinciale ed è Vice presidente della società Mandamentale di Tiro a Segno - dirige la rivista "Tintoria". Abita in quella che è una delle più belle case di Bergamo. Il Fortino. Bizioli costruisce a sue spese , o contribuisce sostanzialmente alla realizzazione del "forno crematorio" nel cimitero unico di Bergamo. Fonda e porta avanti il CNGEI con notevole impegno personale. L'ideale scout e l'impegno del movimento lo accompagneranno per tutta la vita. Bizioli amava che i ragazzi crescessero in comunione - teneva al volersi bene - voleva che si creasse amicizia- non voleva né l' allineamento politico, nè quello ideologico. Dalle testimonianze raccolte da persone che l'hanno conosciuto emergono quattro elementi. La sua appartenenza alla massoneria, sempre espressa con circospezione nonostante il fatto sia risaputo. La sua dirittura morale. Il suo essere educatore e la sua passione per lo scoutismo. Probabilmente questi fatti sono una significativa chiave di lettura non solo della personalità di Osiris Bizioli, ma anche di un certo tipo di massoneria negli anni 1914/1915 e di una piccola parte di storia della città di Bergamo. Effettivamente la massoneria è in Italia in quegli anni animatrice di un grosso impegno che oggi chiameremmo sociale. Si radica profondamente nella società civile. Nella bergamasca molte società operaie sono fondate da massoni. E ancora a Bergamo l'impegno di un massone permette l'avvio di un certo tipo di proposta formativa per ragazzi. Gramsci dice: "Dato il modo in cui si è costituita l'unità e la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l'unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo". Un aspetto di questa efficienza è stato in Bergamo lo sviluppo del CNGEI, promosso da adulti "illuminati", che ha coinvolto una parte di popolazione giovanile, affiancando alle tradizionale proposte educative un'alternativa basata sul pluralismo. Lo scoutismo forma il carattere, l'individuo, la persona libera. Bizioli diceva: "Lo Stato non va bene così: gli italiani non sanno stare alle regole". Da qui l'impegno nella scia liberal-risorgimentale di "fare gli Italiani" e l'anticipo del patrimonio etico che dal mondo liberale confluirà nella nostra Costituzione Repubblicana. Osiris Bizioli ha intorno una settantina di ragazzi dai 12 ai 19 anni. Sono studenti di buona famiglia. Tra le carte conservate ricorrono spesso cognomi aristocratici: Finardi, Montecamozzo, Premoli, Giunipolo di Cortelanzo. Dalla relazione delle attività della neonata sezione appare coltivato maggiormente l'aspetto ambientalista e solidarista più propriamente scout diremmo oggi, che non la formazione paramilitare per la guerra incombente. Il Provveditore agli studi Alberto Manaira l'8 Giugno 1919 inneggia al metodo scout: "E' istituzione integratrice della scuola e dellla famiglia… Non è una delle tante società sportive che stanno proliferando, in quanto propone la disciplina, tanto più necessaria oggi, quando troppe cause e nocive influenze cercano di scuoterla profondamente e di scalzarla alle radici…". Ricorda la medaglia a Osiris Bizioli da parte della Giunta Permanente per le cure indefesse date al progresso dalla sezione. Fa voti che l'istituzione salga ad alto grado di diffusione e di dignità, sentendosi con questo fedele interprete del pensiero del Ministro della Pubblica Istruzione.
ORIENTE DI TREVIGLIO. Loggia MENTANA.
Loggia di Rito Scozzese all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia, il cui titolo distintivo ricorda la disfatta delle Truppe garibaldine nel 1867 nel tentativo di conquistare Roma. Nella adunanza del 7 maggio 1911 del Consiglio dell'Ordine, il Gran Maestro comunica la costituzione della Loggia Primo Maestro Venerabile è l'on. Ing. Adolfo Engel, senatore del regno. Nel 1912 la Loggia devolve £ 50 alle famiglie Dei caduti della guerra d'Africa. Nel 1913 ha indirizzo presso il prof. Emilio Engel. Con Decreto n° 186, del 5 settembre 1914,viene disciolta per decisione della stessa Loggia, della quale il Venerabile è ancora Emilio Engel.
Tanto si è detto sull'origine della massoneria. Chi la vuole sorta seimila anni fa in uno sconosciuto angolo della terra, chi ne semplifica la genesi alla storica data del 1717, ognuno ha un'idea diversa, un'immagine confusa dell'antica fratellanza. Il filosofo J.G.Fichte, uno dei maggiori rappresentanti dell'idealismo, affrontava la questione e scrisse. "….nei primi decenni del secolo XVIII, precisamente in Londra, si presenta in pubblico una società, che verosimilmente era sorta ancor prima, ma della quale nessuno sa dire donde venga, che cosa sia e che cosa voglia. Essa si propaga,nonostante ciò, con rapidità inconcepibile, e si diffonde attraverso la Francia e la Germania in tutti gli stati dell'Europa cristiana, e perfino in America. Uomini di tutte le classi, reggenti, principi, nobili, dotti, artisti, commercianti, entrano nella sua cerchia. Cattolici, luterani e calvinisti si fanno iniziare e si fanno chiamare fratelli." Ma per capire a fondo le origini della massoneria non saranno sufficienti date e luoghi. Fin dalle più remote antichità due contrastanti tendenze apparirono tra gli uomini: idealismo e materialismo. Fin dai primordi il genere umano si è diviso in due tipi di individui che assecondavano, ciascuno per la sua, tali opposte tendenze. Da una parte c'erano coloro i cui interessi erano volti unicamente al soddisfacimento dei propri bisogni terreni: cibo, sesso, ecc…, dall'altra si distinguevano menti più raffinate che ricercavano le motivazioni dell'esistenza, indagavano sui misteri della vita e dell'universo. Per meglio comprendere immaginiamo per un istante di trovarci presso un'antica tribù primitiva. Il tran-tran giornaliero poteva essere il procacciamento del cibo, la conquista delle donne più appetibili, la difesa dagli aggressori, fossero essi animali o altri uomini, la protezione dalle calamità naturali e così via. Contemporaneamente altri uomini più dotati intellettivamente, pensavano a soluzioni diverse e dal pensiero scaturivano le scoperte che conducevano il clan verso una vita più qualificata. Non c'era campo che questi filosofi non osassero investigare, ivi compreso quello del cosiddetto sapere divino. Nacque così la scienza e ad opera di tali uomini nacque l'arte. Scienza ed arte, fusi in un unico ordine di sapere, divennero il patrimonio di questi "diversi" il cui potere conoscitivo era grande ma nello stesso tempo, e proprio per questo, invidiato e quindi insidiato dai guerrieri e dai capi delle società dell'epoca. La difesa contro questi ultimi era quella di coalizzarsi e di difendere la conoscenza faticosamente acquisita, e trasmessa ai discepoli ritenuti adatti, al fine di evitarne utilizzazioni improprie da parte degli indegni. La frattura fra il bene e il male , fra potere sacro e potere profano, fra i filosofi e i politici era ormai insanabile. La conoscenza filosofica è potere reale in senso assoluto e mai deve cadere nelle mani di coloro che ne approfitterebbero per perseguire i loro fini personali e materiali a danno dell'evoluzione dell'umanità. Da queste premesse è facile dedurre il perché dell'origine delle fratellanze iniziatiche. I sacerdoti di Iside e di Osiride per lungo tempo, la comunità degli Esseni, gli Orfici, i Pitagorici, i primi cristiani e quindi i più recenti Templari, i Fedeli d'Amore, gli alchimisti,i Rosacroce e tanti altri,in ultimo la massoneria che da tutti costoro ha raccolto l'eredità morale e di pensiero, sono le società che hanno conservato nei loro templi il sapere dei millenni. L'evoluzione del pensiero è sempre associata a forti idee di personaggi in qualche maniera legati a culture esoteriche .Gli Esseni in Palestina, da cui probabilmente è sorto il cristianesimo che tanto ha prodotto in termini di crescita sociale dell'umanità;le scuole filosofiche di Pitagora prima e di Platone poi, lo stesso Dante Alighieri, membro della setta dei Fedeli d'amore, ma anche accreditato di appartenenza all'Ordine Templare; bacone, Newton, Goethe e tanti altri, noti per aver fatto parte di società segrete, quali i Rosacroce e la massoneria, tutto questo lascia intendere che la cultura storica è in parte carente laddove si voglia interpretare il ruolo delle società misteriche nel tessuto portante della storia. Se poi si voglia sapere quando la massoneria ha assunto la forma attuale con le odierne costituzioni ed i moderni rituali, allora bisogna riandare alle corporazioni di mestiere medioevali e risalire alla distruzione dell'Ordine del Tempio. Fondato nel 1119 con il compito di difendere la terra santa, quest'ordine religioso-militare - voluto da Ugo de Payns, primo gran maestro e appoggiato da Bernardo da Chiaravalle, monaco, dottore della chiesa e santo - conservava nel suo seno le dottrine segrete dell'iniziazione a cui venivano ammessi solo i cavalieri meritevoli sotto il duplice aspetto della morale e del desiderio di conoscenza. Non si conoscono esattamente le interrelazioni e i metodi di interscambio culturale che legavano tali potenti cavalieri ai vari monasteri ed alle suddette corporazioni di mestiere, fatto è che al loro tempo fiorirono nuovi stimoli interiori, nacque dal nulla una nuova forma architettonica, il gotico, che meravigliò il mondo intero. Tutto ciò non poteva durare. Le leggi dell'ignoranza e della superstizione, dell'egoismo e della malafede, prevalsero di nuovo sul buon senso e sulla giustizia. L'ingordo Filippo il Bello ed il papa Clemente V determinarono la fine del Tempio nel 1311. Jacques de Molays, gran maestro, e cinquantaquattro cavalieri vennero condannati al rogo. Il resto dell'Ordine fu disperso. Ma i cavalieri del Tempio non cessarono la loro attività iniziatica. Dispersi ai quattro angoli della terra si rifugiarono presso le logge dei liberi muratori germanici, scozzesi e dovunque il pensiero libero e la ricerca pura fossero i benvenuti. In Portogallo nacque l'Ordine del Cristo, in Scozia l'Ordine del Credo. Continuarono così a lavorare nell'ombra sino alla costituzione dell'Ordine dei Templari nel XVIII secolo: Così presumibilmente nacque la massoneria medievale, madre della massoneria moderna. Il 24 giugno 1717 i maestri delle quattro logge londinesi si incontrarono con alcuni rappresentanti della misteriosissima fratellanza della Rosacroce. Questi, perseguitati, chiesero alla fratellanza dei Liberi e Accettati muratori di entrare a far parte dell'Ordine. Così nasceva, in un albergo di Charles Street (che in seguito fu la sede della prima Gran Loggia d'Inghilterra) la frammassonneria moderna, decisa a combattere in campo aperto per la libertà di pensiero, di indagine, di coscienza, per la fratellanza universale, per il progresso, per la riconquista della dignità della persona umana. Subito molti Ordini misterici riapparvero in Europa come per incanto e quasi tutti entrarono a far parte della massoneria. Nobiltà, clero, scienziati, filosofi, artisti, commercianti: tutti chiedono di essere iniziati all'Arte Reale. " Quando i governi dispotici si allarmarono era ormai tardi. La reazione non potè arrestare la valanga che li avrebbe travolti. Il Contratto Sociale veniva discusso e commentato dovunque; l'agitazione cresceva, si parlava ormai apertamente dei Diritti dell'Uomo e finalmente scoppiava la Rivoluzione Francese." Ricordiamo ancora la Rivoluzione americana e la Carboneria italiana la cui ispirazione massonica è nota a tutti,non sono che pochi esempi dell'influsso delle idee muratorie sul mondo "profano", ma che servono a far meglio conoscere la capacità morale di quella fucina del libero pensiero che era la libera muratoria.
Già nell'analisi delle origini appaiono ben chiari gli scopi della massoneria.
- La "Dichiarazione dei principi" approvati dal convento dei supremi consigli confederati riuniti a Losanna nel settembre 1875: la massoneria.
- "…non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a tutti questa libertà che esige da tutti la tolleranza."
- …"accoglie qualunque profano senza preoccuparsi di conoscere quali siano le sue opinioni politiche e religiose, purchè esso sia libero e di buoni costumi."
- "… ha per scopo di lottare contro l'ignoranza sotto tutte le sue forme; è una scuola scambievole, il cui programma si riassume in questi punti: obbedire alle leggi del proprio paese, vivere secondo l'onore, praticare la giustizia, amare i propri simili, lavorare senza posa al bene dell'umanità e perseguire la sua emancipazione progressiva e pacifica."
- " per innalzare l'uomo ai propri occhi, per renderlo degno della missione sulla terra, la Massoneria pone come principio che il Creatore supremo ha dato all'uomo, come il bene più prezioso, la libertà: la libertà, patrimonio dell'umanità tutta intera, raggio così luminoso che nessun potere ha diritto di spegnere o di offuscare e che è la fonte di ogni sentimento d'onore e di dignità".
La prefazione degli Statuti Generali delle società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato,ristampa del 1874:
" Quella unione di uomini saggi e virtuosi, che, con allegorico significato, si appella ordinariamente Società dei Liberi Muratori,è stata in ogni tempo considerata come il Santuario dei buoni costumi, l'asilo dell'innocenza, la scuola della virtù, il tempio della filantropia".
" …ha per fine il perfezionamento del cuore umano; e si propone, qual mezzo necessario per ottenere questo fine, l'esercizio e la pratica delle virtù."
" Il Fratello Libero Muratore deve per necessità essere uomo probo, sobrio, onesto e virtuosamente benefico. Chi non possiede queste necessarie doti non può affatto aspirare al merito di poter far parte di questa unione di saggi."
Ci sembra utile riportare le tesi del già citato Fichte:
"…poiché il fine dell'esistenza è quello di chiarire il senso della vita alla luce dell'eternità, questa società offre all'essere ragionante il massimo di luce; di conseguenza, lo scopo della cultura umana è contemporaneamente quello della cultura massonica; questo fine verrebbe meno se tale cultura non sopprimesse i contrasti della divisione del lavoro e se non trasformasse in cultura universale le pluralità delle classi sociali; la sua azione nel mondo trae origine dall'influsso reciproco di tali classi; la massoneria non è fine a se stessa più che la Chiesa; dando alla religione una "educazione massonica", se ne svincola il concetto di universalità; la massoneria libera l'uomo dall'aspetto falsamente universale della sua religione; questo stesso uomo cessa di essere religioso, ma pensa e agisce religiosamente; lo scopo politico della massoneria è identico al suo scopo spirituale, perché unisce il patriottismo al cosmopolitismo; in tutto questo la massoneria è l'erede della cultura segreta dell'umanità, perché sempre sono esistiti uomini pronti a notare i difetti della società della loro epoca, e a gettare il seme per il futuro."
Citiamo infine la voce ufficiale della massoneria italiana.
"Quando si parla di Massoneria si suole identificarla come Ordine, ed, invero, le sue origini radicate nelle corporazioni dei Liberi Muratori si ricollegano ad una serie di livelli operativi quali Apprendista, Compagno, Maestro perfettamente sovraordinati l'uno all'altro e regolati da norme liberamente accettate da tutti gli adepti e perciò ancor più vincolanti che se fossero imposte. Tali norme consentono di conquistare progressivamente una sempre più profonda conoscenza di se stessi e di accostarsi alla verità ed alla perfezione rendendo così il Massone idoneo a svolgere il suo compito filantropico di operare per il bene ed il progresso dell'Umanità. Questa metodologia affascinò uomini delle più diverse condizioni accostandoli l'un l'altro in un'ansia di ricerca che aboliva ogni differenza sociale ed economica creando viceversa un vincolo profondo che si rafforzava via via che gli adepti acquistavano sempre maggiore coscienza della comune origine dal suolo italico e della missione unificatrice delle sue genti che essi assumevano.
PARLIAMO DI MAGISTROPOLI.
L'inchiesta a Bergamo di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Le toghe a tavola fanno festa coi boss del narcotraffico. Spuntano le foto di tre magistrati bergamaschi con Patrizio e Massimo Locatelli: finiti in carcere dopo il papà per traffico di droga. Della famiglia di malavitosi parla Roberto Saviano nel suo ultimo libro "ZeroZeroZero". «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno». Lo scrive Roberto Saviano nel suo ultimo libro, ZeroZeroZero, in cui parla di cocaina e spiattella la storia del boss bergamasco Pasquale Claudio Locatelli. Attualmente è in carcere: poco dopo il suo arresto finirono in cella pure i due figli Patrizio e Massimiliano. Saviano si sorprende che nessuno, neanche nella provincia lombarda, avesse sentito puzza di bruciato quando i rampolli facevano fortune con un’industria edile come la Lopav Spa, mentre il papà-boss era già in galera con accuse pesantissime e il sospetto di legami con i clan di mezzo mondo, tra cui quello camorristico dei Mazzarella. Saviano ha ragione: nessuno sembrava sospettare. Neanche i magistrati bergamaschi. Tanto che alcuni di loro, tra i più seri e brillanti, facevano festa e pranzavano proprio con i figli del narcotrafficante. Facendosi addirittura fotografare per una rivista locale. Era infatti successo che poco prima di essere arrestati per ordine del gip di Napoli, i due ragazzi avessero organizzato un evento per riunire i 150 dipendenti e le relative famiglie. Era domenica 19 settembre 2010. Alle Ghiaie di Bonate, oltre ai titolari e agli operai, c’erano parecchi ospiti vip. Qualche politico. Alcuni religiosi, come l’arcivescovo Gaetano Bonicelli. E soprattutto tre magistrati: Carmen Pugliese, Angelo Tibaldi, Mario Conte. Non erano soli. C’era anche un ispettore di polizia in servizio in Procura. Questo dicono le fotografie. In più, alcuni dei presenti ricordano di aver visto pure il direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino e un sottoufficiale della Guardia di Finanza. Circa un mese dopo, Patrizio e Massimiliano Locatelli finiranno in manette con l’accusa di concorso in traffico di stupefacenti e riciclaggio. Gli hanno sequestrato beni per circa 10 milioni. Già questo avrebbe dell’incredibile. Ma il peggio è che il padre, Pasquale Claudio, era un fuoriclasse della malavita. Saviano lo racconta bene nel libro. Quando aveva vent’anni si dedicava al furto di auto di grossa cilindrata. Locatelli - scrive Saviano - è furbo e inizia a imparare le lingue per allargare i suoi interessi. Austria. Francia. Poi Spagna. S’inventa parecchi soprannomi e si stabilisce in una villa nei dintorni di Saint-Tropez. Viene arrestato nel 1989. In casa gli trovano 41 chili di coca colombiana. Finito nel carcere di Grasse per scontare una decina di anni, si rompe un braccio. Gli agenti lo trasportano a Lione. Quando arriva a destinazione, un commando attacca la scorta e scappa col boss. È fuga. Va in Spagna e si fa chiamare «Mario di Madrid». Come racconta Saviano, è l’uomo di riferimento dei narcos colombiani in Europa e proprietario di una flotta navale per il traffico internazionale di cocaina. Non proprio un pesce piccolo, insomma. Lo scrittore lo definisce un «broker della polvere». E scrive: «Ha intuìto che l’eroina come mercato di massa stava finendo, mentre il mondo ne consumava ancora tonnellate». Nel 1991 riuscirà a scappare da una villa nel Bresciano, dove era andato dalla sua compagna Loredana. Pochi anni più tardi verrà pizzicato con un avvocato e il sostituto procuratore di Brindisi: nel processo il magistrato riuscirà a dimostrare di non sapere chi fosse Pasquale Locatelli e verrà prosciolto. Evidentemente, qualche boccone con le toghe sono un vizio di famiglia. Dopo anni di galera in Spagna, il boss torna nella prigione di Grasse (quella dell’evasione), ma nel 2004 devono estradarlo a Napoli. Una sentenza della Corte di cassazione gli ridà la libertà. E Locatelli senior torna in Spagna, dove fa dentro e fuori da galera distribuendo false identità. Intanto i due figli sono rimasti in Italia e mettono in piedi la Lopav Spa, che si occupa di pavimentazioni. Vincono pure un appalto da 500mila euro all’Aquila. Oltre a quello per il nuovo centro commerciale di Mapello, Bergamo, che a fine 2010 verrà scandagliato per la scomparsa della 13enne Yara Gambirasio, inghiottita nel buio di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo. Nel maggio 2010 Pasquale Locatelli finisce in carcere, dopo che gli inquirenti avevano pedinato proprio il figlio che lo stava raggiungendo in Spagna. Pochi mesi dopo, anche i rampolli subiranno lo stesso trattamento. Nel corso delle indagini su Yara, era emerso che il padre della ragazza, Fulvio Gambirasio, aveva avuto rapporti di lavoro con la Lopav. Per Saviano, aveva addirittura testimoniato in un processo contro Pasquale Locatelli. Ma la pista di un possibile collegamento con la scomparsa della 13enne è stata abbandonata in fretta. Erano tanto sicuri di sé, i rampolli Locatelli, da invitare a pranzo dei magistrati. Angelo Tibaldi fu tra i più giovani ed efficaci sostituti procuratori che indagarono sugli episodi di corruzione che, nell’era di Tangentopoli, riguardavano anche Bergamo. Da anni è giudice del tribunale civile. Carmen Pugliese è attualmente il sostituto procuratore di maggior anzianità della Procura orobica. Si è occupata di più settori: dallo spaccio di droga alla pedofilia. Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e oggi giudice del tribunale civile, negli anni ’90 ha lavorato anche a Milano con Di Pietro. Recentemente è stato assolto dalla Corte d’assise di Milano dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti nel procedimento che lo vedeva imputato per i suoi rapporti con i carabinieri del Ros del generale Giampaolo Ganzer. Questa volta ha ragione Saviano. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno».
DOLORE E DELUSIONE
Yara, inchiesta chiusa col flop. Stavolta ha fallito anche il Dna. Centinaia gli interrogatori, ma gli inquirenti hanno soprattutto puntato su test genetici da record. L'indagine forse più costosa d'Italia va in archivio, scrive Andrea Acquarone su “Il Giornale”. Due anni e tre mesi dopo, Yara resta un tragico ricordo. Pieno di misteri, rabbia, amarezza, frustrazione. Quella di non aver saputo trovare chi in una gelida sera di novembre la massacrò. Nessuna giustizia, nessun colpevole per la piccola ballerina di Brembate, 13 anni pronti a sbocciare in un tuffo nel fiore della vita, l'apparecchio ai denti, il corpo che cominciava a trasformarsi in quello di donna. Chi può dimenticare? I corsi della legge, le lentezze, i freni, con tempi che non sembrano oggi più adeguati a quelli degli uomini, però dicono, come avrebbe chiosato caustico Tortora a Portobello, «Big Ben ha detto stop». L'inchiesta è finita, l'indagine forse più dispendiosa nella storia d'Italia, ha fallito, intercettazioni, superesperti, 15mila campioni di Dna prelevati tra vallate e paeselli del Bergamasco non sono serviti a nulla. Hanno fallito polizia e carabinieri, un colonnello silurato e un questore mandato con piacere in pensione. Loro non hanno risolto il caso. Come la pm, Letizia Ruggeri, la signora che andava in vacanza nel pieno delle ricerche. Due anni e tre mesi dopo la scomparsa di Yara Gambirasio il 26 febbraio 2013 si sono chiuse definitivamente le indagini. Archiviato il fascicolo contro ignoti aperto il 27 novembre 2010, il giorno successivo la scomparsa della ragazza. Oggi saranno due anni esatti dal ritrovamento del suo cadavere in un campo di sterpaglie a Chignolo d'Isola, liberato finalmente dalla neve caduta abbondante, e quasi complice, in quel maledetto inverno. Cosa resta? Mohamed Fikri, il piastrellista del cantiere di Mapello - dove i cani «molecolari» fiutavano tracce - fermato qualche giorno dopo con un coup de théâtre mentre in nave tornava in Marocco, è stato prosciolto dall'accusa di omicidio. Ma non dai sospetti: adesso è indagato con l'ipotesi di favoreggiamento personale. Di chi il giudice non lo dice, ma insomma, l'idea è che sappia sul delitto più di quanto abbia raccontato. Nel frattempo il gip che si occupa del caso è cambiato. Su quella poltrona siede da qualche giorno Patrizia Ingrascì, valuterà la richiesta di incidente probatorio presentata dal pubblico ministero sulla famosa telefonata fatta dall'operaio a un presunto creditore, e che secondo una prima traduzione suonava come «Allah, perdonami, non l'ho uccisa io», mentre invece traduzioni successive l'hanno interpretata come «Allah, fa che risponda». Lui ha un alibi di ferro: quella notte lavorava sì nel cantiere, ma nell'orario in cui Yara spariva, si trovava a cena in trattoria con il suo datore di lavoro. La sua avvocatessa si dice convinta che anche questa accusa finirà in archivio «perché non è mai emerso alcun elemento che lasci ipotizzare il favoreggiamento né ve ne sono ora, altrimenti il pm avrebbe chiesto il rinvio a giudizio almeno per questo reato». L'inchiesta, tuttavia, in qualche modo appiccicata all'ultimo esile filo di speranza, ancora per un po' andrà avanti. Da oggi in poi non varranno più nuovi interrogatori o altri test di Dna, frattaglie di prove o testimoni dell'ultimo secondo. E l'ultima speranza si culla nel profilo genetico della salma di Giuseppe Guerinoni, l'autista di Gorno morto nel 1999. E che secondo gli inquirenti potrebbe essere il padre naturale dell'assassino di Yara. Un ragazzo nato da un rapporto clandestino e che forse neppure lui aveva mai conosciuto.
La madre di Yara scrive a Napolitano e critica le indagini sul caso.
La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.
Dolore e sconforto. Sentimenti troppo forti per continuare a rimanere chiusi a doppia mandata nel proprio cuore. Scrive Cesare Zapperi, su “Il Corriere della Sera”. Mamma Maura lo ha fatto per quasi due anni, ma adesso non ce la fa più. E lo scrive, in una lettera accorata, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L'assassino di sua figlia Yara non ha volto. Tante le piste, tante le supposizioni, tante le amarezze sopportate dal giorno in cui il corpo della ragazzina è stato trovato in un campo incolto di Chignolo d'Isola. Ma vedere che la Giustizia non approda a nulla è troppo anche per chi non ha mai perso occasione di manifestare fiducia negli investigatori e negli inquirenti. Proprio per questo l'iniziativa è clamorosa. Mamma Maura si rivolge direttamente al Capo dello Stato, come rivelato dalla trasmissione «Quarto grado». Lo fa da semplice cittadina che si rivolge alla massima autorità. Il tono è pacato ma fermo. Le parole misurate, gli aggettivi calibrati. Ma da quelle poche righe emerge forte, senza inutili orpelli, l'insoddisfazione per il modo in cui finora sono state condotte le indagini sull'omicidio di Yara. Senza assumere i toni del «j'accuse», la lettera sottopone a Napolitano i dubbi e le perplessità che più volte sono state sollevate anche dagli organi di informazione. Le diverse piste battute: dal cantiere di Mapello ai sospetti su Mohamed Fikri fino al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto ormai da parecchi anni. La battaglia, legittima certo, ma poco comprensibile all'uomo della strada, tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. I tempi infiniti per avere risposta anche sulle iniziative del proprio legale. Mamma Maura rende partecipe il presidente della Repubblica del dolore provato in questi due anni (Yara fu trovata cadavere a Chignolo il 27 febbraio del 2011) e gli esterna il suo sconforto. Non si aspetta che la soluzione arrivi dal Quirinale. Non cerca a Roma le risposte che tardano ad arrivare (se mai arriveranno) da Bergamo. È lo sfogo di una cittadina amareggiata e delusa. Il grido di dolore di un'intera famiglia che ha sempre tenuto un atteggiamento molto composto. I Gambirasio hanno dovuto farsi forza. All'inizio non avevano voluto nemmeno affidarsi a un avvocato, come pure qualcuno aveva consigliato loro anche solo per mantenere il controllo sull'operato degli inquirenti. Poi, si erano convinti ad affidarsi ad Enrico Pelillo, il legale che dal momento in cui fu effettuata l'autopsia li segue. Ed è toccato a lui sollecitare, come parte lesa, il pubblico ministero ad effettuare nuovi accertamenti. Di qui anche la soluzione di affidarsi a un consulente del calibro dell'ex ufficiale del Ris di Parma, Giorgio Portera, che ha portato nuovi elementi all'attenzione degli inquirenti. Ma era stata proprio Maura Gambirasio ad esternare, rompendo il silenzio fin lì rigorosamente osservato, in aula davanti al giudice per le indagini preliminari Ezia Maccora, lo sconcerto per la mancata verifica delle traduzioni della frase di Fikri che hanno ingenerato più di un sospetto. «Posso dire una cosa?» si era fatta avanti con tono fermo in Tribunale. «Da mamma mi chiedo com'è possibile che le traduzioni siano così diverse», aveva chiesto rivolgendosi al giudice. Un paio di mesi prima, ancora lei aveva sussurrato: «Se questo ragazzo non c'entra nulla, sarò io la prima a chiedergli scusa». E invece, rimane ancora tutto aperto. Il pubblico ministero che vuole l'archiviazione del marocchino. Il gip si oppone. E il mistero, insieme al dolore di una madre e di una famiglia, rimane profondissimo.
La madre di Yara, insomma, avrebbe manifestato tutto il dolore e lo sconforto perché, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia, scrive “Il Secolo XIX”. "Cosa è successo quel giorno a Brembate? Qualcuno ce lo dovrà dire?''. E' questo il commento del sindaco Stefano Locatelli alla notizia della lettera scritta dalla madre di Yara Gambirasio al Presidente della Repubblica per lamentare l'assenza di risultati e le piste nulle dell'inchiesta. ''Una cosa è la fiducia, dei cittadini come della famiglia, che non è mai venuta meno, un'altra è produrre delle risposte'', ha detto il sindaco, che già in passato aveva con forza auspicato che venisse chiarito l'accaduto. ''Ringraziamo tutti per il lavoro svolto - ha proseguito - ma è legittimo chiedere risposte, capire dove si è sbagliato e dove si sono fatti dei passi avanti, capire se le risorse spese sono state bene o male indirizzate''. Il primo cittadino ha precisato che «non chiediamo giustizia e non abbiamo rabbia, ma è ovvio che chi era a capo delle attività renda conto, bisogna capire cosa non ha funzionato, se il caso è chiuso o se si può ancora arrivare alla verità. Non sapevo della lettera, ma possibile che bisogna sempre fare appelli? Ognuno faccia il proprio dovere, e se qualcuno ha sbagliato ci sono quelli preposti a valutare».
Infine, Locatelli ha ricordato come Napolitano «fu sin da subito vicino alla comunità», tanto che «telefonò nei primi mesi delle indagini per esprimerci la sua vicinanza dopo alcune polemiche seguite al fermo di Fikri».
POLIZIOTTI ALLE SLOT, NON PER STRADA.
In divisa, durante gli orari di servizio, con la «pantera» parcheggiata lì fuori. Così scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera”. Poliziotti della squadra Volanti che, anziché presidiare la città, se ne stavano in sala giochi a tentare la sorte con le slot machine. Non è successo una sola volta, ma per almeno 9 giorni (10 quelli monitorati), anche due volte nella stessa giornata. E non erano i soli. A volte c'erano anche tre militari dell'esercito. Contestazioni contenute in un'inchiesta destinata a sollevare un polverone in via Noli, questura. Agenti e militari sono stati ripresi dalle telecamere interne ed esterne della «Fair play» di via Borgo Palazzo 226 e della «Merkur win» di via San Bernardino 110. Immagini ritenute inequivocabili dal pubblico ministero Giancarlo Mancusi, che ha messo sotto inchiesta undici persone. Sette sono agenti delle Volanti, uno è un poliziotto dell'ufficio immigrazione «in prestito» alla squadra del pronto intervento per carenze di organico, altri tre sono militari del primo reggimento trasporti, esercito (insieme a un agente formavano la pattuglia mista). Per quattro di loro sono state eseguite le misure cautelari del divieto di dimora a Bergamo. Significa niente casa e niente lavoro in città. Sono G.F., 49 anni (l'agente dell'ufficio immigrazione); S.A., 48 anni; A.I., 30 anni, e C.B., 34 anni (questi tre delle Volanti). La notifica dei provvedimenti ieri mattina. Occhi sgranati e colpo incassato in silenzio. Fino al giorno prima, gli agenti erano tranquillamente al lavoro, con tanto di pranzo in mensa. Hanno frequentato le sale gioco durante il servizio più degli altri, hanno un grado superiore agli altri e, vale per l'agente «in prestito», aveva un ruolo guida della pattuglia mista: motivi che hanno fatto scattare le misure. Ma a tutti gli indagati viene contestato il concorso: sapevano che le capatine alle slot non erano isolate, tacendo sono stati complici e il silenzio dell'uno ha rafforzato il comportamento degli altri. I reati contestati sono due. La truffa ai danni dello Stato e l'abbandono del servizio previsto da una specifica legge sulla polizia di Stato (l'articolo 73 della 121/81). Più una serie di aggravanti: il numero dei concorrenti nel reato, aver abbandonato il posto di lavoro durate un servizio di pubblico soccorso e, in alcune occasioni, aver interrotto il pattugliamento nell'area assegnata. Bergamo, infatti, è divisa in cinque zone di controllo: quattro assegnate alla polizia e una ai carabinieri. Capitava che per raggiungere la sala giochi, gli agenti sconfinassero dall'area loro assegnata, lasciandola scoperta, ad un'altra. Si sa che le pattuglie scarseggiano, è un problema più volte segnalato dai sindacati di polizia. L'assenza di due, ma anche solo di una e anche solo per mezz'ora, significava quindi togliere tempo e uomini al controllo del territorio. L'indagine è partita da una segnalazione, probabilmente una soffiata in casa questura. Veleno sui colleghi, oppure verità? Spunto da verificare. Ci ha pensato la squadra Mobile, sempre famiglia di via Noli, ma su un altro piano. Ha acquisito le immagini delle telecamere delle due sale giochi, a partire dal 15 ottobre e per una decina di giorni. Filmato dopo filmato, gli agenti hanno collezionato immagini che lasciano poco margine al dubbio: poliziotti in divisa ripresi, non solo mentre entravano nelle sale giochi quando non c'erano esigenze di servizio - almeno secondo una prima verifica -, ma anche mentre tentano la fortuna infilando i gettoni nelle macchinette. A tutte le ore. Alle 7 del mattino, così come la notte. A volte una sola pattuglia, in almeno un'occasione due, vale a dire quattro agenti. In altre immagini è spuntata la cosiddetta pattuglia mista: tre militari più un poliziotto che, in un caso, sono stati ripresi nel locale due volte nello stesso giorno, per una permanenza totale di un'ora e mezza. Non tutti giocavano. Qualcuno se ne stava a guardare o a chiacchierare con il personale del locale. Tutti, comunque, senza circospezione. Secondo le contestazioni, quattro erano i più assidui giocatori. Motivo per il quale il pm ha ravvisato l'esigenza di toglierli dal servizio. Quindi la richiesta di misura cautelare sottoposta al giudice delle indagini preliminari, che ha accolto in pieno l'istanza. Ieri mattina gli agenti si sono visti notificare i provvedimenti. Ci sono state anche delle perquisizioni. A questo punto la palla passa agli indagati. Malati di gioco? Lo spiegheranno loro. Intanto, il giudice delle indagini preliminari ha 10 giorni di tempo (più delle 48 ore nel caso di detenuti) per interrogare gli agenti sottoposti a misura cautelare. Resta un quesito: nessuno, clienti e gestori, si è posto il problema? Altro nodo da sciogliere.
PARLIAMO DI SPRECHI. “Il Corriere della Sera” pubblica: “Una scorta costata 900 mila euro”. E’ stato tolto il presidio fisso di otto uomini delle forze dell'ordine dalla villa di Roberto Calderoli, sui colli di Mozzo, in provincia di Bergamo. Il servizio vedeva impegnati ogni giorno otto uomini tra carabinieri, poliziotti e finanzieri, che dovevano restare di guardia davanti alla villa anche quando l'ex ministro leghista non era presente. Il presidio fisso era stato disposto dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica di Bergamo, essendo Calderoli nel mirino degli estremisti islamici fin dal 2006, a seguito della famosa vicenda della maglietta con la caricatura di Maometto. Oltre agli 8 uomini del presidio fisso, Calderoli dispone anche di una scorta personale (che è stata mantenuta) formata da altri 8 agenti, quattro a Roma e quattro a Bergamo. Un servizio che aveva scatenato le proteste dei sindacati di polizia Ugl e Siulp, visto che negli ultimi due anni era costato 900 mila euro.
BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
L'omicidio di Yara, romanzo nero in Val Seriana. Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, nel bergamasco, tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riusciata a scalfire il muro del silenzio, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Me no. Io no. Per una frase così breve, pronome personale e negazione, è comprensibile anche l’ostico dialetto bergamasco. «Me no» è il ritornello secco, definitivo, quasi ostile che è stato colonna sonora delle ricerche dell’assassino di Yara Gambirasio. Almeno per le orecchie di un maresciallo che si è scontrato, giorno dopo giorno, porta dopo porta, per mille e più porte, con quella che in Sicilia chiameremmo omertà e che, salendo la latitudine, si addolcisce nella più accettabile “riservatezza”. «Me no» è stata la risposta standard opposta alla perenne domanda, declinata in tante sfumature, “sai qualcosa?”. Finché lentamente, colpo dopo colpo, si è aperta una breccia nel muro della diffidenza. Va bene la scienza, il Dna, le compatibilità genetiche, l’allele raro, i laboratori, ma, parallelamente, per venirne a capo, ci sono voluti il sudore artigianale, le scarpe consumate, la pazienza, l’ostinazione. Insomma l’indagine vecchio stile sul territorio, quella basata sulle confidenze, le mezze ammissioni, le connessioni da interpretare, le tessere di un mosaico che si incastrano e vanno al posto giusto. Per raccontare questo lato meno noto dell’indagine bisogna tornare all’ottobre scorso. Yara è stata uccisa da quasi tre anni. Da uno gli inquirenti sanno chi è il padre dell’assassino. Ci sono arrivati grazie a un mix di tenacia e fortuna. Isolata una traccia di Dna maschile (battezzata “Ignoto 1”) sugli slip e sui leggings della tredicenne hanno disposto il più esteso screening di massa della storia italiana, 18 mila campioni raccolti. Compresi quelli dei frequentatori della discoteca “Sabbie Mobili” di Chignolo d’Isola, che si trova accanto al campo dove è stato rinvenuto il cadavere. Sorpresa: un cliente del locale da ballo, Damiano Guerinoni, innocente, bene precisarlo subito, condivide con “Ignoto 1” il ceppo familiare per via paterna. Di parente in parente sono risaliti allo zio, Giuseppe Guerinoni, di Gorno, autista di autobus, morto nel 1999 a 60 anni, sposato con due figli, pure completamente estranei. Eppure è lui, per la scienza, il padre del presunto killer al 99,99999987 per cento. Un figlio illegittimo, è il sospetto. Corroborato da quanto affermato da Vincenzo Bigoni, collega di Guerinoni: «Mi confidò che aveva messo nei guai una ragazza di San Lorenzo di Rovetta. Sarà stato all’inizio degli anni Sessanta». Verità nella sostanza, ma alcuni dettagli sbagliati, il periodo, il luogo, allontanano la soluzione. Torniamo all’ottobre 2013 scorso. Gli inquirenti, più che brancolare nel buio, sono appesi a una provetta. Quasi peggio, psicologicamente: sei a un passo e non procedi mai. Chignolo d’Isola, Brembate Sopra (il paese di Yara), sono all’inizio della pianura bergamasca a ridosso del capoluogo. Gorno, San Lorenzo di Rovetta, una cinquantina di chilometri più su, Alta Valle Seriana, dintorni di Clusone. È là che viene custodito il mistero. Là bisogna vincere il muro di gomma. Letizia Ruggeri, il pm, ha nella sua squadra di polizia giudiziaria un maresciallo dei carabinieri, Giovanni Mocerino, 58 anni, originario di Afragola (Napoli). A 20 anni, vinto un concorso alle poste, si è spostato a Varese. Vita impiegatizia? Non faceva per lui. Sente la vocazione della divisa, entra nell’Arma e prende servizio proprio a Clusone, inizio degli anni Ottanta. Lì ancora abita e fa la spola con Bergamo. Chi meglio di lui, una faccia nota, rassicurante, per penetrare nei segreti di questa “Twin Peaks” orobica, con molte similitudini con la famosa serie tv americana di David Lynch? Anche qui c’è l’omicidio di una ragazza, seppur avvenuto altrove, anche qui c’è da far affiorare il lato oscuro di una comunità di montagna. E l’agente speciale Dale Cooper è un signore dall’aria paciosa, giacca cravatta, capelli e barba bianchi: Mocerino appunto. Il maresciallo ha un nucleo forte dal quale partire, Giuseppe Guerinoni. Da quel centro irradia le ricerche. I congiunti, i colleghi, gli amici, i passeggeri dell’autobus. Il suo è un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Alta Valle Seriana degli anni Sessanta - Settanta, in quel mondo che usciva dalla miseria ed entrava, a pieno titolo, nel boom con le fabbriche cresciute attorno al fiume Serio per alimentare, oltre al benessere, il mito della laboriosità bergamasca. Ma si scontra con quella sequela infinita e scoraggiante di «me no». Un’indisponibilità per timore di violare la privacy e rovinare famiglie che finisce per equiparare, nel tetragono mutismo, un adulterio a un omicidio. Però va avanti, Mocerino, convinto che non ci possa essere segreto così impenetrabile da resistere alla sua cocciutaggine. Diverse volte crede di esserci arrivato per una coincidenza di indizi: donna, dell’età giusta, della zona giusta, e con un figlio illegittimo. Ma è il laboratorio di genetica a smontare l’illusione, a strozzare in gola un urlo di vittoria che un Paese intero attende. Perché Yara è uno di quei casi di cronaca nera che eccedono se stessi e diventano metafora della capacità di uno Stato di esercitare la giustizia. Tanto più ora che la tecnologia mette a disposizione strumenti prima impensabili. Tanto più ora che si è arrivati “a tanto così” e non si può subire l’onta di una beffa. Passa però l’autunno 2013. Si entra nel quarto anno dal delitto e niente succede. L’inverno copre di neve i monti delle Orobie e il maresciallo non molla. Va di bar in bar, di casa in casa, offre e si fa offrire caffè. Scende a Bergamo per riferire a Letizia Ruggeri. Niente. Solo un congruo numero di corna scoperte e che erano state cristianamente sepolte nell’oblio. Tornano verdi i prati dell’altopiano di Clusone, fiorisce la primavera e, quando diventa tardiva, ecco la svolta. Per sublimare la quale bisogna lasciare la fiction di “Twin Peaks” e scomodare la grande letteratura per le assonanze con “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne (nella trama, un adulterio) e soprattutto con “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, quel documento che stava sotto gli occhi degli investigatori ma che nessuno vedeva. Perché, come scopriremo, la madre del presunto killer che tutti cercavano era la vicina di casa del padre biologico. E il testimone chiave il vicino di casa del nostro maresciallo. Siamo ai primi di giugno, dunque, e Mocerino si rimette per l’ennesima volta faccia a faccia con Antonio Negroni, il vicino appunto, nonché un anziano autista come Guerinoni. Esce, da quel colloquio, il nome di Ester Arzuffi. È il precipitare verso l’epilogo. L’Arzuffi era stata censita tra le 584 donne che erano entrate in contatto, a qualunque titolo, con Giuseppe Guerinoni, tanto che già nel 2012 era stata sottoposta al test del Dna. Qui due versioni opposte entrano in collisione. Una vuole che quel campione fosse tra i 4 mila (su 18 mila) ancora da analizzare, l’altra che fosse stato vagliato ma sia stato commesso un errore. In ogni caso il 13 giugno i laboratori danno il responso: è la madre di “Ignoto 1”. Due giorni dopo suo figlio Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, muratore, viene fermato per un controllo stradale e sottoposto all’etilometro, lo stratagemma escogitato per prendergli il Dna. Arriva il responso atteso: è lui. E viene incarcerato, 16 giugno, con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio. Non si capisce tanta fretta se non coniugandola alla lunga attesa. Per irrobustire l’apparato accusatorio (in aula il Dna non basta) si poteva mettere sotto controllo il telefono, fargli capire che era braccato, aspettare il passo falso. È sempre facile, a posteriori, riprendere il filo degli indizi e rammaricarsi degli sbagli, del tempo perso. In questo caso con qualche ragione decisiva, scritta nelle biografie degli amanti di allora, Ester Arzuffi e Giuseppe Guerinoni. Lei, classe 1947, è originaria di Villa D’Ogna, a ridosso di Clusone, un paese che al censimento del 1971 denuncia 1727 anime, dove tutti si conoscono e dove non passa certo inosservata l’intrigante Ester con gli occhi color del cielo. Non ha ancora 20 anni, nel 1967, quando si sposa con Giovanni Bossetti e va con lui ad abitare a Ponte Selva, frazione di Parre, grumo di case sul ciglio di alcuni tornanti in salita. Il vicino di casa è proprio Giuseppe Guerinoni, l’autista, al quale l’ingenuo marito affida il compito di portare tutte le mattine la moglie al lavoro alla manifattura “Festi-Rasini” di Villa d’Ogna, distante cinque chilometri, e che a quell’epoca impiegava centinaia di operaie. Davanti alla fabbrica c’era (c’è ancora) un bar dove si attardava la trentina di autisti in attesa della fine dei turni e dove capitava spesso che quei conducenti e quelle ragazze si mischiassero per una canzone al jukebox, l’accenno di un ballo. Giuseppe Guerinoni ha otto anni più di Ester, è «ö bel òm», un bell’uomo anche nel ricordo attuale di chi lo conobbe e quanto duri quel legame è impossibile sapere dato che lui non c’è più e che lei lo nega contro l’evidenza scientifica. Di certo alcune centinaia di persone potevano sospettare della liaison su quel fazzoletto di terra dove ognuno si fa gli affari propri anche se tutti conoscono gli affari degli altri. Sono ancora vive e in salute molte delle operaie della “Festi-Rasini” che li vedevano comparire insieme, tutte le mattine per almeno un paio d’anni. E poi Vincenzo Bigoni. Ricordate? È l’autista che sbaglia la data e il luogo, ma è amico di tutti e tre, lei, lui e l’altro. E di cui adesso gli inquirenti dicono: «Speriamo che davvero lo abbia tradito la memoria...». Comunque sia, nel 1969 Ester e il marito Giovanni Bossetti lasciano la Val Seriana, lui si è stancato del lavoro alla “Pozzi”, hanno deciso di prendere l’auto e di fermarsi dove troverà una nuova occupazione, allora funzionava così: sarà la“Philco” di Brembate Sopra. Si sono trasferiti da un anno, è l’autunno del 1970, quando nascono due gemelli, Massimo, l’incriminato per l’omicidio, e Laura, riconosciuti dal Bossetti ma figli naturali dell’autista di Gorno per il Dna. E si può dunque dedurre che la storia fedifraga sia continuata almeno un po’. Il segreto di Ester sarebbe stato inespugnabile se le tracce genetiche del figlio non fossero finite sugli slip di Yara provocando il terremoto in una società abituata ai silenzi del monte Presolana e a chiudere le imposte se passa un forestiero, magari per spiarlo da dietro le persiane. Finiranno le dirette tv, i parroci non dovranno più invitare, come fanno in questi giorni, a «pregare e non parlare». Anche se tacere è un’omissione. Chi scrive è della Val Seriana. Nel cortile della mia infanzia abitava una ragazza madre. A chiunque le chiedesse chi fosse il padre rispondeva: «Ön òm coi braghe», un uomo coi pantaloni. Si è portata quel nome nella tomba. Fiera di quel suo essere così bergamasca e così fedele a un giuramento. Ma copriva la sua storia, non un omicidio.
Un po' di chiarezza sulle indagini su Yara. Dna, peli, sangue, auto, furgone. L'inchiesta su Massimo Bossetti si sta complicando, scrive Giorgio Sturlese Tosi su “Panorama”. L'inchiesta sul delitto di Yara Gambirasio è tutt'altro che conclusa. Lo ha detto il pubblico ministero Letizia Ruggeri, il 20 giugno scorso, in una conferenza stampa senza precedenti (nell'ex aula di Corte d'Assise di Bergamo, con autorità costrette in piedi per il tutto esaurito). E se lo dice la pubblica accusa c'è da crederci. Anche perché non tutto è filato liscio in questa indagine che rimarrà negli annali della storia criminale. Come pure peseranno, nel processo a carico di Massimo Bossetti, le liti, le discrepanze e alcuni passaggi ancora oscuri della vicenda sul come si è giunti fino a lui. Lo scoop di Alfano. Placata la tempesta di polemiche sul ministro dell'Interno Angelino Alfano, che nella foga di divulgare la notizia dell'arresto di Massimo Bossetti ha anticipato anche la sentenza ("Individuato l'assassino di Yara Gambirasio", tweet delle 18.24 del 16 giugno), oggi è possibile ricostruire i retroscena di un arresto istituzionalmente rocambolesco. Con la procura che pianifica il blitz nel cantiere di Seriate assieme ai carabinieri, riservandosi di avvertire la Polizia solo all'ultimo minuto utile perché qualche agente, recuperato nei corridoi oziosi della questura del tardo pomeriggio, indossi la pettorina di nylon con la scritta "Polizia" ben evidente e si precipiti al cantiere. Tra loro anche quell'agente, più probabilmente un funzionario, che si premura, doverosamente, di tenere informati i suoi vertici. E di vertice in vertice... Intanto, però, una cronista del corriere di Bergamo aveva fiutato l'agitazione degli investigatori. Si precipita fuori dalla redazione ma sbaglia valle e, mentre cerca affannosamente conferme al telefono, Alfano le brucia lo scoop della carriera. Toghe in guerra. lo scontro non è solo tra organi dello Stato. Da anni, a Bergamo, sul caso Yara, procura e tribunale sono in guerra. Da quando il gip Ezia Maccora ha rifiutato a più riprese la richiesta di archiviazione del marocchino Mohamed Fikri chiesta dal pm Letizia Ruggeri. Oggi lo scontro si ripete, con lo stesso pubblico ministero che arresta indicando, tra le motivazioni del fermo, anche il pericolo di fuga dell'indagato. E lo stesso gip che, non potendo scarcerare l'uomo il cui Dna era sugli slip di Yara, "non convalida il fermo di Bossetti Massimo Giuseppe perché illegittimamente disposto" ma, al contempo, "applica la misura cautelare in carcere". Questione di lana caprina, si dirà. Dispettucci tra uffici giudiziari. In realtà sintomatici e forse anticipatori di possibili schermaglie in punta di diritto almeno nella fase predibattimentale del processo. Cortocircuito tra periti. Sul corpo di Yara, nel campo di Chignolo d'Isola, furono repertati centinaia di peli e capelli. Nella rincorsa ad individuare il proprietario del Dna, Ignoto 1, queste formazioni pilifere erano state messe da parte. Solo grazie alle ripetute richieste dei consulenti della famiglia Gambirasio, e dopo un altro scontro tra gip e pubblico ministero, i capelli sono arrivati all'istituto di Medicina legale dell'Università di Pavia, incaricato di estrapolare i profili genetici da peli e capelli. Un lavoro improbo, reso ancor più difficile dal numero di peli animali e dal deterioramento dei reperti che, dopo tre mesi agli agenti atmosferici, hanno perso parte del patrimonio biologico. A sorpresa, nei giorni scorsi, il direttore dello stesso dipartimento, il professor Fabio Buzzi, in un'intervista, dichiara inequivocabilmente che in quei peli c'è il Dna di Ignoto 1, cioè di Massimo Bossetti. Come dire, per Bossetti, "fine pena mai". Le affermazioni del professor Buzzi però, confermate a più riprese e su vari organi di stampa, provocano imbarazzo, non solo in procura. I cronisti cercano di contattare il pm Ruggeri, irraggiungibile. Trovano allora, al cellulare, il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori che, colto per strada a Milano, risponde che non gli risulta. Più preciso, nelle ore successive, il dottor Carlo Previderè, genetista incaricato della perizia che sta svolgendo nei laboratori diretti dal professor Buzzi. Che all'Ansa dichiara: "La notizia circa la corrispondenza di una formazione pilifera all'indagato è totalmente priva di fondamento". Fine? No, perché poco dopo lo stesso dottor Previderè chiede un mese di proroga per depositare la perizia in procura. La stessa perizia che per il suo direttore sarebbe stata consegnata "a giorni". Il Dna dei misteri. E poi c'è quel Dna, la prova regina. Quella lasciata da Bossetti sugli slip e sui leggings di Yara. Come ci si è arrivati davvero? Il pm Ruggeri, in conferenza stampa, ha ammesso che il Dna della madre di Bossetti era stato prelevato già nel 2012, nell'ambito di quelle ricerche a tappeto nelle valli bergamasche volte ad individuare la madre di Ignoto 1, dato che era risultato essere un figlio illegittimo di madre ignota. Il pm Ruggeri, sempre in conferenza stampa, aggiunge anche che il cellulare di Bossetti, assieme a quello del fratello, era stato agganciato dalle celle telefoniche che irradiano il segnale nei luoghi dove Yara è scomparsa. Insieme ad altri 120 mila utenti. Che sarebbero stati tutti sottoposti a prelievo di Dna, anche ci fossero voluti dieci anni. E invece un pettegolezzo di un anziano della val Seriana, confidato ad un maresciallo del posto, ha portato alla svolta, permettendo di individuare, in poche ore, il presunto assassino. Ma con cosa fu comparato il Dna della madre di Bossetti? Secondo alcune indiscrezioni quel Dna faceva parte di un lotto di campioni che per errore sarebbero stati confrontati non con quello di Ignoto 1, bensì con quello dei Gambirasio. Vero? Oggi nessuno lo vuole confermare ufficialmente. Perché è il momento di distribuire la meritata gloria a chi, magari anche commettendo qualche errore, ha collaborato ad un'indagine che più complessa non si può. E, sempre a proposito del dna di Bossetti su Yara, di che si tratta? Sangue, saliva, o altro? Gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Silvia Gazzetti, vogliono saperlo. Perché, dicono, la sua origine potrebbe svelare dinamiche e responsabilità di un delitto ancora tutto da chiarire.
26 novembre 2010, la scomparsa - 26 febbraio 2011. Yara, finita la speranza. Come Sarah Scazzi di Avetrana, i fratellini di Gravina di Puglia, Ciccio e Tore, Elisa Claps ed Ottavia de Luise di Potenza. Come migliaia in Italia.
Trovato il corpo: era a 300 metri dal Centro delle ricerche. Incredibili analogie col caso dei fratellini di Gravina, trovati morti in un pozzo, nel centro del paese, dove nessuno aveva guardato.
E’ andata in onda l’8 febbraio 2012, un nuovo appuntamento con Chi l’Ha Visto?, la trasmissione di Rai Tre condotta da Federica Sciarelli, che tratta casi di cronaca e di scomparsa. E’ andato in onda un interessante resoconto sul caso di Yara Gambirasio: oltre allo sfogo di Belotti è stata mostrata la lettera di due sostenitori delle forze dell’ordine che esprimono tutto il loro dispiacere per come sono state condotte le indagini fino a questo momento. Le perplessità sulle indagini del caso Yara Gambirasio hanno visto protagonista anche l’assessore regionale Daniele Belotti, il quale si è detto poco convinto di quello che è successo fino ad ora, le indagini sarebbero costellate di errori e ciò sarebbe anche dovuto alla storica rivalità tra polizia e carabinieri. Tutto sarebbe partito dalle dichiarazioni di alcune persone alle quali sarebbe stato prelevato il DNA: ebbene ad alcuni sarebbe stato chiesto il prelievo per il DNA per ben due volte (sia dalla polizia che dai carabinieri), segno che le due forze non starebbero collaborando. Se così fosse si spiegherebbero alcune cose: il ritardo nelle indagini, le incongruenze e i quasi 10mila prelievi per esame del DNA che hanno portato (ancora oggi) a scarsi risultati. A Chi l’Ha Visto è stato fatto il punto sulle indagini del caso e ancora una volta ci si è chiesti come mai si brancoli ancora nel buio. Perplessità anche sul comportamento del pm, colpevole di non aver voluto consentire alla famiglia di Yara Gambirasio l’accesso ai documenti delle indagini ma anche di aver stabilito troppo presto il dissequestro del campo dove la piccola Yara è stata ritrovata.
A Chi l’ha visto” continuano ad arrivare, da varie zone d’Italia, segnalazioni di persone che vivono lontano da Brembate alle quali gli inquirenti hanno chiesto un campione di Dna. Altre, invece, pur avendo avuto a che fare con la palestra di Yara proprio nel giorno dell’omicidio, hanno contattato il programma per dire che non sono state interpellate. Dopo che la famiglia Gambirasio ha nominato un legale e un consulente genetico, il prof. Giorgio Portera, biologo e genetista forense dell’università di Milano, dubbi sulle indagini sono stati espressi clamorosamente da una raccolta di firme. È stata lanciata dall'assessore regionale lombardo a Territorio e Urbanistica Daniele Belotti, che ha deciso di inviare al ministro della Giustizia Paola Severino e per conoscenza al vicepresidente del Csm, al procuratore generale della Corte d'Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, la richiesta di sostituire o "in alternativa" affiancare al pubblico ministero Letizia Ruggeri "un pm di provata esperienza e capacità". Nel documento sono citati "l'affrettato dissequestro dell'area in cui è stato ritrovato il corpo, il mancato sequestro" e la mancata "perquisizione dell'auto e del furgone con cui Mohammed Fikri e i suoi amici si erano imbarcati diretti a Tangeri; il mancato controllo su un centinaio di operai stranieri che lavoravano al cantiere di Mapello; la mancata richiesta di rogatoria internazionale in modo da poter verificare se il telefonino di Yara fosse stato utilizzato all'estero; la mancanza di coordinamento tra le varie forze dell'ordine", tanto che "diversi Dna risulterebbero essere stati raccolti due volte, sia dai carabinieri che dalla polizia". Belotti ha anche definito "inspiegabile” il diniego opposto alla richiesta fatta dal prof. Portera, a nome della famiglia Gambirasio, di poter accedere agli atti dell'inchiesta. Intervistato da “Chi l’ha visto?”, il consulente di parte ha detto che la famiglia di Yara, pur mantenendo la massima fiducia negli inquirenti, vuole sapere che cosa è stato fatto finora dal punto di vista scientifico e non ha accolto positivamente il rifiuto. Portera ha ribadito che la richiesta, fatta come parte offesa, ha uno scopo collaborativo e che continua a sperare possa essere accolta al più presto.
Acceso dibattito, anche nella puntata del 3 febbraio 2012 del ciclo di "Quarto Grado", in merito al caso di Yara Gambirasio ed alla richiesta di sostituzione o affiancamento del pm titolare delle indagini, Letizia Ruggeri, fortemente criticata per la gestione dell'inchiesta, nella quale sarebbero stati accumulati ritardi, malfunzionamenti ed errori. Di fatto, le indagini sull'omicidio della tredicenne di Brembate sono comunque ad un punto fermo, né si comprende, al momento, che direzione intendano prendere. Tema conduttore della puntata, la petizione dell'assessore regionale della Lombardia a Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti, il quale si è fatto promotore della petizione indirizzata al ministro della Giustizia, Paola Severino per sostituire il pm che indaga sulla morte di Yara o l’affiancamento di un magistrato di provata esperienza, per scoprire la verità. Nella vicenda è intervenuta anche la Associazione Nazionale Magistrati, che ha preso le parti del pm Ruggeri, ritenendo assolutamente inopportuna l'iniziativa dell'assessore Belotti, ma fatto sapere anche di non voler prendere una posizione sulla gestione del caso Gambirasio, in quanto caso delicatissimo e tutt'ora in corso. Un'intromissione sarebbe lesiva della deontologia professionale. Ma le adesioni alla petizione stanno però aumentando giorno dopo giorno, soprattutto da parte di sindaci di molti paesi ed esponenti politici che condividono questa posizione.
Yara, il pm Ruggeri querela Belotti "Procederemo per diffamazione". Secondo “Il Giorno” la denuncia non è ancora stata inviata alla Procura di Venezia, ma il pm Letizia Ruggeri querelerà per diffamazione l’assessore regionale leghista Daniele Belotti, che ha lanciato una petizione fra gli amministratori bergamaschi per chiedere la sostituzione o, in alternativa, l’affiancamento con un pm di «provata esperienza», del sostituto procuratore che coordina le indagini sul delitto di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui cadavere venne ritrovato tre mesi dopo, il 26 febbraio del 2011, in un campo incolto di Chignolo d’Isola. Il magistrato non ha gradito soprattutto la frase in cui, parlando di lei, si scrive «conferma, purtroppo, un basso profilo sia tecnico che morale per un caso di simile rilevanza». La conferma arriva dal legale del magistrato, l’avvocato Roberto Bruni. «L’intenzione della dottoressa Ruggeri è quella di procedere con la querela - spiega -. Ho letto, inoltre, che Belotti vuole inviare la petizione anche al ministro della Giustizia, al presidente del Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni. E questo fatto, secondo me, costituisce un’ulteriore diffamazione, in quanto altre persone verrebbero a conoscenza della frase ingiuriosa». Dal canto suo Daniele Belotti annuncia che andrà avanti con la sua iniziativa. «Anche stamattina - sottolinea - mi sono arrivate le adesioni di diversi amministratori. Ma confermo che la petizione la firmerò solo io. Pentito per quella frase? Assolutamente no. Il mio è stato uno sfogo, dettato dalla delusione e dalle modalità con cui il magistrato ha negato alla famiglia, con solo tre righe di spiegazione, l’accesso agli atti delle indagini. Sono convinto che anche l’aspetto umano abbia un valore. Mi riferivo, insomma, al caso specifico, alla condotta specifica, non certo alla persona della dottoressa Ruggeri, che neppure conosco. Molte e-mail che ho letto in questi giorni mi danno ragione e mi invitano a non desistere». «Per quanto riguarda, invece, l’intervento dei giudici che hanno ricordato che un intervento della politica sulla magistratura non ha senso e non è previsto dall’ordinamento, do loro ragione - conclude Belotti -. È tutto vero, ma mi chiedo anche se deve arrivare un assessore regionale a metterci la faccia prima che la giustizia si muova per dare un supporto al pm del caso Yara». Belotti respinge invece l’accusa di aver dato vita all’iniziativa per ottenere visibilità politica. «A chi dice questo, rispondo che quando si intraprendono certe azioni la visibilità è niente rispetto ai rischi che si corrono. Ho sentito in forma anonima molti agenti di polizia che condividono tanti miei dubbi. Se tanti la pensano così, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo, significa che i rischi sono molti».
Il tenue filo a cui erano ancora aggrappate le speranze dei genitori di Yara Gambirasio si è spezzato nel pomeriggio di sabato 26 febbraio 2011, quando è stato rinvenuto il corpo senza vita della 13enne scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate Sopra. Il cadavere della ragazzina, praticamente scheletrito, giaceva in un campo in località Madone, a pochi chilometri da casa sua, in un'area incolta, in prossimità del Centro di coordinamento delle ricerche che dista neppure 300 metri dal luogo del ritrovamento. Il corpo della tredicenne è stato rinvenuto in una campo tra Madone e Chignolo d'Isola, a una decina di chilometri da Brembate di Sopra, il paese in cui la ragazza viveva con la famiglia, e a poche centinaia di metri dal centro di coordinamento delle ricerche. Era abbandonato in un campo incolto, fra l'erba alta, in posizione supina con braccia e gambe leggermente allargate. Sul collo e sulla schiena, stando a prime informazioni, sarebbero stati trovati segni di un'arma da taglio, forse un coltello. Yara era ferita anche sui polsi, cosa che potrebbe testimoniare un'eventuale colluttazione della ragazzina con il suo o i suoi aguzzini. Le ferite sul corpo dell'adolescente, però, potrebbero anche essere segni dovuti all'azione degli agenti atmosferici sul cadavere. Ed è giallo su come il suo corpo possa essere arrivato in quel campo. C'è chi sostiene che possa essere stato portato lì addirittura nella mattinata. Gli investigatori hanno ascoltato un testimone che dice di aver visto un'auto partire a tutta velocità dal sentiero dove è stato rinvenuto il corpo. Lo stato di decomposizione, però, sembra rendere insostenibile questa tesi. Il corpo si presenta in parte mummificato e in parte scheletrito. C’era anche il porta chiavi e l’apparecchio ortodontico, l'ipod, la sim e la batteria del cellulare che la ragazzina portava al momento della scomparsa. Essendo in stato di decomposizione avanzato, a dire dei primi soccorritori, il cadavere sembrava particolarmente fragile. Gli accertamenti immediati dovranno stabilire se il corpo sia rimasto in quel posto sin dal giorno della scomparsa della ragazzina oppure se vi sia stato trasportato in seguito. La prima ipotesi getterebbe pesanti ombre sul lavoro degli investigatori: in tal caso vi sarebbero analogie col caso dei fratellini di Gravina trovati morti in un pozzo a due passi dal municipio del loro paese e cercati altrove, mentre a tutti sfuggiva quello che avevano sotto il naso.
Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione e il riconoscimento formale è venuto dai genitori Maura e Fulvio Gambirasio, all'istituto di Medicina legale di Milano. E’ stato forse il momento più atroce che mai nessun papà o mamma al mondo sicuramente vorrebbe vivere. Prima di varcare l'ingresso dell’obitorio la signora Maura straziata dal dolore si è rivolta al capo della polizia di Bergamo, il questore Vincenzo Ricciardi: «Perché in questi mesi ci avete detto che Yara era viva? Sulla base di cosa? È stata trovata morta dopo tre mesi. Se per di più il corpo è sempre rimasto nel luogo dove è stato scoperto che cosa vi portava a dire che era ancora viva?» Secondo gli inquirenti è più probabile che Yara sia stata uccisa a coltellate, dopo un tentativo di autodifesa, nelle ore immediatamente successive alla sua sparizione e che il suo corpo sia rimasto tra le sterpaglie di Chignolo d’Isola per i successivi tre mesi. Appunto. In quel campo effettuate soltanto ricerche marginali. Gli inquirenti avrebbero accertato che le ricerche in quel campo furono condotte il 12 dicembre 2010 da un gruppo di circa 15 persone che in quella giornata si occupò delle zone di Bonate Sopra (l'area del tiro al piattello), Terno D'Isola (le aree adiacenti il cimitero) e Chignolo D'Isola (la zona di via Bedeschi). Il gruppo delle ricerche, che comprendeva dieci volontari della Protezione Civile, due carabinieri e almeno un'unità cinofila, si sarebbe diviso in due diverse direzioni: una che portava verso un'area di alberi, alle spalle del campo dove sono stati trovati i resti, e una verso un torrente che scorre parallelo allo sterrato."Pensavo di trascorrere un pomeriggio di distensione, invece la notte non ho dormito. Sono molto scosso, sto male". A parlare è Ilario Scotti, impiegato 48enne di Bonate Sotto, l'uomo che quel sabato pomeriggio verso le 15.30 ha trovato il corpo di Yara Gambirasio a Chignolo d'Isola. "E' stato solo un caso - ripete nell'intervista pubblicata da L'Eco di Bergamo - un caso fortuito. Di solito faccio atterrare l'aeroplanino ai miei piedi, sull'asfalto, non nel prato. Ma l'aereo ha compiuto una traiettoria anomala, non volava bene così l'ho fatto scendere nel campo, per evitare che cadesse e si rompesse". Quel modellino è così finito a terra, a un metro di distanza dal corpo di Yara. "Mi sono addentrato nel campo per recuperarlo - spiega - e quando l'ho trovato, a circa un metro ho notato qualcosa tra le sterpaglie. La prima impressione è di aver visto un mucchio di stracci buttati lì da qualcuno. Ma appena mi sono reso conto che si trattava di una persona ho chiamato il 113". Ilario Scotti conosceva la storia di Yara, ma al momento non pensava fosse la 13enne scomparsa tre mesi prima da Brembate Sopra. "All'inizio credevo si trattasse di un ragazzo, solo dopo l'arrivo degli inquirenti mi sono reso conto che poteva essere lei". La zona è molto frequentata e gli uomini della protezione civile l'avevano già perlustrata: possibile che quel corpo sia rimasto lì tre mesi senza che nessuno lo vedesse? Per l'appassionato di aeroplanini sì. "Se il mio aeroplanino non fosse finito proprio in quel punto non l'avrei mai vista, era nascosta dalle sterpaglie".
A centinaia, intere famiglie con bambini, si avviano in processione verso il luogo dove è stata ritrovata la piccola campionessa di ginnastica ritmica. C’è pietà, c’è dolore, c’è anche pura curiosità, la stessa, inevitabile, che ogni volta, in occasioni del genere alimenta il turismo del macabro, come ad Avetrana. Un altarino improvvisato. Decine di mazzi di fiori bianchi lasciati accanto al nastro che transenna la zona.
A Brembate è in vigore un’ordinanza comunale che vieta ai cronisti di stazionare davanti a quella che è stata la residenza della piccola vittima.
«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.
Critiche su ricerche ed indagini formalizzate da Filippo Facci su “Libero-news”. Un tempo si scriveva: la polizia brancola nel buio. Oggi guai a scriverlo, e infatti nessuno l’ha sostanzialmente scritto per tre mesi: ma qualche parolina sulle indagini - domanda - ora almeno possiamo dirla? Oppure il rispetto sacrale per l’abnegazione dei nostri inquirenti deve esimerci dal giudicare demenziale ciò che ci sembra demenziale? Ieri i carabinieri sono tornati a recintare il terreno di Chignolo sul quale è stata trovata Yara, questo per ordine del pubblico ministero Letizia Ruggeri; ora: lasciamo anche perdere tutta la polemica sui controlli effettuati inutilmente almeno due volte (con i cani) senza che nessuno vedesse nulla, non facciamo innervosire ancora di più la Protezione civile di Bergamo, d’accordo, rispettiamo il silenzio stampa: ma qualcuno ci spiega il senso della cosa? Il sequestro è arrivato soltanto ieri, appunto, dopo il passaggio di decine di persone e troupe televisive: davvero l’analisi del terriccio sarà egualmente efficace e permetterà di capire se Yara sia stata lasciata lì subito dopo il delitto, consumato quasi certamente il 26 novembre, cioè subito, cioè tre mesi fa? E se è vero che i volontari che perlustrarono quella radura non sono sotto accusa, e che nei giorni scorsi sono stati ascoltati solo per poter escludere che Yara possa esser stata trasportata lì successivamente alla morte, diteci, in definitiva perché nessuno si è accorto del cadavere per tre mesi?
La magistratura ha niente da rimproverarsi?
PISTE SUGGESTIVE E VANE
Lo chiediamo non per leziosità, ma proprio perché intanto, per tre mesi, rimiravamo l’impegno di chi organizzava battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, georadar, intercettazioni e rilevazioni satellitari, piste estere, consulenze di genetisti, anatomopatologi, tecniche di reazione a catena delle polimerasi, piste suggestive ma che ora paiono rigirare su se stesse, come in tondo. «Stiamo ascoltando persone già sentite in precedenza» hanno fatto sapere gli investigatori di Bergamo. «Le attività di indagine non si fermano», ripetono. Beh, forse dovrebbero, perché per quanto «è un indagine complessa e stiamo lavorando su tante piste», come hanno pure detto ieri, dalla lista degli indagati non è neppure ancora stato cancellato Mohamed Fikri, l’operaio 22enne subito arrestato e subito rilasciato dopo aver addirittura fermato la nave dove viaggiava. C’è stata la pista dei parenti, degli amici, i tabulati telefonici, la pista dei pozzi, hanno preso il dna praticamente di tutti i pregiudicati del bergamasco, ora dicono - notare - che vorrebbero sottrarre il dna di alcuni soggetti a loro insaputa (per esempio: raccogliendo un mozzicone di sigaretta) e però per farlo occorrerebbe che il sospettato venisse indagato: ma «non ci sono indagati», fanno sapere. Chiaro come nebbia. Possiamo capire?
LE COLPE DEI CRONISTI
Ma certo che la colpa è anche di noi giornalisti: siamo noi che ingigantiamo e pompiamo e dilatiamo ogni singolo caso - ogni singola Yara - e mettiamo dunque una pressione terribile addosso a inquirenti e poliziotti e volontari e tutti quanti, siamo noi che facciamo articoli e servizi anche quando non c’è niente da dire, siamo noi che impieghiamo minuti per dire soltanto «nessuna novità di rilievo» o per rivelare che la famiglia di una ragazzina scomparsa ha ricevuto la visita della zia e della cugina. Siamo anche noi dei soggetti da circo (mediatico-giudiziario, d’accordo), ma non c’è niente di nuovo sotto il sole, in questo. Ci volete più seri? Fateci capire. Dateci una mano.
Altra stoccata su come sono state svolte le indagini viene data da Matteo Pandini e Matteo Magri su “Libero-news”. Il sostituto procuratore di Bergamo Letizia Ruggeri, che indaga sul caso della povera Yara Gambirasio, è andata in ferie due settimane dopo la scomparsa della tredicenne trovata cadavere il 26 febbraio 2011. La ragazzina era stata inghiottita dal buio il 26 novembre 2010, dopo essere uscita dal centro sportivo del suo paese, Brembate Sopra. Era lo stesso giorno, quello, in cui il procuratore della Repubblica di Bergamo Adriano Galizzi festeggiava le ultime ore di lavoro prima di andare in pensione dopo 49 anni di brillante carriera nella magistratura. Quella sera, il caso finisce sulla scrivania della dottoressa Ruggeri. Gli inquirenti si tappano la bocca e iniziano a lavorare immediatamente. Ben sapendo che i primi giorni sono quelli che spesso risultano decisivi per risolvere i casi. Sembrava fosse così anche per il dramma di Brembate Sopra, visto che sabato 4 dicembre viene bloccato un marocchino di 23 anni, Mohamed Fickri. Era su un traghetto salpato da Genova. Le accuse sono pesanti: sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Lunedì 6 dicembre è interrogato dal gip e dal pm Ruggeri nel carcere di via Gleno, ma nel giro di un amen viene rilasciato con tante scuse. L’impianto accusatorio si regge soprattutto su un’intercettazione che si scoprirà essere stata tradotta male. Passano pochi giorni. 10 dicembre. Gli inquirenti rompono il silenzio e organizzano una conferenza stampa nell’ufficio del procuratore aggiunto Massimo Meroni. Arrivano giornalisti da tutta Italia, si fa fatica a trovare spazio, ma i taccuini non annotano una notizia che sia una. Il motivo è semplice: non c’è nulla da dire, al di là di un pronostico che si rivelerà tragicamente sbagliato: «Yara è viva? Per noi sì, non ci sono indicazioni contrarie» afferma Meroni. La Ruggeri già non c’è. Ha salutato tutti per andare in ferie, con la speranza di tornare più rilassata e pronta a risolvere il caso. Purtroppo, le indagini faranno registrare novità solo il 26 febbraio, col ritrovamento del cadavere in un campo di Chignolo d’Isola. A poche centinaia di metri dal comando della polizia locale che era stato trasformato in centro di coordinamento delle ricerche. Da lì, sono piovute critiche contro i molti volontari bergamaschi ritenuti incapaci di scovare il corpicino. Anche loro, effettivamente, si erano presi dei giorni di ferie dopo la drammatica scomparsa della giovane. Ma per cercarla, gratis. Tanto che sono stati difesi dal viceprefetto di Bergamo Sergio Pomponio, mentre il ministro Roberto Maroni ha parlato di «polemiche vergognose». «Dopo la vicenda della piccola Yara i magistrati dovrebbero dimettersi» perchè «se avessero impiegato per le ricerche le stesse risorse e tecnologie che hanno speso per indagare sulle ragazze dell'Olgettina forse Yara sarebbe ancora viva». È quanto afferma Daniela Santanchè, sottosegretario all'Attuazione del Programma, secondo cui la riforma della giustizia è «necessaria e urgente». «Tutti chiedono le dimissioni di tutti - osserva Santanchè -. A Berlusconi per il Rubygate, a Bondi perchè è crollato un muro marcio a Pompei, a Rosi Mauro per la gestione dell'aula del Senato» mentre «perchè - chiede - non si possono chiedere le dimissioni dei magistrati e dei procuratori? Li ha toccati la mano di Dio?». "L'assurdità e il livore che connotano tale dichiarazione - si legge in un comunicato diffuso dagli inquirenti - sono tali che la stessa non meriterebbe alcun commento da parte della Procura di Bergamo." «Rivendico la libertà di critica per un'indagine che si è dimostrata finora inadeguata. La magistratura non può pretendere di avere, oltre all'immunità per i propri errori, il diritto di non vedere il proprio lavoro essere messo in discussione». Così Daniela Santanchè, sottosegretario al Programma di governo, replica alla nota del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, in risposta alle critiche della deputata del Pdl sull'indagine per l'omicidio di Yara Gambirasio. «Mi sorprende che un alto rappresentante di questa casta - prosegue la Santanchè - voglia zittire un rappresentante del governo, quando i suoi colleghi intervengono quotidianamente e pubblicamente su questioni politiche e legislative che non dovrebbero riguardarli. Adesso - conclude l'esponente del Pdl - mi aspetto che oltre al mio silenzio chieda anche le mie dimissioni».
Yara forse è morta di botte, di freddo e di stenti in quel campo dove è stata trovata. E intanto nulla è certo su come, quando, chi è perchè.
Da Andrea Scaglia da “Libero-news” il reportage della conferenza stampa del 16 marzo 2011. "Ora, non è che uno vuol per forza prendersela con gli investigatori: trovare il colpevole di un delitto è faccenda affatto semplice, e il caso della povera Yara è apparso complicato fin dal principio. Però insomma, capita di assistere alla conferenza stampa organizzata dal procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, e certo un po’ basito rimane. C’è da dire che Meroni è il capo della Procura, non colui che ha seguito l’indagine giorno per giorno, ma comunque: come da copione il giornalista inizialmente chiede se c’è una pista, un indizio, anzi una cerchia di persone verso cui s’indirizzano le indagini a tre mesi dall’omicidio, e il magistrato risponde con un secco «no». E in effetti è comprensibile, anche se una traccia ci fosse non sarebbe certo rivelata ai cronisti davanti a microfoni e telecamere. Poi però, dopo aver bacchettato i giornalisti poiché «si è oltrepassata la misura, non è possibile andare avanti per mesi sentendo chiacchiere pubbliche fondate sul nulla», ecco che arriva quell’altra frase che suona se non sprezzante quasi beffarda, «non ci sentiamo di escludere nessun sospetto in tutto il mondo». Cos’è, una battuta?
Ma, ancora, il cronista rimane comunque stupìto da quell’altra risposta. Viene chiesto al procuratore della situazione giudiziaria in cui attualmente si trova Mohammed Fikri, il manovale marocchino inizialmente sospettato del delitto. E il magistrato, quello che si lamenta delle chiacchiere sul nulla, risponde che «Fikri? Non credo che verrà richiamato dal Marocco. Se è indagato? Credo che la collega abbia richiesto l’archiviazione». Credo? Non credo? Ma scusi, a chi bisogna chiedere per sapere qualcosa di certo?
E poi, a tempo scaduto, ecco che il procuratore Meroni ti sfodera l’altra perfomance quasi teatrale. Nel senso che i giornalisti notano sulla scrivania un disegnino scimmiottante quello mostrato dal presidente del Consiglio durante la presentazione dell’annunciata riforma della giustizia: ricordate? C’era la bilancia della Giustizia pendente dalla parte dei pm, a significare quel che secondo il premier è attualmente uno squilibrio nel processo penale a favore dell’organo inquirente. E dunque, il dottor Meroni mostra il disegno, anche questo con la bilancia che pende dalla parte di giudici e pm (e però tra parentesi c’è anche il nome di Yara, mentre dall’altra è scritto “cittadino” con sotto la scritta “presunto aggressore di Yara”. E poi spiega il significato: «La bilancia pende dalla parte di giudici e pm perché sono loro che devono scoprire i reati e che rappresentano le vittime, mentre tra i cittadini ci sono anche persone che li commettono». Come dire in sostanza che è giusta l’attuale impostazione, mentre invece se passasse la riforma del governo anche il delinquente (anzi, il “presunto” delinquente, come scritto nello schemino con un riflesso condizionato tragicamente esilarante) sarebbe messo sullo stesso piano della vittima. E attenzione, non è che sul punto uno deve per forza essere d’accordo con Berlusconi, figuriamoci, ma quest’uscita del magistrato stona malamente, soprattutto per la circostanza. Che poi Meroni è a Bergamo da circa sei mesi: prima esercitava alla Procura di Milano, e all’inizio del 2010 si scontrò - giuridicamente parlando, s’intende - con Niccolò Ghedini, che di Berlusconi è l’avvocato, di cui aveva disposto l’accompagnamento coatto per farlo testimoniare nel processo sull’illecita diffusione delle intercettazioni legate al caso Unipol. In ogni caso, tornando a bilance e giustizie, lo stesso Meroni ha subito precisato che «quel che penso io sulla riforma non è rilevante, questo disegno è qui da quando in tivù è stato fatto vedere l’originale». Ma cos’è, signor giudice, ci prende per scemi? E ti vien da dire che allora è meglio Ingroia: almeno la sua opinione la sbandiera dal palco. Senza tanti disegnini".
"Aspettiamo che gli inquirenti facciano il loro lavoro, ma vogliamo sapere chi ha ucciso Yara". Questo il messaggio lanciato dal sindaco di Brembate, Diego Locatelli, dopo l'intervento del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni. Le sue parole, ha detto Locatelli, "non mi hanno entusiasmato ma sinceramente non mi aspettavo molto di più. Si capisce che non hanno niente in mano. Lasciamoli lavorare e aspettiamo"."Siamo ancora in tempo, ma la richiesta che abbiamo formulato subito dopo il ritrovamento di Yara, interpretando anche il pensiero dei suoi genitori, è tuttora valida e legittima: vogliamo sapere chi è stato. Rispetto la professionalità di tutti - ha aggiunto il sindaco - ma anche loro dovranno rendere conto della loro competenza e della loro responsabilità". In merito alla possibilità che ad uccidere Yara possa essere stato qualcuno che non vive in paese, Locatelli ha commentato: "Ancora non si sa nulla al riguardo e il fatto di sapere che forse l'assassino non è del paese non mi rende più o meno contento. Sono pronto a qualsiasi soluzione".
In questa vicenda non manca la denuncia di due agenti: "Non c'è coordinamento nelle indagini". La lettera aperta di due persone appartenenti alle forze dell'ordine impegnate sul campo nelle ricerche di Yara che scrivono, in forma anonima, al quotidiano "L'Eco di Bergamo". "Avvertiamo un livello tale di rabbia e scoramento che non ci possiamo più esimere dal non esprimerlo", si legge nella missiva. "Negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. (...) Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere".
"Una gestione discutibile. Sottolineiamo questo, sgombrare il campo da strumentalizzazioni di sorta o di parte e il sorgere di sterili polemiche prive di spirito costruttivo. Ispirandoci a Martin Luther King, che sosteneva che «le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano», nemmeno noi in questo momento possiamo restare in silenzio. Potremo sbagliarci, ma negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. Dualismo deleterio. La questione è annosa e di vecchia data, ma si ripropone in maniera antipatica e puntuale, eppure non si riesce a comprendere quando questo Paese capirà (ed ammetterà) quanto sia deleterio il dualismo tra due forze dell'ordine che invece di condividere mezzi, uomini e risorse, finiscono per nascondere alla controparte informazioni ed indizi, con l'unico risultato di non raggiungere mai il traguardo consolandosi che nemmeno i cugini (di un versante o dell'altro) sono riusciti a raggiungerlo. Semplicemente avvilente! Il caso della scomparsa di Yara prima e della scoperta del suo povero corpo deturpato, ha di nuovo portato alla ribalta il problema: il palese conflitto di interessi e attribuzioni tra i vertici dell'Arma dei carabinieri e della polizia di Stato, che determina, con puntualità ossessiva, una chiara, evidente dispersione di forze e di energie, a discapito della scoperta della verità d'indagine. Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere, come testimoniato in modo eclatante nella circostanza dell'arresto di un cittadino straniero (determinato da un'errata traduzione di una conversazione telefonica) rintracciato a bordo di una nave fatta rientrare apposta nelle acque territoriali italiane (!). E non da ultimo, come non citare le circostanze (evidenziate ampiamente da numerosi organi di stampa) del nuovo sequestro, a distanza di giorni, dell'area del ritrovamento del cadavere di Yara per l'effettuazione di rilievi scientifici chiaramente ormai «inquinati» dal libero accesso di giornalisti e gente comune dei giorni precedenti. Ad ogni modo, al di là delle questioni prettamente tecniche ed investigative, la drammatica ed assurda vicenda dell'assassinio della piccola Yara ha indelebilmente segnato tutta la società civile e spolverato ogni coscienza, nessuna esclusa. Proprio per questo motivo, la magistratura e le forze dell'ordine avrebbero, anzi «hanno», il dovere di fare il loro dovere nel massimo della trasparenza, assicurando alla giustizia colui (o coloro) che hanno commesso l'omicidio o che ad esso sono connessi. Questa lettera non è uno sfogo ma solo un'ammissione pubblica che se le cose a volte non vanno come dovrebbero, le responsabilità non si possono sempre camuffare. È troppa l'amarezza per l'evoluzione della vicenda, dal punto di vista investigativo, e per quello che, ahinoi, ci ritroviamo a vedere da chi osserva da una visuale privilegiata come la nostra. Troppa, per continuare a comprimerla nel silenzio."
Il marocchino disse: "Uccisa davanti al cancello". Riporta Panorama che Mohamed Fikri, il marocchino arrestato in un primo momento il 4 dicembre 2010, durante una telefonata alla fidanzata registrata dai carabinieri disse: "L'hanno uccisa davanti al cancello". Questa conversazione non venne inserita nel fascicolo riguardante il muratore. Secondo quanto riporta il settimanale il pm non avrebbe nemmeno mai chiesto conto della frase durante l'interrogatorio del 6 dicembre. Fikri era finito in cella per un'altra telefonata, ma in quel caso le sue parole vennero tradotte erroneamente e quindi fu liberato.
Gli investigatori lavorano nel silenzio e mettono insieme i tasselli di un puzzle che è tutt’altro che completo. Su uno dei guanti neri con le pailettes ritrovati nella tasca del giubbotto Hello Kitty di Yara ci sono due profili genetici, tracce di dna di un uomo e di una donna. «Due profili che non appartengono alla bambina, ai famigliari, alla cerchia stretta di chi la conosceva o alle persone già note ai database della polizia», ammette il magistrato. Impossibile pensare ad allargare a chissà chi la ricerca. Impensabile un’ipotesi di lavoro privilegiata: «Non ci sentiamo di escludere alcun sospettato in tutto il mondo».
Si capisce che è un paradosso. E’ chiaro che nella testa degli investigatori c’è l’ipotesi che Yara conoscesse e si fidasse della persona con cui sarebbe salita in auto prima di sparire nel buio di una strada deserta. «Non abbiamo elementi per dire che l’aggressore fosse una persona sola o di più», evita ogni certezza il magistrato. L’ipotesi che Yara sia stata vittima di un’aggressione sessuale è appunto solo un’ipotesi: «Yara è stata ritrovata vestita. Solo il reggiseno che aveva indosso era sganciato. Ma non ci sono segni evidenti di violenza sessuale». Medici ed esperti sono ancora al lavoro per accertare anche questo. Ci vorranno settimane, forse mesi, forse non si saprà mai.
Al momento non è nemmeno chiaro come sia morta Yara. Il magistrato fa l’elenco dei pochi risultati fino a questo momento: «Sul corpo di Yara sono stati rilevati tagli ai polsi, sul collo, sul dorso e sulle gambe. Non sembra che siano la causa della morte perché sono molto superficiali. Ci sono segni di contusione di origine incerta al capo e al volto, provocate da un corpo contundente, da percosse o da una caduta. La morte non è avvenuta né per dissanguamento né per soffocamento». Di sicuro Yara è morta in quel campo di Chignolo d’Isola a nove chilometri da casa dove è stata ritrovata per caso tre mesi dopo. Di sicuro l’assassino che conosceva la zona l’ha portata lì e lì l’ha abbandonata, con la certezza di averla uccisa e invece Yara potrebbe essere morta pure di freddo dopo ore. Dalle 18 e 44 di venerdì 26 novembre 2010 quando dal cellulare LG di Yara parte un ultimo messaggio a un’amica - «Ci vediamo domenica», risponde lei o chi è con lei - a quando finisce nel campo di Chignolo d’Isola, dove ci sono ancora i nastri bianchi e rossi degli investigatori e qualche fiore appassito e biglietti commossi oramai scoloriti, è il buio assoluto. Il niente in cui si va a tentoni per cercare di capire quello che può essere successo a questa ragazzina di tredici anni. Si è fantasticato sui segni lasciati sulla sua schiena con un coltello. Una specie di croce di Sant’Andrea sopra due linee parallele. A qualcuno è venuto in mente che potesse essere un simbolo esoterico. Il procuratore aggiunto di Bergamo ci crede pochissimo: «I segni sulla schiena sono casuali. Qualunque segno compone un disegno, non c’è nulla per dire che sia una cosa deliberata. Non mi risulta che siano stati sentiti esperti di questione esoteriche. Non sappiamo nemmeno se quei segni con un coltello sono stati fatti prima o dopo la morte». Anche i pantaloni leggins neri che Yara indossava la sera della scomparsa e con cui è stata ritrovata tre mesi dopo sono tagliati in vita e più sotto. Gli slip che Yara indossava sono tagliati in corrispondenza delle ferite sul dorso. «I segni sulla schiena sono coerenti», rivela il magistrato. Ed è una delle poche certezze di questa indagine sulla morte di Yara, la cui fine non è ancora stata scritta e chissà se lo sarà mai. Al procuratore aggiunto di Bergamo non resta che sperare nelle analisi scientifiche che devono essere ancora terminate: «Andiamo avanti a lavorare. Non abbiamo ipotesi privilegiate». Il magistrato aspetta una svolta che potrebbe sempre arrivare. I genitori di Yara aspettano di poter presto celebrare i funerali della loro figlia. E chi quella sera l’ha uccisa, a questo punto, spera di non essere mai scoperto.
Intanto «La messa la celebra don Gustavo, il curato. Io non farò neppure l’omelia e non dirò più nulla in pubblico su Yara. Voi giornalisti avete strumentalizzato le mie parole». E’ nervoso, don Corinno Scotti, parroco di Brembate di Sopra. Da giorni evita i contatti con i giornalisti. Non spiega, non puntualizza. Si sottrae e basta. E gli abitanti di Brembate di Sopra dove abitava Yara raccolgono firme perché, ancora una volta, venga tolto l’assedio delle televisioni.
CASO YARA GAMBIRASIO: Resoconto
Venerdì 26 novembre 2010, scompare Yara Gambirasio. La scomparsa di Yara Gambirasio è diventato un caso mediatico. Le troupe televisive di tutti i più importanti telegiornali d’Italia hanno messo le tende a Brembate Sopra. Dopo il giallo di Avetrana si accendono i riflettori su un’altra storia che vede protagonista una ragazzina scomparsa, una storia dai contorni misteriosi, una storia da dare in pasto ai telespettatori dei vari Pomeriggio 5, Chi l’ha visto, Domenica In, Studio Aperto, ecc.. Memori del caso di Sarah Scazzi, le forze dell’ordine hanno deciso di transennare la via in cui abita la famiglia Gambirasio per evitare l’assalto dei giornalisti. Che si sono posizionati a poche centinaia di metri dall’abitazione, a metà strada dal centro sportivo dove la ragazzina è stata vista per l’ultima volta. Sono stati allestiti vari studi televisivi mobili, proprio come è successo per mesi ad Avetrana. E come per il giallo di Sarah i giornalisti sono pronti a darsi battaglia a colpi di esclusive, anche a discapito delle indagini ufficiali. Domenica un vicino di casa 19enne ha raccontato a News Mediaset di avere visto Yara parlare in strada con due uomini. Dopo qualche ora però il ragazzo, sentito dagli inquirenti, ha ammesso di non ricordare bene la scena. Ora rischia una denuncia per essersi inventato tutto. Il volto di Yara è su tutte le prime pagine dei giornali. Tutta la comunità di Brembate Sopra è impegnata a garantire la tranquillità dei genitori di Yara Gambirasio, assediati dai mass media provenienti da tutta Italia. In prima fila, l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Diego Locatelli, il quale ha emesso un’ordinanza ad hoc con la quale ordina la chiusura di via Rampinelli, la strada dove risiedono il papà, la mamma, i due fratelli e la sorella della 13enne scomparsa. «Basta parlar male di mia figlia» - Lo sfogo della mamma di Yara sul “L’Eco di Bergamo” - «No, Yara con questa storia non c'entra: non è scomparsa volontariamente, non lo avrebbe mai fatto». Sono le parole di Maura, la mamma della tredicenne scomparsa, che ha ribadito con forza quello che già aveva sottolineato il giorno successivo alla sparizione misteriosa di sua figlia. «Un colpo di testa? Non è proprio da lei», aveva detto. Poi, lo sfogo: «Su questa vicenda si sta cominciando a fare troppa pubblicità negativa – ha dichiarato – sia nei confronti di mia figlia, sia nei confronti di Brembate Sopra, che non lo merita». «Non abbiamo ricevuto alcuna novità per il momento, restiamo in attesa», ha detto la mamma di Yara. Sono ore di grande angoscia per la famiglia Gambirasio, chiusa nel silenzio all'interno dell'abitazione di via Rampinelli, ormai assediata da un esercito di cronisti. Il sindaco è dovuto ricorrere perfino alla firma di un'ordinanza, che vieta ai furgoni della diretta Tv di avvicinarsi: si può passare soltanto a piedi e a gruppetti di poche persone. Quel che è certo, dice la famiglia, è che Yara è sparita contro la sua volontà, non è sicuramente scappata. Nessun litigio, nessun brutto voto a scuola, nessuna delusione: nulla al momento è emerso che possa giustificare una simile ipotesi. «Yara – aveva già spiegato la madre Maura – aveva da poco ritirato la pagellina scolastica (frequenta la terza media, ndr) e i voti erano tutti molto buoni. Anche dalla ginnastica ritmica ha sempre avuto tante gratificazioni. Vive solo per la ginnastica e per la sua famiglia». La mamma di Yara fa l'educatrice all'asilo nido comunale di via Solata, a Bergamo, in Città Alta. Il papà invece è geometra per una ditta di Brembate Sopra. Seconda di quattro figli (ha una sorella maggiore e due fratellini più piccoli), Yara ha riscosso ottimi risultati nel suo sport, fra cui una medaglia d'oro ai campionati nazionali di Fiuggi nel 2009 e un successo nel 2010 a Pesaro. Dall'abitazione non mancherebbe nulla di Yara, vestiti compresi: altro motivo in più per escludere – dice la famiglia – l'ipotesi di un allontanamento volontario. «Sulla vicenda di mia figlia – ha detto Maura riferendosi alle tante ipotesi giornalistiche che si susseguono sui media – si sta facendo una cattiva pubblicità e si inizia a sentire di tutto. Una cattiva pubblicità che purtroppo coinvolge anche Brembate Sopra, che certo non lo merita». I media si sono prodigati a definire i bergamaschi come poco collaborativi. Con Sarah Scazzi si parla di Avetranesi omertosi, con Yara si parla di Bergamaschi muti. La sol colpa dei cittadini è non riferire in esclusiva a loro qualsiasi notizia utile allo scoop mediatico. Yara Gambiarasio una giovane e attraente ragazza è scomparsa senza dare notizia ai genitori. Scomparsa improvvisamente. Da Avetrana a Brembate Sopra, si capovolge l'obiettivo della telecamera e con affanno inizia un'altra caccia al Lupo, all'uomo o al branco che potrebbe averla uccisa e seviziata, perchè purtroppo le ipotesi degli inquirenti sono queste. Da Avetrana ci torna in mente la lezione di mamma Concetta Scazzi, quando intervistata in televisione ripeteva nei giorni prima del ritrovamento del corpo della figlia Sarah: in circostanze di questo genere dovete indagare anche su di me, sui miei familiari più stretti." Dove è finita Yara Gambirasio? Gli inquirenti questa volta metteranno sotto sorveglianza i parenti più stretti e gli amici di scuola? Comunque il 4 dicembre 2010 un tunisino bloccato nella notte su un traghetto è in stato di fermo con l'accusa di omicidio. Secondo gli inquirenti, l'uomo avrebbe sequestrato e ucciso la ragazza occultando poi il suo cadavere. Il tunisino sarebbe un muratore al lavoro nei cantieri del bergamasco e in particolare avrebbe lavorato a Mapelloi nel cantiere del centro commerciale dove i cani avevano portato gli inquirenti sulle tracce di Yara. L'uomo era tenuto d'occhio dagli investigatori dall'inizio della vicenda subito dopo la scomparsa della ragazzina. "Che Allah mi perdoni, ma non l'ho uccisa io". Secondo indiscrezioni, sarebbe stata questa frase, intercettata al telefono, a convincere i Carabinieri che investigavano sulla scomparsa di Yara Gambirasio della responsabilità del magrebino sottoposto a fermo per sequestro di persona, omicidio e ora anche occultamento di cadavere. Pare che i sospetti fossero indirizzati nei suoi confronti quando l'uomo si è assentato dal lavoro nei giorni successivi alla scomparsa di Yara. L'uomo lavorava proprio nel cantiere del centro commerciale di Mapello dove i cani avevano più volte condotto gli investigatori. Intanto sale la tensione in paese e arrivano i primi segni di intolleranza a Brembate Sopra. Quando si è sparsa la notizia del fermo di un operaio magrebino di 23 anni con l'accusa di omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere, davanti alla casa della ragazza si è fermato un suv Audi dal quale è sceso un uomo che ha inalberato un bersaglio con la scritta 'Occhio per occhio, dente per dente'."Non ne possiamo più di questi immigrati - ha detto -, devono tornarsene a casa loro". Anche un'altra persona è arrivata davanti Villa Gambirasio urlando contro il presunto omicida. "Io non ce l'ho con lui perché è uno straniero - ha detto - non mi interessa di che razza sia, voglio però che sia fatta giustizia, vorrei che facessero a lui quello che ha fatto alla ragazzina". Brembate Sopra è un Comune di 7.800 abitanti da anni guidato da una giunta del Carroccio. "Qui non siamo razzisti - ha aggiunto un'altra signora passando - ma ci piace l'ordine e la tranquillità e qui non era mai successa una cosa come questa". Intanto sulla stampa:"Bergamo omertosa perché non fa i reality su Yara". Ecco come Matteo Pandini, giornalista bergamasco, su Libero replica al collega del messaggero e anche alla mamma di Sarah Scazzi. Pensate che scandalo: gli inquirenti lavorano in silenzio, i familiari non parlano, i vicini di casa non si eccitano vedendo le telecamere. Dovrebbe essere normale, tanto più in una situazione drammatica come la scomparsa di una tredicenne, uscita dal centro sportivo del paese e ingoiata dal buio, e invece qualcuno parla di «omertà». Era il 26 novembre. Da allora, Yara Gambirasio sembra evaporata. Ricerche, controlli, domande. All’esterno non è trapelato nulla, o quasi. Pochi giorni dopo, era saltato su un 19enne vicino di casa di Yara, che a favore di tv aveva raccontato la balla di aver visto la ragazzina, in compagnia di due adulti e accanto a un’auto con le quattro frecce accese. Era una sciagurata bugia, ritrattata nel giro di poche ore. Dato che non esce nulla di concreto e il circo mediatico - tenuto distante da casa Gambirasio - non sa cosa spremere, ecco che tra una falsa pista e un’interpretazione fantasiosa fioccano le analisi sociologiche. Che accendono l’ennesimo, inutile, derby Nord-Sud. Si paragona la leghista Brembate Sopra all’Avetrana di Sarah Scazzi. O a una roccaforte della mafia. A parte Massimo Gramellini, che sulla Stampa ha elogiato la sobrietà della famiglia Gambirasio, sul paesino bergamasco stanno piovendo le prediche di chi definisce quella comunità «una sorta di Corleone del profondo Nord» (lo ha fatto il Messaggero). Concetta, madre di Sarah - uccisa, ritrovata in un pozzo dopo quaranta giorni e per il cui omicidio sono sospettati lo zio Michele e la cugina Sabrina - ha detto: «In quel paese i familiari non parlano». E poi: «Nessuno ha visto niente, sono tutti chiusi. Se lo avessimo fatto noi che siamo del Meridione ci avrebbero definito omertosi». La signora merita rispetto, se non altro per il dolore e la tragedia che l’hanno colpita, ma proprio la vicenda di Avetrana dovrebbe insegnare. Piuttosto che tante sceneggiate tv, meglio un silenzio rispettoso. Piuttosto che finte lacrimucce sparse nei salotti del piccolo schermo, meglio qualche dialogo riservato con gli inquirenti. A Brembate Sopra non è vero che nessuno parla. Non lo fanno con i giornalisti, a parte lo sciagurato 19enne che abbiamo citato. I testimoni sono decine. Un centinaio le persone ascoltate. L’altro giorno pure un boliviano irregolare, vincendo la paura di essere espulso, ha contattato i carabinieri perché convinto di aver visto Yara. Molto probabilmente è un abbaglio, ma dietro una facciata silenziosa c’è una comunità che si muove, cerca, prega. D’altronde, se nessuno ha visto cosa deve dire? Niente, appunto. C’è la certezza che il paese stia coprendo qualcuno? Al momento, risulta di no. Allora è meglio tacere. Ed evitare prediche. Gli inquirenti hanno invocato uno sforzo di memoria. Ma qui si parla di una giovane che, uscita dal centro sportivo a due passi da casa, s’è volatilizzata in pochi metri. Hanno messo in campo pure dei super-segugi, che la signora Concetta Scazzi ha lamentato non essere arrivati ad Avetrana, quando si cercava la povera Sarah. Le conclusioni sono che la sobrietà ed il buon senso dovrebbero essere adottate sempre e comunque da tutti i giornalisti. Così come la ponderazione da parte dei magistrati. Così come la pazienza di aspettare le sentenze definitive da parte dei cittadini. Ogni frase o ogni scritto pronunciata dai media può influenzare l'opinione pubblica: quando gli eventi riguardano noi, ma anche quando riguardano gli altri. Perchè gli altri siamo noi. Dal resoconto sul caso di Sarah Scazzi, contenuto nelle pagine delle tematiche territoriali di Taranto provincia, sembra che il trattamento mediatico riservato ad Avetrana sia identico a quello riservato a Brembate Sopra. Nè il primo paese, nè il secondo meritano cattiverie gratuite da chiunque proferite.
8 dicembre 2010. "Indagini da cani: Yara è un mistero". Questo è il titolo a firma di Giuseppe Sanzotta sul “Il Tempo”. Scarcerato il marocchino, le ricerche ripartono da zero. Ai carabinieri ora si affianca la polizia e dopo gli animali si dà peso ai testimoni. La storia di Yara ricorda da vicino quella di Sarah Scazzi. La frase di circostanza che si usa in questi casi è: si seguono tutte le piste. Come dire che non sanno che pesci prendere. Sì, perché la scomparsa di Yara, la tredicenne promessa della danza, resta un mistero. Chi l'ha presa? Dove l'ha presa? Cosa le ha fatto? Forse la sola drammatica certezza è che quella bambina sia morta. Certamente finché non si trova il corpo resta una flebile speranza, soprattutto nel cuore straziato dei genitori, ma polizia e carabinieri più che cercare un rapito, cercano un corpo senza vita, nei corsi d'acqua, tra le montagne di sabbia e sassi dei cantieri della zona, nei boschi. Cercano con quei cani giudicati infallibili che sembrano guidare le indagini. Sono loro che hanno portato a quel cantiere dove lavorava il marocchino fermato dopo un inseguimento in alto mare e poi rilasciato. Perché, ora si sa, hanno sbagliato a tradurre l'intercettazione, non si riferiva a Yara, non era in fuga, e il viaggio a casa era stato deciso da tempo. Come si fa a sbagliare così? Sembra impossibile. E ora si riparte, e l'impressione è che lo si faccia senza un programma. Così il guardiano di un cantiere, vicino a quello dell'azienda dove lavora il padre della ragazza, denuncia che da lui non sono state fatte indagini. E la macchina delle ricerche si sposta, passa tutto al setaccio. Viene trovato un telefonino, ma non è quello della ragazza. E c'è da scommettere che altri faranno nuove segnalazioni. Fin qui la gestione di tutta la vicenda non fa molto onore alle capacità investigative. Quel clamoroso abbaglio sul marocchino ne è la testimonianza. Torna alla mente la drammatica e quasi analoga vicenda di Sarah Scazzi. Fu schierato un esercito di esperti, ma senza il pentimento dello zio che fece di tutto per mettere i carabinieri sulle sue tracce, forse non avremmo scoperto un bel niente e il corpo sarebbe rimasto in quel pozzo per chissà quanto. Ma torniamo a Brembate di Sopra, qui la vicenda è ancora aperta. Il mostro è nei paraggi. Il sospiro di sollievo che hanno avuto in molti credendo di aver individuato nel marocchino fermato, l'assassino, è stato subito ricacciato indietro. L'intercettazione era un bluff, niente che potesse inchiodare il ragazzo. Ci sono testimoni, compreso il suo datore di lavoro, che affermano che all'ora della scomparsa era in servizio. A lui erano arrivati i cani, i soli detective di questa operazione, che avevano portato gli inquirenti nel cantiere e in particolare in un gabbiotto del guardiano del parcheggio di un centro commerciale in costruzione. È vero che c'era anche un testimone, un ragazzo di 19 anni che dava una versione diversa, aveva visto la ragazza in un altro luogo con due uomini e l'aveva vista vicina a una auto rossa. Non gli hanno creduto, i cani non gli hanno creduto perché da quella parte non sono mai andati. Così oggi si ripresenta il dubbio: hanno ragione i cani o quel testimone ridicolizzato? E non azzardiamo una risposta perché se i carabinieri credono ai cani, la polizia che ha avviato una indagine parallela prende in seria considerazione quella testimonianza. E la differenza non è da poco, perché se Yara stava effettivamente parlando con due uomini, dalla palestra aveva preso una strada diversa da quella che finisce al cantiere. Certo nulla toglie che possa esserci stata portata dopo. Di sicuro ora torna d'attualità la ricerca di due uomini. E di quella Citroen rossa. Così come quel furgone bianco che altri dicono di aver visto aggirarsi. E anche Fikri, il ragazzo marocchino, non è del tutto fuori dalla vicenda. Una confusione di ipotesi tra il dolore e lo sconforto di quei due poveri genitori che non sanno che fine ha fatto la loro bambina. E ora si chiedono anche perché è uscita da una porta secondaria della palestra. Qualcuno l'aspettava o qualcuno l'ha costretta. Un dubbio e una paura che ora hanno portato i genitori a non mandare più i ragazzi in quel luogo. Sospese le lezioni: non c'è sicurezza. O forse c'è solo tanta paura. A parte la psicosi, non del tutto ingiustificata viste le circostanze, resta angosciosa la domanda: cosa hanno fatto a quella bambina? Quanto avrà sofferto? Si è fidata di qualcuno che conosceva o è stata trascinata a forza? Se come tutto lascia temere è morta i suoi ultimi pensieri e forse le invocazioni saranno stati per i genitori, per la mamma. Così come è stato per Sarah. E questo pensiero aumenterà lo strazio, il dolore, la rabbia dei genitori. Verrebbe voglia di gridare a chi indaga di fare presto. Non siamo riusciti a prevenire ed evitare una mostruosità, almeno facciamo in fretta per togliere dalla circolazione quel mostro o quei mostri che ancora si aggirano liberi. E ci dobbiamo chiedere se da quel 26 novembre sia stato fatto proprio tutto il possibile, se nessuna segnalazione, testimonianza sia stata sottovalutata. Se non c'è stata una presunzione, la presunzione di chi segue una propria pista e per questo sottovaluta le altre. Ricordiamo che per Sarah si pensava a una fuga. E ricordiamo quell'episodio lontano dei fratellini di Gravina di Puglia. Ritrovati morti, caduti da un muro non lontano da casa. Eppure c'è chi pensò fin dall'inizio alla colpevolezza del padre, volevano incastrarlo invece di cercare quei due bimbi che agonizzavano a poche centinaia di metri da casa. Ora, con i cani o senza di loro, non solo Brembate, ma tutta l'Italia chiede verità e giustizia. Non un colpevole, ma il colpevole. Critiche anche da Massimo Martinelli de “Il Messaggero”. Almeno settanta ore di vantaggio. Che per un assassino in fuga sono un’enormità. Un regalo impagabile soprattutto per chi ha ucciso in preda ad un raptus. Di tipo sessuale, probabilmente. Perché consente al killer di riacquistare lucidità e pianificare una strategia di uscita. E’ questo l’effetto dell’errore da dilettanti allo sbaraglio che renderà difficile la caccia a chi, forse, ha già ucciso Yara. E’ come se gli investigatori di Bergamo fossero stati avvertiti con tre giorni di ritardo. Invece sono rimasti al palo per scelta, imboccando una pista che appariva suggestiva, ma che avrebbe dovuto suggerire alcune cautele in più. La verità è che hanno cercato il risultato immediato, l’arresto spettacolare, l’operazione mediatica. Anche se quel marocchino aveva un alibi granitico, che poteva essere verificato chiamando il suo datore di lavoro in un tempo inferiore a quello che è stato necessario per intercettare un traghetto in acque internazionali. E anche la telefonata indicata come unica prova per l’arresto: aveva un mittente, Fikri, e un destinatario. Che se fosse stato consultato subito avrebbe spiegato il motivo della chiamata. E fornito un contributo a tradurre la frase che invece è stata affidata ad un interprete di dubbia affidabilità. E ancora, Fikri aveva una fidanzata, che poteva informare i carabinieri che il viaggio in Marocco non era una fuga, ma era stato programmato da tempo. E che la decisione di gettare via una vecchia scheda sim era l’effetto di una scenata di gelosia, perché su quel numero continuavano ad arrivare telefonate di ex fidanzate. E’ vero, Fikri sembrava un uomo in fuga. Ma non lo era. E le indagini di polizia giudiziaria, come quelle della magistratura, non possono utilizzare un verbo all’imperfetto, ”sembrava”, per giustificare l’azzeramento dei diritti costituzionali. Non possono farlo mai. E se esistesse un termine più assoluto sarebbe il caso di utilizzarlo per la vicenda di questo marocchino, il cui arresto poteva scatenare una reazione xenofoba, che nel paese di Yara non c’è stata. Oppure finire sul tavolo di magistrati poco esperti e appiattiti sui rapporti della polizia giudiziaria. E non, come è accaduto, nelle mani di due donne che hanno avuto da subito la sensibilità tutta femminile di scavare negli occhi di Fikri. Sono le due uniche stelle che hanno vegliato sulla triste sorte di Fikri: un paese come Brembate dove ieri sera tre uomini al bar hanno visto un nordafricano sconosciuto e gli hanno offerto da bere, per solidarietà. E due donne che, con la toga sulle spalle, ci stanno davvero bene.
Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire.
Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati.
Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente.
Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi.
«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.»
“L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.
LA CATTURA DEL SOSPETTO KILLER DI YARA GAMBIRASIO. Il ministro gridò: «Dagli al mostro!». GIORNALI, POLITICI E GOVERNO SCATENATI. PER FORTUNA LI FRENA LA PROCURA! Così titola in prima pagina "Il Garantista". Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha guidato in prima persona la carica. Ha annunciato la ”condanna” del signor Bossetti, fermato sotto l’accusa di essere lui l’assassino di Yara Gambirasio. E il processo? Inutile formalità. L’uscita spettacolare di Alfano si è iserita con eleganza in un clima di isteria e di linciaggio, alimentato nelle ore precedenti da tutti i giornali. Tutti. Uniti per una volta nella decisione di emettere la sentenza senza appello, di diffondere la foto del ”mostro”, di fornire l’indirizzo di casa sua e della sua famiglia. Figuratevi che è toccato al Procuratore della Repubblica, stavolta, fare la parte del difensore dello Stato di diritto. Il capo della Procura di Bergamo è intervenuto con grande correttezza, in polemica aperta e dura col ministro, e ha detto che avrebbe voluto riserbo anche in difesa del diritto alla presunzione di innocenza. Ieri sono proseguiti gli interrogatori di Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, che è accusato di avere ucciso Yara, per ragioni sessuali, ed è stato incastrato dalla più grande indagine di tutti i tempi fondata sul prelievo di massa del Dna. I pubblici ministeri hanno dichiarato che risulta che l’assassino abbia torturato Yara, però non si capisce bene come questa informazione possa venire dal Dna di Bossetti. Se è vera, è una notizia di tre anni fa. La mamma dell’accusato ha detto: se mio figlio è colpevole, è giusto che paghi.
Da via Poma a Meredith, luci e ombre del Dna. La prova scientifica risolutiva nei gialli Claps, Olgiata e la strage di Erba ma non ha dato un nome agli assassini di Simonetta Cesaroni e Chiara Poggi , scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Il dna non mente, il dna non può fallire. Eppure ha fallito. Quando la scienza si sostituisce alle indagini, il flop è dietro l’angolo. Massimo Giuseppe Bossetti non è ancora l’assassino di Yara Gambirasio, ma è il presunto colpevole, anche se la traccia ematica trovata sui vestiti della piccola vittima corrisponde al 99,9 per cento al suo profilo genetico. La realtà è diversa da Csi o Cold Case. Perché ci si può imbattere in tracce contaminate o professionalità non all’altezza. E perché una traccia di dna rinvenuta sul luogo del delitto o sugli abiti, può voler dire solo che una determinata persona è stata in quel posto o ha avuto contatti con la vittima. Serve altro: movente, arma del delitto, verifica degli alibi, ecc. Ci sono, eccome, casi risolti anche grazie all’esame del dna: il delitto dell’Olgiata, ad esempio, quando sul lenzuolo stretto al collo della contessa, Alberica Filo della Torre, viene scoperto il codice genetico del suo cameriere filippino; o quello di Elisa Claps, con il dna di Danilo Restivo rinvenuto sulla maglietta indossata dalla vittima; o ancora la strage di Erba, quando dalla macchina di Rosa Bazzi, moglie di Olindo Romano, salta fuori il dna di una delle quattro vittime. Ma ci sono anche quelli in cui la «pista genetica» non è servita a nulla, ha sviato le indagini o lasciato mille dubbi. Nel delitto di via Poma l’unico imputato, Raniero Busco, viene condannato per le tracce di dna sul corpetto della vittima, poi assolto perché quel residuo genetico appartiene anche ad altri due uomini. Nel 2001 il corpo di Serena Mollicone viene ritrovato legato e imbavagliato ad Arce. Il test del dna viene eseguito su 272 persone, ma nessuno risulta compatibile con le tracce biologiche sugli abiti di Serena. Eclatante il «balletto» delle perizia nel caso Meredith Kercher. Amanda Knox e Raffaele Sollecito vengono condannati perché sulla lama del coltello ci sono tracce del dna di Meredith, sul manico quelle di Amanda, sul gancetto del reggiseno quelle di Sollecito. Ma nel primo processo d’appello il dna di Meredith viene ritenuto «non supportato da procedimenti analitici scientificamente validati», e quello sul reggiseno giudicato contaminato. Nella seconda sentenza d’appello lo stesso dna di Sollecito riacquista valore probatorio. Nel caso di Garlasco, sospettato di aver ucciso Chiara Poggi è Alberto Stasi. Sulla sua bici ci sono tracce del dna della vittima. Per i Ris è sangue della ragazza, per i difensori sudore o saliva. Il dna sulla bici viene giudicato «non grave» e Alberto assolto due volte. Nel 2013 il processo riparte daccapo e si cerca di individuare il dna su un capello trovato nel palmo della mano di Chiara. Tenuto conto che i due erano fidanzati, se il capello fosse di Alberto, sarebbe colpevole?
Il caso Garlasco e l'inesauribile voglia di mostro. A sette anni o poco meno dal delitto, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia. Il clima in cui si celebrerà il processo non promette nulla di buono, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. A sette anni o poco meno dal delitto di Garlasco, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia, quella della terza Corte d'assise di Milano. Non sono bastate due assoluzioni a scagionare il fidanzato della vittima, Chiara Poggi, dall'accusa di esserne stato l'assassino. Incredibile la lunghezza del giudizio definitivo. L'imputato, Alberto Stasi, vive in un incubo ogni dì rinnovabile. Domani egli sarà di nuovo alla sbarra, come si dice, per difendersi, poiché la Cassazione, qualche tempo fa, nell'esaminare la sentenza d'appello che lo sollevava da ogni responsabilità, ha ordinato una sorta di riesame. In altri termini, l'appello è da rifare perché i giudici di terzo grado sono convinti che non tutti gli indizi siano stati valutati appieno. Cosicché, nonostante Stasi sia stato processato con rito abbreviato una prima volta (assolto) e una seconda (assolto) con tutti i crismi della legalità, è ancora ai nastri di partenza, come se fino adesso le toghe avessero scherzato. Sette anni sono lunghi da passare. Ma non conta. Il nostro sistema farraginoso prevede sempre la possibilità di rifare tutto. In effetti, si ricomincia. Le torture non finiscono mai. Ricostruire tutti i passaggi processuali, con i vari dettagli, sarebbe per noi un'operazione troppo complicata, noiosa e forse inutile giacché i lettori puntano al sodo. E il sodo è che Chiara Poggi è stata ammazzata in casa sua con un'arma contundente (mai ritrovata). Da chi? Da una persona che conosceva bene, tanto che la mattina di buon'ora le aprì la porta. Che cosa sia accaduto poi in quella villetta non è dato sapere: lite, colluttazione, fuga e inseguimento? Chi può dirlo. È un dato che la ragazza è stata trovata morta al piano terra. Macchie di sangue dappertutto. L'indagine si svolge nel raggio di mezzo chilometro. Chi può essere stato se non il fidanzato? Gli inquirenti puntano su di lui. Come al solito, in vicende di questo tipo, si guarda nell'ambito familiare. Stasi finisce subito in galera gravato da pesanti sospetti. Perché la sera precedente l'aveva trascorsa con lei. Perché qui perché là. Perché lui quella mattina si recò a casa di lei e la scorse morta in fondo alla scala. Perché Alberto telefonò ai carabinieri e la sua voce non tradiva emozione. Insomma, i racconti divulgati dalla stampa e dalle tivù sono interpretati quali indici di colpevolezza. Pochi giorni dopo l'arresto, tuttavia, Stasi viene rimesso in libertà in mancanza di prove. Andiamo veloci. Seguono decine di programmi televisivi che sviscerano ogni dettaglio del giallo; l'opinione pubblica, tanto per cambiare, si divide in colpevolisti e innocentisti. Personalmente, difendo il ragazzo non perché sia simpatico; anzi, è odioso. Ma contro di lui ci sono solamente pregiudizi: ha gli occhi di ghiaccio (in realtà è solo miope), è un tipo strano, ha trascorso un mese a Londra mentre la morosa aveva principiato a lavorare a Milano (uno stage), gli piaceva compulsare il computer laddove c'è del porno. Un sacco di stupidaggini che non c'entrano nulla con l'assassinio. Tra la coppia non vi sono state telefonate in cui si percepiscano liti, non si rintracciano mail in cui emergano liti o battibecchi. Tutto normale, piatto, piattissimo. Non è finita. Lui non si è sporcato le scarpe sulla scena del delitto. Però vi sono sue impronte sul sapone del bagno. Capirai. Uno che frequenta abitualmente la casa della fidanzata si sarà talvolta, suppongo, lavato le mani nel gabinetto. Avete capito? Tutta robetta. Manco una prova. Che dico, una prova, nemmeno mezza. Il movente eventuale? Gli inquirenti si arrampicano sui vetri. Dicono: lei ha scoperto che lui osservava le schifezze sul computer, ecco la causa della lite che ha scatenato la furia omicida di Alberto. Congetture. Se contrasti fra i due ci fossero, non sono stati appurati. E allora? Stasi dal presunto reato di pedopornografia web è stato scagionato. Quindi le porcherie non possono essere state il movente: tra l'altro piacevano anche a lei. Non mancano le elucubrazioni degli avvocati di parte civile che vorrebbero incastrare il giovane, ma sono inconsistenti e, quando si arriva davanti al giudice del rito abbreviato, il professor Angelo Giarda non fatica a far risaltare l'innocenza del suo assistito, Stasi, che viene assolto. Il verdetto di secondo grado è la fotocopia del primo. Basta? Nossignori. La Cassazione rimette tutto in discussione: bisogna approfondire questo e quell'elemento. Le toghe indicano sette od otto punti da verificare. Nel frattempo sono trascorsi sette anni (sette). Siamo al delirio. Ovvio che i genitori di Chiara pretendano che l'omicida sia inchiodato e condannato. Anch'io sono dalla loro parte. Concordo. S'identifichi l'assassino; non ci si accontenti però di punire uno qualsiasi cui addossare a casaccio la colpa di aver ucciso. Come si fa ad accanirsi su un tizio contro il quale non vi sono che oscuri presentimenti e dubbi? Il clima in cui si celebrerà l'ennesimo processo non promette nulla di buono. Trasformare pallidi indizi - mezzi indizi - in elementi probatori è tecnicamente un gioco da bambini per magistrati esperti. Una sentenza di condanna spesso placa le coscienze anziché tormentarle. Questo è il costume italiota. Fossi in Alberto, sarei terrorizzato. Sento puzzo di verdetto pesante. Spero di sbagliare. Il suo destino è nelle mani del professor Giarda, che è un fuoriclasse, ma non un padreterno. Auguri.
Il caso Yara e la morte del garantismo e del buon giornalismo, scrive Charlotte Matteini su "Fanpage". Ieri pomeriggio è irrevocabilmente morta la presunzione d’innocenza. Dopo essere stata strattonata, maltrattata, calpestata, presa a calci, vilipesa e massacrata per anni, ieri è stata definitivamente ammazzata da un Ministro della Repubblica prima, dai giornalisti italiani subito dopo. Verso le quattro del pomeriggio, arriva la notizia bomba, direttamente dalla bocca del Ministro dell’Interno Angelino Alfano: “E’ stato individuato l’assassino di Yara Gambirasio”. Presunto assassino. Ma il “presunto” non è pervenuto. Alfano, senza bisogno di alcun processo, ha già decretato la colpevolezza dell’indagato e lo ha gettato nella sudicia arena della lapidazione a mezzo stampa. L’inadeguato Ministro Alfano non è stato l’unico ad aver tenuto una deprecabile e indegna condotta. Nel giro di pochissimi minuti i quotidiani di mezza Italia hanno iniziato a dare la notizia, alcuni, pochissimi, mantenendo un comportamento deontologicamente corretto, altri, la stragrande maggioranza, hanno invece cominciato a pasteggiare come iene con il cadavere di Yara. Per attirare più click possibili, sui social network hanno iniziato ad apparire centinaia e centinaia di post che berciavano: “Arrestato l’assassino di Yara. Clicca qui per scoprire il nome e il cognome”. E del nome e del cognome, a quell’ora non c’era ancora alcuna traccia. Il nome, purtroppo, è venuto fuori un paio d’ore scarse più tardi, mentre il presunto autore del delitto era ancora sotto interrogatorio e il GIP non aveva ancora convalidato il fermo. E così la presunzione di innocenza è morta. Agonizzante ormai da troppi decenni, ha lasciato definitivamente la scena all’imperituro sciacallaggio di massa da social network. Nome, cognome, foto private, ricostruzioni di una presunta vita privata operate da giornalai senza scrupoli che hanno impiegato poco meno di due ore per confezionare il nuovo “mostro da prima pagina”. Rispetto per le indagini? Nessuno. Rispetto per i diritti di un imputato? E perché mai? Molto meglio provare a monetizzare la notizia pruriginosa a suon di click, fomentando senza ritegno una lapidazione mediatica rabbiosa. I commentatori inferociti danno sfogo ai loro più bassi istinti animali attraverso i social network, trasformandosi in perfetti Robespierre e nostalgici sostenitori del Regime del Terrore, insultando e minacciando il presunto assassino, la sua famiglia, le sue figlie, persino i cani e la sua passione animalista. Su Facebook spuntano come funghi pagine e gruppi che inneggiano alla lapidazione vera e propria, aizzati dal rincorrersi di notizie e siparietti da avanspettacolo dei talk show che altro scopo non hanno che l’eccitare e l’istigare la rabbia collettiva di piazza. E questo sarebbe buon giornalismo? Questa spazzatura mediatica corrisponderebbe al“diritto di cronaca” secondo i giornalisti italiani? E la tanto osannata essenziale presenza dell’Ordine dei Giornalisti, l’organo che dovrebbe garantire il rispetto della deontologia professionale e della buona informazione, alla luce dei fatti, non è l’ennesima inutile corporazione che solo a parole è utile allo scopo che si prefigge? Fare a pezzi la presunzione di innocenza, distruggere le vite degli imputati, delle loro famiglie, dei loro parenti, scavare nella vita di persone morte da un decennio perché probabilmente collegate al presunto assassino e sbattere in prima pagina le loro debolezze e le loro vicissitudini familiari può essere considerato tollerabile? Questo è sciacallaggio, non giornalismo. Questa condotta uccide il Giornalismo in nome di facili guadagni e scroscianti applausi del pubblico dei talk show di Nera. Irrispettosa ed esecrabile condotta, non solo nei confronti dei principi garantisti sanciti dalla tanto acclamata Costituzione della Repubblica Italiana, ma anche e soprattutto nei confronti dei genitori della vittima. Dopo l’inarrestabile e incontrollabile fuga di notizie, anche i PM hanno fatto notare il loro disappunto ad Alfano, dichiarando che avrebbero voluto mantenere il massimo riserbo sulla svolta del caso Gambirasio, ma il nostro prode garantista a corrente alternata ha risposto: “Io non ho fornito dettagli. E comunque l’opinione pubblica aveva diritto di sapere”. Agghiacciante. Agghiacciante anche solo pensare che l’opinione pubblica abbia il diritto di essere aizzata in questa maniera da politici e giornalisti, che abbia il diritto di trasformarsi in una folla inferocita irrazionale che chiede la testa, nel migliore dei casi, di colui che nei fatti resta un indagato, un indiziato, un presunto colpevole. Io non so se Bossetti sia il vero colpevole dell’omicidio di Yara. Io sono solo convinta che i principi garantisti siano sacrosanti e che vadano salvaguardati a tutti i costi proprio per evitare che la deriva forcaiola sostituisca ciò che dovrebbe essere Giustizia con un becero Giustizialismo rancoroso, bilioso e irrazionale, con il rischio di ritrovarci nel giro di pochissimo tempo a doverci confrontare con una dittatura del pubblico ludibrio che condanna preventivamente chiunque abbia la sfortuna di trovarsi imbrigliato nelle maglie della malagiustizia all’italiana. Un assaggio di questo scenario lo stiamo già vivendo sulla nostra pelle da molti anni e il caso di Yara Gambirasio non è che l’ennesimo di una lunga serie di orrori mediatici scaturiti dall’insistente e ossessiva fame di scandali, di voyeurismo e di scabrosi dettagli dell’italiano medio. Tortora, Daniele Barillà, Gino Girolimoni, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Walter Chiari, Pietrino Vanacore, Salvatore Pappalardi, Patrick Lumumba, Giuseppe Gulotta, Raniero Busco. L’elenco dei “mostri da prima pagina per sbaglio” sarebbe ancora più lungo, molto più lungo. Sono 22323 sono gli orrori giudiziari accertati e risarciti, dal 1991 al 2013 in Italia. Raggiungiamo i 50.000 calcolando anche tutti coloro che da prosciolti hanno visto rifiutata la loro richiesta di risarcimento. 575.698.145 euro è il prezzo degli ultimi 22 anni di Malagiustizia italiana. Cari politici, cari giornalisti, cari “Leoni da Social Network”, la prossima volta che vorrete giocare al “piccolo forcaiolo” o che calpesterete la presunzione d’innocenza perché il presunto colpevole vi sta sulle palle, ha una brutta faccia dai tratti lombrosiani, è antipatico, è nero, blu, bianco, rosso o verde, pensate un po’ a questi nomi, a queste storie e a questi numeri e riflettete sui danni che potrebbe provocare l’eccesso di giustizialismo giudiziario e mediatico sulle vite di persone che potrebbero rivelarsi innocenti.
La banalità del male e quegli assassini come se nulla fosse, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dall’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassinio di Yara Gambirasio, e di Carlo Lissi, l’uomo che ha sgozzato moglie e figli e poi è andato a vedere la partita, sono passati appena due giorni ma già ne ho le orecchie piene. In quarantott’ore si è sentito di tutto: molte analisi tecniche, tanti commenti moralistici, parecchie stupidaggini. Parole banali per commentare la banalità del male. Un muratore tutto casa e animali che violenta una ragazzina di 13 anni e poi la lascia morire in un campo. Un tecnico informatico invaghito di una collega convinto che la famiglia sia d'intralcio e dunque la elimina a coltellate. Schifezze d'uomini? Sì, forse. Ma ciò che colpisce di questi uomini è l’apparente normalità. Non prima, dopo. Prima è facile, non è ancora successo niente. Non avendo ancora le mani sporche di sangue si può fingere che tutto sia a posto, anche quello che di strano c'è dentro. Ma dopo? Dopo che la pazzia, le pulsioni sessuali, la violenza sono tracimate, dopo che hanno distrutto la vita degli altri come si fa a continuare a vivere come se niente fosse? Mostri? Sì, è il modo più facile per etichettarli. Il loro comportamento è così mostruoso che per forza non devono essere normali. Ma è proprio così? Ne siamo proprio sicuri?
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Il risveglio choc del paese: "Era proprio uno di noi..." Dopo anni di sospetti la scoperta che sconvolge Brembate: "Sì, ce lo ricordiamo Prendeva un caffè e via. Ora lo schifo che ha portato qui deve finire con lui", scrive Gabriele Villa su “Il Giornale”. Fa strano ripartire da dove tutto è cominciato. Fa strano ripartire da qui, da questo Palazzetto dello Sport che rappresenta l'ultimo domicilio conosciuto di Yara Gambirasio, prima dell'incontro fatale col suo assassino, quel 26 novembre del 2010. Ci sono bimbetti che sguazzano nell'acqua della piscina. Ci sono le «farfalline», come hanno battezzato, qui, le piccole atlete di ginnastica che hanno appena concluso i loro volteggi, guarda il caso proprio sotto la direzione di Keba, la sorella maggiore di Yara. Farfalline come Yara che, appena qualche anno maggiore di loro, sognava di volteggiare. «Già, fa strano essere qui, pensando che Yara ha respirato quest'aria, questo clima d'amicizia, prima di finire nelle mani di quell'uomo. Uno che abita a cinque minuti da qui, altro che un balordo extracomunitario come pensavamo tutti, all'inizio», commenta, Milena Dolcini, una delle mamme che, dalle grandi vetrate, al primo piano del Palazzetto di via Locatelli, guarda suo figlio che sguazza nell'acqua gioioso. «Fa rabbia sapere che quell'individuo, quel padre di tre figli le abbia messo le mani addosso e l'abbia abbandonata in un campo a morire. Ma ora spero che faccia la fine che si merita, in galera», tuona Nando, il gestore del bar del Centro sportivo comunale. Rabbia, altra rabbia, al Loto Cafè in via Sorte, non lontano dalla villetta della famiglia Gambirasio. Qui ci sono almeno un paio di clienti, oltre al titolare del bar, che si ricordano di aver intravisto quel Bossetti presentarsi al bancone. «Giusto per un caffè e poi via». Un ragazzotto sui diciotto è il più sicuro di tutti: «L'ho detto subito ieri, quando ho visto il tg, quel tizio di Mapello, quello lo conosco, si fermava spesso da queste parti. Con la faccia un po' suonata, si vantava di andare in giro con l'aliante, parcheggiava in fondo alla strada, vicino al campo». «A pensarci bene mi era parso un tipo strano, ma non avrei mai immaginato che potesse essere lui l'assassino. Speriamo che sia davvero lui. E che tutto questo schifo che ha inondato Brembate finisca con lui», dice un altro avventore. Poi la sconsolata conclusione del titolare del bar: «Fulvio, il papà di Yara, viene spesso qui, è una brava persona e non si merita tutto questo. Mi auguro che possa farsi coraggio». Iole Pesenti, una signora sui settant'anni che abita non lontano dai Gambirasio, è ferma sul marciapiede. A pensare, quasi a dedicare a quella casa un pensiero commosso. «Sapere che hanno trovato l'assassino di quella povera ragazzina ci fa tirare un sospiro di sollievo. Perché da quel giorno, di quasi quattro anni fa, la vita qui era cambiata. Noi nonni e genitori avevamo tutti più paura. Paura di sapere che c'era un assassino in libertà che avrebbe potuto colpire ancora. Tanto più, ammettiamolo - aggiunge - che avevamo avuto l'impressione che le indagini fossero talmente complicate che non si sarebbe mai potuto arrivare a dare un nome al killer». Non ha mai parlato volentieri coi giornalisti, in questi tre anni e mezzo, don Corinno Scotti, il parroco di Brembate di Sopra. Ha organizzato fiaccolate, veglie di preghiera. È stato sempre vicino ai genitori di Yara, Maura e Fulvio, condividendone il dolore e lo sconcerto. Ma qualche parola riusciamo a fargliela dire: «Vede, quanto è accaduto, con quello che adesso sembra l'epilogo di questa tragedia, dovrebbe insegnarci qualcosa. Che non bisogna mai giudicare né fidarsi delle apparenze. E le apparenze, all'inizio di questa vicenda tristissima, avevano già condannato quel marocchino, quel Fikri. Adesso spero proprio che in paese non prevalgano sentimenti di vendetta». Quindici giorni fa, all'oratorio, hanno inaugurato un monumento a ricordo di Yara. «Che abbiamo voluto chiamare Stele di luce - aggiunge - perché questa vicenda, anche se è finita come è finita, deve essere ricordata nel modo giusto con la sguardo alla serenità. Perché, come dice il papà di Yara, l'unico modo per fare un regalo a Yara è diventare più buoni pensando a lei». Una pattuglia dei vigili e una di carabinieri sbarrano ai cronisti l'ingresso di via Rampinelli, dove i Gambirasio abitano. Dove, sopra quella villetta al civico 48, resta una nube di tristezza e sgomento. E dove, ancora adesso, prima di parlare, il papà e la mamma di Yara vogliono certezze. Per cominciare il cammino della consolazione.
Yara: il perverso intreccio della famiglia Bossetti. Ester Arzufi è il cuore del mosaico familiare che ha consentito di individuare il presunto assassino. Perché finora ha taciuto? E perché ha chiamato i due figli come Guerinoni e sua moglie? Così scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. L’uomo fermato con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio, difficilmente ammetterà le sue colpe. Quando i carabinieri del Ros lo hanno prelevato da un cantiere di Seriate, Giuseppe Bossetti è rimasto impassibile, e poco più tardi, davanti al pubblico ministero Letizia Ruggeri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il fatto che sia rimasto tre anni e mezzo in silenzio senza farsi vincere dai morsi della coscienza, la dice lunga sulla sua personalità. Ma anche se si chiudesse definitivamente a riccio, contro di lui ci sono prove inconfutabili: il suo dna trovato sui leggins della ragazza, il suo telefono agganciato alla cella di Brembate la sera del 26 novembre 2010, un’ora prima della sparizione della ginnasta. Quanto basta, insomma, per inchiodarlo alle sue pesanti responsabilità. Di fatto, a questo punto delle indagini si produce una sorta di inversione dell’onere della prova: non sono più gli inquirenti che devono dimostrare la sua colpevolezza, ma Bossetti dovrebbe tirar fuori delle circostanze certe e straordinarie che lo scagionino. Come, per assurdo, un uccellino che ha intinto il becco nel suo sangue per poi volare e andare a posarsi sul corpo della povera Yara abbandonato in mezzo alle sterpaglie. Impresa impossibile, per rendere l’idea. Certo, il suo silenzio lascerebbe senza risposta la domanda più importante che tutti noi ci facciamo da tre anni e mezzo: perché? Perché Yara? Cosa lo ha spinto a sequestrare e lasciare morire di freddo una ragazza di tredici anni? Stiamo parlando del movente, per intenderci. Un’altra questione che ci si pone il giorno dopo il suo fermo è se Bossetti conoscesse Yara e aveva rapporti con lei, se l’ha costretta a seguirla, se l’ha ingannata o convinta con qualche scusa. A questo riguardo, gli investigatori stanno cercando di districare l’album di famiglia dell’assassino. Lui si chiama Massimo Giuseppe, porta il secondo nome del suo padre biologico, Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno, di cui probabilmente ignorava perfino l’esistenza. Bossetti ha una sorella gemella: Laura Letizia. Strana coincidenza: Laura è il nome della moglie di Giuseppe Guerinoni. La mamma dell’assassino e della sua gemella invece si chiama Ester Arzufi, ha 67 anni. Perchè ha dato questi nomi ai suoi due figli? Si tratta di un intreccio perverso? In tutto questo, un ultimo elemento familiare che suscita perplessità: la zia dell’assassino, moglie del fratello di Guerinoni, ha prestato servizio in casa Gambirasio come domestica. Potrebbe essere un caso, ma come insegna Henry Boch, il famoso detective creato dalla penna di Michael Connelly, nell’indagine penale le coincidenze non esistono.
Il figlio, il marito, l'amante. I 44 anni di segreti di Ester. Il marito ha un malore. Ma lei insiste: "È lui il padre del mio Massimo", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Negava anche ieri, davanti all'evidenza scientifica. «Continuava a dirci che è vero che ha fatto il test del dna, ma che il figlio è di suo marito Giovanni», ha spiegato una delle poche amiche con cui ha parlato barricata nella casa popolare di Terno d'Isola. Ester Arzuffi, 67 anni, madre del presunto assassino di Yara Gambirasio, sostiene che Massimo Giuseppe non è nato da un amore clandestino. Che egli non porta quel nome perché così si chiamava l'amante. E che 47 anni di matrimonio non sono stati costruiti su una bugia inconfessabile. «Niente è come sembra», cantava Franco Battiato in un album intitolato «Il vuoto». Un vuoto pieno di menzogne venute alla luce tutte assieme. Ha tre figli, Ester Arzuffi, ma i primi due, gemelli, non sono di suo marito. Soltanto lei lo sapeva. Il figlio arrestato l'ha appreso in caserma, gli altri due e il marito dal tam-tam televisivo. Giovanni Bossetti, più anziano di Ester e dalla salute malferma, si è sentito male, tramortito dalla verità. Massimo Giuseppe Bossetti ha vissuto tre anni nascondendo il suo orrendo segreto. Mamma Ester ne ha trascorsi 44 occultando al marito e ai tre figli un'altra drammatica verità. Una vita fondata sulle bugie. Ingannava i gemelli ogni volta che nominava il «papà». Fingeva ogni volta che con parenti e amici sottolineava le somiglianze con il genitore. Ha tradito il povero Giovanni non soltanto quando andava a letto con Giuseppe Guerinoni, ma anche dopo che quell'avventura è finita, e le sue giornate a fianco del compagno sembravano normali e felici. Ci vuole più coraggio per affrontare la verità che per dissimularla. Ed Ester Arzuffi ha scelto la menzogna come sua compagna di vita in un intrico di segreti familiari esplosi assieme. Una vita dura nelle valli della Bergamasca, operaia in una cooperativa di pulizie. Fatiche e sacrifici in una palazzina popolare di Terno d'Isola circondata dalle villette dei nuovi benestanti. Ester ha 22 anni quando dà alla luce Massimo e la gemella Laura Letizia il 28 ottobre 1970, si era sposata tre anni prima, soltanto le malelingue di paese potevano immaginare la verità. Il legame con l'autista di Gorno doveva essere fortissimo perché il figlio maschio prende anche il nome di lui, Giuseppe, e la femmina quello della moglie di Guerinoni. Anni dopo nascerà Fabio, l'unico figlio naturale di Giovanni Bossetti, non fratello ma fratellastro di Massimo e Laura. Nulla era ciò che sembrava. Alcuni conoscenti della famiglia Bossetti raccontano che Ester è gentile, disponibile. Facile andarci d'accordo. Così la descrive Fabio Rogoli, che abita nell'appartamento accanto: «Una bella signora che ha una grande cura di sé e non dimostra la sua età, alta, gli occhi azzurri, i capelli scuri, corti e ricci». Una famiglia unita e perbene, con i tre figli che portavano spesso i nipoti a trovare i nonni. Un'amica ha raccontato ieri che la madre del presunto killer «è devastata, non si spiega questa cosa. Dice che non può essere stato davvero suo figlio a uccidere Yara Gambirasio, ma se è lui deve pagare. Continuava a dirci che è vero che ha fatto il test del dna, ma sostiene che il figlio sia di suo marito Giovanni». Verità mescolate alle bugie da cui Ester Arzuffi non vuole, o non sa, separarsi.
Quei papà che rubano il futuro ai loro bimbi. Non solo Yara e i piccoli uccisi da Lissi. I figli del muratore hanno la vita rovinata, scrive Cristiano Gatti su “Il Giornale”. I grandi si scelgono il proprio destino, i piccoli possono solo pagarlo. Purtroppo l'Italia dei delitti, l'unica che continua a far correre il suo macabro Pil, si lascia dietro questo imperdonabile effetto collaterale: quando tutto questo inferno si sarà in qualche modo raffreddato, resteranno loro, i bambini, con il cerino acceso in mano. Proprio allora capiremo quanto abnorme sia il male prodotto da questi giovani papà dal coltello facile e dall'istinto animale. Solo allora la colpa più grave esploderà come un fungo atomico, rilasciando radiazioni tossiche per chissà quanti anni ancora. Non basterà una vita intera per dissolverli dall'anima, perché non c'è tempo umano che possa cancellare tanto funesto dolore. Troppi innocenti traditi, in queste ultime storie nel cuore di Lombardia. Certo ci sono prima di tutto e sopra tutto le povere vittime. C'è Yara condannata al martirio da un depravato piacione e narciso, capace di vera pietà e nobili tenerezze soltanto per gli animali (dicono che chi non ama gli animali non ama i cristiani, ma vogliamo parlare una volta di chi ama fanaticamente solo gli animali?). E poi ci sono i fratellini di Motta Visconti, Giulia e Gabriele, sacrificati senza tante esitazioni dal papà che candidamente amavano, idolatravano, idealizzavano come un principe invincibile, capace di proteggerli da tutti e da tutto, senza immaginare che quel giovane papà non sapeva proteggerli nemmeno dalla sua insana cottarella per una collega. Erano storie ancora tutte da costruire. Erano due donne e un uomo di domani, magari avvocati e farmacisti, commessi e dentisti, ballerini e gommisti. Avrebbero inseguito i propri sogni, avrebbero cercato la propria strada, avrebbero affrontato i primi crucci e poi i dolori veri. Avrebbero assaporato il successo e sbattuto musate, avrebbero amato, riso, pianto, cantato, giocato, lavorato, con le alterne fortune di tutte le esistenze. Certo avrebbero vissuto. Se già non fossero archiviati dietro a una fredda lapide. Eppure bisogna essere molto sinceri: per quanto male sia finita la storia di Yara, di Giulia e di Gabriele, non tanto meglio si presenta quella delle altre piccole vittime, le sopravvissute alle mattanze di estrema provincia e condannate al destino tetro della sofferenza perenne. Già è molto difficile aiutare Keba, Gioele e Nathan, i tre fratelli di Yara, a crescere tenendo la barra dritta, perché il tumulto dei fatti e delle tragedie, in questi tre anni e mezzo, è una bomba atomica che neppure mistici e anacoreti sarebbero in grado di assorbire con equilibrio e fermezza. Crescere è un lavoro maledettamente difficile per qualunque ragazzino, crescere in casa Gambirasio diventerà ogni giorno un'impresa titanica. Solo lo stoicismo di Seneca può fare da stella polare in questo futuro arduo, là dove si dice certo che gli dei impegnano le loro creature predilette nelle prove più difficili, come allenatori innamorati dei propri atleti: nella certezza che ne usciranno molto migliori, veri campioni della vita. Se non servirà la filosofia, tra queste mura quanto meno ci saranno sempre una madre e un padre degni, valorosi interpreti del ruolo, come hanno già dimostrato in questi anni di supplizio domestico. E' una certezza, l'unica certezza da cui ripartire. Ma da dove ripartiranno i tre figli di Massimo Bossetti, di quel loro adorato papà, che su Facebook li esibiva come gioielli, che li copriva di carinerie, che li proteggeva dal male del mondo. In tutto questo tempo hanno ascoltato la storia orribile di Yara come prossima geograficamente, perché Mapello sta a due chilometri da Brembate, ma distante anni luce dal loro mondo sicuro, senza male e senza buio, senza violenza e senza cattiveria. Improvvisamente, tutto dissolto: quel papà perfetto e incorruttibile, senza debolezze e senza lati grigi, sparisce dalla loro casa e dalla loro vita, lasciando il posto a un essere abominevole, capace delle nefandezze peggiori, quali sono le perversioni e le violenze sugli innocenti. Non è pensabile adesso che ci sia un futuro sereno, nel domani di questi tre bambini. Chi resta accanto a loro, la madre e i nonni, viene investito da un impegno sovrumano, al di là di qualsiasi dote e di qualsiasi capacità. Serviranno amore e compassione, in dosi massicce, dentro casa e tutto attorno, per restituirli a una visione positiva dell'esistenza, per aiutarli a ritrovare un accenno di armonia. Ma sarà difficile, molto difficile. Ai limiti dell'impossibile. Se lo ricordi bene, il paparino sanguinario e spietato: oltre a Yara, si porta sulla coscienza il peso di altre tre vittime inermi, tre angeli violati e offesi per sempre. I suoi.
Quel vile in fuga dalla famiglia, scrive Annamaria Bernardini de Pace “Il Giornale”. «Non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie la separazione. La famiglia per me era diventata una gabbia. Con il divorzio i figli restano». E così, «fa l'amore» e li sgozza tutti. Questa non è follia. È la lucida determinazione di un vile, incapace di uscire da quella che lui (...)(...) definisce una «gabbia». Un comportamento abituale, con diversi e distanti gradi di ferocia - dall'abbandono improvviso alla strage familiare - degli omuncoli crudeli, consapevoli solo dei propri bisogni. In genere, questi insani personaggi sono di bell'aspetto, abituati ad avere tutto ciò che desiderano, a cominciare dall'apprezzamento degli altri. Quando formano una famiglia, scelgono una moglie bella e capace, alla quale delegano la scrittura e il montaggio di un film fascinoso del quale loro devono apparire registi magistrali e interpreti da oscar. Non sbagliano una mossa: chiunque descriva com'era quella famiglia (quelle famiglie, purtroppo) prima del gesto repentino e rivoluzionario, dirà che richiamava le storie del Mulino Bianco, che lui era molto innamorato, la moglie l'adorava, i figli erano buoni e felici. Poi lui se ne va, insalutato ospite; oppure inizia un'inaspettata relazione; o ancora chiede all'improvviso la separazione per colpa di lei; oppure lascia i suoi cari senza denaro; a volte, accoltella a morte la famiglia e va a vedere la partita. Dunque scappa dalla «gabbia» o decide di distruggere la gabbia con gesto criminale. Cancella senza vergogna quelli che lui, lo schifoso vigliacco, considera limiti insuperabili ai suoi nuovi desideri, al cambiamento, alla rinascita di un sordido verme represso. Il vero problema è la moglie: in genere vale più di lui, o è più ricca; in ogni caso non c'è niente che le si possa imputare. È talmente valida e perfetta che la solidarietà degli altri sarebbe solo per lei. Lui chiederebbe anche la separazione se lei fosse noiosa, infedele, algida, rompiballe. Ma, non essendo lei così, o è costretto a inventare colpe inesistenti di lei, o non può accettare di doversi scusare per voler cambiare direzione al progetto fino allora condiviso; teme i perché e le eventuali critiche; non può per l'ennesima volta compararsi a lei e dovere ammettere la propria inferiorità. Anche pubblicamente. Questo tipo di uomo, megalomane e meschino, infedele e bastardo, vigliacco e ingrato, ha sempre la presunzione di voler sembrare più interessante e capace della moglie. Soffoca e non elabora il senso di colpa (per volersene andare o per avere già tradito) trasformandolo in aggressività, fino ad arrivare alla violenza e persino all'omicidio. Non è follia, non è vendetta. È odio, invidia, superbia, anaffettività e narcisismo che tracimano nel sangue e nel respiro di coloro che, inconsapevoli, amavano una bestia feroce, assetata sempre del proprio personalissimo trionfo. A spese della vita altrui. Soffrono duramente i figli e le mogli, rinnegati e depennati in vita da uomini imbelli, che godevano della fiducia della responsabilità di progetti e sentimenti comuni. Questa sofferenza, portata all'ennesima inimmaginabile potenza, deve aver tramortito la povera disgraziata moglie di quel mostro di egoismo, che ha trucidato scientificamente la sua bella famiglia. La poverina, dopo avere fatto con lui «l'amore», gli chiedeva piangendo «perché?», mentre lui le affondava il coltello nella gola baciata un istante prima. E forse a quei bimbi sereni, perché accuditi nella culla di una famiglia illusoriamente felice, il sonno ha risparmiato di capire la peggiore delle infamie. Ora lui, l'orrido orco, nella sua abituale e sontuosa stima di se stesso, chiede alle autorità di poter avere il massimo della pena: e diamoglielo! E anche un bel po' di più, se possibile. I cattivi esistono e bisogna avere il coraggio di punirli, senza pietismi e inappropriati garantismi. Ai ladri di vite altrui deve essere rubata la vita per sempre. Quantomeno per fargliela trascorrere nella vergogna bruciante di esistere.
Ma siamo sicuri che Alfano sia un ministro dell'Interno? Si chiede “Il Giornale”. Forse serve un test del dna per saperlo. Non sempre, infatti, l'abito fa il monaco. Come non basta una poltrona per fare un buon ministro. Serve qualcosa di più. Quello che ad Angelino manca. L'Italia non ha bisogno di politici con voglia di protagonismo, soprattutto quando in ballo ci sono delitti come quello di Yara. Quattro anni di lavoro, di misteri e di ricerche stavano per essere buttati al macero per la fretta di chiacchierare di un ministro. Yara è morta a Mapello, nel bergamasco, il 26 novembre 2010. Non è stato facile individuare il presunto assassino. Ci sono voluti 18mila test del dna e un lavoro di investigazione vecchio stile, lungo e faticoso. Poi un nome, un volto, un fermo. Dare la notizia al ministro era un atto dovuto. Nessuno poteva sospettare che Alfano raccontasse tutto a tutto il mondo. È normale la rabbia di Francesco Dettori, procuratore di Bergamo. È normale perché su queste cose bisogna muoversi con responsabilità. Senza grida. Senza applausi. Senza fretta. «Era intenzione della procura mantenere il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell'indagato. Secondo la Costituzione esiste la presunzione di innocenza». La procura temeva quella che è successo. Su Bossetti ci sono forti indizi. Il dna è una prova regina, ma non vale una confessione. Non c'è la certezza. Bossetti invece è stato già condannato. C'è aria di linciaggio. Ci sono le foto dei figli sbattute sui social network come figli del mostro. E le colpe dei padri non ricadono, mai, sui figli. Ma Alfano aveva fretta di mettersi una medaglia al petto. Le sue risposte a Dettori sono francamente imbarazzanti. «Io non ho dato alcun dettaglio. L'opinione pubblica aveva diritto di sapere». Sapere, certo. Ma con i tempi giusti, senza danneggiare chi non c'entra. La realtà è che Angelino come ministro dell'Interno non ha mai convinto del tutto. Basta ricordare come ha gestito il caso Shalabayeva. Non ha convinto neppure come leader del Pdl. Non convince come capo del Nuovo centro destra. Come scriveva Sallusti, in un editoriale qualche tempo fa: Renzi e Alfano sono stati scambiati nella culla. Il primo di destra è finito per sbaglio a sinistra. L'altro per disgrazia è rimasto qui. E anche in questo caso serve il test del dna. Per rimediare all'errore.
Angelino Alfano, già ministro della Giustizia e ora ministro dell’Interno, uno che dovrebbe sapere bene come funzionano le istituzioni e avere un rapporto di collaborazione ideale con la magistratura e le forze dell’ordine, sembra invece avere qualche problema con gli annunci, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Forse nell’ansia di apparire e mettere il cappello sulla cattura dei criminali più famosi, ovvero (nel suo linguaggio) di rassicurare la pubblica opinione desiderosa di farsi rassicurare, il titolare del Viminale non riesce a azzeccarne una. Tempo fa, in diretta a Sky, fece il viso duro e la voce grossa promettendo che non avrebbe dato tregua all’omicida di tre sorelline a Lecco. Parole dense di propositi battaglieri. “Mi sento di dire da cittadino e da ministro dell’Interno che noi non daremo scampo a chi ha compiuto questo gesto efferato e ignobile, inseguiremo l’assassino fino a quando non lo avremo preso, e quando lo avremo preso lo faremo stare in carcere fino alla fine dei suoi giorni, perché la morte di questi tre bambini non può restare impunita”. Da ministro di polizia sul pezzo, disse che “subito dopo la fine di questa trasmissione” avrebbe convocato i vertici delle forze dell’ordine. “L’Italia non può limitarsi a piangere, deve urgentemente dare la caccia e trovare chi è stato. Noi ci riusciremo”. Peccato (per Alfano) che in realtà ci erano già riusciti. Le agenzie di stampa avevano già battuto la notizia che l’assassino era la madre. Un dramma familiare, come spesso avviene in questi casi. Ne risultava che il bellicoso capo del Viminale non solo era all’oscuro di quanto stava facendo la magistratura insieme alla polizia, ma che qualsiasi cosa lui avesse fatto, non avrebbe avuto alcuna utilità visto che chi doveva, si era già mosso (come dev’essere). Ma la passione per gli annunci (giornalistica?) non lo ha più abbandonato, anzi. L’infortunio lo ha reso ancor più sensibile (e tempestivo). È stato lui a dar notizia dell’arresto di Marcello Dell’Utri. E su Yara Gambirasio ha superato se stesso. Anni e anni di attesa e indagini prima di arrivare a un punto fermo, per quanto ancora da verificare, sull’omicida della danzatrice tredicenne. Poi arriva Alfano. Che non ce la fa a star zitto e dice: “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara”. L’uomo, aggiunge, è uno del posto, di Bergamo. E il commento: “L’Italia è un paese dove chi uccide e chi delinque viene arrestato e finisce in galera”. E dedica la cattura alla famiglia Gambirasio che invece è molto più prudente di lui e attende speranzosa una conclusione certa. Peccato (ancora una volta per Alfano) che il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, dichiari, il giorno dopo, che l’intenzione della Procura era quella di mantenere il massimo riserbo, “anche a tutela dell’indagato per il quale vale la presunzione di innocenza”. Alfano, sulla difensiva, dice di non aver divulgato dettagli e sostiene che l’opinione pubblica “aveva il diritto di sapere”. Dettori controreplica morbido: “Nessuna polemica, ma la situazione non ci è piaciuta”. Anche perché la gente comprensibilmente sarebbe passata al linciaggio dell’operaio quarantaquattrenne agli arresti, Massimo Giuseppe Bossetti, già al suo primo interrogatorio. E la difesa non aveva ancora visionato il decreto di fermo. La rivelazione di Alfano tra le polemiche dimostra che prima di divulgare la notizia (quali altri dettagli avrebbe dovuto riferire?), il ministro non si era raccordato con la magistratura. E già è grave. Poi, che ha dato in pasto alla folla bergamasca un uomo che potrebbe essere l’assassino ma che non essendo stato colto in flagrante sarà un processo a condannare o assolvere (tanto più che lui si proclama innocente). E non si capisce quale impellente motivo avesse l’opinione pubblica di essere rassicurata sul filo dei secondi, col ministro che scippa il grande annuncio al magistrato, visto che Yara è stata uccisa il 26 novembre 2010, cioè non ieri ma più di tre anni e mezzo fa (c’è poco da essere rassicurati). Piuttosto, che sicurezza può darci un ministro degli Interni la cui grande preoccupazione sembra essere quella di arrivare primo nel dare notizia di indagini concluse e arresti, senza neanche parlarne coi magistrati. E che sicurezza può dare un ministro talmente scollegato dalla realtà, da non considerare come proprio compito fondamentale quello di rispettare i ruoli istituzionali e invece di fare concorrenza ai giornalisti lavorare in silenzio per garantire la nostra quotidiana sicurezza? Siamo di fronte a qualcosa più di una gaffe, della quale ci sarebbe solo da sorridere. Qui siamo di fronte a una inadeguatezza (senza neanche dover scomodare il caso Shalabayeva e le acrobazie di Genny ‘a Carogna).
Chi sono i due investigatori che hanno risolto il giallo di Yara. Un poliziotto e un carabiniere: Giampaolo Bonafini e Giovanni Mocerino. Senza di loro, e il loro fiuto, il caso forse non avrebbe mai trovato una soluzione, scrive Giorgio Sturlese Tosi su “Panorama”. Un poliziotto e un carabiniere sono responsabili della svolta nelle indagini sulla morte di Yara Gambirasio che hanno portato all’arresto del 44enne bergamasco Massimo Bossetti. La caparbietà del pubblico ministero Letizia Ruggeri, impermeabile alle critiche piovutele addosso persino dai genitori di Yara, ha tenuto la barra dell’inchiesta riuscendo nell’arduo compito di far dialogare, e collaborare, Polizia e Carabinieri. La scienza e la raccolta di 18 mila profili genetici hanno fatto la loro parte, ma senza l’intuizione e il fiuto di due investigatori, tutto sarebbe stato vano. Giampaolo Bonafini, nel marzo del 2011, è il giovane dirigente della Squadra Mobile della questura di Bergamo. Biondo, occhi cerulei, è un giocatore di scacchi, uno che la notte la passa a rielaborare gli schemi investigativi da sottoporre ai suoi uomini l’indomani. Non gli era mai capitato un caso così complesso e, pur sentendo la pressione di tutta Italia addosso, non si è mai distratto dall’obiettivo. Yara venne trovata nel campo di Chignolo d’Isola il 26 febbraio 2011. A cinquecento metri di distanza c’è una discoteca, Sabbie Mobili evolution, frequentata da giovanissimi. Bonafini non si accontenta dei soliti verbali di “sommarie informazioni testimoniali” dei ragazzi che il 26 novembre 2010, la sera del delitto di Yara, erano in quella discoteca. Decide di fare le cose in grande. E risale ai nomi di tutti i frequentatori della discoteca, che non possono entrare senza una tessera nominativa rilasciata dal locale. Sono centinaia di nomi. A tutti verrà prelevato il Dna. Serve a confrontarlo con quello che l’assassino ha lasciato sugli slip e sui leggins di Yara. Ed ecco la prima svolta. Tra i ragazzi che sono soliti ballare vicino a quel campo abbandonato c’è Damiano Guerinoni, un giovane di Brembate di Sopra, figlio della ex donna di servizio della famiglia Gambirasio. Il suo Dna ha molti punti di contatto con quello del killer. Ma il ragazzo ha un alibi di ferro: il giorno del delitto era all’estero, in Sudamerica. Ma la traccia è quella giusta e dallo screening a cui viene sottoposta tutta la sua famiglia si arriva a determinare con certezza che il ceppo familiare su cui indagare è quello giusto. Gli inquirenti arrivano ad individuare in Giuseppe Guerinoni, autista di pullman morto nel 1999, il padre dell’assassino. Peccato che i suoi figli abbiano un profilo genetico che non corrisponde a quello di Ignoto 1. Quindi Guerinoni deve avere un figlio illegittimo. Ma chi può conoscere il suo nome? Soltanto la madre che, evidentemente, non ha alcun interesse a rivelare il segreto che ha custodito per ben 44 anni. La ricerca si fa disperata. E infruttuosa. Ma c’è un maresciallo dei carabinieri che non molla. Affascinante nonostante i capelli e la barba bianca, originario della Campania ma trapiantato da decenni al nord, miscela l’esuberanza meridionale e la cocciutaggine tipica delle valli bergamasche, dove vive immerso nel verde e passa le ore libere lavorando al giardino, già perfetto ma, per lui, sempre da migliorare. Giovanni Mocerino quelle valli le conosce bene, è stato anche comandante della stazione di Clusone. Lui sa che la divisa, l’accento meridionale, l’atteggiamento un po’ sbrigativo da sbirro, in quei posti, non servono. Sa bene che un caffè al bar frutta più notizie di cento interrogatori. E infatti, dopo mesi che i suoi colleghi convocano migliaia di valligiani in caserma inutilmente, Mocerino decide di seguire un’altra strategia. Esce un poco prima dall’ufficio della procura, a Bergamo, e se ne va a spasso per Clusone, Rovetta, Parre, in tutti quei luoghi che lo hanno visto giovane brigadiere appena mandato al Nord. Riallaccia vecchie amicizie, contatta chiunque, magari con scuse inventate lì per lì. Chiede, con circospezione, agli anziani. Qualcuno ricorda con chi ha avuto una relazione Giuseppe Guerinoni? Difficile abbattere il muro di diffidenza dei bergamaschi di montagna. Ma Mocerino ci riesce. Si sparge la voce che lui cerca informazioni e garantisce riservatezza. Nessun verbale, nessun interrogatorio. A tutti va dicendo: “Se mi dici qualcosa, poi me la vedo io coi capi, mi invento che mi è arrivata una segnalazione anonima”. Il suo passato lo aiuta. In paese ricordano che era un giovane carabiniere gioviale ma integerrimo, corretto. E così, la settimana scorsa, un vecchio autista di pullman, collega di Guerinoni, si avvicina a casa sua. Mocerino sta tentando di sradicare una pianta dal prato all’inglese della sua villetta. L’anziano sonda la situazione. Finge di passare per caso: “andavo alla pinetina”, dice. Mocerino, che possiede un cellulare in grado a malapena di inviare sms ma che con uno sguardo riesce a fare la radiografia a chi gli sta davanti, capisce al volo. Poggia la vanga, si accosta al cancello. Non lo apre. Non forza la situazione. Aspetta. Chiacchiera di niente. Che sia l’altro a farsi avanti. E così accade. Un nome. Quello che gli inquirenti cercavano da anni. Una donna. La madre di Ignoto Uno. Poche ore per la verifica. Poi il test del dna al figlio, compiuto simulando un posto di controllo e un alcol test. La conferma e il fermo di Massimo Giuseppe Bossetti. Il ministro dell’Interno e i vertici delle forze di Polizia spargono ringraziamenti e meriti a pioggia. E l’indagine sulla morte di Yara è certamente un unicum che rimarrà nella storia della criminologia. Ma senza quei due investigatori, forse, l’assassino l’avrebbe fatta franca.
Tutta la verità sull'inchiesta di Yara Gambirasio. Il fermo di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto killer della ragazzina di Brembate, è l'anello finale di un lungo e faticoso lavoro degli inquirenti: tutti i particolari di questa storica inchiesta raccontati dal cronista di Panorama che ha seguito il caso, scrive Carmelo Abbate “Panorama”. L’assassino di Yara Gambirasio da oggi non ha più il nome in codice Ignoto uno. Sulla sua carta di identità ci sarebbe scritto Giuseppe Bossetti, 44 anni, padre di tre figli, un muratore incensurato di Clusone ma vivrebbe a Mapello, poco distante da Brembate di Sopra, il paese dal quale Yara è scomparsa il 26 novembre del 2010 per essere ritrovata senza vita tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti è stato arrestato dai carabinieri del Ros e incastrato grazie al profilo del dna ricavato sui leggings della tredicenne. Alla fine hanno avuto ragione loro: carabinieri, polizia, procura della repubblica di Bergamo. Sono partiti da nulla: nessuna segnalazione, una testimonianza, un indizio, un’immagine ripresa da una telecamera, una soffiata anonima, nulla di nulla. L’hanno cercata invano per tre mesi, fino a quando un uomo ha trovato il corpo, abbandonato in un campo di Chignolo d’Isola, poco distante da Brembate. Ci si è chiesti: come è possibile che nessuno l’abbia notata durante le ricerche? La risposta: c’era la neve, le sterpaglie erano alte più di un metro, anche se quando sono arrivate le telecamere delle televisioni il campo era già stato ripulito. A quel punto, gli investigatori hanno cercato tutte le telecamere fisse dei capannoni nel tratto di strada tra il luogo del ritrovamento e quello della scomparsa. Ce n’erano tre, purtroppo girate verso l’interno: nessuna immagine ripresa sulla strada. Anche le celle telefoniche non hanno fornito nessun aiuto. Insomma, buio pesto. La classica indagine nella quale un investigatore sa che prenderà pesci in faccia. Infatti le critiche ci sono state, anche feroci. Ma gli inquirenti non si sono mai arresi, si sono aggrappati all’unica traccia lasciata dall’assassino e sono arrivati a stabilire con certezza scientifica che era figlio illegittimo di Giuseppe Gerinoni, autista di pullman di Gorno, alta Val del Riso, morto nel 1999. Un ruolo fondamentale lo ha avuto il pubblico ministero Letizia Ruggeri: derisa, sbeffeggiata, è andata avanti sapendo che prima o poi avrebbe avuto ragione. Caparbia fino alla cocciutaggine (è cintura nera terzo dan di karatè e campionessa di sci), ha avuto coraggio con il marocchino Mohamed Fikri: lo ha bloccato in mare, interrogato, ritenuto da subito estraneo e con grande onestà non lo ha trasformato in capro espiatorio. Si è invece concentrata sull’unica traccia lasciate e grazie alle analisi del Ris dei Carabinieri è risalita fino al profilo genetico dell’assassino. Mentre tutti disegnavano profili campati in aria, gli investigatori hanno sempre avuto la barra dritta su alcuni punti fermi.
Primo: l’assassino, probabilmente, non voleva uccidere Yara. I segni di lama sul corpo della piccola ginnasta erano superficiali, confusi e non espressione di una chiara volontà di commettere un omicidio. Se mai avesse voluto, non è stato in grado di farlo.
Secondo: l’assassino non ha trascinato la ragazza nel campo per nasconderla, ma l’ha lasciata lì dopo che la situazione gli è sfuggita di mano. Yara è arrivata con i suoi piedi nel punto in cui è stata ritrovata. Fosse stata più vicina al bordo della strada qualcuno l’avrebbe vista. Invece è morta di freddo. Per mano di un uomo, ritenuto dagli inquirenti un conoscente di Yara: nei minuti esatti in cui la ragazza spariva nel nulla, suo papà passava per quella stessa strada in macchina con il figlio più piccolo. Non ha visto niente, come niente hanno visto gli abitanti dell’isolato. Neppure un urlo: Yara avrebbe seguito spontaneamente l’uomo che poi l’ha lasciata agonizzante sul campo.
Questi erano i punti sulla linea dalla quale gli investigatori non si sono mai allontanati, anche quando le critiche erano pesanti e i termini per le indagini preliminari scadevano. Chi in questi anni ha avuto modo di parlare con loro ha sempre avuto la certezza che lo avrebbero preso: era scritto nei loro occhi, perché, dicevano, «Yara è figlia di tutti noi: l'assassino non può farla franca».
PARLIAMO DI BRESCIA
Brescia nera, viaggio nella città dove cresce il razzismo. Senza immigrati sarebbe vecchia. E più povera. Ma la xenofobia cresce. Soprattutto tra i giovani. Il leader dell’estrema destra studentesca: «La donna deve tornare alla sua natura, fare figli», scrive Fabrizio Gatti l'8 febbraio 2018 su "L'Espresso". La sera, subito dopo l’intervista al figlio, telefona la mamma: «Le chiedo un favore: non scriva il nostro cognome, la prego. Nostro figlio ha solo vent’anni. Può ancora cambiare le sue idee. Pubblicare la sua identità, significa rovinarlo per sempre». Mette i brividi sentire come la periferia tra il mondo e l’immondo possa facilmente attraversare una tranquilla famiglia lombarda. Il papà ricercatore, la mamma assessore di centrosinistra in un piccolo paese della provincia bresciana. E il loro ragazzo già leader di Forza nuova al liceo che parla di razza, del parroco traditore e di come cacciare via tutti gli immigrati. Proprio tutti? «Va favorito un ritorno, non bisogna permettere a nessuno la permanenza prolungata», sostiene Lorenzo, oggi studente al primo anno di Sociologia e va bene, niente cognome. La gente in via Corsica, quartiere don Bosco dietro la stazione di Brescia, torna dalla fabbrica e dagli uffici che è già buio. Passano a piedi, o in bicicletta. E hanno quasi tutti la pelle scura. Sono stranieri o nati da genitori stranieri. Li guardi e ti chiedi come sarebbe senza di loro la seconda città più grande della Lombardia. Via il trentotto per cento dei piccoli da zero a quattro anni. Via 7.868 bambini e ragazzi fino a quindici anni, il trenta per cento sul totale dei coetanei. Via 28.138 persone tra i quindici e i sessantaquattro anni, il 23 per cento della forza lavoro che il 4 marzo non potrà votare. Via tutti i residenti non italiani: 36.767 persone, cioè il 18,7 per cento dei 196 mila abitanti attuali, la più alta concentrazione nazionale per una città, insieme con Milano e Prato. Se le idee che preoccupano la mamma di Lorenzo ottenessero la maggioranza del Parlamento, Brescia si ridurrebbe a una cittadina di 159 mila abitanti: meno di quanti ne aveva tra il 1951, quando Nunzio Filogamo presentava alla radio la prima edizione del Festival di Sanremo, e il censimento del 1961, anno della costruzione del Muro di Berlino. Ma soprattutto sarebbe una città inesorabilmente vecchia: con 47.525 bresciani sopra i sessantacinque anni, il trenta per cento sul totale, più del cinquanta per cento della potenziale forza lavoro, a sua volta condannata a mantenerli pagando a molti di loro la pensione. Sarebbe una mazzata economica, non solo demografica. E senza manodopera, addio record che rende Brescia uno dei primi distretti industriali d’Europa: 35 miliardi di Pil, 10 miliardi di valore aggiunto, centosessantamila posti di lavoro. L’economia qui è tornata a pedalare. Molto lentamente. Ma pedala. Lo si annusa nella puzza che impregna il respiro non appena la notte nasconde i fumi delle fabbriche. Eppure la geografia dei consigli comunali leghisti eletti appena fuori città dimostra che da queste parti sono migliaia i lombardi convinti dall’utopia (o distopia) dello sviluppo senza operai. Per questo Brescia non è soltanto la provincia lombarda più orientale, al confine con il Veneto. Del Nord Est è anche la porta ideologica: nei paesi curati fino all’ossessione non si incontrano ghetti o quartieri fuori legge. Non esistono isolati militarmente occupati dagli spacciatori. La povertà scrosta le facciate soltanto in qualche cortile e ai numeri alti di via Milano, periferia occidentale del capoluogo, dopo il cimitero. Il deserto a un’ora di autostrada da Milano affiora invece nelle parole, nella presunta identità italiana o addirittura bresciana impugnata come scorciatoia per interpretare la realtà, nell’incapacità di gioire dei propri successi, nel bisogno costante di avere paura. E se niente e nessuno fa paura, basta inventarne la sua percezione. Come? L’ordinanza del sindaco è il soffietto amministrativo più usato per ravvivare il fuoco del popolo. Le terre bresciane ne hanno coltivate a decine, accanto a inamovibili risoluzioni dei consigli comunali. Come l’obbligo per i non residenti di chiedere e pagare con dieci giorni lavorativi d’anticipo l’autorizzazione per un normale pic-nic domenicale, nel parco realizzato con i soldi pubblici dell’Unione Europea (2016, Castel Mella, undicimila abitanti, 8,3 per cento stranieri). Il premio ai vigili urbani per ogni immigrato irregolare fermato (2006, Adro, settemila abitanti, 6,1 per cento stranieri). O il provvedimento che vietava ai non cristiani di avvicinarsi a meno di quindici metri dalle chiese (2000, Rovato, diciannovemila abitanti, 21,5 per cento stranieri). E suor Anna che per protesta si avvicinava, ogni giorno con un cartello diverso: “Sono musulmana”, “Sono ebrea”. Da allora sono trascorsi diciott’anni di fascismo militante, spacciato per autonomia e voglia di secessione. Il liceo statale dedicato alla poetessa Veronica Gambara ha diplomato generazioni di insegnanti bresciani. La targa all’ingresso della biblioteca ricorda Clementina Calzari Trebeschi, la professoressa di italiano del Gambara morta a 31 anni il 28 maggio 1974 nella strage di piazza della Loggia. Quel giorno la bomba fatta esplodere in mezzo a una manifestazione contro il terrorismo neofascista uccide anche il marito di Clementina, Alberto Trebeschi, 37 anni, professore di fisica. Tra le otto vittime dell’attentato, cinque sono insegnanti. Oggi il Gambara è un indicatore sociale. La sua sede in centro raccoglie studenti dai quartieri benestanti, ma anche dalla periferia e dalla provincia. Avendo un passato di istituto magistrale, la maggioranza sono ragazze. E tra di loro, il colore dei volti oppure il velo sui capelli misura il successo della scuola come officina di una nuova comunità. L’allarme suona nel 2015 con l’elezione dei rappresentanti degli studenti: la lista “Lotta studentesca” del partito fascista Forza nuova prende 168 voti e non passa. Ma dodici mesi dopo, per l’anno scolastico 2016-2017, fa il pieno: 780 voti su circa milleduecento allievi, il 65 per cento. Gli eletti vengono addirittura dal corso in scienze umane. E il più votato è proprio Lorenzo, 460 preferenze contro le 98 dell’anno prima. Come avete fatto? «Ci siamo proposti un po’ più moderati», risponde lui, capelli corti sulle orecchie, ciuffo tirato da parte, maglione grigio con lo stemma della Marina militare e un rosario di legno nella tasca sinistra del giaccone. Ci sediamo nel bar di fronte a un negozio che da giorni espone in vetrina il cartello “Cercasi personale” e non lo trova. «Io ad esempio mi sono tolto gli anfibi», aggiunge con un sorriso. Qual era il vostro programma? Escludere gli stranieri dal diritto allo studio? «No, no, abbiamo proposto e ottenuto gli specchi nei bagni». Per una lista identitaria lo specchio per guardarsi è quasi un lapsus freudiano: la forma più rudimentale di selfie. O forse, come minimizzano oggi alcune insegnanti, è l’alta utenza femminile ad avere decretato il successo di tre maschi fascistelli. Cosa le fa più paura? «Il lavoro che non c’è», dice subito Lorenzo. Poi? «Che ciò che mi rappresenta come comunità sparisca, nella religione, nella gastronomia, nella lingua locale. Il vuoto favorirà l’islamizzazione dell’Europa». Qual è il ruolo della donna nella società? «La donna deve essere l’angelo del focolare. Non è una costrizione, questo deve entrare nella testa delle donne: la donna deve tornare alla sua natura di fare figli e stare a casa». È la stessa visione degli estremisti islamici: che effetto le fa aderire a un partito fondato da Roberto Fiore, condannato per reati di terrorismo? «Non ho approfondito la questione. Ma faccio i complimenti alle musulmane che si coprono il volto, rispettano la loro cultura. Comunque ho lasciato Forza nuova. Dopo un breve periodo in Generazione identitaria, sto dando il mio contributo alla nascita di Brescia ai bresciani». Cosa voterà il 4 marzo? «Forza nuova. Avrei votato Salvini, se non si fosse schierato con Berlusconi». Fascisti, identitari, leghisti, astenuti, disinteressati. È un magma giovanile in attesa di un leader comune, che magari mettendo gli elettori davanti allo specchio distolga i più distratti dalle vere intenzioni. Proprio come al Gambara. Era normale che prima o poi accadesse, in un liceo che fonda le sue radici popolari nella città e nella provincia. Oggi, con il passaggio all’università dei rappresentanti eletti, rimangono le riflessioni sulla facilità con cui è successo. Tra le paure attuali degli studenti di quinta che quest’anno voteranno per la prima volta non appare affatto l’immigrazione. Eccone una lista, dopo un breve incontro: l’ignoranza della gente, la politica estera degli Stati Uniti, non avere la sicurezza economica attraverso il lavoro, deludere gli altri...Non significa che la convivenza sia una condizione scontata. L’onda lunga della crisi ha portato la disoccupazione dal 3,2 al 9,1 per cento. Dal 2007 al 2013 la natalità bresciana è crollata del 21 per cento e del 3 per cento tra gli stranieri. Il 22 per cento dei nati italiani può usufruire dell’asilo nido, contro il 10 per cento delle famiglie immigrate. Il 32 per cento dei bresciani sopra i 65 anni vive solo. Il 16 per cento di chi chiede aiuto alla Caritas ha un lavoro, ma non uno stipendio che permetta l’autosufficienza. Nella graduatoria in attesa di una casa popolare, sono stranieri 69 assegnatari tra i primi cento. E a Vobarno in Val Sabbia, 8 mila abitanti, 16,4 per cento di immigrati, lo sono 62 su 74, l’83 per cento degli aventi diritto. L’identità è una brutta bestia. Perché, come insegna il sociologo irlandese Benedict Anderson, si genera parlandone. Per mostrarne i possibili effetti, Marco Traversari, 54 anni, insegnante del Gambara e tra gli antropologi più attivi del momento, ha portato i suoi studenti a Srebrenica, sui luoghi del genocidio di ottomila musulmani massacrati nel 1995 dall’unità serba del generale Mladić. «La crisi e il taglio al welfare crea scarsità di risorse e quando le risorse sono scarse, il discorso dell’identità culturale e di appartenenza rientra in gioco», spiega Traversari: «Alle battaglie universaliste del sindacato in cui tutti abbiamo gli stessi diritti si contrappone il relativismo della destra: loro lottano per un solo gruppo etnico. Vogliono l’etnicizzazione del conflitto». Se il puzzle bresciano non si sgretolerà, sarà grazie all’argine sociale innalzato in totale solitudine molto prima che l’attuale giunta di centrosinistra venisse eletta cinque anni fa. Don Fabio Corazzina, 57 anni, parroco di Santa Maria in Silva, è uno dei costruttori. Il suo oratorio accoglie i visitatori con le parole dell’arcivescovo Carlo Maria Martini: “Lasciateci sognare”. Ed è frequentato da centinaia di dreamer italiani: la generazione di bambini che è nata in Italia, studia in italiano, forse lavorerà in italiano. Ma rimane straniera. Non è necessario essere cristiani per entrare. Don Fabio accoglie tutti e il pomeriggio arrivano le mamme straniere con i loro figli per il doposcuola gestito da volontari cattolici e anche musulmani. La scuola media del quartiere, su tre classi di prima, ha solo due alunni italiani. Brescia è un modello di insegnamento, anche al quartiere del Carmine. «Ma fra i cosiddetti stranieri», aggiunge don Fabio, «il sessanta per cento dei bambini è nato in Italia. Li guardi: ci sono trenta provenienze diverse. Se io aspetto che qui vengano solo cattolici, posso chiudere. Serve tempo. E il tempo necessario a conoscersi non è il tempo amministrativo. Il doposcuola esiste da otto anni. Sikh indiani e imam hanno a loro volta aperto i loro luoghi di culto alle visite delle scuole. Non bisogna smobilitare la convivenza nei quartieri». Quando don Fabio ha portato i parrocchiani in Baviera a visitare i luoghi della Rosa bianca, il movimento di studenti cristiani decapitati per essersi opposti al nazismo, i fascisti bresciani gli hanno ricoperto la macchina di svastiche. «L’identità è un tema di destra. Ma l’identità cattolica non è un tema di destra», afferma, «perché è un’identità evangelica: significa accogliere il prossimo come ha detto Gesù. La Lega è stata sdoganata per una superficialità culturale e la chiesa del Nord ha le sue responsabilità. Il magistero sociale della chiesa risale all’enciclica Rerum Novarum, 1891, e già parlava di salario minimo familiare». L’altro costruttore dell’argine, Umberto Gobbi, 55 anni, cofondatore di “Radio Onda d’urto” e dell’associazione “Diritti per tutti”, lo trovi la mattina presto a rinviare lo sfratto di una mamma marocchina separata e delle sue tre figlie. Grazie a un protocollo condiviso con prefettura, Comune, forze dell’ordine, si cerca sempre una mediazione per attivare il canone moderato o trasferire la famiglia in una casa popolare. Gli sfratti hanno rischiato di incendiare Brescia. Nel 2014 erano 800 in città e duemila in provincia. L’anno scorso sono scesi a 199. Ma aumentano i pignoramenti degli appartamenti di quanti non sono riusciti a pagare il mutuo: in Tribunale passano di mano quasi cinquecento alloggi al mese. Gobbi si fa sempre accompagnare da un gruppetto di volontari. Qualcuno è italiano, qualcuno straniero. Anche questa è mediazione culturale. Lui sorride: «Chi crede di trovarsi sul lastrico per colpa degli immigrati si trova spiazzato. Diventa chiaro anche agli sfrattati italiani che senza solidarietà sarebbero finiti sulla strada».
BRESCIA INQUINATA.
Brescia, nei terreni inquinati dalla Caffaro 500 kg di diossine. Quasi 20 volte di più che a Seveso. I dati rilevati in una relazione dell'Arpa. Per bonificare l'area andrebbero rimossi 3 milioni e 170 mila metri cubi di terra in cui si trovano abitazioni private, scuole pubbliche, campi agricoli, stabilimenti, infrastrutture e circa 25mila abitanti, scrive Andrea Tornago il 29 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". È un veleno così formidabile che la sua tossicità si calcola in nanogrammi, i miliardesimi di grammo. Ed è classificato tra i cancerogeni certi per l’uomo secondo lo Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Ma le diossine disperse nell’ambiente, a Brescia, si contano in chilogrammi. Una quantità enorme, senza precedenti nel mondo industrializzato. Il dato è riportato in una relazione dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) sull’inquinamento causato dalla fabbrica chimica Caffaro di Brescia, che ha prodotto per più di 50 anni i cancerogeni Pcb e inserita dal 2002 – insieme a un territorio di 1 milione e 800 mila metri quadri a sud della città – nel novero dei Siti inquinati di interesse nazionale. Secondo i geologi Maria Luigia Tedesco ed Enrico Alberico dell’Arpa, nei terreni del sito Brescia-Caffaro sono presenti almeno500 kg di diossine (con tossicità equivalente alla diossina di Seveso, la più pericolosa), ovvero 500mila miliardi di nanogrammi. Rispetto a uno dei più gravi disastri chimici italiani, l’esplosione del reattore della fabbrica Icmesa di Seveso nel 1976 che provocò la fuoriuscita – secondo le stime più attendibili – di quasi 30 kg di veleno, a Brescia è dunque presente una quantità di diossina 20 volte superiore. A Seveso e nei comuni vicini all’Icmesa, dove lo strato di diossina era concentrato e superficiale, dopo l’incidente del 10 luglio ’76 la popolazione fu evacuata, le abitazioni distrutte, gli alberi abbattuti, il terreno rimosso e i rifiuti collocati in enormi vasche controllate. A Brescia invece la diossina è dispersa in grandi quantità di terreno, anche negli strati più profondi, ed è impossibile da isolare se non rimuovendo 3 milioni e 170 mila metri cubi di terra (sempre secondo i dati dell’Arpa) dove si trovano abitazioni private, scuole pubbliche, campi agricoli, stabilimenti, infrastrutture e circa 25mila abitanti per i quali sono stati previsti in questi anni dalle autorità sanitarie solo ordinanze e divieti parziali. Le diossine non sono l’unico grave problema del sito inquinato di Brescia. Il dato, già di per sé eclatante, di 500 kg di diossine non tiene conto della presenza dei policlorobifenili (Pcb), altri composti chimici “cancerogeni certi” secondo lo Iarc, che l’industria Caffaro ha prodotto allo stato puro dal 1938 al 1984: dallo scarico della fabbrica ne sarebbero uscite circa 150 tonnellate, disperse nell’ambiente attraverso le rogge agricole a sud della città di Brescia per diversi chilometri fino alla bassa bresciana. Sempre secondo la relazione dei geologi dell’Arpa, nei terreni del Sin Brescia-Caffaro sono presenti ancora 5 tonnellate di Pcb (nelle rilevazioni la sostanza si calcola in microgrammi, ovvero milionesimi di grammo) oltre ad altri inquinanti come il mercurio. E il documento non tiene conto dei veleni presenti nello stabilimento dell’ex Caffaro, dove sotto l’impianto di trattamento delle acque sono stati trovati 235mila ng/TEQ/kg di diossine (limite per i siti industriali di 0,0001) e 69 milioni ug/kg di Pcb (limite di 5): per bonificare l’ex fabbrica, rimasta senza proprietà dopo la scissione della Snia e il fallimento della chimica Caffaro, sarebbe necessario asportare un volume di terreno pari al colle Cidneo, su cui è collocato il castello di Brescia. Per bonificare il terreno, più di 3 milioni di mc per un peso di oltre 5 milioni di tonnellate (senza tener conto della bonifica dell’ex stabilimento), secondo le stime del Ministero dell’Ambiente saranno necessari circa 1,5 miliardi di euro. Per ora a Brescia non c’è un piano generale di bonifica e i fondi a disposizione del commissario Roberto Moreni, nominato nel giugno scorso dal ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, sono fermi a 13 milioni di euro.
ADRO E L’ARRESTO DEL SINDACO LEGHISTA.
Arresti domiciliari per il sindaco «sceriffo» di Adro, Oscar Lancini, della Lega Nord, scrivono Thomas Bendinelli e Mara Rodella su “Il Corriere della Sera”. I carabinieri del nucleo investigativo di Brescia hanno suonato al campanello della sua abitazione con tanto di mandato. Secondo l’accusa Lancini sarebbe coinvolto in una turbativa d’asta riguardante la realizzazione dell’area feste del paese: avrebbe favorito aziende edili «amiche» in una gara di appalto per delle opere riguardanti l’area festa del parco del paese. Altra accusa nei suoi confronti sarebbe quella di falso in atto pubblico. Sono attualmente ancora in corso le perquisizioni delle forze dell’ordine negli uffici comunali, che questa mattina sono rimasti chiusi al pubblico. Gli inquirenti stanno cercando documentazione che dimostri gli atti illeciti. Gli arrestati sono in tutto sei: il sindaco, altri tre amministratori comunali e due imprenditori. Lancini è noto alle cronache nazionali per la sua crociata contro i genitori dei bimbi che non pagavano la mensa all’asilo, ai quali aveva negato l’accesso ai pasti. Una posizione che fece molto discutere e che si risolse con l’intervento dell’imprenditore (suo omonimo) Silvano Lancini. Il benefattore venne premiato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: una mossa che scatenò gli strali del sindaco che scrisse a Napolitano una lettera di fuoco criticando quell’onoreficenza e venne indagato (poi prosciolto) per vilipendio al capo dello Stato. Non solo. Lancini è diventato famoso anche per il nuovo polo scolastico «Gianfranco Miglio» farcito di soli delle alpi, i simboli leghisti (che poi è stato costretto a togliere) per il quale è ancora aperta una causa civile. Lancini, 48 anni di professione imprenditore. E ancora: Lancini in passato è stato coinvolto nella storiaccia dell’azienda di famiglia, la Elg, che versava scorie tossiche nell’ ambiente (grazie anche alla prescrizione Lancini non è mai stato condannato). Quella stessa azienda è poi passata di mano alla Vallesabbia Servizi srl (dove attualmente lavora anche il fratello di Lancini), recentemente chiusa (e poi riaperta) dalla procura per un grave episodio di inquinamento. Adesso l’ultima pesante tegola sulla carriera del sindaco di Adro, che la Lega aveva anche candidato nelle ultime elezioni parlamentari. Lo scorso 24 ottobre la Corte dei conti aveva condannato lui e i sei componenti della sua giunta al pagamento al Comune bresciano di circa 10.600 euro in tutto per il ”danno indiretto” legato alla vicenda delle centinaia di ‘soli delle Alpi‘. I giudici amministrativi lo hanno a pagare 7 mila e 398 euro, mentre i sei assessori dovranno versare 528 euro a testa per il ”danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo”.
PARLIAMO DEI BAMBINI MORTI AD ONO SAN PIETRO.
Bambini morti in incendio ad Ono San Pietro, il 17 luglio 2013. Armi, minacce, appostamenti: il calvario della famiglia Iacovone. Paese sotto shock dopo la tragedia, scrive Gabriele Moroni su “Il Tempo”. Un giorno Pasquale Iacovone mostra una pistola ai suoi figli: «Sparerò a vostra madre». I carabinieri gli perquisiscono casa, trovano la pistola col tappino rosso, lui si giustifica dicendo che è una scacciacani. In un’altra occasione è un coltello da cucina a essere messo sotto gli occhi di Andrea e Davide. «Avrete la mamma al cimitero e il papà in galera», è la fosca previsione dell’uomo. E il legale della donna consegna quello spaventoso sms in Procura a Brescia insieme con un fascio di denunce per minacce, per stalking. Un annus horribilis che vede Iacovone perseguitare la moglie. Ma nessuno provvede a fermare quell’uomo che pare non porre limiti al suo odio. E adesso, inevitabilmente, se le ipotesi peggiori saranno provate, si dirà che tutto era annunciato, tutto era scritto. «Nessuno parli di incidente», scandisce Pier Luigi Milani, legale di Erica Patti, 35 anni, impiegata, da tre anni non più moglie dell’operaio di Ono. Il suo è un racconto a mezza strada fra l’orrore e il surreale. «Si erano separati nel febbraio del 2010. Circa un anno fa lui ha incominciato con uno stalking senza soste, instancabile, sotto casa, vicino casa. Passava davanti e minacciava, imprecava. Siamo arrivati al punto da installare una telecamera all’ingresso per documentare tutte le molestie. Pedinava la signora, la seguiva, la inseguiva, le tagliava la strada con l’auto. Lei era così esasperata che un giorno mi ha detto: "La prossima volta che mi blocca gli vedo addosso". Non so come abbia fatto a resistere fino a oggi». «In un anno abbiamo fatto una decina di denunce. Le ho portate in Procura. Il 7 gennaio di quest’anno il gip aveva adottato il provvedimento di divieto di avvicinamento non solo alla signora, ma anche al padre e ai luoghi di lavoro». E prosegue: «Non se la prendeva solo con l’ex moglie. Il papà della signora allena una squadra di calcio in paese, andava a minacciarlo davanti a tutti. Aveva minacciato anche la mamma di un bambino coetaneo di uno dei figli che aveva testimoniato per uno di questi episodi e la signora lo aveva denunciato». «Lui si era licenziato ed era stato riassunto in un’altra azienda di carpenteria con uno stipendio dimezzato. Di sua iniziativa aveva dimezzato l’assegno di mantenimento: da 1.500 a 850 euro. Il 3 luglio ci siamo trovati in tribunale per l’udienza di modifica delle condizioni di separazione. La signora chiedeva di essere autorizzata a portare i bambini in terapia di supporto psicologico. È arrivato sventolando quella che ci ha detto essere la busta paga, ma senza l’intestazione e l’indirizzo della ditta. "Vedete che prendo molto meno", ci ha detto». «I bambini erano stati via con lui una decina di giorni. Avrebbe dovuto riportarli domenica sera. Quando non li ha visti arrivare, la signora gli ha telefonato senza avere risposta. Ha inviato un sms. Niente. Ieri mattina (martedì, ndr) mi ha chiamato per dirmi che era arrivata la citazione, il processo per stalking era stato fissato per ottobre. Domani (oggi, ndr) ho l’incontro con la psicologa dei Servizi sociali di Breno. Ho consigliato alla signora di chiamare questa psicologa perché anche lei cercasse di rintracciare Iacovone. La psicologa ha chiamato senza avere risposta. Mi hanno riferito che Andrea è stato visto girare in paese. La mia segretaria mi ha detto che c’era stato un incendio a Ono e due bambini erano morti». Un procedimento al tribunale dei minori per togliere a Pasquale Iacovone la patria potestà. «Si giustificava — conclude l’avvocato — sostenendo che i bambini stavano bene con lui».
Brescia, fratellini uccisi nel rogo: ecco le denunce contro il papà. La madre aveva presentato esposti circostanziati per denunciare le minacce di Pasquale Iacovone: un elenco sconcertante, scrive di Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. «Aiutateci a denunciare quello che è successo a mia sorella e ai suoi due bambini, perché in casi come questi si intervenga il prima possibile, prima che le minacce diventino tragedia, come quella che si è portata via Andrea e Davide. I tribunali sono pieni di queste vicende, potenziali tragedie, pronte a deflagrare da un momento all’altro». Parole drammatiche quelle pronunciate da Omar Patti, lo zio dei bambini uccisi da Pasquale Iacovone, detto “Pasqualino”, il padre-padrone di 40 anni che si è trasformato in orco, soffocando con un cuscini i due figli di 9 e 13 anni - questa, in base ai risultati dell’autopsia, pare sia stata la modalità di quello che sempre più chiaramente si prospetta come un duplice omicidio - e poi bruciando i loro corpi nel rogo che ha provocato l’esplosione della casa di Ono San Pietro, in provincia di Brescia. D’altro canto, col passare delle ore il fascicolo aperto con l’ipotesi di duplice omicidio volontario va riempiendosi anche di denunce e segnalazioni presentate in passato alla magistratura e ai carabinieri dalla mamma dei due fratellini, già a partire dal settembre del 2010. E dunque, agli atti dell’inchiesta sono pure confluite tre memorie presentate dal legale di Erica Patti, l’avvocato Pierluigi Milani: la prima è datata 30 ottobre 2012, e contiene tre allegati in dvd, con le riprese effettuate grazie una telecamera posta sul balcone di casa della signora Patti che documentano gli episodi dell’11, 18 e 21 settembre e del 20 ottobre 2012. La seconda memoria risale al 7 novembre 2012, mentre la terza reca la data del 17 dicembre del 2012. Agli atti dell’inchiesta, anche altri tre dvd e un cd rom con altre immagini di minacce, intimidazioni e violenze subìte dalla donna, dai suoi genitori e dagli stessi figli, durante questi interminabili tre anni, in cui evidentemente i meccanismi di tutela non sono scattati tempestivamente. Un calvario che già il 6 di settembre del 2012 solo per un miracolo non si trasforma in tragedia: racconta Erica Patti nelle denunce sopracitate che, uscita dal lavoro, viene inseguita da Pasquale Iacovone, il quale a bordo del furgone della ditta per la quale lavorava le taglia prima la strada in un curvone, poi la stringe facendola uscire di carreggiata e quindi innesta la retromarcia per tamponarla. Non pago di tutto questo, nella stessa giornata si reca sotto casa della ex moglie, la aspetta e quando arriva le urla: «Ti ammazzo, avrai pace solo quando sarai sotto terra», tentando di nuovo di investirla. Peraltro, nelle memorie già all’epoca consegnate alle autorità, la donna rimarca come minacce e atti di violenza siano proseguiti anche il 21 di ottobre 2012, con un nuovo tentativo di buttare l’auto della donna fuori strada; il 24 ottobre, con Iacovone che si presenta a casa dell’ex moglie per prendere i due figli e, venuto a sapere dello scarso rendimento scolastico del piccolo Davide, prima minaccia di morte la moglie, poi si precipita al campo sportivo dove l’ex suocero allena la squadra di calcio locale e, davanti a più testimoni, batte le mani contro le recinzioni urlando: «Bastardo, consegnami mio figlio, io ti ammazzo!». È proprio dopo quest’episodio che il legale della famiglia Patti chiede al magistrato «una idonea e discreta misura di videosorveglianza», ma il pm decide di non far installare le telecamere. Per la verità le minacce rivolte anche contro i bambini iniziano anche prima, tutte documentate da denunce circostanziate. Il 5 giugno 2012 Iacovone si reca sotto casa dell’ex moglie e le urla: «Scendi che ti spacco la testa. Io te la faccio pagare, a te e ai tuoi genitori. Me la prenderò con i tuoi bambini». Il 23 giugno 2012 altre terribili minacce contro i due piccoli denunciate ai Carabinieri: «L’unico modo per farti del male è fare del male ai tuoi figli». E il 4 agosto del 2012: «Vi metterò una bomba a casa … famiglia di m … ve ne accorgerete!». Poi il 6 ottobre 2012: «Avrai pace solo quando sarai sotto terra», e ancora: «Ammazzo lei e quel bastardo di suo padre, i miei figli avranno un padre in prigione e una madre sotto terra», e: «Io vivo solo per vendicarmi». Il 15 dicembre 2012: «Ti vengo a prendere, c’è un colpo anche per il tuo nuovo compagno se ti rivolgi ancora ai Carabinieri; ricordati che hai due figli...». Nel cd rom allegato alla memoria presentata al magistrato in data 20 dicembre 2012, il lungo filmato documenta le scorribande di Iacovone. Un altro filmato importante è quello del 7 novembre. Mentre il 10 marzo del 2013 il piccolo Andrea addirittura fugge disperato dalla casa del papà, dopo che questi aveva preso un coltello e lo aveva messo sulla sua auto dicendo: «Ora vado e ammazzo tua madre!». Il 4 e il 6 maggio del 2013 Iacovone cerca di tamponare due volte frontalmente l’auto della moglie, ma si ritira all’ultimo istante, forse per il sopraggiungere di un’altra vettura. Ecco, questo il quadro. Sconvolgente. Episodi che, ci assicura l’avvocato Milani, sono stati tutti coraggiosamente denunciati da Erica Patti. Più e più volte. E magistrati e forze dell’ordine avranno anche rispettato tutte le procedure e i tempi tecnici, non lo mettiamo in dubbio. Sappiamo anche che, anche in presenza di separazioni complicate, non è così facile - comprensibilmente e fortunatamente - impedire a un padre di vedere i propri figli. Ma insomma, vista così davvero non si capisce come non si sia potuto intervenire per tempo. L’udienza, com’è ormai tristemente noto, era stata fissata per il prossimo ottobre. Troppo tardi per salvare la vita ai piccoli Davide e Andrea. Troppo. «Vorrei cercare di spiegare che questo dramma non era prevedibile. Anzi, era imprevedibile e imprevisto perché Pasquale Iacovone era stato semmai molesto nei confronti della moglie, ma mai nei confronti dei figli».
Quella dell'avvocato Gerardo Milani non è un'arringa preventiva ma un tentativo di inquadrare la tragedia di Ono San Pietro in una dimensione più razionale, senza per questo urtare il dolore di una famiglia anzi, di una comunità, scrive Claudia Venturelli su “Brescia Oggi”. Il legale del papà di Davide e Andrea, ricoverato in condizioni disperate al Centro grandi ustionati di Padova, prova a rimettere in fila fatti e circostanze. Perché se per Pierluigi Milani, avvocato della mamma delle vittime Erica Patti, si tratta di una «tragedia annunciata», per il difensore di Iacovone, «non ci sono precedenti che testimoniano la pericolosità del mio assistito nei confronti dei suoi figli. Se così fosse stato il Tribunale di Brescia avrebbe immediatamente adottato un provvedimento che tutelasse i minori». Fra le righe delle parole del legale si legge quasi la consapevolezza che si ci trovi davanti a un duplice omicidio maturato in famiglia. «C'è un tempo per ogni cosa - ribadisce Gerardo Milani - e questo è solo il momento del dolore, del silenzio e della preghiera». Ma poi sostiene con forza l'imponderabilità della tragedia. «Prova è che solo quindici giorni fa eravamo tutti in udienza a Brescia, davanti a tre giudici, per discutere di questioni marginali legate alla separazione, come l'assegno di mantenimento - osserva il legale -. Ma nessuna parola è stata spesa sul fatto che il padre potesse far del male ai suoi figli». È chiaro che altrimenti qualsiasi giudice, nell'arco di poche ore, avrebbe preso provvedimenti. Invece i provvedimenti restrittivi a carico di Iacovone riguardavano solo il divieto di avvicinarsi alla moglie. «È vero - ammette Gerardo Milani -, il mio assistito domenica ha violato gli accordi, non ha restituito i figli alla madre, ma nessuno il giorno dopo mi ha chiesto nulla». E per l'avvocato Milani è la prova lampante che «nessuno immaginava potesse far del male ai figli. Diversamente ci saremmo immediatamente attivati». Il legale insiste sul rapporto apparentemente sereno e affettuoso fra padre e i figli. «L'unica presunta minaccia proferita da Iacovone risale al 2012 ed era rivolta alla ex moglie. Poche ore prima della morte, Andrea e Davide giocavano tranquilli in giardino con il padre». Una scena di serenità prima dell'orrore. Forse come ripete Milani, verrà il tempo delle spiegazioni, ma Iacovone potrebbe non essere più in grado di raccontare cosa è successo quella maledetta mattina di martedì. «È in condizioni disperate -ammette l'avvocato-, la percentuale che sopravviva da uno a 10 è di 0,1».
Come si fa a non pensare a quest'orrore come a una violenza più primitiva ancora delle rocce incise di questa valle? Come si fa a non vederci dietro un cuore più duro delle pietre di queste case? E a non capire chi per le strade di Ono si sfoga dicendo «spero che lui sopravviva, per poter patire almeno un po' di quel che sta soffrendo lei»? Forse, però, bisogna sforzarsi di spiegare anche quel che non si può giustificare. E ancor meno perdonare. Moira Troncatti è la capo animatrice del Grest di Ono San Pietro, scrive Luca Angelini su “Il Corriere della Sera”. Davide era uno dei suoi ragazzi. Andrea lo era stato fino a pochi anni fa. Ed Erica Patti, la mamma, sua amica da una vita. Moira, però, conosce bene anche Pasquale Iacovone. Bene vuol dire non come chi lo vedeva soltanto passare in bicicletta per le vie del paese; rincasare col furgone la sera tardi, dopo una giornata di lavoro, magari fuori provincia; o entrare al bar nella piazza della chiesa per un caffè. «Credo di essere rimasta l'ultima persona con cui si fermava a parlare» dice Moria. L'aveva fatto anche lunedì sera, poche ore prima della tragedia. «Era con i figli al parco giochi. Cosa mi ha detto? Le cose che mi ripeteva da quattro anni. "Mi vogliono vedere morto". Pensava alle denunce, alla possibilità che gli togliessero i figli. Io non gli ho dato peso più di tanto. Però, anche se è ovvio pensare prima di tutto a Davide e Andrea e al dolore di Erica, non riesco a non chiedermi: e dietro a un padre che arriva a fare una cosa del genere, che dolore ci può essere? Pasquale mi ripeteva spesso di essere rimasto solo. Nemmeno i suoi genitori, da Milano, lo chiamavano più. E negli ultimi due mesi non aveva in pratica mai lavorato. Poi lo so benissimo che non era un carattere facile. Non era un attaccabrighe, ma un impulsivo sì. Farlo ragionare non era semplice». Moira non giustifica, figurarsi. Ed è rimasta allibita come tutti gli altri, in paese: «Mai una volta che mi abbia detto qualcosa contro i suoi figli. No, nemmeno lontanamente potevo immaginare che facesse una cosa del genere. Ma, ripensandoci adesso, penso che forse si sentisse davvero già morto dentro».
Sfondare la porta – Una riflessione sul caso Iacovone, scrive Nadia Busato su “Il Corriere della Sera”. «Le stava sempre attaccato. Il giorno in cui sono andati a prelevarlo, solo da quella mattina la polizia ha contato almeno 87 squilli. Era anche finito a mani in faccia con un paio di colleghi sul lavoro. E poi, i bambini di mezzo. Non so cosa gli è scattato, ma non c’era più modo di controllarlo». Non è un’intervista sul caso Iacovone, ma una conversazione tra me e una mia cara amica d’infanzia a proposito di suo fratello, ora in carcere per stalking. Siamo cresciuti insieme; eppure che uomo lui fosse in casa sua io non l’ho mai saputo. Ma sua sorella sì. E perfino lei ha faticato a credere che quella vena di possessività e gelosia potesse diventare tormento minaccioso. Certo, Gussago non è Ono San Pietro: un paesino di 994 anime in ValCamonica non sono certo i 17mila abitanti del paese da boom immobiliare alle porte della Franciacorta. Eppure. Dal più piccolo paese alla metropoli più affollata c’è sempre quella porta lì. Ci escono famiglie all’apparenza ordinarie, con buste della spesa e nani nel pannolone appesi al collo. Ma quando è chiusa, nel bel mezzo del sugo, a un certo punto da dentro è tutto un urlo, un esplodere di oggetti e parole e bambini strazianti e l’aria che sa di odio. Ci abbiamo convissuto tutti, con quella porta lì. Iacovone, dice sua moglie, era un buon padre per i suoi bambini. Anche il fratello della mia amica, dice lei. E le bravi madri a questo danno valore, sopportando in nome di un legame figlio-padre da preservare sacralmente. A costo della vita. Da madre, comprendo; ma da donna e cittadina ho il dovere di chiedermi se è davvero questo ciò che conta, perché ora il ragazzo che giocava con me in strada sta in galera e a Ono San Pietro c’è una madre senza più figli. La porta chiusa è un limite invalicabile per chi ci si chiude dentro. Erica Patti l’aiuto legale, psicologico e dei servizi sociali è uscita a cercarlo e l’ha trovato: quello che ha fatto secondo la legge è un esempio per molte donne. Così come il suo tentativo -eroico, a mio modesto parere- di mantenere sotto controllo la tensione e la follia. Ma nella guerra domestica che stermina mogli e figli occorre ormai fare la rivoluzione e sfondare le porte chiuse delle famiglie violente. Una sera la mia amica invece di alzare il volume della tv ha trovato una forza che non sapeva di avere, è entrata in casa di suo fratello e ha portato fuori i nipoti. Molte altre volte li ha sottratti all’odio irrazionale dei due adulti impegnati ad annientarsi reciprocamente. L’ha fatto per prevenire altra violenza; e perché la visione dell’odio per i bambini non diventasse né abitudine né educazione. Il diritto ad essere liberi in casa propria non è in discussione; ma la libertà non include la violenza vessatoria, fisica, omicida. Io non credo che basti essere un buon padre per essere un uomo intoccabile. E questo nella propria casa, nel proprio quartiere, nel proprio posto di lavoro e, in definitiva, nella propria comunità. Se stasera lo sentite di nuovo, quello che succede dietro la porta chiusa, ascoltatelo bene invece di ignorarlo. Non abituatevi mai, bussate e chiedete: possiamo portar via i bambini? Almeno finché non tornate ad essere persone.
SPRECHI
40 milioni di euro, 0 passeggeri. Inchiesta di Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. L'aeroporto di Brescia costa un bingo, perché ci lavora un sacco di gente; tra controllori di volo, doganieri, poliziotti, facchini etc. Ma nell'ultimo anno non ci è passato neanche un viaggiatore. Un caso limite di sperpero italiano. Da stamattina non atterra nemmeno un merlo. Anche gli uccellini snobbano l'aeroporto più sprecone del mondo. Allacciatevi le cinture e preparatevi a scendere nell'Italia del federalismo militante: benvenuti in Padania, terra di faide all'ultima spesa tra leghisti e berlusconiani. La cattedrale delle cattedrali nel deserto è al centro della verdissima pianura lombardo-veneta. Proprio qui dove il Risorgimento italiano ha combattuto le sue battaglie per l'Unità. E dove 150 anni dopo ogni provincia ha il suo campanile, i suoi parlamentari, il suo dialetto stampato sui cartelli stradali. E, perché no, pure il suo mega aeroporto. Quello di Brescia è straordinario: 3 mila metri di pista, la torre di controllo con due uomini radar di giorno e di notte al lavoro, si fa per dire, vigili del fuoco, poliziotti, finanzieri, doganieri in servizio sulle 24 ore, addetti ai bagagli, alle pulizie, ai metal-detector, alle rampe, al piazzale, al rifornimento, alle previsioni del tempo, alle informazioni al pubblico. E da un anno nemmeno un passeggero. Nemmeno un volo, una partenza, un abbraccio. Roba da umiliare i padrini della defunta Cassa del Mezzogiorno. Ma giù al Nord le cose si fanno perbene. In nome dell'efficienza, del commercio, della tradizione. E del feudo: antico concetto che il linguaggio più raffinato preferisce chiamare lobby. La società Aeroporto Gabriele d'Annunzio ne è un monumento. Gestisce l'omonimo aeroporto di Brescia, nelle campagne di Montichiari, una ventina di chilometri dalla Leonessa d'Italia. E in nove anni, da quando è stata costituita, ha perso la bellezza di 40 milioni 383 mila 462 euro. Il bilancio migliore? Il primo nel 2002, quando ha operato per soli sei mesi: meno 2 milioni 504 mila e 52 euro. Il record nel 2009: meno 5 milioni 813 mila 555 euro e una ricapitalizzazione per perdite da 15 milioni 500 mila euro. Leggermente meglio nel 2010, ma solo grazie alla cancellazione di tutti i voli passeggeri: meno 4 milioni 574 mila 126 euro. Mai un bilancio almeno vicino al pari. Eppure ad appena mezz'ora di autostrada, negli stessi nove anni, l'aeroporto di Bergamo ha portato il suo utile da un milione 786 mila euro a 12 milioni 270 mila euro. Perderli per perderli, se avessero regalato quei 40 milioni ai 63 dipendenti, i 25 operai e i 38 impiegati bresciani avrebbero messo insieme un gruzzolo di quasi 635 mila euro ciascuno. Invece si ritrovano in cassa integrazione. Ultima conseguenza di decisioni prese sempre altrove. Ai cinque amministratori della società va un po' meglio. Nonostante i risultati, negli ultimi sei anni il loro compenso medio pro capite è aumentato senza sosta: dagli 11.221 euro del 2004 ai 19.200 euro all'anno del 2010. Un bel più 71 per cento, che il consiglio d'amministrazione dell'aeroporto integra con guadagni e gettoni in altri incarichi e attività. Così hanno deciso i soci della Gabriele d'Annunzio: la Provincia di Brescia con un simbolico 0,01 per cento di azioni e la società Aeroporto Valerio Catullo di Verona Villafranca con il 99,99, a sua volta controllata da Camera di commercio di Verona, Provincia di Verona, Provincia di Trento, Comune di Verona, Provincia di Bolzano, Camera di commercio di Brescia, ancora la Provincia di Brescia con il 4,19 per cento. E altri soci tra banche, enti e Comuni della zona. Uno spreco di soldi pubblici che comincia da lontano. L'attuale crisi economica c'entra ben poco. Per anni idee, risorse, progetti sono stati bruciati in una battaglia di campanile. Combattuta anche davanti al Tar, al Consiglio di Stato, al tabellone degli orari dei voli. Città contro città. I veronesi della Lega contro i bresciani del Pdl. Lo stesso aeroporto di Verona contro il suo figlioccio di Brescia. Due aeroporti a 45 minuti di autostrada. Tre contando Bergamo. Cinque considerando Milano Linate e Malpensa. Soltanto quest'anno, il 31 maggio, è stata firmata la pace. Sfruttando la circostanza che la Lega governa in Comune a Verona con Flavio Tosi e in Provincia a Brescia. E il Pdl in Comune a Brescia con Adriano Paroli e in Provincia a Verona. Quanto sia stato paradossale lo scontro, lo si legge nel sito Internet dell'aeroporto: aeroportobrescia.it. E' scritto così: "L'obiettivo della società è quello di promuovere lo sviluppo dello scalo bresciano in un'ottica di complementarietà e specializzazione, non conflittuale, rispetto all'aeroporto di Verona...". Non conflittuale. E perché mai un aeroporto aperto con soldi pubblici non dovrebbe fare concorrenza a un altro aeroporto? Per raccontare la cronaca di questa follia, bisogna fare come Tom Hanks nel film "The Terminal" di Steven Spielberg. Vivere nel terminal giorno e notte. Stare nelle sale deserte. Parlare con i dipendenti solitari. Raccogliere le paure di chi rischia di perdere il lavoro. Come gli addetti al piazzale. E i tassisti di Montichiari che non hanno più passeggeri da accompagnare. Non bastano i rarissimi voli in transito. Come venerdì 7 ottobre, quando uno sciopero a Verona ha fatto dirottare a Brescia sei aerei di linea. Nemmeno i nove voli postali della notte sono sufficienti a far respirare i conti. Tra le 23 e le due, dal lunedì al giovedì, viene scaricata e ricaricata sugli aerei la corrispondenza in arrivo e in partenza per tutta Italia. E' l'ultimo contratto rimasto alla società Gabriele d'Annunzio che giustifica la presenza di poliziotti, finanzieri, doganieri, pompieri e via dicendo. Senza questa gentilezza al centrodestra locale da parte di Poste Italiane, rimarrebbero i voli a elica dell'aeroclub. E le prove tecniche della Bosio motori aeronautica, una gloriosa officina di manutenzione che con le limitazioni di rullaggio imposte dal nuovo regolamento dell'aeroporto proprio nel momento in cui non c'è più traffico, rischia a sua volta di chiudere. Cestinato il progetto di farne una scuola per preparare tecnici specializzati che non si sa più dove trovare. Più volte archiviato il tentativo di trasformare Montichiari in uno snodo merci. Le compagnie cargo venute qui sono fallite o hanno traslocato. E così quelle passeggeri. L'ultima a trasferirsi Ryanair: il 30 ottobre 2010. Nonostante gli aerei, dicono i dipendenti, sempre pieni. Dove sono finiti quei voli redditizi? Che combinazione: proprio a Verona. La storia di un giorno qualunque può cominciare da quando a Montichiari è ancora notte.
CARROCCIOPOLI
Scandali in salsa padana. La Lega diventa ladrona? Otto posti in palio alla provincia di Brescia come impiegati, al concorso si presentano in 240, alla fine solo otto ottengono il posto e tra questi ci sono cinque ragazze “vicine” alla Lega, scrive "Blitz Quotidiano". Tutte figlie di, amiche di, parenti di. Non solo. Secondo quanto raccontata il gruppo di cittadini ‘Tempo Moderno’ (il cui referente è l’avvocato Lorenzo Cinquepalmi, dirigente del Psi di Brescia) tra i primi 14 classificati, ben 7 candidate sono riconducibili a fede o frequentazione leghista e nella classifica finale sarebbero stati “depennati” i candidati “non leghisti”. C’è già chi urla allo scandalo e parla di “Carrocciopoli”, il resto è cronaca. Cronaca di un concorsone indetto nel 2008 dall’Amministrazione provinciale di Brescia per l’assunzione di otto istruttori amministrativi (qualcosa di simile all’impiegato di concetto, per capirsi). Poco dopo la pubblicazione del bando di concorso arrivano le candidature: oltre settecento. Poi ci sono le prove scritte e si presentano in 240. Una prima scrematura di polso viene fatta proprio qui e a contendersi quegli otto posti alla provincia rimangono in 38. Si passa dunque agli esami orali e poi esce la classifica finale. Siamo al 4 febbraio 2010 e la classifica viene pubblicata sul sito della Provincia di Brescia, dove nel frattempo è arrivato il nuovo presidente, leghista, Daniele Molgora. Salta subito all’occhio che tra quegli otto fortunati che otterranno il posto, ci sono ben cinque ragazze col marchio “padania” stampato in fronte. A raccontarlo è ancora il gruppo ‘Tempo Moderno’ e sull’argomento arriva anche, sul sito BresciaPoint la denuncia, in un commento a un articolo, di una ragazza che dice di essere Margherita Febbrari, decima classificata e quindi esclusa dal lavoro. La ragazza, nei commenti sul sito BresciaPoint, lamenta di non aver avuto abbastanza “spinte” per poter accedere tra i primi otto posti. Ma vediamo chi sono le “fortunate” vincitrici stranamente tutte vicine al Carroccio. Come racconta “Il Riformista” all’ottavo posto si classifica Sara Grumi, figlia di Guido Grumi, assessore di Gavardo candidato della Lega Nord alle recenti elezioni regionali, e già assegnataria di un incarico a termine di collaborazione con l’Amministrazione provinciale bresciana. Al sesto posto (il settimo è occupato da un candidato non in quota Lega) c’è Katia Peli, nipote dell’assessore leghista provinciale Aristide Peli, assunta fin dal 2004 dall’Amministrazione provinciale bresciana come portaborse dello zio. Al quinto posto poi troviamo Silvia Raineri, capogruppo della Lega nel Consiglio Comunale di Concesio, ma anche capogruppo leghista alla circoscrizione Nord del Comune di Brescia e coordinatrice della commissione sicurezza civica e bilancio nonché moglie di Fabio Rolfi, vicesindaco e assessore leghista del Comune di Brescia. Si arriva così alla vetta della graduatoria. Al primo e terzo posto ci sono rispettivamente Cristina Vitali e Anna Ponzoni, entrambe impiegate con un contratto ad personam presso l’assessorato provinciale alle attività produttive, retto dal leghista Giorgio Bontempi. Una strana coincidenza. Se tre indizi bastano per fare una prova, figuriamoci quattro. L’estate 2010 ci restituisce una Lega Nord dall’immagine molto diversa da quella linda e pinta che si è faticosamente costruita negli ultimi dieci anni. Quattro casi, diversi fra loro, mostrano come il Carroccio ormai sia un partito come tutti gli altri, che deve fare i conti con gli effetti nefasti della seduzione del potere. Dai concorsi pubblici truccati per far vincere le proprie militanti alla parentopoli in puro stile democristiano, dall’auto blu per andare in vacanza con la fidanzata alle foto compromettenti con i boss della ’ndrangheta. Con gli uomini di Bossi che non possono neanche nascondersi dietro il logoro stereotipo degli integri padani che vengono corrotti dagli ammaliatori palazzi romani. Tutti questi casi sono capitati nel profondo Nord. Vediamoli uno per uno, a cominciare dall’ultimo in ordine di tempo. Tommaso Labate sul Riformista ha ben spiegato la vicenda di un concorso per otto impiegati di concetto per la Provincia di Brescia. Tutto comincia a fine dicembre 2008: le candidature sono oltre settecento, ma alla prima prova, quella scritta, si presentano in 240. A fine ottobre del 2009 escono le graduatorie, che vedono 38 ammessi al passo successivo, la prova orale. Di questi, l’anno dopo, otto vengono decretati vincitori. Qui però comincia il bello: la provincia è in mano al leghista Daniele Molgora nonché sottosegretario all’Economia; e sono leghisti ben cinque vincitori su otto. O meglio leghiste. C’è la figlia di un candidato alle ultime regionali, la nipote di un assessore provinciale all’istruzione, la moglie del vicesindaco di Brescia e due collaboratrici dell’assessore provinciale alle attività produttive. Non c’è che dire: un pokerissimo verde per i leghisti bresciani. Lo scandalo arriva poco dopo lo scoppio di una vicenda abbastanza simile in Piemonte, ossia la parentopoli che ha visto protagonista l’emergente Roberto Cota. Alla sua corte, ad esempio, lavora la figlia del capogruppo della Lega in consiglio regionale Mario Carossa, così come assieme al braccio destro del governatore, l’assessore Mario Giordano, lavora la moglie del responsabile comunicazione dello stesso Cota. Un andazzo che alla regione si replica anche per gli altri partiti: tantissimi i casi nel Pdl, anche se alla fine il virus contagia anche i micropartiti della maggioranza come quello dei Pensionati e dei Verdi-Verdi. Quando non c’è da sistemare un parente, ai leghisti piace scorazzare in auto blu. È il caso di Edouard Ballaman, presidente del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, costretto alle dimissioni perché amava utilizzare la propria auto di servizio per fini personali. Come le vacanze a Caorle assieme alla moglie oppure le corse da e per l’aeroporto in occasione del viaggio di nozze. In tutto si tratterebbe di una settantina di escursioni a carico dei contribuenti in poco più di un anno e mezzo, dal maggio 2008 al marzo 2010. Non si è invece dimesso da consigliere regionale il giovane leghista Angelo Ciocca, che anzi ha potuto godere del perdono di Bossi in persona che non ha voluto «buttarlo fuori», per usare le sue stesse parole. Nonostante quello di Ciocca sia il caso più imbarazzante per il Carroccio. A luglio il consigliere pavese è finito nell’indagine dei magistrati milanesi sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta al Nord. Sebbene ancora formalmente non indagato, Ciocca viene fotografato mentre incontra il boss Pino Neri: gli inquirenti ipotizzano che l’oggetto dell’incontro fosse la vendita a Ciocca di un appartamento a un prezzo vantaggioso in cambio dell’interessamento a far eleggere un proprio candidato.
INGIUSTIZIA
Una storia di ordinaria ingiustizia. La racconta Wilma Petenzi su Brescia Oggi. “Nessuno potrà restituire il lavoro che amavano, nessuno potrà cancellare le umiliazioni, la rabbia, i mesi in galera, gli insulti e le minacce delle altre detenute. Nessuno potrà restituire loro la serenità, non potranno riavere la vita di prima, non potranno cancellare la paura, l'ansia, gli anni di processi, ma una parte della sofferenza è stata riparata. I Giudici della corte d'appello di Brescia hanno accolto la richiesta di «riparazione per l'ingiusta detenzione» presentata lo scorso 14 marzo da due insegnanti della scuola materna comunale Sorelli accusate di aver abusato dei bambini che erano incaricate di accudire, detenute per dieci mesi e ai domiciliari per un altro anno e assolte in tutti i gradi di giudizio. Assistite dagli avvocati Massimo Bonvicini e Elena Frigo e Piergiorgio Vittorini e Paolo De Zan, le due maestre hanno ottenuto la riparazione. I giudici hanno stabilito che lo Stato deve risarcire a ogni maestra 299.520 euro. L'ordinanza è già esecutiva. «È un decisione molto importante», commenta l'avvocato Bonvicini. Le maestre non hanno ottenuto il massimo (500mila euro) ma la cifra corrisposta per ogni giornata di detenzione ingiusta è stata raddoppiata. La scelta dei giudici (Enzo Rosina, presidente, con Anna Maria Dalla Libera e Carlo Bianchetti) dipende dal fatto che le due insegnanti si sono difese fin dalla prima fase dell'inchiesta ricorrendo al tribunale del riesame, che la detenzione è stata piuttosto prolungata (con settimane di isolamento e parte dei domiciliari in versione "ristretta"), che per le due insegnanti è stato impossibile essere reintegrate nella precedente attività lavorativa e che le accuse erano particolarmente infamanti. Ma le accuse non hanno retto: le due maestre, con gli altri imputati, sono state assolte in primo grado; l'assoluzione è stata confermata in appello e diventata definitiva lo scorso maggio con la conferma dei giudici di Cassazione. Per i giudici alla scuola Sorelli «non ci fu alcun abuso sessuale sui bambini». E le due maestre, una di 57 e una di 59 anni, hanno quindi ottenuto che lo Stato ripari il danno subito con l'ingiusta detenzione. Le indagini sull'intero corpo docenti e non docenti della scuola comunale «Sorelli», nel centro storico cittadino, erano iniziate nel maggio del 2003, dopo la denuncia sporta da una famiglia. Qualche mese dopo, a settembre, le due maestre erano state arrestate e rinchiuse in cella. A loro sostegno c'era anche stata una fiaccolata all'esterno del carcere di Verziano, dove le maestre erano detenute in isolamento. Un anno dopo, nel giugno 2004, la procura aveva chiuso le indagini per sei maestre, tre bidelli e tre sacerdoti per abusi su 23 bambini, commessi all'interno della scuola, ma anche in luoghi esterni all'edificio scolastico. A luglio, dopo dieci mesi di detenzione, le due maestre avevano ottenuto i domiciliari ristretti. A settembre gli indagati avevano chiesto di essere processati al più presto e a novembre era iniziato il processo per otto imputati (sei maestre, un bidello e un sacerdote). Nel luglio del 2005 le due maestre erano tornate libere, nel febbraio 2007 la procura aveva chiesto una condanna di 125 anni per gli imputati, ma i giudici di primo grado, il 7 aprile del 2007, avevano emesso un verdetto di assoluzione, confermato nell'ottobre del 2008 in appello e nel maggio scorso dalla Cassazione. Ora l'ultimissimo atto: per i giudici lo Stato deve riparare il danno.”
AVVOCATOPOLI.
DA BRESCIA A REGGIO CALABRIA. COSI’ IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE, MARIASTELLA GELMINI, DIVENTO’ AVVOCATO.
L'esame di abilitazione all'albo nel 2001. Il Ministro dell'Istruzione: «Dovevo lavorare subito». Novantatré per cento di ammessi agli orali! Come resistere alla tentazione? E così, tra i furbetti che nel 2001 scesero dal profondo Nord a fare gli esami da avvocato a Reggio Calabria si infilò anche Mariastella Gelmini, scrive Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". La notizia, stupefacente è stata data nella sua rubrica su laStampa.it da Flavia Amabile. La reazione degli internauti che l'hanno intercettata è facile da immaginare. Una per tutti, quella di Peppino Calabrese: «Un po' di dignità ministro: si dimetta!!» Direte: possibile che sia tutto vero? La risposta è nello stesso blog della giornalista. Dove la Gelmini ammette. E spiega le sue ragioni. Un passo indietro. È il 2001. Mariastella, astro nascente di Forza Italia, Presidente del consiglio comunale di Desenzano ma non ancora lanciata come assessore al Territorio della provincia di Brescia, consigliere regionale lombarda, coordinatrice azzurra per la Lombardia, è una giovane e ambiziosa laureata in giurisprudenza che deve affrontare uno dei passaggi più delicati: l'esame di Stato. Per diventare avvocati, infatti, non basta la laurea. Occorre iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, passare due anni nello studio di un avvocato, «battere» i tribunali per accumulare esperienza, raccogliere via via su un libretto i timbri dei cancellieri che accertino l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare appunto l'esame indetto anno per anno nelle sedi regionali delle corti d'Appello con una prova scritta (tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) e una (successiva) prova orale. Un ostacolo vero. Sul quale si infrangono le speranze, mediamente, della metà dei concorrenti. La media nazionale, però, vale e non vale. Tradizionalmente ostico in larga parte delle sedi settentrionali, con picchi del 94% di respinti, l'esame è infatti facile o addirittura facilissimo in alcune sedi meridionali. Un esempio? Catanzaro. Dove negli anni Novanta l'«esamificio» diventa via via una industria. I circa 250 posti nei cinque alberghi cittadini vengono bloccati con mesi d'anticipo, nascono bed&breakfast per accogliere i pellegrini giudiziari, riaprono in pieno inverno i villaggi sulla costa che a volte propongono un pacchetto «all-included»: camera, colazione, cena e minibus andata ritorno per la sede dell'esame. Ma proprio alla vigilia del turno della Gelmini scoppia lo scandalo dell'esame taroccato nella sede d'Appello catanzarese. Inchiesta della magistratura: come hanno fatto 2.295 su 2.301 partecipanti, a fare esattamente lo stesso identico compito perfino, in tantissimi casi, con lo stesso errore («recisamente» al posto di «precisamente», con la «p» iniziale cancellata) come se si fosse corretto al volo chi stava dettando la soluzione? Polemiche roventi. Commissari in trincea: «I candidati — giura il presidente della «corte» forense Francesco Granata — avevano perso qualsiasi autocontrollo, erano come impazziti». «Come vuole che sia andata? — spiega anonimamente una dei concorrenti imbroglioni —. Entra un commissario e fa: "Scrivete". E comincia a dettare il tema. Bello e fatto. Piano piano. Per dar modo a tutti di non perdere il filo». Le polemiche si trascinano per mesi e mesi al punto che il governo Berlusconi non vede alternative: occorre riformare il sistema con cui si fanno questi esami. Un paio di anni e nel 2003 verrà varata, per le sessioni successive, una nuova regola: gli esami saranno giudicati estraendo a sorte le commissioni così che i compiti pugliesi possano essere corretti in Liguria o quelli sardi in Friuli e così via. Riforma sacrosanta. Che già al primo anno rovescerà tradizioni consolidate: gli aspiranti avvocati lombardi ad esempio, valutati da commissari d'esame napoletani, vedranno la loro quota di idonei raddoppiare dal 30 al 69%. Per contro, i messinesi esaminati a Brescia saranno falciati del 34% o i reggini ad Ancona del 37%. Quanto a Catanzaro, dopo certi record arrivati al 94% di promossi, ecco il crollo: un quinto degli ammessi precedenti. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
Va be' ! Però una volta divenuti avvocati, pur con concorso truccato, ci si deve attenere alla correttezza e alla probità. O no ?!?
Sostituiva la sorella gemella quando era giudice di pace, scrive "La Repubblica". Si è concluso con due condanne il processo in tribunale a Brescia nei confronti di due gemelle milanesi di 54 anni coinvolte in una vicenda di falso ideologico. Gabriella e Patrizia Odisio sono due gemelle molto somiglianti tra loro. Ma solo la prima all'epoca dei fatti, tra il 1998 e il 2001, era già avvocato: la seconda lo è diventata successivamente. Nonostante questo Patrizia Odisio, sfruttando la somiglianza, sulla base di quanto denunciato da un vigile urbano in pensione, avrebbe sostituito la sorella, d'accordo con lei, durante le udienze. Questo sarebbe avvenuto, in particolare, quando Gabriella Odisio era impegnata come giudice di pace. Il pensionato se n'è accorto e ha sporto denuncia. Le due sorelle sono state condannate a un anno e tre mesi, con la sospensione della pena, per falso ideologico. Gabriella Odisio era accusata anche di truffa e falsità ideologica in certificato amministrativo, ma è stata assolta da queste accuse. Le due gemelle non si sono mai presentate in aula durante il processo a Brescia.
USUROPOLI
TASSO AL 446%: NON E’ USURA !!
Le archiviazioni dei procedimenti penali, inibiscono ogni forma di ribellione e di lotta contro il reato di usura e di estorsione, scrive "AdnKronos". Ogni proclama a tutela delle vittime è solo specchio per le allodole, perché senza condanna non c’è indennizzo statale.
La sig.ra Lorena Sacchi di Brescia combatte da anni contro il sistema dell’usura e dell’estorsione. Per quanto le riguarda, a fronte del tasso usurario del 446 % a suo danno riscontrato dal perito della Procura di Brescia, inspiegabilmente lo stesso Ufficio requirente ha richiesto l’archiviazione del procedimento 9097/02 RG. L’opposizione presentata ha avuto esito negativo. Con i tempi della giustizia il reato di estorsione è prescritto, ben 6 anni di fase di indagini preliminari.
Non si deve pensare che questi tipi di reati siano di pertinenza esclusivamente meridionale, per il sol fatto che la magistratura archivia e i media tacciono. Sotto la cenere del perbenismo cova una coltre di illegalità impunita e sottaciuta e a farne le spese sono tantissimi cittadini come la sig.ra Sacchi. Dai dati ufficiali, riscontrabili su www.controtuttelemafie.it al link malagiustiziopoli, si evidenzia che solo 4 reati su 100 sono puniti, e solo il 69 % dei reati è denunciato.
SICUREZZOPOLI
Si è concluso in data 14 luglio 2009 con le condanne di otto poliziotti a pene fino a 8 anni e mezzo di reclusione il processo che li vedeva accusati di aver costituito un’associazione per delinquere abusando del proprio potere mentre erano in servizio alle Volanti o alle Scorte tra il 2002 e il 2005, scrive "Il Giorno".
Le condanne sono state emesse dai giudici della decima sezione penale del tribunale di Milano, che hanno dichiarato estinto il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione del promotore dell’organizzazione e dei due ideatori ed esecutori dei reati.
I condannati sono agenti che lavoravano presso la Squadra Volanti della Questura di Milano. Secondo la ricostruzione dell’accusa, in alcune occasioni si sarebbero fatti corrompere dagli spacciatori che perseguivano. Nel capo d'imputazione si legge che sono state eseguiti "una serie indeterminata di delitti, tra i quali peculati, furti, falsi in atto pubblico e perquisizioni".
A volte accettavano promesse "di pagamento della metà del valore dello stupefacente rinvenuto", altre volte "fingevano una regolare operazione di polizia allo scopo di impossessarsi di stupefacente e del denaro di prezzo dell’acquisto".
Di stesso tenore è l’atteggiamento tenuto dal tribunale di Brescia, scrive "Brescia Oggi". Nell'ottobre del 2008 la condanna a 2 poliziotti, rispettivamente a 5 anni e 4 mesi e ad un anno e sei mesi, al termine del processo con il rito abbreviato. In data 13 luglio 2009 altre tre condanne ai poliziotti accusati a vario titolo e con responsabilità diverse di rapina e estorsione. Tre anni, un anno e 11 mesi, otto mesi. Secondo l'accusa i poliziotti in forza ai tempi alla questura di Brescia avrebbero preteso droga e cellulari durante alcuni controlli nei confronti di alcuni spacciatori.
MAGISTROPOLI
La Squadra Mobile di Caserta ha eseguito nelle prime ore del 15 novembre 2010 un'ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Tribunale di Napoli, su richiesta della DDA partenopea, nei confronti di tre esponenti della fazione del clan dei Casalesi, guidata da Francesco Bidognetti detto «Cicciotte e mezzanotte», accusati di partecipazione ad associazione mafiosa e violenza privata aggravata dal ricorso al metodo mafioso, scrive "Il Mattino". Tra i venti amministratori, funzionari ed appartenenti al corpo della Polizia Municipale di Castel Volturno, coinvolti nell'indagine della Squadra Mobile di Caserta, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia partenopea, figurano anche l'ex sindaco Francesco Nuzzo, magistrato alla Procura Generale di Brescia, che era a capo di una giunta di centrosinistra e l'attuale sindaco, Antonio Scalzone, del Pdl. Sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di concorso in associazione di tipo mafioso, abuso d'ufficio, falso ideologico e materiale, in relazione - è spiegato in una nota della Questura di Caserta - ad una serie di condotte illecite posto in essere, tra il 2004 e 2008, al fine di agevolare e consentire l'esercizio abusivo di una struttura ricettiva risultata appartenente ad un imprenditore organico al clan dei Casalesi, poi divenuto collaboratore di giustizia. I provvedimenti sono stati emessi a conclusione di una complessa indagine della Polizia di Stato, coordinata dalla Procura Antimafia di Napoli, sull'attività intimidatoria posta in essere, nell'autunno di due anni fa, da uno dei destinatari delle tre ordinanze cautelari, il capo dell'ala stragista della cosca, Giuseppe Setola, nei confronti di amministratori del comune di Castelvolturno al fine di condizionarne le scelte nell'aggiudicazione dei lucrosi appalti previsti per il risanamento del litorale domitio.
Le accuse. Sono durissime le accuse mosse dagli inquirenti ad amministratori ed ex amministratori di Castelvolturno coinvolti nell'inchiesta della Dda di Napoli. Dagli atti emergono, tra gli altri episodi, due tangenti, una da 107.000 e l'altra da 200.000 euro, che l'ex sindaco Francesco Nuzzo e l' ex vicesindaco Marcello Lorenzo avrebbero chiesto per autorizzare la costruzione di un centro commerciale. Nuzzo, inoltre, è accusato di concussione sessuale: avrebbe chiesto prestazioni sessuali a una giovane rumena in cambio di un posto di lavoro. Come si evince dall'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Alessandro Buccino Grimaldi su richiesta dei pm Antonello Ardituro, Giovanni Conzo, Raffaello Falcone ed Alessandro Milita, Nuzzo, Lorenzo e il sindaco Antonio Scalzone, in particolare, sono accusati di aver consentito all'imprenditore colluso Gaetano Vassallo, oggi collaboratore di giustizia, di aprire l'Hotel Vassallo «in dispregio di tutte le normative vigenti»; Nuzzo e Marcello «si adoperavano in favore di Raffaele Gravante, imprenditore affiliato al clan dei casalesi ed effettivo gestore della società Secur Sud, consentendogli l'aggiudicazione di servizi di vigilanza al Comune di Castelvolturno nonchè in favore di Nicola Ferraro, imprenditore affiliato al clan dei casalesi, consentendogli l'aggiudicazione dell'appalto relativo alla gestione dei rifiuti a Castelvolturno». Scalzone, Nuzzo e Lorenzo, secondo l'accusa, «si accordavano con i vertici del gruppo Bidognetti, fornendogli la piena disponibilità, in caso di elezione, a consentire a ditte nella disponibilità del clan dei casalesi e anche indicate da Luigi Guida quale referente del clan, l'aggiudicazione di appalti pubblici o di subappalti per opere di ingente valore economico in corso di esecuzione nel Comune di Castelvolturno, ricevendone quale corrispettivo l'appoggio elettorale e di voti dagli esponenti del gruppo Bidognetti operanti sul territorio di Castel Volturno».
La camorra si era infiltrata nel comune di Castel Volturno, scrive "Il Giornale". I pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, che hanno coordinato l'attività investigativa della squadra mobile di Caserta avrebbero «svelato la contiguità e le connivenze di amministratori, funzionari - spiegano alla Dda - impiegati e pubblici ufficiali con l'organizzazione dei casalesi e con il gruppo Bidognetti egemone in quel comprensorio». Tra gli indagati vi sono anche degli insospettabili, tra cui l'ex sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo, sostituto procuratore generale a Brescia e l’attuale primo cittadino Antonio Scalzone. In sostanza, Nuzzo e Scalzone nei cui confronti «il gip pur escludendo i relativi gravi indizi dell'associazione mafiosa» ha riconosciuto «la contiguità dei citati al clan dei casalesi - gruppo Bidognetti». Il gip ha evidenziato alla luce delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia la presunta «sussistenza di accordi che avrebbero garantito la disponibilità delle amministrazioni a trattamenti di favore per la consorteria camorristica - si legge nel provvedimento - in particolare nella aggiudicazione ad imprenditori organici ai Bidognetti di lucrosi appalti». Nuzzo,e Scalzone sarebbero rimasti coinvolti nella disputa tra gli uomini di Bidognetti e la cosca capeggiata da Francesco Schiavone. Dalla ordinanza di custodia cautelare emerge che Nuzzo fu addirittura sequestrato dai fedelissimi di Schiavone ma, per ritorsione, i bidognettiani si presentarono armati nei municipi di Casapesenna, San Cipriano d'Aversa e Casal di Principe, imponendo ai sindaci dell''epoca di dimettersi. L'ex sindaco è anche accusato di concussione sessuale nei confronti di una donna romena «priva di redditi, alla ricerca di un dignitoso e sicuro posto di lavoro». La donna sarebbe stata costretta «a sottostare a prestazioni sessuali in cambio di un posto di lavoro».
Il coinvolgimento di Nuzzo ha destato sconcerto tra gli abitanti di Castel Volturno che credono «in un grosso equivoco giudiziario nei confronti» del loro ex sindaco.
Nella primavera 2009 Ileana ha 42 anni, scrive Irene De Arcangelis su "La Repubblica". E' una donna rumena povera che cerca disperatamente lavoro. Diventa protagonista inconsapevole di uno dei due episodi di concussione di cui è accusato l’allora sindaco-magistrato Francesco Nuzzo. Pedinato e intercettato, fotografato dai poliziotti della squadra mobile. Passo dopo passo. Ileana cerca un lavoro, e tramite discusse e ambigue conoscenze, arriva al primo cittadino di Castel Volturno, che le promette un lavoro nella clinica Pineta Grande. «Le ho dato un posto di lusso — commenta il sindaco al telefono parlando con chi gliel’ha presentata — Ci doveva andare un’altra persona, ma ho tolto il posto di lavoro al titolare e ho messo Ileana. Ma lo sa che me la devo fottere?». L’appuntamento per la prestazione sessuale è preso, ma la donna rinvia: «Non mi sento preparata», ribadisce al sindaco più volte. E ancora: «Non l’ho mai fatto. Se lo faccio è perché sono disperata». Infine l’incontro, in auto nelle campagne di una masseria. Fotografati e intercettati. Qualche giorno dopo la donna rumena invia un sms al magistrato: «Vorrei ringraziarti per il bel lavoro che mi hai trovato. Mi hai preso in giro, grazie». Ileana non verrà assunta nella clinica Pineta Grande, direttore generale Antonio Rainone che, intanto, diventa assessore. Pur se incompatibile con la carica nell’ente ospedaliero. Il gip si dichiara territorialmente incompatibile sul caso Ileana circa l’emissione del provvedimento cautelare.
Scrive la Dda: «Al palmares di Nuzzo si aggiunge in senso metaforico “la ciliegina sulla torta”: la concussione sessuale ai danni di una povera donna straniera priva di redditi, alla ricerca di un dignitoso e sicuro posto di lavoro». Ma lo scambio di favori con il direttore generale Rainone continua. Per esempio Rainone chiede a Nuzzo di fargli avere dalla regione Campania il parere di conformità per la realizzazione del Centro di eccellenza sanitaria. Nuzzo chiede in cambio di prendere per la vigilanza un istituto poco pulito. Dice: «Ti volevo pregare di due cose... dico non ti lasciare sfuggire quella cosa... là…la vigilanza è il caso che ne parlo io con Schiavone (Schiavone Vincenzo, titolare della clinica Pineta Grande di Castelvolturno) o no?... Perché questi ci servono, a noi». E ancora: il vice sindaco Lorenzo Marcello suggerisce a un imprenditore che voleva costruire un centro commerciale a Castelvolturno di versare la somma in denaro di circa 107 mila euro, suddivisa in quattro rate da 25 mila euro e poi in una rata di euro 7.500, prospettandogli la tangente come condizione necessaria per il rilascio delle autorizzazioni. Il gip sottolinea il doppio volto degli amministratori pubblici. Di Nuzzo: «Da un lato si presentava come espressione ed alfiere della volontà di cambiamento e di abbandono dei pregressi modelli di comportamento deviato e dall’altro non esitava, sin da un momento antecedente alla propria elezione e in previsione della stessa, a scendere a patti con i dirigenti della banda bidognettiana». E del vice sindaco Marcello: «Appariva come vittima innocente della stagione del terrore imposta da Giuseppe Setola e dai suoi accoliti nella provincia di Caserta mentre in realtà era stato sino a quel momento il pubblico amministratore più intensamente e profondamente legato al gruppo criminale facente capo alla famiglia Bidognetti». Nuzzo viene intercettato in molte occasioni. Anche quando si rivolge al suo autista e tuttofare per contattare una cantante (che ha anche partecipato al festival di Sanremo) e invitarla a una manifestazione canora a Castel Volturno. L’artista è parente di camorristi. Dunque il sindaco-magistrato chiede al suo autista, vicino ai Casalesi, di chiamare i parenti della mala perché lui non vuole esporsi. Spiega al suo autista: «Ti devi far dare il numero di telefono senza dire che lo voglio io, se no ci arresta, ci arrestano la camorra a me e a te…l’Antimafia… Questo tiene il telefono sotto controllo e tu neanche lo sai…non sia mai Dio, tu che diresti: il sindaco di Castelvolturno vuole il numero di telefono di tua cugina, si scatenano l’Antimafia, la Dda...". Dice il pentito Luigi Guida: «C’erano accordi per le gare d’appalto relative al polo nautico di Villa Literno, all’ampliamento della darsena in Castel Volturno, alla costruzione di un campo da golf nel Villaggio Coppola e alla costruzione dell’ospedale...».
LA BANDA IN DIVISA.
Quello che stiamo per raccontare è un «processo nascosto», scrive "L'Unità". Un altro processo che - come quello che si tiene a Palermo contro il generale Mario Mori e il colonnello Obinu - è totalmente uscito dalle cronache. E anche in questo processo - che si celebra davanti all’ottava corte d’assise di Milano - tra gli imputati ci sono nomi importanti delle forze dell’ordine.
Uno è, anche qua, il colonnello Obinu. Un altro nome, il più importante, è quello del generale Giampaolo Ganzer, attuale comandante del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. E, se la sua posizione non fosse stata stralciata, ci sarebbe anche un magistrato: Mario Conte. In tutto gli imputati sono ventidue, accusati di reati gravissimi: associazione delinquere armata dedita a importare e vendere enormi quantità di droga (eroina, coca e hashish) in tutta Italia.
Il primo a sentire puzza di bruciato fu un giudice Armando Spataro, allora sostituto procuratore a Milano. Nel gennaio del 1994 ricevette da Ganzer, col quale all’epoca aveva un rapporto di amicizia e stima, la richiesta di un’autorizzazione a ritardare il sequestro di una partita di droga. «Mi disse che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce».
Spataro firmò decreto di ritardato sequestro. Ma i piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu messa in atto. Fin qua niente di strano. Ma, dopo aver compiuto l’operazione, il Ros non diede più informazioni. Insospettito, Spataro si presentò negli uffici romani del Raggruppamento operativo speciale e chiese notizie attorno al sequestro dei due quintali di cocaina. Gli fu mostrata della droga conservata in un armadio. Si trattava solo di leggerezza nella gestione dei reperti? Di sciatteria? Quando, molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò l’ipotesi di vendere quella droga a uno spacciatore di Bari, Spataro decise di informare il capo della procura e alcuni suoi colleghi. E ordinò la distruzione della droga.
Il processo ruota attorno a questi comportamenti. Il Ros li presentava come tecniche investigative e, in effetti, di tanto in tanto effettuava operazioni antidroga. Secondo i giudici, invece, gli stessi carabinieri erano diventati protagonisti del traffico e le «brillanti operazioni» non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica. Un elemento fondamentale per l’inchiesta che ha portato al processo fu acquisito nel 1997 a Brescia dal giudice Fabio Salamone.
Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto «Il Rosso» gli raccontò che nel 1991 due carabinieri del Ros lo avvicinare in carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo della droga. In realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il 1997 ne furono reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti provocatori, come spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei trafficanti.
«Il Ros - scrivono i giudici nel rinvio a giudizio - instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione né alla loro denuncia... ordina quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». «Si tratta - annota la Procura di Milano - di istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti». Al giudice Salamone questo quadro è stato confermato, in alcuni importanti aspetti, da due sottufficiali dei carabinieri che figurano tra gli imputati.
Sempre secondo l’accusa, i comportamenti illeciti furono coperti e agevolati dal magistrato Mario Conte, che allora lavorava a Bergamo: il suo ruolo nelle «operazioni antidroga» era fondamentale perché, con la sua firma, forniva ai Ros la copertura legale. «Con Obinu e Ganzer - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio - il sostituto procuratore Conte promuove, costituisce, dirige, organizza l’associazione a delinquere. Ne delinea il modus operandi. Gestisce la collaborazione dei trafficanti Enrique Luis Tobon Otoya (colombiano ndr.), Ajaj Jean Chaaya Bou (libanese) e Biagio Rotondo, agevolandone l’attività anche durante i periodi di detenzione. Fornisce un contributo rilevante con direttive e provvedimenti, emessi anche al di fuori della competenza territoriale. Partecipando personalmente, in più occasioni, ad interventi operativi».
E c’è di più perché quando l’inchiesta di Salomone decolla, Conte viene trasferito proprio a Brescia, nell’ufficio accanto a quello del collega che lo sta indagando. Oggi Conte, rinviato a giudizio nel 2005 con gli uomini del ROS, per motivi di salute non figura tra gli imputati e sarà processato a parte.
Non è solo una storia di droga Secondo l’accusa tra le mani degli ufficiali sono anche passate molte armi. Come il carico della nave «Bisanzio», giunta Ravenna da Beirut nel dicembre 1993 che, oltre a migliaia di chili di stupefacente trasportava 119 kalashnikov, due lanciamissili, quattro missili e numerose munizioni, venduti in cambio di una somma di denaro di cui si è persa ogni traccia. Due erano gli acquirenti, la cui posizione è stata archiviata, entrambi legati alla famiglia mafiosa calabrese dei Macrì-Colautti. Perché è stato fatto tutto questo?
La procura di Milano lo spiega con poche inequivocabili parole: «Per pervenire a brillanti operazioni di polizia in attuazione di un metodo sistematico che consentiva di conseguire visibilità e successo». Carriera e visibilità. Ma anche soldi. Quasi tre miliardi di lire provenienti dalla vendita della droga, di cui il PM Conte e gli ufficiali del ROS, tra i quali Ganzer e Obinu, avrebbero «omesso il sequestro e la documentazione sulla successiva destinazione, appropriandosene». Simile sorte sarebbe toccata a svariati chili di stupefacenti che, importati in Italia dagli uomini in divisa, sarebbero finiti sul mercato.
Il «processo nascosto» era iniziato da quasi due anni quando, il 29 agosto 2007, il principale teste d’accusa si suicidò nel carcere di Lucca. Biagio Rotondo, «Il Rosso», era stato arrestato cinque giorni prima con l’accusa di detenzione abusiva di arma e ricettazione perché, durante un controllo dei carabinieri, all’esterno del ristorante dove lavorava era stata trovata una vecchia pistola nascosta in un tovagliolo.
Prima di togliersi la vita, Rotondo scrisse una lettera indirizzata ai magistrati. Il pubblico ministero Luisa Zanetti l’ha letta il 20 settembre 2007, nell’aula dove si celebra il processo: «Confermo che tutto quello che ho detto corrisponde a verità. È un momento tragico per la mia vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è per me insopportabile. Vi scrivo per farvi che non vi ho mai tradito e che la fiducia in me è stata ben riposta. Vi chiedo scusa per questo insano gesto...Spero che mi ricorderete con simpatia».
IMPUNITOPOLI
Giudice fannullone per cinque anni Assolto: "La moglie l'ha lasciato...". Fatto allucinante di abusi ed impunità riportato da “Il Giornale”.
Non stava bene, il giudice. E non da ieri. A dire il vero, erano anni che aveva la testa altrove. Cinque anni. Così preso dai suoi problemi familiari, il magistrato, da accumulare fascicoli sulla sua scrivania. Un monte di carte. Però non s’è arreso. O meglio, non ha mollato la presa. Quell’ufficio l’ha tenuto occupato, pur facendo poco o nulla di quanto gli veniva richiesto. E anche se a mezzo servizio (e forse anche meno), ogni mese è passato all’incasso. Stipendio e anzianità di servizio. Insomma, quel che si dice una carriera. Finché il giocattolo si è rotto. Finché, cioè, qualcuno non ha presentato un esposto al Csm e una denuncia penale. Così il magistrato è stato rinviato a giudizio dal gip di Brescia con l’accusa di omissione in atti d’ufficio. Con il pubblico ministero che ne ha chiesto la condanna a 4 mesi. E con l’imputato che ha ammesso che era vero, aveva accumulato ritardi, ma il fatto è che la moglie l’aveva lasciato e per questo non riusciva più a lavorare. E per dire quanto stava male, ha spiegato che il problema non riguardava solo il caso per cui si trovava a processo, ma qualcosa come 300 (trecento!) fascicoli. E com’è andata a finire? Assolto nel giro di una mattinata. Per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè, mica colpa sua. È che da quando la consorte l’ha mollato non ce l’ha più fatta.
La storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice della sesta sezione civile del Tribunale di Milano, parte da lontano. E inizia, più o meno, dieci anni fa. Quando sulla sua scrivania finisce una causa di separazione come ce n’è a migliaia nel Palazzaccio del capoluogo lombardo. Una pratica banale. Il magistrato era chiamato a stabilire - sulla base di una perizia - il valore di alcuni beni attribuiti da una precedente sentenza a un marito, ma che la moglie aveva fatto sparire. In altre parole, l’uomo - non potendo mettere le mani su quei beni - chiedeva di poterne almeno monetizzare il prezzo. Nel 2001, inizia la causa per l’accertamento del valore. Nel 2003, viene depositata la perizia (che fissa la cifra di 230mila euro). Poi, il buio. Codice alla mano, il giudice avrebbe avuto 30 giorni di tempo per firmare la sua ordinanza. Ma siccome siamo in Italia, come spesso accade quei trenta giorni vengono dilatati dal processo civile. Due mesi. Tre mesi. Sei mesi. Un anno. Due. Niente. La sentenza non arriva. L’avvocato che segue la causa tra marito e moglie cerca di sollecitare la pratica, ma dall’ufficio del giudice nessuna risposta. I colleghi del magistrato allargano le braccia, ammettendo di essere a conoscenza del problema ma non sapendo come risolverlo. Fino a quando il legale non decide che la misura è colma, e nel 2008 - cioè, dopo cinque anni di inutile attesa - presenta un esposto al Consiglio superiore della magistratura (che avrebbe sospeso la toga dalle funzioni) e una denuncia penale. E così il giudice «lumaca» finisce a processo.
Quel che accade davanti al collegio della I sezione del tribunale di Brescia, però, ha il sapore del grottesco. La prima udienza, infatti, è anche l’ultima. Al pubblico ministero e all’avvocato di parte civile, che si attendevano un’udienza «filtro» per iniziare a discutere del caso, viene comunicato che la vicenda va affrontata senza perdere altro tempo, che si procede all’immediata discussione, che ci sarà la camera di consiglio e la sentenza. È il 18 marzo 2010. Il giudice-imputato spiega al collegio che la ragioni di quel ritardo erano dovute al suo stato di prostrazione psichica (e a riprova porta due perizie), e che le sue difficoltà l’avevano portato a trascurare qualcosa come 300 fascicoli che gli erano stati affidati. Non esattamente un’attenuante. Avrebbe potuto prendersi un periodo di malattia, un’aspettativa, ammettere di non essere in grado di fare fronte al carico di lavoro e passare la mano a qualche collega. Avrebbe potuto - extrema ratio - persino dimettersi. E invece no. Ha accumulato ritardi su ritardi. E pace a chi chiede alla giustizia di essere - se non rapida - almeno decente. Il Tribunale, però, l’ha assolto per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè non c’è il dolo, e - soprattutto - l’imputato era afflitto da una condizione che gli impediva sì di assolvere le sue funzioni, ma non di vedersi accreditato lo stipendio ogni mese, per dodici mesi, nei cinque anni in cui non ha fatto nulla. Ma se non poteva lavorare, per quale ragione non l’ha responsabilmente ammesso prima di mettere un’altra zavorra al sistema? Tant’è, assolto. Subito. Nel giro di una mattinata. In due ore. E poi si dice che non esiste il processo breve.
PARLIAMO DI COMO
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
25 marzo 2014 tutta Italia ne parla.
Como, multe sparite o cancellate: arrestati capo e vice della polstrada e tre agenti. Ventisei gli indagati nell'inchiesta che ha scosso la questura della città lombarda. Le accuse sono di falso, abuso d'ufficio e peculato. Altre quattro persone, compreso un funzionario, sono state sospese, scrive Davide Cantoni su “La Repubblica”. Il comandante e il vicecomandante della polizia stradale di Como sono stati arrestati assieme ad altri tre poliziotti con accuse pesanti: falso, abuso d'ufficio e peculato. Ventisei gli indagati nell'inchiesta della guardia di finanza che ha scosso dal profondo la questura lariana. Le indagini erano partite un anno fa. Al centro degli accertamenti, multe misteriosamente sparite o cancellate. Si parla anche di episodi in cui alcun poliziotti avrebbero abusato della propria posizione per ottenere vantaggi. Alle indagini ha partecipato anche la sezione giudiziaria della stessa polizia stradale. Perquisizioni sono state effettuate nelle abitazioni degli indagati, oltre che in tutti gli uffici a disposizione degli agenti o collegati con la loro professione (tra cui alcune strutture nelle disponibilità del Comune di Como). L'ordinanza di custodia cautelare ha disposto la custodia in carcere per il comandante e il vicecomandante: gli altri fermati sono ai domiciliari. Altre quattro persone sono state sospese dal servizio: fra loro c'è un funzionario del reparto.
Abusi, falso e peculato. Polstrada, arrestati i vertici. Sparite migliaia di multe, scrive “La Provincia di Como”. Il comandante Patrizio Compostella e il vicecomandante della polizia stradale di Como, Gianpiero Pisani, e con loro altri 3 poliziotti, sono stati arrestati stamane dai colleghi della polstrada in un’inchiesta su un clamoroso giro di multe illegalmente cancellate e fatte sparire, oltre che per altri episodi in cui i poliziotti avrebbero abusato della divisa per vantaggio personale. Al comandante sono stati concessi gli arresti domiciliari, il vice è stato invece portato in carcere. Complessivamente sono 26 le persone indagate, tra cui anche un funzionario della Questura di Como e il capo ufficio verbali della polizia locale di Como. Da questa mattina una quarantina di agenti, tra uomini della polizia stradale e finanzieri della compagnia di Como, sono in corso arresti e perquisizioni, non soltanto domiciliari ma anche al comando della polizia locale di Como e in via Italia Libera, negli uffici della polstrada in uso agli indagati. L’inchiesta, partita quasi un anno fa e condotta dalla finanza e dagli uomini della sezione di polizia giudiziaria della stessa polstrada, avrebbe portato alla luce numerosi episodi illegali. Le accuse per gli arrestati vanno dal falso all’abuso d’ufficio e al peculato. Il gip ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il vicecomandante della Polstrada comasca, mentre gli altri arrestati - incluso il comandante - sono ai domiciliari. Ma la Procura ha anche chiesto la sospensione dal servizio di altre quattro persone: 3 agenti della stradale e un funzionario della polizia locale di Como. I poliziotti avrebbero omesso di notificare centinaia di contravvenzioni elevate con il sistema tutor lungo l’autostrada Milano-Bergamo, falsificando la banca dati. Tra le contestazioni, vi è poi l’uso di auto di servizio a scopi privati e la cancellazione di contravvenzioni per eccesso di velocità o divieto di sosta elevate ai danni degli stessi indagati.
Una mattinata drammatica, quella appena trascorsa in via Italia Libera, sede della Polstrada comasca, e in questura, scrive ancora “La Provincia di Como”. Quando i colleghi del compartimento regionale della Polizia stradale si sono presentati “armati” di avvisi di garanzia e ordinanze di custodia cautelare, due degli indagati si sono sentiti mali e sono stati accompagnati in ospedale dall’ambulanza. I sindacati di polizia Sap e Siulp hanno diffuso un comunicato per esprimere solidarietà ai colleghi arrestati e coinvolti nell’inchiesta della Procura di Como: «Pur non conoscendo le motivazioni che hanno portato ai provvedimenti, siamo sicuri che i poliziotti coinvolti potranno dimostrare la loro estraneità ai fatti».
Patrizio Compostella Un novese alla guida della Polstrada di Como, scrive Riccardo Bonato su “Il Giornale di Vicenza”. Da qualche giorno a guidare la complessa macchina della polizia stradale di Como c'è un novese purosangue. Patrizio Compostella, 58 anni, è stato nominato comandante della Polstrada del centro lombardo dopo una brillante carriera nella Polizia di Stato. «Ho trovato qui una squadra molto valida - dichiara il neocomandante - Proseguiremo nella logica della visibilità e della prevenzione. Ritengo che la multa debba essere solo l'estrema ratio. La gente deve vederci sulle strade nell'ambito di un progetto preventivo e, se vogliamo, educativo». Il comando della Polstrada di Como ha un organico di 53 persone, con una buona dotazione di mezzi. Il 60 per cento dell'attività si svolge lungo l'autostrada per la Svizzera nel tratto Chiasso-Linate. In casi particolari, svolge anche attività di controllo transfrontaliero a fianco della polizia elvetica. La notizia della nomina del “comandante Patrizio” è stata accolta con orgoglio a Nove, specie in via Antonibon dove abita la mamma Flavia Pigatto, 91 anni splendidamente portati, che ha accolto con un sorriso la notizia. «So adesso di cosa si tratta perché me lo dite voi - spiega Patrizio è sempre stato schivo nel parlarmi di certe cose e dei suoi compiti». Patrizio Compostella ha frequentato il collegio Cini di Venezia e dopo la la maturità all'Itis di Bassano è entrato volontario in polizia alla scuola di Nettuno (Roma). Ha lavorato nella sezione investigativa a Milano divenendo esperto di antiterrorismo islamico. Richiamato a Roma è stato consulente del ministero dell'interno per i contenziosi. Compostella, che ha tre figli, mantiene da sempre forti legami con Nove. Grande appassionato di musica, partecipa ai concerti della banda del centro della ceramica, diretta dal fratello Daniele. Un modo per incontrare la mamma e gli altri fratelli che risiedono nel Bassanese. Suonatore di eufonio, ha favorito qualche anno fa un gemellaggio con la banda di Cabiate (Como).
LA STRAGE DI ERBA
Le Iene, la bomba su Rosa e Olindo: "Strage di Erba, si riapre tutto". Cassazione, la clamorosa decisione, scrive il 13 Novembre 2018 "Libero Quotidiano". Si riapre il caso di Rosa Bazzi e Olindo Romano, i due coniugi condannati all'ergastolo per i 4 omicidi di Erba dell'11 dicembre 2006. La Cassazione, come annuncia il sito delle Iene, ha deciso a sorpresa che "l'analisi delle prove mai analizzate si può fare". Niente incidente probatorio, come da ricorso respinto lo scorso 12 luglio, ma indagini a carico della difesa dei due condannati da comunicare all'accusa. La stessa trasmissione di Italia 1, come del resto Libero, in questi mesi ha sollevato più di un dubbio sulle indagini che hanno portato alla condanna di marito e moglie per l'efferato omicidio di Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk (2 anni), della madre Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini. Tra le prove non analizzate ci sono un accendino, un mazzo di chiavi e alcuni reperti biologici. "Prima della decisione della Cassazione - spiega uno di legali dei coniugi Romano, Fabio Schembri - alcuni reperti sono stati distrutti dalla cancelleria della Corte d'Assise di Como, ma ne rimangono altri presso il Ris e l'Università di Pavia".
Strage di Erba, la Cassazione: nuove indagini difensive per Rosa e Olindo, scrivono Le Iene il 13 novembre 2018. Svolta inaspettata della Corte: dopo 12 anni e tre giudizi la difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo per i 4 omicidi di Erba dell’11 dicembre 2006, potrà proseguire le indagini sulle prove mai analizzate. Del caso ci siamo appena occupati con l’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone. Dopo 3 gradi giudizio, 26 giudici e a 12 anni dai delitti, la Cassazione apre con una svolta inaspettata alla possibilità di nuove indagini difensive per Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo per la stage di Erba. Dal 30 settembre, con l’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone, noi de Le Iene ci siamo occupati del caso con sei servizi, che vi riproponiamo, sollevando molti dubbi che potrebbero far pensare all’innocenza della coppia. L’ultimo servizio era l’intervista esclusiva, la prima rilasciata in tv in 12 anni, in carcere a Olindo Romano che vedete qui sopra, in cui proclamava l’innocenza di lui e della moglie. “L'analisi delle prove mai analizzate della strage di Erba si può fare”, sostiene la Cassazione che il 12 luglio scorso aveva respinto il ricorso per un incidente probatorio proprio su questi reperti. Niente incidente probatorio (un’udienza speciale ad hoc), dunque, ma la difesa può effettuare le proprie indagini comunicandolo all'accusa. Secondo i legali di Rosa e Olindo, condannati per l’omicidio l’11 dicembre 2006 di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk, della madre Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini (movente le continue liti condominiali), resta più di uno spiraglio per poter arrivare a una revisione del processo. Tra le prove da analizzare ci sono un accendino, un mazzo di chiavi e alcuni reperti biologici. Per l'accertamento irripetibile sarà necessario avvisare il pubblico ministero affinché possa nominare suoi consulenti. “Cosa che faremo”, dichiara uno di legali dei coniugi Romano, Fabio Schembri. “Anche se, prima della decisione della Cassazione, alcuni reperti sono stati distrutti dalla cancelleria della Corte d'assise di Como, ne rimangono altri presso il Ris e l'Università di Pavia”. Proprio su questi e su altri elementi ci siamo soffermati nella nostra inchiesta. Siamo partiti, nel primo servizio del 30 settembre, dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlio Youssef, e di molti esperti e giornalisti (oltre all’intervista a Olindo che vedete sopra, in fondo all’articolo vi riproponiamo tutti e cinque i precedenti servizi). Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, che non aveva mai visto prima e non del posto. Ci siamo soffermati successivamente su un’altra prova: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Nel quarto servizio abbiamo parlato della morte di Valeria Cherubini. Una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze sul suo decesso potrebbe scagionare Rosa e Olindo. Anche il generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene, parlando con noi, che “è lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”. Nel quinto servizio ci chiediamo perché Olindo e Rosa hanno confessato? Dalle intercettazioni emerge come Olindo decide di confessare sperando di ottenere benefici di pena e non l’ergastolo e di lasciare la moglie in libertà. Rosa però non ci sta: confessa per prima. Olindo prova allora a scagionare lei, sostenendo di aver fatto lui tutto da solo. Hanno confessato potendo vedere le foto della strage e conoscendo man mano le dichiarazioni dell’altro.
In tutto, nelle confessioni, Olindo colleziona 243 errori nella sua ricostruzione, uno ogni 30 secondi, mentre gli errori di Rosa sono incalcolabili. "Non siamo stati noi, forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, i fatti non coincidono con tutto quello che è successo, comprese quelle mezze confessioni, non sono stato io a uccidere quelle persone”, dice Olindo nel sesto e ultimo servizio andato in onda il 28 ottobre. “Litigavamo per le solite liti condominiali. Il motivo della prima era su una festa. Avevo la camera da letto sotto il soggiorno, andavano avanti fino alle quattro del mattino. E io mi dovevo svegliare alle cinque”, continua Olindo. “Non ho mai visto spacciare, però il vai e vieni c'era. Ci arrivava di tutto. Si capiva che c'era qualcos'altro, oltre alle feste. Ammazzi uno perché non lo sopporti? Litigare sì”. “Gli assassini erano dei professionisti, non hanno lasciato in giro niente”, dice Olindo, che entra in molti particolari dell’inchiesta. Una delle tante domande che viene spontanea a tutti: perché allora hanno confessato (e poi ritrattato) una strage mai commessa? “Ci siamo ritrovati in un contesto che ci portava a quello. Ci siamo trovati da casa nostra al carcere, nel giro di un'ora e mezza. In carcere non sapevamo neanche perché eravamo lì. Aspettavo qualcuno che venisse a dirmi qualcosa. Dopo due giorni sono arrivati due carabinieri. Ci hanno detto che eravamo messi male, e in poche parole ci hanno prospettato una via d'uscita. Era il minore dei mali confessare, una cosa così. Il mio primo pensiero era riuscire a vedere mia moglie, perché da quando eravamo entrati in carcere non l'avevo più vista. Noi abbiamo cercato di resistere. Però ti dicono: se non confessi non vedi più tua moglie... Anche quello ha influito. E quando sono arrivati i magistrati io mia moglie l'ho vista. Io il mio scopo l'avevo raggiunto, ma loro il loro no. Hanno fatto leva sui nostri sentimenti. All'inizio ai magistrati che volevano farci confessare l'avevamo detto che non c'entravamo niente. Ma loro hanno continuato a insistere. E non so neanch'io come sia successo, ma è saltata fuori tutta questa storia”. E i dettagli che solo chi era stato sul luogo della strage poteva sapere? “Ce li hanno fatti vedere loro! I magistrati, ci coinvolgevano loro! E alcuni dettagli li abbiamo visti su un mucchio di fotografie degli omicidi che ci hanno messo sul tavolo. Avevamo ammesso la premeditazione per avvalorare la strategia difensiva decisa con l'avvocato precedente. Se tornassi al 2006 sicuramente non rifarei la confessione”. “Siamo passati da 26 giudici: vorrei trovare un giudice onesto. Ma dopo tutto questo chi è che si prende la patata bollente? Penso che la vicenda giudiziaria non sia conclusa perché se non siamo stati noi, è stato qualcun altro. Male che vada, quando arriviamo a Strasburgo qualcosa cambia. Sul piano giudiziario ci daranno ragione per forza. Ci vorrà un po' di tempo ma arriverà”. Molti dubbi, in molte direzioni, restano aperti. Speriamo che le nuove indagini difensive autorizzate dalla Cassazione aiutino a chiarire una volta per tutte qual è la verità.
Lele Mora: “Ero in carcere con Olindo Romano: non si lavava, mi faceva ribrezzo e pena”. L'ex agente dei vip ha parlato delle condizioni dell'uomo condannato per la strage di Erba: "Ho cercato di aiutarlo, e talvolta gli regalavo le mie merendine al cioccolato", scrive la Redazione di TPI il 29 Ottobre 2018. “Mi guardava sempre in modo strano quando passavo davanti alla sua cella, mi infastidiva e mi faceva ribrezzo. Però al tempo stesso mi faceva molta pena”. È quello che ha detto l’ex agente dei vip Lele Mora di Olindo Romano, l’uomo condannato assieme alla moglie Rosa Bazzi per la strage di Erba, in cui furono uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Mora, condannato per evasione fiscale, ha finito di scontare la sua pena. Era detenuto nel carcere di Opera, proprio come Olindo Romano: “Non aveva parenti, solo la sua Rosa, e per questo non aveva mai un soldo per comprare cibo e sapone. Si lavava solo una volta a settimana, il venerdì, quando poteva incontrare la moglie, una donna bassa e paffutella”, ha raccontato Mora. L’ex agente dei vip ha descritto il rapporto affettuoso tra Romano e la moglie: “La loro complicità, anche durante gli incontri, era evidente: non hanno altro che il loro matrimonio”. Mora ha poi spiegato come le difficili condizioni di Romano lo abbiano toccato, e di come si sia impegnato in prima persona per cercare di aiutarlo: “Vederlo privo di beni elementari come pane, merendine e sapone mi fece stringere il cuore. Per questo ho parlato a lungo prima con il cappellano, che sosteneva quanto Olindo avesse bisogno d’aiuto, poi con alcuni vertici del carcere”. È quello che ha detto l’ex agente dei vip Lele Mora di Olindo Romano, l’uomo condannato assieme alla moglie Rosa Bazzi per la strage di Erba, in cui furono uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Mora, condannato per evasione fiscale, ha finito di scontare la sua pena. Era detenuto nel carcere di Opera, proprio come Olindo Romano: “Non aveva parenti, solo la sua Rosa, e per questo non aveva mai un soldo per comprare cibo e sapone. Si lavava solo una volta a settimana, il venerdì, quando poteva incontrare la moglie, una donna bassa e paffutella”, ha raccontato Mora. L’ex agente dei vip ha descritto il rapporto affettuoso tra Romano e la moglie: “La loro complicità, anche durante gli incontri, era evidente: non hanno altro che il loro matrimonio”. Mora ha poi spiegato come le difficili condizioni di Romano lo abbiano toccato, e di come si sia impegnato in prima persona per cercare di aiutarlo: “Vederlo privo di beni elementari come pane, merendine e sapone mi fece stringere il cuore. Per questo ho parlato a lungo prima con il cappellano, che sosteneva quanto Olindo avesse bisogno d’aiuto, poi con alcuni vertici del carcere”. “Alla fine li convinsi a far lavorare Olindo come addetto alle pulizie per racimolare i soldi necessari a comprare cibo e sapone e, talvolta, gli regalavo le mie merendine al cioccolato”.
Strage di Erba, Olindo Romano "Siamo innocenti". Video intervista Le Iene: “scambiati per ciò che non eravamo”. Strage di Erba, video intervista Iene a Olindo Romano. Famiglia Castagna attacca: “Vendete menzogne”. Antonino Monteleone in carcere per incontrare l'autore con Rosa Bazzi del pluriomicidio, scrive il 29 ottobre 2018 Silvana Palazzolo su "Il Sussidiario". Strage di Erba, intervista Le Iene a Olindo Romano. Dopo 12 anni, Olindo Romano, condannato all'ergastolo insieme alla moglie Rosa Bazzi nei tre gradi di giudizio in quanto ritenuti i soli responsabili della strage di Erba, ha deciso di rompere il silenzio concedendo una intervista in esclusiva alla trasmissione Le Iene. Olindo ha raccontato la sua "verità", giurando sulla cosa che ha di più caro, "mia moglie". Per tutta Italia è lui lo spietato assassino che avrebbe sterminato un'intera famiglia, madre, figlia e nipotino di appena 2 anni, nonché una vicina di casa. Alla domanda di Antonino Monteleone sul perchè sia in carcere, Romano ha replicato: "Non lo so nemmeno io. Forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, ci han scambiati sicuramente". "I fatti non coincidono con quanto accaduto e con quelle mezze confessioni", ha poi aggiunto Olindo. "Non sono stato io ad uccidere quelle persone", ha proseguito, sostenendo ancora una volta la sua innocenza. Poi, ritenendo di essere stato accusato ingiustamente, ha evidenziato i suoi dubbi: "Pensavo fosse stato il marito", ha spiegato, riferendosi ad Azouz Marzouk, padre del bimbo di due anni e marito di una delle donne uccise nella strage. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
Olindo Romano rompe il silenzio e lo fa con un'intervista a “Le Iene”. È veramente lui il mostro di Erba? Se lo chiede Antonino Monteleone, che ha firmato il ciclo di servizi sulla strage. «Io non faccio mai interviste, per la tv è la prima volta», dichiara l'ex netturbino prima di rispondere alle domande del giornalista. «Il tempo è passato alla svelta, dodici anni sono tanto tempo», prosegue prima di entrare nel merito del pluriomicidio. E lo fa giurando su sua moglie Rosa Bazzi. «Non so nemmeno io perché sono in carcere, qualcuno ci ha scambiati sicuramente. I fatti non coincidono con tutto quello che è successo. No, non sono stato io ad ucciderli». All'epoca Olindo si fece un'idea su chi poteva essere il responsabile: «Quando vieni accusato ingiustamente, ti guardi bene dal puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo, è questo il discorso». Poi ammette: «Noi pensavamo che era stato il marito (Azouz Marzouk, ndr). Loro litigavano, una volta siamo andati su a dividerli, un'altra sono arrivati i carabinieri. Sicuramente erano professionisti». Il marito di Raffaella Castagna ora sostiene che Olindo e Rosa possano essere innocenti: «So che lo ha sempre pensato, ma i primi tempi non lo ha detto perché doveva trovare il modo di uscire dal carcere, poi avrebbe detto quello che ha sempre pensato». Nell'intervista Antonino Monteleone affronta il tema relativo al movente, quindi alle continue liti della coppia con le vittime. «Lei sul tardi faceva delle feste e non ci lasciava dormire. Siamo arrivati anche ad insultarci. Come si faceva a sopportarli? Eravamo sempre a litigare, ma mica ammazzi uno perché non lo sopporti». La domanda delle domande però è un'altra: perché hanno confessato? «Ci siamo ritrovati in un contesto che portava a quello. Ci ritrovammo da casa nostra al carcere nel giro di poco tempo. Quando ci siamo rivisti non sapevamo neppure perché eravamo lì. Dopo due giorni due carabinieri ci hanno detto che eravamo messi male. Ci dissero che confessare sarebbe stato “il minore dei mali”». Qualcuno gli ha suggerito di confessare? «Abbiamo cercato di resistere, ma quando mi hanno detto che non avrei rivisto mia moglie... Anche quello ha influito. Se volevo vedere mia moglie dovevo dirgli qualcosa, e io li ho seguiti». Per Olindo Romano i magistrati hanno fatto leva sui loro sentimenti per spingerli a confessare. «Noi inizialmente abbiamo detto che non c'entravamo nulla». Eppure hanno cominciato a rivelare dettagli che solo gli assassini potevano sapere: «Ce li hanno mostrati loro. Alcuni dettagli gli abbiamo visti su un mucchio di fotografie che ci hanno messo sul tavolo». Olindo Romano spiega che la premeditazione è stata confessata a causa di una strategia concordata con l'avvocato di ufficio. «Ci aveva detto di essere convincenti». E questo legale avrebbe consigliato a Rosa Bazzi di denunciare di aver subito una violenza sessuale da Azouz Marzouk: «Mi sa che non è vera...». Olindo Romano vorrebbe che la vicenda giudiziaria venisse riaperta: «Vorrei la revisione del processo, un giudice onesto valuti le cose per quello che sono, ma dopo questo chi si prende la patata bollente? Ma non siamo arrivati alla fine». (agg. di Silvana Palazzo)
Il programma “Le Iene” continua ad occuparsi della strage di Erba, dove l'11 dicembre 2006 vennero uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre il marito di quest'ultima - Mario Frigerio - fu gravemente ferito. Per il pluriomicidio sono stati condannati all'ergastolo i vicini di casa delle vittime, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Sono poche le anticipazioni fornite dalla trasmissione sull'intervista che andrà in onda stasera. «Ci diamo del tu?», chiede Antonino Monteleone a Olindo Romano quando lo incontra in carcere. «Diamoci del tu poi se ci scappa qualche lei ci sta», risponde Olindo, come mostra il video di anticipazione del servizio. Dopo 12 anni di silenzi, l'assassino ha deciso di parlare con un giornalista. Sono tanti, secondo “Le Iene”, i dubbi sul caso che - è bene precisarlo - è stato chiuso dopo i tre gradi di giudizio. Il programma ha quindi espresso il desiderio di intervistare entrambi i condannati, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha precisato che non ci sono ostacoli, quindi “Le Iene” ha ottenuto l'intervista con Olindo Romano in carcere. L'inchiesta de “Le Iene” è partita dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage di Erba ha perso moglie e figlio, e di molti esperti e giornalisti. Poi è stata analizzata la testimonianza dell'unico superstite, Mario Frigerio, quindi Antonino Monteleone si è concentrato su una prova, la macchio di sangue trovata sull'auto dei due. Il dubbio della Iena è che ci sia stato un inquinamento delle prove. Nel quarto servizio è stata trattata la morte di Valeria Cherubini con una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze. Nell'ultimo servizio andato in onda, invece, “Le Iene” si interroga sul motivo che ha spinto Olindo e Rosa a confessare. L'inchiesta de “Le Iene” sulla strage di Erba ha diviso l'opinione pubblica e provocato la dura reazione di Pietro e Beppe Castagna, fratelli di Raffaella, secondo cui il programma vende «menzogne spacciandole per verità». In un post su Facebook nei giorni scorsi hanno criticato quanti stanno mettendo in dubbio la verità emersa dai processi. «Non sta a noi né difendere la procura né gli inquirenti né il loro operato, consentiteci di difendere però la verità, che per noi è solo una, consentiteci di essere indignati e increduli nel sentire gente che definisce i colpevoli come innocenti vittime di una giustizia sommaria e faziosa, definiti addirittura come "un gigante buono e una gracile signora"». Ma Olindo Romano e Rosa Mazzi «hanno ucciso brutalmente nostra madre, nostra sorella, nostro nipotino, la signora Valeria, hanno tentato di uccidere il signor Mario, spezzando pochi anni dopo la sua vita e pochi mesi fa la vita di nostro padre, facendo vivere a me e a Beppe, a Elena e Andrea Frigerio un incubo continuo».
Strage di Erba, Olindo Romano: "Siamo innocenti", scrivono il 29 ottobre 2018 Le Iene. Olindo Romano, condannato con la moglie Rosa Bazzi all’ergastolo per la strage di Erba, parla per la prima volta in tv. Lo fa dal carcere con il nostro Antonino Monteleone, nel sesto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e Monteleone sui quattro omicidi del 2006. “Non siamo stati noi”, “non sono stato io a uccidere quelle persone”. Olindo Romano, condannato all’ergastolo assieme alla moglie Rosa Bazzi per la strage di Erba (Como), continua a professare l’innocenza sua e della moglie. Lo fa in carcere nella sua prima intervista rilasciata in tv, dopo 12 anni di silenzi, al nostro Antonino Monteleone. Nella strage dell’11 dicembre 2006 vennero uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Rosa e Olindo, secondo la sentenza ormai definitiva, li hanno uccisi per le continue liti condominiali. Per Le Iene questa intervista esclusiva è il sesto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone, che hanno messo in dubbio molti elementi delle indagini. "Forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, i fatti non coincidono con tutto quello che è successo, comprese quelle mezze confessioni, non sono stato io a uccidere quelle persone”, dice Olindo. “Quando vieni accusato ingiustamente, poi ti guardi bene dal puntare il dito a qualcuno se non sei più che certo”, è per questo che dice di non volere fare nomi su chi possa avere commesso la strage. “Litigavamo con loro per le solite liti condominiali. Il motivo della prima era su una festa. Avevo la camera da letto sotto il soggiorno, andavano avanti fino alle quattro del mattino. E io mi dovevo svegliare alle cinque”, continua Olindo. “Non ho mai visto spacciare, però il vai e vieni c'era. Ci arrivava di tutto. Si capiva che c'era qualcos'altro, oltre alle feste. Ammazzi uno perché non lo sopporti? Litigare sì”. “Gli assassini erano dei professionisti, non hanno lasciato in giro niente”, sostiene. Olindo entra in molti particolari dell’inchiesta. Una delle tante domande che viene spontanea è per tutti: perché allora hanno confessato (e poi ritrattato) una strage mai commessa? “Ci siamo ritrovati in un contesto che ci portava a quello. Ci siamo trovati da casa nostra al carcere, nel giro di un'ora e mezza. In carcere non sapevamo neanche perché eravamo lì. Aspettavo qualcuno che venisse a dirmi qualcosa. Dopo due giorni sono arrivati due carabinieri. Ci hanno detto che eravamo messi male, e in poche parole ci hanno prospettato una via d'uscita. Era il minore dei mali confessare, una cosa così. Il mio primo pensiero era riuscire a vedere mia moglie, perché da quando eravamo entrati in carcere non l'avevo più vista. Noi abbiamo cercato di resistere. Però ti dicono: se non confessi non vedi più tua moglie... Anche quello ha influito. E quando sono arrivati i magistrati io mia moglie l'ho vista. Io il mio scopo l'avevo raggiunto, ma loro il loro no. Hanno fatto leva sui nostri sentimenti. All'inizio ai magistrati che volevano farci confessare l'avevamo detto che non c'entravamo niente. Ma loro hanno continuato a insistere. E non so neanch'io come sia successo, ma è saltata fuori tutta questa storia”. E i dettagli che solo chi era stato sul luogo della strage poteva sapere? “Ce li hanno fatti vedere loro! I magistrati, ci coinvolgevano loro! E alcuni dettagli li abbiamo visti su un mucchio di fotografie degli omicidi che ci hanno messo sul tavolo. Avevamo ammesso la premeditazione per avvalorare la strategia difensiva decisa con l'avvocato precedente. Se tornassi al 2006 sicuramente non rifarei la confessione”. “Oggi mi sono iscritto a Biologia, va benino, riesco a cavarmela. Mezza giornata la passo in cucina, il tempo che rimane faccio un po' di pulizie...”, dice Olindo. “Vedo Rosa una volta al mese per un'ora e ci parlo al telefono una volta a settimana”. La revisione del processo? “Siamo passati da 26 giudici: vorrei trovare un giudice onesto. Ma dopo tutto questo chi è che si prende la patata bollente? Penso che la vicenda giudiziaria non sia conclusa perché se non siamo stati noi, è stato qualcun altro. Male che vada, quando arriviamo a Strasburgo qualcosa cambia. Sul piano giudiziario ci daranno ragione per forza. Ci vorrà un po' di tempo ma arriverà”. La nostra inchiesta è partita nel primo servizio dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlio Youssef, e di molti esperti e giornalisti. Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, che non aveva mai visto prima e non del posto. Ci siamo soffermati successivamente su un’altra prova: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Nel quarto servizio abbiamo parlato della morte di Valeria Cherubini. Una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze sul suo decesso potrebbe scagionare Rosa e Olindo. Anche il generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene che “è lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”. Nel quinto servizio, andato in onda martedì 23 ottobre, ci chiediamo perché Olindo e Rosa hanno confessato? Dalle intercettazioni emerge come Olindo decide di confessare sperando di ottenere benefici di pena e non l’ergastolo e di lasciare la moglie in libertà. Rosa però non ci sta: confessa per prima. Olindo prova allora a scagionare lei, sostenendo di aver fatto lui tutto da solo. Hanno confessato potendo vedere le foto della strage e conoscendo man mano le dichiarazioni dell’altro. In tutto Olindo colleziona 243 errori nella sua ricostruzione, uno ogni 30 secondi. Gli errori di Rosa sono incalcolabili.
Olindo: "Le nostre confessioni? Parte della strategia difensiva". Romano, condannato all'ergastolo insieme alla moglie: "Siamo innocenti, speriamo che ci sia un giudice onesto", scrive Felice Manti, Lunedì 29/10/2018, su "Il Giornale". «Le nostre confessioni facevano parte di una strategia difensiva che non ha funzionato. Ma io e mia moglie siamo innocenti. Speriamo che in Italia ci sia un giudice onesto». È un Olindo Romano sorridente e impacciato a parlare alla Iena Antonino Monteleone ieri sera durante la sesta puntata della trasmissione di Italia Uno che ha rilanciato i dubbi sull'inchiesta e sul processo che ha portato alla condanna all'ergastolo per Olindo e la moglie Rosa Bazzi, colpevoli secondo 26 giudici di aver ucciso Raffaella Castagna e suo figlio di due anni Youssef Marzouk, Paola Galli la nonna del bambino, e Valeria Cherubini, la vicina del piano di sopra, e di aver ferito mortalmente il marito della Cherubini, Mario Frigerio, che a processo riconoscerà la coppia come autori della mattanza che l'11 dicembre 2006 in via Diaz sconvolse per sempre la tranquillità e la fama di Erba. Per la legge e l'opinione pubblica sono stati riconosciuti da un testimone («Ma io con Frigerio non ce l'ho mai avuta, lo hanno manipolato e girato come una patata», dice Olindo), incastrati da una traccia di sangue trovata sull'auto e inchiodati da una confessione. Prove che la trasmissione ha smontato, una a una, basandosi su riscontri di periti, documenti in parte già usciti come sul Giornale nei mesi precedenti e successivi alle fasi del processo e da testimonianze inedite. Ieri il colpo di scena finale: chi si aspettava un Olindo pentito, rancoroso, cinico, è rimasto deluso. Ma le sue accuse contro l'ex legale, i pm e i carabinieri sono pesanti. Si parte dalle confessioni, arrivate, dice Monteleone, «dopo due giorni di isolamento, l'ergastolo prospettato come una certezza, la promessa di benefici di pena in caso di confessione e l'ingenua speranza di Olindo di poter ottenere una cella matrimoniale». «I carabinieri ci hanno detto che eravamo messi male, se non confessi non vedi più tua moglie... anche quello ha influito racconta Olindo Romano - Hanno fatto leva sui nostri sentimenti, e lì è saltato tutto». E i dettagli che solo gli assassini potevano conoscere? «Quando abbiamo confessato i pm ci hanno mostrato delle foto, ce li hanno fatti vedere loro...», ammette candidamente «dove non riuscivamo ad arrivare ci correggevano un po' loro... e alcuni dettagli noi li abbiamo praticamente visti su un mucchio di fotografie sul tavolo». Poi si passa al racconto sui rapporti con le vittime e sull'odio come movente. Olindo racconta le feste a casa Castagna-Marzouk fino «alle due, le tre di mattina... io mi dovevo svegliare alle cinque...» e delle liti continue «ma dalla Raffaella siamo saliti anche a prendere il caffè!», racconta. Senza dirsi stupito che Azouz Marzouk, il tunisino espulso per spaccio di droga che nella strage ha perso moglie e figlio, lo consideri innocente: «Io penso che lo abbia sempre pensato. Non l'ha mai detto prima perché era nei casini». Chi sono i veri assassini? Gli chiede Monteleone. «Sicuramente professionisti, se non han lasciato in giro niente. Sto pagando al posto loro. Ma quando vieni accusato ingiustamente ti guardi bene da puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo». Un po' di freddezza la riserva solo nei confronti di Carlo Castagna («Come ha fatto a perdonarci? Non saprei...»). E sul video in cui Rosa Bazzi racconta la mattanza in maniera delirante e poi denuncia di essere stata stuprata da Azouz rivela: «Da quello che so io, questa denuncia qui, è stata suggerita dall'avvocato (Pietro Troiano, nominato d'ufficio, ndr) che avevamo, perché aveva quella sua strategia lì. Ci aveva detto di esser convincenti». Ma secondo Olindo chi ascoltava la confessione (il perito della difesa Massimo Picozzi, ndr) avrebbe dovuto capire che erano tutte balle («Essendo un professore riuscirà a capire che c'è qualcosa che non va. Invece no...»). Una strategia difensiva che, se fosse vera, si è dimostrata catastrofica. Ma Romano non ce l'ha con il suo ex legale: «Ha sbagliato, però è stato travolto anche lui eh. Noi non eravamo all'altezza della situazione per dire, no? Ma lui era messo come noi».
Strage di Erba, Olindo Romano alle Iene: “Ho confessato per proteggere Rosa e lei me”, scrive Blitz Quotidiano il 29 ottobre 2018. “Ho confessato per proteggere Rosa e lei ha confessato per proteggere me”. Risponde così Olindo Romano alle domande di Antonino Monteleone. Il sesto appuntamento dell’inchiesta delle Iene dedicata alla strage di Erba si svolge nel carcere milanese di Opera, dove Olindo è rinchiuso da 12 anni. La moglie Rosa Bazzi, condannata insieme a lui all’ergastolo, è invece reclusa nel carcere di Bollate. Era l’11 dicembre del 2006 quando Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini con il suo cane furono uccisi a colpi di coltello e spranga in una palazzina a Erba, provincia di Como. “Ho di fronte il mostro che ha preso a sprangate e sgozzato 4 persone o un povero cristo finito in carcere per un orrendo delitto che non ha mai commesso?”, si domanda Monteleone mentre microfoni e telecamere vengono sistemati nella stanza. E’ la prima volta di Olindo in tv, dopo 12 anni di silenzi. L’inchiesta delle Iene era partita dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlioletto di appena 2 anni Youssef. Poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, risparmiato dagli assalitori perché creduto morto e che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, che non aveva mai visto prima e non del posto. Alle Iene Olindo Romano continua a professare la sua innocenza. “Forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, i fatti non coincidono con tutto quello che è successo, comprese quelle mezze confessioni, non sono stato io a uccidere quelle persone”, dice. Ma non vuole fare nomi su chi possa aver compiuto la strage. “Quando vieni accusato ingiustamente – spiega – poi ti guardi bene dal puntare il dito a qualcuno se non sei più che certo”. Secondo la sentenza, passata in giudicato, Olindo e Rosa ammazzarono i vicini di casa per le continue liti condominiali. “Litigavamo con loro per le solite liti condominiali – spiega alle Iene Olindo – Il motivo della prima era su una festa. Avevo la camera da letto sotto il soggiorno, andavano avanti fino alle quattro del mattino. E io mi dovevo svegliare alle cinque”. “Non ho mai visto spacciare, però il vai e vieni c’era – prosegue – Ci arrivava di tutto. Si capiva che c’era qualcos’altro, oltre alle feste. Ammazzi uno perché non lo sopporti? Litigare sì”. “Gli assassini erano dei professionisti, non hanno lasciato in giro niente”, aggiunge. E a quel punto la domanda sorge spontanea: “Perché ha confessato?” “Ci siamo ritrovati in un contesto che ci portava a quello. Ci siamo trovati da casa nostra al carcere, nel giro di un’ora e mezza. In carcere non sapevamo neanche perché eravamo lì. Aspettavo qualcuno che venisse a dirmi qualcosa. Dopo due giorni sono arrivati due carabinieri. Ci hanno detto che eravamo messi male, e in poche parole ci hanno prospettato una via d’uscita. Era il minore dei mali confessare, una cosa così. Il mio primo pensiero era riuscire a vedere mia moglie, perché da quando eravamo entrati in carcere non l’avevo più vista. Noi abbiamo cercato di resistere. Però ti dicono: se non confessi non vedi più tua moglie… Anche quello ha influito. E quando sono arrivati i magistrati io mia moglie l’ho vista. Io il mio scopo l’avevo raggiunto, ma loro il loro no. Hanno fatto leva sui nostri sentimenti. All’inizio ai magistrati che volevano farci confessare l’avevamo detto che non c’entravamo niente. Ma loro hanno continuato a insistere. E non so neanch’io come sia successo, ma è saltata fuori tutta questa storia”. Già nel quinto episodio dell’inchiesta le Iene si erano soffermate sulle confessioni. Dalle intercettazioni emergerebbe che Olindo decise di confessare sperando di evitare l’ergastolo e di lasciare libera la moglie. Rosa Bazzi però non ci sta e confessa per prima. Olindo poi prova a scagionarla, sostenendo di aver fatto tutto da solo. Monteleone gli domanda come facesse allora a conoscere dettagli che solo chi era stato sul luogo della strage poteva sapere? “Ce li hanno fatti vedere loro! I magistrati, ci coinvolgevano loro! E alcuni dettagli li abbiamo visti su un mucchio di fotografie degli omicidi che ci hanno messo sul tavolo. Avevamo ammesso la premeditazione per avvalorare la strategia difensiva decisa con l’avvocato precedente. Se tornassi al 2006 sicuramente non rifarei la confessione”. L’intervista vira poi sulla vita di Olindo in carcere: “Oggi mi sono iscritto a Biologia, va benino, riesco a cavarmela. Mezza giornata la passo in cucina, il tempo che rimane faccio un po’ di pulizie…”, racconta. “Vedo Rosa una volta al mese per un’ora e ci parlo al telefono una volta a settimana”. Sulla revisione del processo Olindo Romano afferma: “Siamo passati da 26 giudici: vorrei trovare un giudice onesto. Ma dopo tutto questo chi è che si prende la patata bollente? Penso che la vicenda giudiziaria non sia conclusa perché se non siamo stati noi, è stato qualcun altro. Male che vada, quando arriviamo a Strasburgo qualcosa cambia. Sul piano giudiziario ci daranno ragione per forza. Ci vorrà un po’ di tempo ma arriverà”.
Strage di Erba: Le Iene intervistano Olindo Romano. Domenica 28 ottobre, in prima serata, su Italia 1, scrive Antonio Galluzzo su Spettacolo news. Oggi, domenica 28 ottobre, in prima serata su Italia 1, a “Le Iene Show”, Antonino Monteleone torna a occuparsi del processo per la Strage di Erba con un’intervista esclusiva a Olindo Romano, uno dei due condannati all’ergastolo per ilpluriomicidio avvenuto l’11 dicembre 2006. Quella sera, nella cittadina in provincia di Como, vennero uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli, la vicina di casa Valeria Cherubini e fu gravemente ferito il marito di quest’ultima Mario Frigerio. Assieme a Romano, è stata condannata in via definitiva al carcere a vita anche sua moglie Rosa Bazzi: i due erano vicini di casa delle vittime. Si tratta della prima intervista rilasciata da Romano dopo la condanna. È stata realizzata all’interno del carcere di Opera (Milano).
Iena: Buongiorno, Antonino Monteleone.
Olindo: Sì, la conosco tramite la tv.
Iena: Come va?
Olindo: Eh insomma, andiamo avanti.
Iena: È più nervoso l’avvocato…
Olindo: Sì mi sa di sì, mi sa di sì. Anche se io di interviste non ne faccio mai però…
Iena: La prima volta?
Olindo: Eh penso di sì.
Iena: Per la tv è la prima volta.
Olindo: Sì penso proprio di sì, per la tv è la prima volta, per la tv.
Iena: Ci diamo del tu o del lei?
Olindo: Ci diamo del tu, poi se ci scappa qualche lei vabbè ci sta.
Iena: Intanto grazie per aver accettato.
Olindo: Sono io che ringrazio voi...
Iena: Quando ci hai scritto hai detto le Iene di Canale 5…
Olindo: Ah beh, mi sono sbagliato, allora mi sono sbagliato.
Iena: Li hai visti i nostri servizi?
Olindo: Sì sì sì, li ho visti.
Iena: Ma quando ti rivedi 12 anni fa e pensi a tutto il tempo che è passato, che pensi?
Olindo: Che è passato alla svelta, che quasi 12 anni sono passati alla svelta, tanto tempo…
Iena: Noi possiamo chiederti qualsiasi cosa?
Olindo: Sì…
Iena: Va bene. Olindo, questa per te è un’occasione unica quindi tutta la verità, nient’altro che la verità…
Olindo: Come sono andate le cose.
Iena: Lo giuri?
Olindo: Sì sì.
Iena: Qual è la cosa più cara che ha Olindo Romano, su cui tu puoi giurare?
Olindo: Eh, mia moglie…
Iena: Tua moglie, cioè tu giuri su tua moglie Rosa?
Olindo: Sì sì… sì sì lo giuro.
Iena: Per 26 giudici, 3 sentenze, quindi 3 tribunali, tu sei un assassino.
Olindo: Sì.
Iena: Hai ammazzato un bambino di due anni, la madre, la nonna. Hai ferito a morte un vicino e ne hai ucciso la moglie, Valeria Cherubini. Youssef Marzouk, Raffaella Castagna, Paola Galli.
Olindo: Sì… me li ricordo.
Iena: Per tutta Italia tu sei l’assassino spietato che li ha fatti fuori. Perché sei in carcere?
Olindo: Eh, non lo so nemmeno io, forse… perché ci han scambiati per… per quello che non eravamo. Ci han scambiati, sicuramente.
Iena: Gli italiani che ti guardano in questo momento, perché dovrebbero crederti?
Olindo: Ehhhh, perché, come dire, i fatti non coincidono.
Iena: Non coincidono con cosa?
Olindo: Con tutto quello che è successo, con quelle mezze confessioni comprese.
Iena: È la prima volta che entro in un carcere ed è la prima volta che intervisto un detenuto. Capisci se mi vedi un po’ nervoso… io però vedo anche te che sei un po’ teso…
Olindo: Eh, eh… un po’ agitato sì, per forza…
Iena: Ci guardiamo negli occhi adesso, solo la verità rende liberi, sei stato tu ad uccidere 4 persone la sera dell’11 dicembre 2006?
Olindo: No.
Iena: Nonostante tutti i dubbi di questa indagine, io un pochino devo sperare che tu sia veramente il colpevole. Sai perché?
Olindo: No.
Iena: Perché se tu non fossi il colpevole, avremmo un grossissimo problema in Italia, che riguarda la giustizia. Ma soprattutto avremmo gli assassini di quattro persone a piede libero oggi in Italia.
Olindo: Eh, beh… sì. Per forza.
Iena: Questa cosa mi angoscia.
Olindo: Questo per forza.
Iena: È più comodo per me pensare che tu sia il colpevole, quindi un pochino io ti guardo e dico “Ma possiamo permetterci che non sia stato Olindo?” Al mio posto ti faresti questa domanda?
Olindo: Eh penso di sì, penso di sì.
Iena: Tu a un certo punto prima di finire in galera, si sospetta di questi famosi vicini di casa…
Olindo: Sì, però non pensavamo di essere noi. Quello è il discorso.
Iena: E chi pensavate che fosse?
Olindo: Beh sinceramente non pensavamo di essere noi, potevamo pensare di qualcun altro per dire, però non… va beh lasciamo stare che non è il caso, non è il caso di…
Iena: In questo momento, è il caso di dire tutto quello che ti passa per la testa.
Olindo: Sì sì, però non… non lo so, di sicuro non pensavamo di essere noi… quello di sicuro, dopo poi di cose se ne possono dire, però a livello come dire, di pettegolezzi…
Iena: Io per primo mi preoccuperei se nel mio condominio sgozzassero quattro persone.
Olindo: Eh lo so, però ehh, cosa devi fare, sei lì…
Iena: Tu prima mi hai detto “Si possono dire tante cose ma preferisco di no…”. Qual era questa cosa che preferisci non dire?
Olindo: Eh…
Iena: Tanto qua puoi dire tutto quello che vuoi, perché più dell’ergastolo non ti possono dare.
Olindo: No, lo so…
Iena: Al massimo ti vengo a fare compagnia io dopo, perché portano anche me con te quindi…
Olindo: No però non nella mia cella, io ci sto da solo eh… Come dire, nel senso che: quando vieni accusato ingiustamente e finisci in carcere eccetera eccetera, poi ti guardi bene dal puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo. Allora è meglio lasciar perdere… è quello il discorso.
Iena: Dovevi fare il giudice popolare allora.
Olindo: No no lasciamo stare.
Iena: Non puntare il dito, ma svelami questo segreto.
Olindo: No, ma non è neanche un segreto, però sai, che so io: se mi metto a parlare male di te e lo sente lui, può farsi un’idea sbagliata…
Iena: Dai Olindo!
Olindo: No no lasciamo stare… non è giusto! No non è giusto, non è neanche bello.
Iena: Sei all’ergastolo Olindo…
Olindo: Eh lo so, però non è…
Iena: E’ giusto che sei all’ergastolo?
Olindo: No, però vabbè non è neanche giusto che vado a sparlare che so io, di qualcuno.
Iena: Ma non voglio che sparli, voglio solo che mi dici il tuo pensiero, dell’epoca, non ti sto chiedendo di dirmi una cattiveria gratuita.
Olindo: Eh lo so, però…
Iena: Quello che ti è venuto in mente.
Olindo: Pensavo che era stato il marito. Ho pensato, però…
Iena: L’ha pensato tutta Italia!
Olindo: Eh lo so.
Iena: Che effetto ti fa sapere che Azouz Marzouk pensa che tu e Rosa siate innocenti?
Olindo: È una cosa buona, ma io penso che lo abbia sempre pensato. Solo che i primi tempi non l’ha mai detto, perché era nei casini anche lui, si trovava in carcere anche lui no? Quindi doveva trovare il modo prima di uscire dal carcere e poi dopo magari avrebbe detto quello che magari ha sempre pensato…
Iena: Ma quando tu dici “Effettivamente noi pensavamo che era stato il marito”, lo pensavi perché ti risultava che litigassero?
Olindo: Sì! Che litigavano sì, vabbè… una volta siamo andati su anche noi a, come dire, a dividerli…
Iena: Su a casa di Raffaella?
Olindo: Sì sì… una volta… una volta o due sono arrivati anche i carabinieri… sì…
Iena: Per dividerli.
Olindo: Sì.
Iena: Ma tu hai mai visto Azouz spacciare nella corte di via Diaz?
Olindo: Eh qualcuno, beh sì, di gente ne arrivava, però io non è che… come dire, io non ho mai visto spacciare diciamo, però con il vai e vieni, diciamo ci arrivava di tutto… sì poi, si capiva che c’era anche qualcos’altro oltre alle feste che faceva, però non è che vai a ficcarci il naso.
Iena: Cosa pensi degli assassini che hanno fatto quella strage?
Olindo: Beh… sicuramente erano professionisti, se non han lasciato in giro niente.
Iena: Se io fossi innocente per prima cosa penserei che sto pagando al posto loro.
Olindo: Sì però… è vero sto pagando al posto loro però…
Iena: Perché litigavate spesso con Azouz Marzouk e Raffaella?
Olindo: Le solite liti condominiali…
Iena: E quand’è che litigate la prima volta?
Olindo: Beh la prima volta, penso dopo un paio di anni…
Iena: Un paio d’anni.
Olindo: Più o meno.
Iena: Però ti ricordi il motivo della prima litigata?
Olindo: Sì, in pratica lei la sera, sul tardi, faceva come delle feste in casa sua. Dove invitava un sacco di gente e praticamente non ti lasciava dormire.
Iena: Perché tu avevi la camera da letto sotto al…
Olindo: Sotto al soggiorno.
Iena: Che ore erano?
Olindo: Eh andavano avanti fino alle due, le tre e anche le quattro di mattina… io dovevo alzarmi alle cinque. Le prime volte litigavamo, glielo andavo a dire il giorno dopo… poi dopo si arrivava anche a battere con la scopa sul soffitto. E poi siamo arrivati anche a insultarci…
Iena: Con Rosa qualche volta se le sono proprio date, si sono date due schiaffi.
Olindo: No, beh… proprio date date no.
Iena: Qualche spintone?
Olindo: No, eh no, lo spintone se non sbaglio si riferisce allo stendibiancheria…
Iena: Cioè?
Olindo: Mia moglie aveva messo lo stendibiancheria fuori di casa, poi non so se aveva litigato con la Raffaella, una cosa del genere. Lei è arrivata giù e ha buttato per aria tutto.
Iena: Lei Raffaella?
Olindo: Raffaella… solo che nell’andarsene o nel fare questo movimento è scivolata da sola e lì mi pare che c’aveva fatto la denuncia, che era stata spinta, ma in realtà aveva fatto tutto da sola.
Iena: Che tutti si convincono, sono stati Olindo e Rosa perché? Perché litigavano da tanti anni, ci sarebbe stata da lì a pochi giorni un’udienza in tribunale e…
Olindo: Sì, sì sì sì…
Iena: Olindo e Rosa sarebbero probabilmente stati condannati…
Olindo: No...
Iena: Il movente diciamo che erano queste liti, che voi non li sopportavate più.
Olindo: Eh beh come fai a sopportarli? Logicamente dopo non li sopporti più. Dopo, come dire, sei sempre dietro a litigare, sei sempre dietro… però l’avvocato che avevamo per quella causa lì, ci aveva detto che non c’era niente da preoccuparsi perché avevamo tutte le ragioni, ci aveva detto… quindi non…
Iena: A un certo punto però, posso dirti che secondo me l’avete fatta grossa sai quando? Il giorno in cui voi seguite in macchina Raffaella Castagna che è a bordo del treno. Lei se ne accorge, chiama la polizia e vengono i vigili urbani a fermarvi.
Olindo: Ah la polizia locale, sì sì…
Iena: Cioè perché avete fatto questa cosa? L’avete fatta proprio grossa, dice lei che vi vede dal finestrino del treno.
Olindo: Sì, ma l’abbiamo vista anche noi.
Iena: Eh ma perché…
Olindo: Anche io l’avevo vista.
Iena: La stavate seguendo?
Olindo: Nooo, allora… lì così, stavamo facendo quella strada lì perché mia moglie aveva trovato un lavoro… ehh… in una zona lì a Canzo e ci sarebbe dovuta andare a lavorare a breve diciamo. Praticamente eravamo andati a vedere che strada… siccome lei non aveva la patente della macchina no, se era meglio prendere il treno, cioè prendere a Erba e andare su con il treno e poi farsi l’ultimo pezzettino a piedi… in poche parole siamo andati a vedere la strada che avrebbe dovuto fare per andare a lavorare lì.
Iena: Coincidenza c’era…
Olindo: Coincidenza eh… e l’abbiamo fatta, l’abbiamo ripetuta due o tre volte quella strada lì, la Castagna ci ha visto, avrà pensato male e ha chiamato i vigili, ha chiamato…
Iena: Eh però se lei non guida, non fai la strada in macchina. Prendete la corriera.
Olindo: Sì però bisogna vedere anche gli orari del treno, perché c’era il treno, o gli orari del pullman.
Iena: E alla fine che cosa conveniva fare, il pullman o il treno?
Olindo: Alla fine si è messa d’accordo ed è andata a lavorare di pomeriggio e ce la portavo io, alla fine.
Iena: Un fatto che insospettirebbe chiunque, dice questi ce l’avevano talmente in odio che la seguono, la pedinano…
Olindo: No, era per questo motivo, non era per… non era per quello… poi dopo…
Iena: Però che non vi sopportavate me l’hai detto pure tu.
Olindo: Sì sì… quello ci stava…
Iena: E li avete ammazzati!
Olindo: No eh, e che vai ad ammazzare uno perché non lo sopporti? Non penso proprio, litigare sì. Litigare ci stava…
Carlo Verdelli per ''la Repubblica'' del 9 settembre 2014. “Meglio l’erba dei vicini dei vicini di Erba”. Cioè, Rosa e Olindo, basta il nome. Oltre al doppio ergastolo, cementato da tre gradi di giudizio; oltre all’iscrizione perpetua tra i mostri della porta accanto; oltre ad essere diventati una specie di marchio d’infamia per etichettare coppie odiabili, Rosa e Olindo sono stati anche lapidati dal sarcasmo popolare. Niente conta che abbiano più volte ritrattato le loro confessioni, attribuendole alle pressioni ricevute in quei giorni funesti. Otto anni dopo la mattanza, resta la scia malata di un ricordo inumano, e una foto incompatibile: Olindo che a un processo, dietro le sbarre, dice qualcosa teneramente a Rosa e lei ride come una bambina felice. Sulla pietra tombale calata su questi sventurati, si è da poco aperta una breccia. Fine dell’isolamento diurno, che tra una cosa e l’altra (pena accessoria, più la necessità di proteggerli dagli altri detenuti, vista l’infamità del crimine) durava da quando la coppia più schifata d’Italia è entrata in un carcere, 8 gennaio 2007, per non uscirne più. Oggi stanno in due prigioni del milanese, lei a Bollate, lui a Opera, si vedono tre venerdì al mese per due ore, che passano tenendosi la mano. Olindo Romano, 52 anni, nome ereditato da uno zio alpino scomparso in Russia nel 1943, è più che ingrassato (ha toccato i 119 chili per un metro e 66), cura un orto da caserma ingentilito da una pianta di rose, si tormenta perché gli sta scadendo la patente, come se davvero un giorno potesse tornare a guidare il suo Eurocargo della spazzatura. Dicono che “non è più in sagoma”, che si fissa sulle cose, che è convinto che prima o poi il signor Frigerio, cioè il testimone che l’ha inchiodato, si ricorderà meglio e lo scagionerà. E poi pensa incessantemente a Rosa, la sua metà, e non è un modo di dire: non ci fosse ancora lei, argine al suicidio, non ci sarebbe più lui. Una simbiosi quasi patologica che include loro e esclude il resto. Rosa Bazzi, 51 anni, mancina (particolare non secondario, visto che alcune delle vittime riportano ferite inferte da una mano sinistra), petulante, bisbetica, con una ossessione per l’ordine tanto apprezzata dalle signore erbesi che serviva a ore, si è adattata al carcere meglio del marito. Non legge niente e non risponde alle lettere, come invece fa lui, perché non sa leggere né scrivere, nonostante una remota licenza elementare. In compenso frequenta la sartoria, dove ha cucito un paio di tendine per la cella di Olindo, che resta la sua preoccupazione centrale. Lei, leader della coppia? Di sicuro è Rosa che con le sfuriate e gli insulti (per altro ricambiati) a Raffaella Castagna e al marito Azouz Marzouk ha cominciato a scavare l’abisso dove sono poi precipitate tante vite, compresa la sua. L’abisso si spalanca lunedì 11 dicembre 2006. Verso le otto di sera, Rosa e Olindo lasciano la loro casetta a pianoterra, scala B, di una ex cascina ristrutturata, venti famiglie affacciate su un cortile chiuso. Hanno un progetto, che poi Olindo spiegherà così: “Non volevamo ammazzarli, solo riempirli di botte”. Fanno una quindicina di metri a sinistra verso il portone accanto, salgono a viso scoperto un piano di scale e in una ventina di minuti sterminano con una sbarra di ferro e due coltelli quattro persone, quasi cinque. Nell’ordine di esecuzione: Raffaella Castagna, 31 anni, figlia inquieta di una delle famiglie bene della città; Paola Galli, 57 anni, madre di Raffaella e nonna di Youssef, 2 anni e tre mesi, trafitto sul divano della sala con due colpi alla gola. Dopo aver appiccato un incendio nelle due camere da letto, i killer trovano sul pianerottolo i coniugi Frigerio, richiamati dal fumo. Li fanno fuori entrambi, solo che lui si salva grazie a una malformazione alla carotide, lei invece, Valeria Cherubini, 55 anni, finisce straziata, con il suo cagnolino Martina asfissiato ai suoi piedi. In tutto, una sessantina di colpi, tra coltellate e sprangate, con schizzi di sangue che arrivano fino al metro e sessanta. Completata la spedizione punitiva, siamo intorno alle 20 e 25, mentre la corte di via Diaz 25 si riempie di pompieri, ambulanze, curiosi, Rosa e Olindo tornano nella loro tana (per raggiungerla devono percorrere a ritroso quei 15 metri allo scoperto, ma nessuno li vede), stipano armi e vestiti insanguinati in tre sacchi neri della pattumiera, li infilano (sempre non visti) sulla loro Seat Arosa grigia, scaricano i sacchi in tre diversi cassonetti e poi vanno a mangiare gamberi e bacon a un McDonald’s di Como. Otto euro e 25 il conto. Timbro dello scontrino: 21.37, un’ora e qualcosa dopo l’ultimo omicidio. Anche se parecchio stretti (mezz’ora di auto, 10 minuti per attraversare la zona pedonale di Como, più il tempo minimo per la cena), gli orari potrebbero forse tornare. O forse no. Nell’incertezza, inquirenti e giurie passano oltre, come su altre incongruenze, dalla sparizione delle armi usate per i delitti al fatto che i Ris di Parma non trovano tracce di Rosa e Olindo né nell’appartamento della strage né sui corpi o tra le unghie delle vittime (qualcuna di loro, Raffaella per esempio, che era una donna piuttosto imponente, deve aver sicuramente lottato prima di soccombere) e nemmeno nella casa degli assassini; in compenso, dalla Castagna, rilevano impronte non appartenenti ad alcuna delle persone presenti sulla scena del crimine, impronte che però non vengono esaminate e quindi restano “non attribuibili”. Persino il luogotenente Luciano Gallorini, capo di lungo corso dei carabinieri di Erba, ha un momento di incertezza. Il primo giorno in carcere, Rosa nega tutto davanti a tutti. Poi chiede di lui, gli si butta tra le braccia e singhiozzando implora: mi aiuti, mi aiuti! “Me lo chiese con così tanta passione”, dirà Gallorini, “che per un attimo ho pensato: magari stiamo sbagliando”. Un attimo fuggente. “La più atroce impresa criminale della storia della Repubblica”, secondo il pubblico ministero Massimo Astori. A commetterla, sempre secondo Astori, oltre a tre Corti della Repubblica, un netturbino corpulento e una minuscola domestica. Sintesi ancora di Astori: “Quei due sono molto più di una coppia. Sono un quadrupede”. Movente dello scatenarsi del quadrupede: sei anni di liti da ballatoio, con i Romano sempre più intolleranti verso la famiglia di sopra, composta da Raffaella, Azouz, il figlio Youssef, più gli amici, stranieri e no, spacciatori di droga e no, che andavano e venivano a tutte le ore. Troppo chiasso, troppo disordine, troppo. Esasperati, Rosa e Olindo hanno fatto pulizia, che è in fondo il mestiere di entrambi, sperando poi di farla franca con la storia del McDonald’s. Ma il signor Frigerio, quando si è ripreso dal trauma, li ha riconosciuti, prima lui poi anche lei, loro hanno confessato e in 28 giorni il caso si è chiuso. Il 10 gennaio 2007, dalla ricca e devota Erba, gioiello della Brianza alta tra Milano e Como, 7 parrocchie per 17 mila abitanti e 23 sportelli bancari (il doppio della media nazionale), si leva un sospiro di sollievo che si estende come un’eco all’intero Paese. Poi, rapidamente, si fa largo un altro sentimento, almeno tra gli erbesi: il disgusto per la vicenda che ha sporcato la reputazione della città. Quando pochi mesi dopo la tragedia, Pino Corrias va lì a presentare il suo documentato e dolente libro-inchiesta “Vicini da morire” (Mondadori, ottobre 2007), a differenza che in molte altre piazze, trova ad accoglierlo una sala vuota. “Io vengo da Reggio Calabria e là c’è omertà perché la gente ha paura. Qui lo stesso, ma perché non vuole fastidi”. Fabio Schembri, 47 anni, avvocato (senza cravatta, capellone, gran fumatore), è una mosca bianca e forse avventata. Si aggira tra via Diaz e la vicina piazza Mercato, da dove secondo lui potrebbero essere passati i veri killer, con una frustrazione che il tempo non attenua. Insieme alla collega Luisa Bordeaux, è tra i pochissimi ad essere convinti che Rosa e Olindo siano innocenti. “Erano i tonti del villaggio, non avrebbero avuto né la testa né la forza per combinare quel disastro. Il problema è che le altre piste possibili sono state archiviate in fretta, neanche battute in verità, una voragine investigativa. Ma un colpevole bisognava trovarlo. E quei poveri cristi, senza parenti né amici, indifesi e indifendibili, erano perfetti. Pensi che il giorno dell’arresto è Olindo che telefona ai carabinieri perché la corte è piena di giornalisti e lui teme che possano danneggiargli il camper parcheggiato davanti alla lavanderia, e Rosa chiama la signora dove doveva andare a servizio profondendosi in scuse perché era costretta a saltare l’impegno. I carabinieri, che già li stavano andando a prelevare, li scaricano davanti al Bassone di Como. Olindo li guarda stupito: in carcere? Io e la Rosa? Ma perché? Risposta: buona fortuna”. Schembri è il secondo avvocato di Rosa e Olindo, quello che li ha accompagnati in tutti i processi, perdendoli. Gratis, comunque, visto che il poco che i due avevano, compresa la casa valutata 70 mila euro, è stato venduto per risarcire le parti civili. Quanto al primo avvocato (assegnato d’ufficio), Pietro Troiano, dura sei mesi, punta sulla perizia psichiatrica e sul rito abbreviato “data la sovrabbondanza di prove”. La prima non la otterrà, né lui né il suo successore, ed è abbastanza sconcertante, visto il caso. Il secondo nemmeno, perché nel frattempo i suoi assistiti cominciano a maturare il sospetto di essere stati incastrati e cambiano strategia. Ma incastrati da chi? Anche se è un calcolo senza senso, le persone che nell’inferno brianzolo hanno perso di più sono Carlo Castagna (figlia, moglie, nipotino) e Azouz (moglie e figlio). Due uomini agli antipodi. Il primo, 70 anni, è un mobiliere superlativo in tutto: soldi, fede, filantropia. Vox populi: a Erba non si muove foglia che il signor Carlo non voglia. Sposato dal 1968 con Paola, donna altrettanto perfetta e pia, hanno tre figli, due maschi (Pietro e Giuseppe) di 44 e 40 anni, impegnati a seguire le orme di tanto padre, e la più piccola, Raffaella, “una che vuole salvare il mondo”, frequenta centri sociali e immigrati, diventa amica di “quelli che vendono le zebre al mercato”. A 23 anni esce di casa, papà gli compra la casa di via Diaz, poi le cose si complicano quando non solo si innamora di Azouz, un tunisino che vive ai margini della legalità e oltre, ma lo sposa pure e ci fa un figlio, nato il 6 settembre 2004. E’ Youssef, così descritto dallo zio Pietro nel libro di Corrias: “Era una specie di cartone animato, bellissimo, allegro”. Un piccolo ponte fragile, destinato magari nel tempo a sanare la rottura tra l’erede ribelle e la parte maschile dei Castagna, rottura che invece di rimarginarsi si dilata: Azouz spesso picchia e maltratta Raffaella, finisce anche in carcere per spaccio di droga (sconta solo 16 mesi grazie a un indulto) ma lei annuncia lo stesso alla famiglia che vuole trasferirsi presto in Tunisia, e con la parte di patrimonio che le spetta. Nel periodo della strage, il ponte prova comunque a farlo nonna Paola, che prende il nipotino quando la figlia è al lavoro (un part time pomeridiano in una casa per anziani disabili a Magreglio), gli prepara la cena, poi lo riporta a sera dalla figlia. Così anche “quella” sera, solo che stranamente Paola lascia a casa borsetta e telefonino, guida in ciabatte e dimentica la porta della Lancia K aperta nel cortile di via Diaz. Dove sta correndo? Il marito di Raffaella ne ha combinata un’altra? Azouz Marzouk ha 26 anni all’epoca. Viene da una buona famiglia tunisina di Zaghouan, 30 chilometri dal mare di Hammamet. Emigra sognando la Germania, finisce in Brianza dove già sta il fratello Salem, che gli somiglia come un gemello. Incontra i giri della droga e Raffaella, non separandoli. Visto il tipo, i precedenti penali, la risaputa violenza di lui verso la moglie, il procuratore capo di Como Alessandro Mario Lodolini, a botta calda, annuncia: “Sospettiamo che l’autore dei delitti sia il marito”. Peccato che “il marito” sia da una settimana in Tunisia dai genitori. Una partenza disastrosa delle indagini che metterà ansia e fretta a chi investiga. Si ipotizzano tre piste: rapina, vendetta trasversale nel mondo dello spaccio, faida familiare. Muoiono tutte sul nascere quando Carlo Castagna, dopo aver commosso l’Italia ai funerali (“Perdono chi ha ucciso, lo devo a Dio e ai miei morti”), butta lì al luogotenente Gallorini il nome di Olindo: “La sera del fatto ebbi modo di vederlo tra la gente e da allora ho un cruccio che mi fa pensare a lui”. Il cruccio diventa molto più pesante quando Mario Frigerio, oggi settantenne, ripete quel nome: Olindo. In realtà non ci arriva subito. Appena si riprende in ospedale, il 15 dicembre, dice di non conoscere chi l’ha colpito e fornisce un identikit che porta altrove: tanti capelli corti neri, occhi scuri, carnagione olivastra (Olindo ha pochi capelli radi, occhi verdi, pelle bianco latte). Dieci giorni dopo, però, la memoria cambia: “E’ stato un vicino, l’Olindo. Non volevo crederci ma adesso mi è chiaro”. Fatalità vuole che proprio lo stesso giorno, il 26 dicembre, venga rinvenuta una macchiolina sul predellino della Seat dei Romano: il dna è di Valeria Cherubini. Con tutto il sangue colato in cortile dopo i getti d’acqua dei pompieri, e con tutto il sangue che gli assassini, per quanto “ripuliti”, devono essersi portati in auto, sembra persino poco che sia resistita solo quella traccia. Comunque, solo quella. A chiusura del cerchio, nel febbraio 2008, quando si sta istruendo a Como il processo di primo grado, sempre Frigerio aggiungerà di aver visto, quella sera, “una seconda persona, una donna, quasi sicuramente Rosa Bazzi”. Nel maggio 2011, pur confermando gli ergastoli, la Cassazione alza un sopracciglio su queste parole, definendole “oggettivamente vischiose”, e più in generale sull’intera inchiesta: “Numerosi sono i dubbi e le aporie che si addensano sul caso”. A spazzarli via tutti, dovrebbe bastare, ed è bastata in giudizio, la doppia confessione del “quadrupede” Romano, datata 10 gennaio, 2 giorni dopo l’arresto, un mese dalla strage. Ma anche lì qualcosa stona. Il prima, innanzitutto. Olindo ha appena avanzato alle autorità che l’attorniano richieste insensate: una cella matrimoniale, poi la scarcerazione di Rosa, quindi il suo breve trasferimento in un ospedale psichiatrico, quindi tutti a casa. Il tragico è che deve aver ricevuto qualche tipo di rassicurazione.
Olindo: Ciccia, ho parlato col magistrato. Mi ha detto che se vogliamo fare finire questa storia qui… Di dire la verità.
Rosa: Ma non c’è niente da dire, niente. Olli, hanno fatto tutto loro.
Olindo: Loro mi hanno spiegato un po’ la situazione in termini pratici...
Rosa: Olli, non siamo stati noi.
Olindo: Lo so, aspetta, è per tagliare le gambe al toro. Io becco le attenuanti e finisce tutta la storia.
E così Olli taglia il toro. A modo suo, con una ricostruzione che contiene 243 buchi, tra “non ricordo”, errori nel posizionamento delle vittime, nel numero dei colpi, assenze sui punti più insopportabili (“Perché il bambino? Non lo so”). A rileggerla per intero, o siamo davanti a un attore formidabile, e quindi l’ergastolo è ancora poco, oppure un po’ di aporia postuma è giustificabile. Ne è venuta anche ad Azouz, che intanto si è risposato con una ragazza di Lecco, con cui ha avuto una bambina, e vive da espulso in Tunisia: “Prima pensavo diverso ma mi sono convinto che Rosa e Olindo stanno solo pagando per la loro ingenuità. Prego il signor Frigerio di dire la verità”. Quale altra verità, per esempio? Il sostituto procuratore di Como Massimo Astori, che all’epoca condusse indagini e accusa, è serenissimo: “Mai avuto un’incertezza. Una tribù ha invaso lo spazio di un’altra, che ha reagito con una vendetta primordiale, conclusa col fuoco. L’unico rammarico è di non aver fatto filmare la Bazzi mentre raccontava come ha sgozzato il bambino, il gesto che ha fatto. Mi creda, da brividi”. Comprensibilmente, l’avvocato Schembri immagina una scena diversa, che però non è andata in aula. Qualcuno toglie la luce alla casa di Raffaella verso le 18. Una coppia di siriani che abita sotto di lei, sente dei passi leggeri dalle 18.30 alle 20. Se così fosse, essendo la serratura intatta, vuol dire che chi è entrato dalla signora Castagna aveva le chiavi, ha frugato per cercare qualcosa e poi nel buio ha aspettato il suo rientro. Intorno alle 20, i siriani avvertono un altro sonoro: mobili spostati, urla, lamenti. Sei-sette minuti e di nuovo tace tutto. Poi il fumo dell’incendio, il chiasso sul pianerottolo, che coincide con l’assalto ai Frigerio. Intanto, dall’esterno, l’abitante di un palazzo di via Diaz affacciato alla finestra e un algerino che sta in Piazza Mercato notano la stessa cosa: due extracomunitari fermi tra la via e la piazza, raggiunti a incendio in corso da un uomo con il cappotto lungo fino alle ginocchia e una berretta scura. All’algerino sembra di riconoscerlo, forse è italiano, certo non l’Olindo, ma al momento del processo non si presenta a dirlo. Era in carcere per droga a Modena, ma nessuno l’ha cercato e quindi è risultato irreperibile. E poi, francamente, la credibilità di uno spacciatore non è altissima. Su tutta la vicenda pende da due anni un ricorso alla Corte di Strasburgo e, a breve, una richiesta di revisione a Brescia. Intanto Olindo Romano, nella sua cella di Opera, ha studiato una dama rivoluzionaria dove si gioca in tre o anche in quattro. Improbabile, anzi impossibile, come il sì di Strasburgo o di Brescia. Ma per la metà di un “quadrupede”, abituato a pensare sempre e solo per due, un indiscutibile passo avanti.
“C’è gente che ha visto gli assassini di mia moglie e di mio figlio. E non si trattava di Olindo e Rosa. Nel commando della strage di Erba erano tutti italiani”. Uomini bene addestrati che massacrarono quattro persone e ne ferirono una quinta nel giro di appena 20 minuti. Appiccando, nello stesso lasso di tempo, un incendio per fare sparire le tracce. Torna a parlare della strage di Erba, Azouz, ma stavolta aggiunge nuovi dettagli a Nicoletta Appignani su “La Notizia”: i suoi contatti con alcuni testimoni oculari, le sue indagini, perfino di conoscere la descrizione precisa di uno dei presunti assassini. Ora si trova in Tunisia, il marito e padre di due delle vittime, espulso dall’Italia per reati legati alla droga ed estradato nel suo paese. Sostiene l’innocenza dei Romano, al punto da essersi rivolto all’avvocato Luca D’Auria per depositare un ricorso a Strasburgo. Raggiunto telefonicamente, ora Marzouk spiega finalmente a La Notizia quali siano le ragioni che l’hanno spinto a dubitare dei risultati dei processi. “È tutto nelle carte – racconta – l’insieme di elementi che potrebbero condurre ai veri killer. Comprese le impronte mai analizzate. Ci sono troppi dettagli che non tornano: gli assassini sono entrati in casa nostra senza rompere nulla, i vicini hanno iniziato a sentire rumori nel nostro appartamento già dalle 18.30 del pomeriggio. Ed è tutto nei verbali. Basterebbe leggerli senza pregiudizi. Invece si sono sempre basati su prove dubbie: una microtraccia di sangue nella macchina di Olindo e Rosa, che potrebbe essere finita lì in mille modi e che non è neanche stata fotografata al momento del rilievo”.
Però c’è un testimone. Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto. Perché il suo appello a “dire la verità”?
“Per le contraddizioni. Una persona riconosce subito l’aggressore nel suo vicino di casa. Invece Frigerio prima ha dichiarato di non conoscerlo, che non era neanche della zona. Ha dato una descrizione che non corrispondeva minimamente a Olindo. Poi invece ha detto che si trattava di lui”.
Sua madre ha ricevuto una strana visita in Tunisia. Cosa le disse?
“Mi avvertì che qualcuno si era presentato a casa dicendo che i Romano con la strage di Erba non c’entravano. E poco prima che la Corte di Assise di Como si riunisse in camera di consiglio, chiesi di testimoniare. Volevo dire di svolgere altre indagini. Poi però mi sono tirato indietro su consiglio del mio legale. Diceva che non sarei stato preso sul serio. Solo in seguito ho deciso di prendere una posizione, ho cambiato avvocato e con il mio attuale legale, Luca D’Auria, ho depositato il ricorso a Strasburgo. Sono davvero convinto che Olindo e Rosa siano innocenti”.
Ha sospetti su chi possa essere stato a commettere la strage?
Appena ho potuto sono andato a cercare le persone che avevano parlato con mia madre, per saperne di più. E loro mi hanno riferito che la sera della strage videro alcune persone allontanarsi dal cortile e dirigersi verso piazza del Mercato. Erano italiani e uno l’hanno visto bene. Allora ho cercato di convincerli a testimoniare, ma non hanno voluto, dicono che hanno paura della giustizia italiana, soprattutto perché sono extracomunitari.
Lei non ha mai provato a cercare le persone di cui le hanno parlato?
“Sì ma poi sono stato espulso. E comunque non era compito mio. Sarebbe bastato visionare i nastri delle telecamere che si trovavano nella piazza. C’erano. Eppure nessuno li ha mai guardati, come per i video del Mc Donald’s di Como, dove si trovavano Olindo e Rosa quella sera”.
Ha mai pensato che gli omicidi potessero essere una ritorsione nei suoi confronti?
“Questa è un’accusa che mi hanno mosso molte persone. Ma io non ho mai avuto problemi o denunce. Né ho mai fatto finire qualcuno nei guai. Le persone dovrebbero credere in quello che dico: non ho nulla da nascondere. Non ho mai spacciato, anche se sono stato arrestato. C’è anche chi crede che a causa di problemi in carcere possano avermi preso di mira, ma in prigione esiste un codice: donne e bambini non si toccano. Quindi sarebbero venuti a cercare direttamente me, non la mia famiglia. E non cerco di passare da santo, a differenza di molte altre persone che in questa storia ci hanno provato. Io sono una vittima: ho perso mia moglie e mio figlio, un bambino di due anni, tre mesi e due giorni. A questo punto io cerco solo la verità”.
Non si arrendono i sostenitori dell’innocenza di Olindo Romano e della moglie Rosa Bazzi, definitivamente condannati all’ergastolo come autori della strage di Erba, l’11 dicembre del 2006. La notizia, rimbalzata via internet, riguarda la costituzione di un "Comitato Rosa - Olindo:”giustizia giusta", fondato dall'avvocato Diego Soddu e dai giornalisti Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, quest'ultima già autrice di una pubblicazione, "Finché morte non ci separi", che raccoglie le lettere di Rosa e Olindo dal carcere. Secondo i sostenitori dell'innocenza della coppia, «il Comitato ha come scopo principale quello di promuovere le iniziative e le attività che ritiene idonee al fine di dimostrare l'ingiusta condanna di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano, attualmente condannati all'ergastolo. Sono campi di intervento del Comitato tutti quelli in cui si può impegnare in una lotta civile contro le forme di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano». Tra i propositi ci sono quelli di organizzare convegni, dibattiti, riunioni, di lanciare petizioni, raccolte pubbliche di adesioni, fondi e firme. I due coniugi erbesi, lo ricordiamo, furono riconosciuti, dopo tre gradi di giudizio, colpevoli di una delle più orrende stragi dell'Italia del Dopoguerra. Persero la vita una giovane mamma, Raffaella Castagna, all'epoca 30 anni, disoccupata, volontaria in una comunità di assistenza a persone disabili, colpita con una spranga e da dodici coltellate; Paola Galli, 60 anni, casalinga, madre di Raffaella, lei pure uccisa a colpi di coltello, e la vicina di casa Valeria Cherubini, 55 anni, commessa, accorsa per prestare aiuto. Con un unico colpa alla gola, Rosa Bazzi assassinò il piccolo Youssef Marzouk, un bambino di due anni e tre mesi, figlio di Raffaella. Il marito della Cherubini, Mario Frigerio, 63 anni, si salvò per un miracolo. La sua testimonianza si rivelò fondamentale per la condanna degli assassini.
Sono ormai passati più di sei anni da uno dei delitti più efferati, la strage di Erba, ma nonostante la confessione dei due colpevoli, i coniugi Olindo e Rosa Romano che abitavano nello stesso palazzo in cui sono avvenuti i fatti, c'è chi li difende e ha deciso di fondare anche un comitato a loro sostegno. E' sempre difficile riuscire a dimenticare un caso di cronaca particolarmente grave nonostante il passare degli anni e il delitto di Erba è certamente uno di questi proprio perchè a causa di alcune liti di condominio due coniugi, Olindo e Rosa Romano, che sono ora stati condannati all'ergastolo, hanno deciso di agire con grande crudeltà attraverso coltellate e spranghe uccidendo quattro persone, tra cui anche il piccolo Youssef, che al tempo aveva solo due anni e mezzo e senza mostrare alcun tipo di pentimento. A distanza di qualche anno Carlo Castagna, che con questo delitto ha perso moglie, figlia e nipotino, ha trovato la forza di perdonare comunque gli assassini, anche se ben diversa è la reazione di Azouz Marzouk, il suo ex genero, che non solo si è ricostruito una famiglia, ma clamorosamente è arrivato addirittura a ipotizzare che i colpevoli non siano Rosa e Olindo. Il parere de tunisino, pur essendo sorprendente, non è però l'unico e lo dimostra anche la nascita di un comitato nato in loro dfesa chiamato appunto "Comitato Rosa - Olindo: giustizia giusta", che si pone proprio l'obiettivo quello di promuovere una serie di iniziative e attività volte a dimostrare l'ingiusta condanna della coppia. Si tratta comunque di un progetto apolitico e apartitico nato dall'iniziativa dell'avvocato Diego Soddu e delle giornaliste Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, autrice del libro "Finchè morte non ci separi", che raccoglie proprio le lettere che i due si son scambiati da quando sono rinchiusi in carcere a dimostrazione che il loro legame, per quanto li abbia portati a compiere un atto tanto grave, non ha scalfito minimamente il loro amore. Da qui in avanti si proverà quindi a lottare contro ogni forma di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Chi lo vorrà potrà quindi aderire a questa iniziativa attraverso la partecipazione a dibattiti, convegni, riunioni o raccolte fondi che saranno organizzati nei prossimi mesi.
Azouz Marzouk scagiona Olindo e Rosa: "Non hanno ucciso loro Youssef e Raffaella". Una rivelazione che può riaprire il processo. Il marocchino pensa che i due assassini della moglie e del figlio non sono i vicini di casa.
Parole che fanno discutere. I colpevoli non sono più colpevoli. Una rivelazione che può ribaltare una sentenza. Azouz Marzouk torna a parlare sulla strage di Erba. La sua dichiarazione lascia molte ombre su quello che è successo in quelle sera quando morirono il figlio Youssef, di 2 anni e la moglie Raffaella Castagna, e la suocera. Per l'omicidio sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi, che per discussioni condominiali avevano deciso di fare fuori un'intera famiglia. Ora Marzouk parla e mette in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa: "Loro non sono i colpevoli, sono solo dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Credo che giustizia non sia stata fatta – spiega al quotidiano “Il Giorno” a firma di Gabriele Moroni -. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari che mi convincono che a ucciderli non siano stati i Romano”. Azouz vorrebbe la riapertura del procedimento per dimostrare che i due vicini non hanno compiuto la strage. “Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Prima o poi farò uscire la verità”. Su Erba il sipario non cala mai. «Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla». Azouz Marzouk sei anni dopo. A sei anni dalla strage di Erba, quell’11 dicembre di orrore infinito, nella casa di ringhiera, grande come un falansterio, in via Diaz 25/C. Il giovane tunisino, marito, padre e genero di tre delle quattro vittime, parla da Zaghouan, la cittadina dove vive. E va oltre. La Cassazione si preparava a confermare l’ergastolo ai coniugi Romano, i vicini di casa che si erano autoproclamati giustizieri, e già Azouz auspicava una rilettura dell’inchiesta. Oggi Marzouk compie un passo in più. «Credo - dice scandendo le parole nell’italiano corretto di sempre - che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Vedremo per un nuovo processo». Lancia quella che suona come una sfida. «Non ho mollato il processo. Chi pensa che mi sia fatto da parte si sbaglia. Prima o poi farò uscire la verità». L’ex netturbino di Erba e la moglie, la colf maniaca di ordine e pulizia, sono allora due innocenti murati nel carcere a vita? Azouz denuncia il suo parere assolutorio: «Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Lo so perché ho passato anch’io il carcere da innocente, sottolineo da innocente». Una nuova moglie conosciuta a Lecco, una bambina, la proprietà di un minimarket nella sua città. Quanto pesa il passato sulla vita che ha ricominciato? «Porto nel cuore la breve vita che abbiamo passato insieme, io, Raffa, nostro figlio. La ripercorro almeno una volta la settimana per non dire tutti i giorni. L’amore per loro non lo può cancellare nessuno. L’uomo non è un computer a cui è possibile cancellare la memoria». Quella sera acqua mista e sangue lungo le scale, ristagnava nell’ampio cortile. Nell’appartamento al primo piano i corpi massacrati di Raffaella Castagna, della madre Paola Galli, del piccolo Youssef, due anni, sgozzato, riverso su un divano. Valeria Cherubini, la premurosa vicina, era vissuta giusto il tempo di risalire le scale, nove gradini, un pianerottolo, un’altra rampa e altri nove gradini, inseguita dal coltello assassino, per andare morire nella sua mansarda. Un uomo contemplava il massacro della sua famiglia: Carlo Castagna, il marito di Paola, il padre di Raffaella, il nonno di Youssef. Uomo di lavoro e di fede. Lì affonda la sua serenità, la stessa che usa per commentare le affermazioni di Azouz: «Non ho parole. Rispetto la sua posizione, anche se non riesco a capire cosa lo abbia indotto a prenderla. Mi pare incredibile, dopo tre gradi di giudizio. Come mi pare incredibile il ricorso della difesa a Strasburgo, come se non si avesse fiducia nella magistratura italiana. Vado avanti. Vivo nel ricordo di quelli che ho perduto, nella speranza e nell’attesa di raggiungerli. Nella vita ho messo il fieno in cascina con mia moglie Paola. Tanto fieno. Mi ha aiutato a passare questi inverni gelidi». Il coltello che gli trapassa la gola e recide una corda vocale. Nelle orecchie le invocazioni di aiuto della moglie. Mario Frigerio, il marito di Valeria Cherubini, è l’unico sopravvissuto. Ha lasciato Erba, vive in una paese vicino (ancora in via Diaz), a pochi passi dalla casa di Elena, la figlia dolce e forte. «Il nostro dolore - dice Elena - lo teniamo tutto dentro. La sofferenza è ancora tanta, tanto grande che è difficile esprimerla a parole». La truce saga di Erba forse non è ancora conclusa. Il difensori di Olindo e Rosa tenteranno di ottenere un nuovo processo. «Stiamo lavorando - dice l’avvocato Fabio Schembri - per la revisione. Abbiamo raccolto elementi interessanti, nuove dichiarazioni».
Azouz Marzouk: "Rosa e Olindo innocenti, il vero assassino è libero", scrive di Francesco Borgonovo il 21 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. In quel teatro degli orrori conosciuto alle cronache come la «Strage di Erba», Azouz Marzouk è uno dei personaggi più disturbanti. Ambiguo, opaco, dotato di una carica negativa e ammantato di una luce nera. Una vittima, certo. Ma non solo. Senz' altro un protagonista, anche perché ha voluto a tutti i costi stare sotto i riflettori, a un certo punto ha provato anche a trarre profitto dalla sua condizione, e questo non ha giovato alla sua immagine. L'11 dicembre del 2006 - il giorno del sangue - era in Tunisia, dove è nato nel 1980, per far visita alla sua famiglia. Dunque, non è colpevole. Ma forse sa più di quel che dice, o forse millanta di sapere quello che non sa: decifrarlo non è semplice. Resta che le sue affermazioni aprono sempre voragini, spalancano interrogativi senza risposta. Nel maledetto giorno di dicembre di dieci anni fa Azouz non era in Italia. Intanto, nella corte di via Diaz a Erba, si manifestava uno scampolo di inferno. Quella sera, Azouz perse la sua compagna Raffaella Castagna e suo figlio, il piccolo Youssef, di appena due anni. Furono ammazzati a sprangate e coltellate, con furia bestiale. Assieme a loro, morirono anche Paola Galli, madre di Raffaella e suocera di Azouz, e Valeria Cherubini, una vicina di casa. Il tempo passa, i mesi si sommano ai mesi, e su quella carneficina gravano ancora tanti dubbi, in primis quello riguardante l'identità dei veri colpevoli. Già, perché i tribunali hanno indicato in Rosa Bazzi e Olindo Romano gli autori del massacro, eppure le sentenze non hanno illuminato tutti i luoghi oscuri. Ad Azouz, nel frattempo, ne sono successe di tutti i colori. Sono emersi i particolari torbidi del suo passato. Storie di droga e criminalità, l'espulsione dall'Italia, i tentativi raccapriccianti di procacciarsi un po' di celebrità sfruttando la mattanza dei suoi cari. Infine il matrimonio, nel 2009, con l'italiana Michela Lovo. Ora Azouz vive in Tunisia, per sbarcare il lunario, dice, fa il fotografo ai matrimoni. Sorte beffarda, per lui che voleva vedere stampate le sue, di foto, sui giornali di gossip. Non potendo mettere piede qui, si fa raggiungere dalla moglie appena possibile. Sono una famigliola felice, pare. Hanno due figlie, una terza in arrivo. Ma qualcosa turba Azouz: i mostri del passato. Le macchie che non riesce a lavare via tornano a perseguitarlo, e gli fanno temere per la sua sorte e per quella dei suoi cari. Il tunisino, dopo mesi di silenzio, ha deciso di parlare con i cronisti di Telelombardia. Lo ha fatto via Skype, e la sua intervista integrale andrà in onda questa sera nel corso della trasmissione Iceberg Lombardia condotta da Marco Oliva. Libero è in grado di anticipare i dettagli della conversazione, per molti versi inquietanti. Marzouk, infatti, da tempo si dice convinto che sulla strage di Erba non sia emersa la verità. Secondo lui, insomma, i colpevoli non sono Rosa e Olindo. Non solo non lo convince il romanzo horror dei vicini di casa assassini del profondo Nord. «Non sono convinto di tutto il processo», spiega. «Ancora ho dei dubbi, secondo me gli assassini sono ancora fuori». Poi sospira: «La mia vita è iniziata in salita ed è rimasta in salita». I mostri sono ancora lì, incubi che non se ne vogliono andare. Dal suo Paese Natale, Azouz esibisce il suo italiano non proprio perfetto, e parla di indagini e processi. «Ci sono dei punti che non sono chiari, quindi a uno gli viene il dubbio. Io vorrei togliermi questi dubbi», dichiara. Già, i dubbi. Per esempio quelli sulla confessione di Olindo e Rosa. Per Marzouk, non regge alla prova dei fatti, contiene troppi «non lo so o boh o non ricordo». Poi c' è la questione della vicina di casa. I soccorritori hanno detto di aver udito i suoi lamenti, quell' 11 dicembre. Ma forse qualcosa non torna. Secondo Azouz, il punto da chiarire riguarda «la testimonianza dei Vigili del fuoco». «Sentivano Valeria Cherubini che gridava "aiuto! aiuto!"», ricostruisce, «e il medico legale dice che il taglio che ha sulla gola non le permette nemmeno di parlare. Quindi c' è qualcosa che non va anche lì». Ma, soprattutto, al tunisino non va giù che non siano «stati analizzati gli indumenti di Youssef». Quella è stata «una sciocchezza», dice. Sui vestitini del suo bimbo che non c' è più potrebbe esserci la chiave di volta di tutta la vicenda, almeno di questo è convinto Azouz. «Sento che c' è qualcuno che ci sta ostacolando», racconta ai microfoni di Telelombardia. E aggiunge parole sibilline: «Se uno veramente si sente onesto, di aver fatto il suo lavoro bene, non gli cambia niente nel fare gli esami sui vestiti di Youssef, su quel famoso pelo che è stato trovato. Potrebbe essere dell'assassino». Ma chi è questo assassino che ancora si muove «la fuori»? Da dove viene? Marzouk non lo dice. Fa capire, però, di essere terrorizzato. «Temo sicuramente per la mia nuova famiglia», spiega. Racconta di provare terrore ogni volta che non è assieme alla moglie e alle sue bambine. «Ho paura», ripete. Forse non vorrebbe aggiungere altro, ma il cronista lo incalza, e lui si lascia sfuggire un'altra dichiarazione strana. «Ho paura che magari succede ancora quello che era successo nel 2006». Ha paura che accada di nuovo, Azouz. Teme che qualcuno possa accanirsi sulla sua compagna e le sue piccole. «Piuttosto di fargli del male prima devono eliminare me», ruggisce. Prima di chiudere il collegamento via Skype, Azouz afferma di essere disposto «a depositare la mia testimonianza». Altro non aggiunge. Ma i suoi timori parlano per lui. La luce ancora non illumina i luoghi oscuri di Erba.
Strage di Erba, Rosa e Olindo sono innocenti? Verso la revisione del processo scrive il 23 aprile 2017 Roberto Ragone su osservatoreitalia.eu. E’ la sera dell’11 dicembre 2006, all’incirca 20 minuti dopo le 20, al numero 25 di via Diaz, a Erba, in provincia di Como. La vecchia corte ristrutturata è composta da alcune palazzine, ed è nota come Condominio del Ghiaccio. All’improvviso da una delle finestre si alza una densa colonna di fumo. Due vicini di casa, uno dei quali pompiere volontario, intervengono, ed entrano nella palazzina. L’incendio è al primo piano. A ridosso del primo piano trovano un uomo ferito, Mario Frigerio. Ha la testa nell’appartamento, e il corpo fuori, è prono, e lo trascinano al di fuori dell’appartamento in fiamme.
Subito all’interno dell’appartamento brucia il corpo di una donna: è Raffaella Castagna. I soccorritori trascinano anche lei lontano dall’incendio, sul pianerottolo, spegnendo le fiamme che lo avvolgono. Dal piano superiore odono la voce di una donna che ripetutamente e disperatamente chiede aiuto. È Valeria Cherubini, la moglie di Mario Frigerio, il quale, senza poter parlare perché ferito alla gola, indica ai due che un’altra persona si trova di sopra. Le fiamme sono alte, il fumo sempre più denso, e i due devono abbandonare l’impresa. Solo all’arrivo dei Vigili del Fuoco vengono scoperti in totale quattro cadaveri e un ferito grave, Mario Frigerio, che viene trasportato all’ospedale Sant’Anna di Como. Sottoposto a diversi interventi, si risveglia dall’anestesia dopo due giorni. Raffaella Castagna, la donna il cui corpo era in fiamme, 30 anni, moglie di Azouz Marzouk, è stata colpita al capo con una spranga di ferro, accoltellata dodici volte e poi sgozzata. È morta per la frattura del cranio.
La madre di Raffaella, Paola Galli, 60 anni, viene trovata all’interno dell’appartamento, anche lei colpita a sprangate e accoltellata. Il decesso è avvenuto per frattura del cranio. Il piccolo Youssef Marzouk, figlio di Raffaella Castagna e di Azouz Marzouk, due anni e tre mesi è morto dissanguato sul divano, dopo aver ricevuto un’unica coltellata che gli ha reciso la carotide. Al piano di sopra, nel sottotetto, giace il corpo di Valeria Cherubini, 55 anni, moglie di Mario Frigerio. Nonostante la violenta colluttazione con il suo aggressore, ha subito 8 colpi di spranga e 34 coltellate, una delle quali le ha reciso la lingua. All’arrivo dei soccorsi, la donna aveva gridato più volte chiedendo aiuto, e si era trascinata lungo le scale lasciando una impressionante scia di sangue, è morta per asfissia da ossido di carbonio, prima che la morte intervenisse per la gravissime ferite riportate. Morto per asfissia da monossido di carbonio anche il cane di casa.
Mario Frigerio, colpito più volte con una spranga e accoltellato, è sopravvissuto grazie ad una malformazione congenita della carotide, che ne ha impedito il dissanguamento.
I rilievi evidenziarono che l’aggressione era stata opera di due persone, una delle quali mancina, armate di spranga e di coltelli a lama lunga e corta. Date le modalità islamiche delle esecuzioni, la prima persona sospettata è il marito di Raffaelle Castagna, Azouz Marzouk, 26 anni, tunisino, pregiudicato per spaccio di droga, da poco uscito dal carcere per indulto.
Le successive indagini dimostrano che Marzouk era all’estero, in Tunisia da alcuni giorni, in visita ai genitori, per un viaggio programmato da tempo. Gli investigatori incominciano a pensare ad una vendetta nei suoi confronti. Nell’appartamento situato sotto a quello della strage abitano due coniugi senza figli, di mezz’età. Lei, Rosa Bazzi, ha 42 anni e lui, Olindo Romano, 44. Rosa lavora come donna delle pulizie, lui è dipendente di una ditta di raccolta e smaltimento rifiuti. È una coppia particolare, che vive in simbiosi. Hanno un camper, con il quale ogni tanto fanno dei piccoli viaggi. Non hanno amici, non hanno parenti, non hanno figli.
Il loro regno è la loro casa, insieme, sempre insieme. Il Pubblico Ministero Massimo Astori, li definirà “Un quadrupede”. Una coppia tranquilla, che da sempre soffre la presenza di una famiglia ‘rumorosa’ come quella che abita al piano di sopra, e con cui più volte ha avuto delle liti. Per il 13 dicembre, due giorni dopo l’eccidio, è fissata l’udienza per la causa civile con Raffaella Castagna, che ha denunciato la coppia per ingiurie e lesioni in seguito ad una lite avvenuta il giorno di Capodanno 2005. Il loro comportamento, per alcune piccole cose, appare sospetto agli inquirenti, come ad esempio il fatto che Rosa, la sera del fatto omicidiario, abbia azionato la lavatrice più tardi del solito, lei che era abituata a farlo sempre non più tardi delle 18, come dimostrano i controlli eseguiti presso l'azienda elettrica. Un'abitudine che aveva da tre anni, costantemente.
Perchè proprio quella sera Rosa ha cambiato orario? E' una domanda legittima, ma il motivo può anche essere irrilevante. Rosa e Olindo hanno un alibi: la sera dell’incendio sono stati al Mc Donald’s a Como, e hanno ancora lo scontrino. Il quale dimostra però che sono stati al fast food due ore dopo la strage, e quindi in tempo per compierla. Il loro torto è quello di averlo mostrato senza che fosse loro richiesto, quasi a voler presentare un alibi non necessario. L’attenzione delle indagini si concentra su di loro, e ogni ragione è buona per sospettare del loro comportamento, anche quando Rosa, intercettata, dice al marito: “Adesso sì che possiamo dormire.” Successivamente vengono trovate piccole tracce di sangue femminile sugli indumenti dei Romano e una macchiolina di sangue del signor Frigerio sul tappetino della loro auto. Ciò che non viene trovato non viene considerato, cioè indumenti insanguinati, armi del delitto, e grandi quantità di sangue di cinque vittime. Si sa che gli accoltellamenti, e soprattutto gli sgozzamenti ne producono in quantità incontrollabile, soprattutto sulle scarpe degli assassini, nè vengono considerate le dichiarazioni di due testimoni oculari che riferiscono di aver visto fuggire due persone di colore, forse tre, dal terrazzino del primo piano dopo l'incendio. Nè si considera che Olindo non può aver ucciso la Cherubini, che ancora gridava aiuto all'accorrere dei primi soccorritori, e che è stata trovata con la lingua recisa da una coltellata, quindi uccisa da qualcuno che era al piano di sopra mentre sotto si apprestavano le prime cure alle vittime e si cercava di spegnere l'incendio. Nè si considera che nessuno ha visto Rosa e Olindo nella corte, in quella circostanza. I coniugi vengono messi sotto torchio.
La loro unica paura è quella di non poter più vivere l'uno per l'altra, come sempre; il loro rapporto viene definito di “succubanza reciproca”. Basta che un investigatore prospetti a Olindo la possibilità d'essere divisi per sempre per farlo crollare, e decidere di addossarsi la responsabilità della strage, con la promessa di pochi anni di carcere e la possibilità di tener fuori Rosa. Ma Rosa non è d'accordo a rimanere fuori, e il 10 gennaio 2007 Rosa e Olindo confessano. All’inizio lui cerca di scagionarla, dicendo di ‘aver fatto tutto da solo’, ma Rosa confessa anche lei. “Il bambino l’ho fatto io” dice al PM “La mamma l’ho fatta io e glie ne ho date tantissime, anche alla Raffaella.” Il PM le chiede: “Di coltellate?” “Sì, di coltellate.” Il 29 gennaio 2008 inizia il processo. Rosa Bazzi e Olindo Romano vengono condannati all’ergastolo, con isolamento diurno per tre anni. La loro unica mira è che non li si separi, e chiedono una cella matrimoniale.
L’appello presso il Tribunale di Brescia conferma la sentenza, come la Cassazione. Mario Frigerio, il supertestimone, colui che aveva sempre accusato Olindo di essere lui quello che lo aveva colpito la sera dell’11 dicembre 2006, è morto il 16 settembre del 2014, otto anni dopo la strage. Il camper e la casa dei Romano sono stati venduti all’asta, per risarcire le vittime. La casa, dopo che le prime due sedute erano andate deserte, è stata venduta per 69mila euro. Attualmente sono detenuti in due carceri diverse, lui a Opera, lei a Bollate, e si vedono tre volte al mese per due ore. Sono passati dieci anni, e Olindo spera in un permesso premio. «Continuo a vedere Rosa tre volte al mese e questa è la cosa più importante. Spero che prima o poi io e Rosa possiamo avere i permessi premio così potremmo vederci tranquillamente e in santa pace come facevamo prima. Sarebbe bello avere un permesso premio da soli con Rosa per farci un giro in camper e fermarci a mangiare una pizza lungo il lago. Il problema è che il camper ce l’hanno venduto. Chissà se il magistrato di sorveglianza ci darà l’ok. Mi ricordo il giorno della strage e fino a sera è stato un giorno normale: lavoro, casa, Rosa, McDonald’s… È da dieci anni che dura questo incubo, ma aspettiamo fiduciosi la revisione del processo. Sono innocente». In fondo alla lettera l’ennesima dichiarazione d’amore per la moglie: «Quello tra me e Rosa è un amore che nessuno può dividere».
Olindo e Rosa, quasi si svegliassero da un brutto sogno, una volta in carcere hanno provato a ritrattare, ma non sono stati creduti. Ora si apre uno spiraglio, nell’interminabilità della loro detenzione, la possibilità di una revisione del processo. Gli avvocati di Olindo e Rosa, Nico D’Ascola, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, intervenuti nella loro difesa sei mesi dopo l’arresto, dopo il difensore d’ufficio, hanno presentato un’istanza per riesaminare alcuni reperti la cui amplificazione era stata negata ai tempi del processo, e che consistono in: alcune ciocche di di capelli, un accendino, un mazzo di chiavi, due giubbetti, alcuni margini ungueali, un cellulare, una tenda, una macchia di sangue mai analizzata ed altri reperti. In merito a questa istanza, rimbalzata più volte da Como a Brescia, abbiamo parlato con uno degli avvocati della difesa, l’avvocato Fabio Schembri.
Cristiana Lodi per “Libero Quotidiano” il 31 gennaio 2018. Non resta che ricorrere alla corte Suprema. Nell' attesa, Rosa e Olindo della strage di Erba del 2006, dovranno restare all' ergastolo che già scontano da undici anni. I giudici d' Appello di Brescia hanno infatti respinto al mittente (la difesa) la richiesta di analizzare e cristallizzare con un «incidente probatorio», alcuni reperti raccolti nella palazzina dove ci furono i morti (quattro), un ferito e il fuoco. Reperti che all' epoca non erano stati analizzati, perché gli indagati avevano confessato la strage. Salvo ritrattare subito dopo. «Le nuove analisi richieste dai difensori dei condannati» sostengono i magistrati bresciani, «non sarebbero in grado di ribaltare la sentenza e tantomeno il giudizio di colpevolezza». Una marcia indietro improvvisa, dato che a pronunciarsi in questo senso sono gli stessi identici giudici d' Appello che, a novembre scorso, avevano al contrario acconsentito all' analisi dei reperti in questione. Aprendo uno spiraglio alla revisione del processo e una speranza per i coniugi Romani. Olindo e Rosa avevano cominciato a crederci, anche perché erano già state celebrate due udienze per decidere le modalità con cui procedere agli accertamenti sui fatidici reperti. Ora il cambio di orientamento, con la dichiarazione di «inammissibilità» da parte degli stessi giudici. Nel freddo linguaggio giurisprudenziale, i magistrati dei due pareri opposti, spiegano che le richieste avanzate dalla difesa sono «generiche», e quindi «meramente esplorative e inidonee a superare il vaglio di ammissibilità richiesto dal codice», secondo il quale gli elementi indispensabili per chiedere la revisione devono «essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto». La revisione è (sempre stando ai giudici) un fatto «eccezionale» e non «un quarto grado di giudizio»; la richiesta dei legali dei Romano non è invece in grado di «scardinare le prove già acquisite». A cominciare dalle confessioni (poi ritrattate) di Olindo Romano e di sua moglie Rosa Bazzi. La richiesta della difesa, dunque, «non presenta nemmeno un'astratta potenzialità distruttiva del giudicato con il quale si deve in qualche modo confrontare». Insomma, qualsiasi esito una eventuale analisi sui reperti potesse dare, esso non sarebbe comunque sufficiente a dimostrare che Olindo e Rosa sono innocenti. Dunque niente test. Per i giudici i condannati sono colpevoli comunque e a prescindere da qualsiasi perizia o altro esame. Non entreranno dunque in laboratorio per essere analizzati «alla luce dei progressi della scienza», come chiedevano gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico D' Ascola, una serie di oggetti e sostanze biologiche. Per esempio «alcune formazioni pilifere» trovate sulla felpa del piccolo Youssef, figlio di Raffaella Castagna e nipote di Paola Galli, ucciso con una coltellata alla gola (secondo la Corte da Rosa). Aveva due anni, Youssef. Poi i cosiddetti «i margini ungueali delle vittime», e ancora «un accendino trovato sul pianerottolo della famiglia Castagna», e «una traccia di sangue rinvenuta sul terrazzino della casa, tre giacconi appartenuti a Raffaella Castagna, Valeria Cherubini e Paola Galli, un mazzo di chiavi, la tenda dell'appartamento di Valeria Cherubini alla quale la donna si aggrappò, dopo essere stata aggredita al piano di sotto». Nulla di tutto questo sarà analizzato. Per Manuel Gabrielli, difensore della famiglia Frigerio (i vicini dei Castagna morti nella strage), la decisione dei giudici bresciani «risparmia ulteriore dolore ai famigliari delle persone che sono morte». Secondo Fabio Schembri, avvocato dei Romano, invece «il provvedimento smentisce una precedente decisione dei giudici stessi», e perfino la «Cassazione che aveva annullato una precedente pronuncia contraria dei giudici bresciani». Lo stesso avvocato annuncia ricorso alla Suprema Corte. E cita (testuali) le parole del presidente dei giudici d' Appello, Enrico Fischetti, pronunciate nella prima udienza: «lo dico chiaro» disse il magistrato, «noi faremo un'ordinanza di ammissione, sentiremo le parti, vi diamo poi la data, la data di conferimento dell'incarico sarà, credo, a metà gennaio...». Invece il 30 gennaio si fa macchina indietro.
Strage di Erba: Olindo e Rosa sono innocenti? Tutti i dubbi sulla condanna. Un documentario su Nove mette in luce elementi finora sconosciuti al grande pubblico. Ecco perché potrebbero non essere i due coniugi gli autori della strage, scrive l'1 Ottobre 2018 TPI. L’11 dicembre 2006, in un piccolo paese in provincia di Como, 4 persone vengono barbaramente uccise a coltellate e sprangate. Gli assassini, subito dopo, danno fuoco all’appartamento. È la strage di Erba, uno dei delitti più efferati della storia italiana, un caso di cronaca che avrà immediatamente un enorme risalto mediatico e a cui seguirà un processo che si concluderà nel 2011. Le vittime della strage sono Raffaella Castagna, 30enne disoccupata e volontaria in una comunità di assistenza ai disabili, suo figlio Youssef Marzouk, la madre della donna, Paola Galli, e Valeria Cherubini, una vicina di casa che era intervenuta per prestare soccorso. Il marito di Valeria Cherubini, Mario Frigerio, viene aggredito ma riesce a sopravvivere. Per il delitto vengono condannati in via definitiva due vicini di casa di Raffaella Castagna, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Si tratta di una vicenda su cui il giudizio di colpevolezza, dei giudici come dell’opinione pubblica, è stato pressoché unanime per anni. Di recente, però alcune presunte certezze sono state rimesse in discussione.
Martedì 10 aprile 2018, sul canale Nove, è andato in onda un reportage intitolato “Tutta la verità”: una ricostruzione minuziosa della strage, in cui vengono presentati elementi finora sconosciuti al grande pubblico, e che ha fatto sorgere non pochi dubbi sulla reale colpevolezza dei coniugi Romano. Proprio negli ultimi mesi, inoltre, la difesa dei Romano ha presentato una richiesta di incidente probatorio su nuovi reperti. L’obiettivo finale dei legali di Olindo e Rosa è quello di arrivare alla revisione del processo. La richiesta è stata rigettata dalla Corte di Appello di Brescia, ma gli avvocati dei Romano hanno presentato ricorso in Cassazione. Se l’incidente probatorio fosse ammesso, potrebbero aprirsi scenari impensabili fino a qualche mese fa.
La strage di Erba: i fatti. Intorno alle 20 dell’11 dicembre 2006, un incendio divampa in un appartamento situato in via Diaz, a Erba. Ad appiccarlo sono le stesse persone che poco prima avevano ucciso a coltellate e sprangate Raffaella Castagna, Paola Galli e il piccolo Youssef Marzouk. La vicina di casa Valeria Cherubini muore invece all’interno della propria abitazione. Secondo quanto emerso dalle ricostruzioni fatte dagli inquirenti, sarebbe andata in soccorso della famiglia Castagna, attirata dal fumo che usciva dal loro appartamento, ma sarebbe stata aggredita sulle scale dagli assassini, per poi morire dissanguata. Assieme a lei c’era il marito Mario Frigerio: anche lui accoltellato alla gola, riesce a sopravvivere grazie a una malformazione alla carotide, che gli permette di non morire dissanguato.
I primi sospetti sul marito di Raffaella Castagna. Inizialmente gli inquirenti concentrano le loro attenzioni su Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef. Azouz, tunisino, aveva dei precedenti penali per spaccio di droga ed era già stato in carcere. Tuttavia, come si apprenderà pochi giorni dopo il delitto, Azouz in quel periodo si trovava in Tunisia, in visita ai parenti. Il suo alibi è di ferro, e le accuse contro di lui cadono immediatamente. Resta in piedi una pista che riconduce indirettamente al marito di Raffaella Castagna: quando era in cella, aveva avuto pesanti screzi con degli esponenti della ‘ndrangheta. Per evitare che la situazione potesse degenerare, era stato addirittura trasferito in un altro penitenziario. La strage di Erba è quindi una vendetta trasversale contro il tunisino?
La svolta: vengono indagati Rosa Bazzi e Olindo Romano. L’ipotesi della vendetta contro Azouz non trova seguito. Questo anche perché i sospetti degli inquirenti si orientano molto presto verso due vicini di casa di Raffaella Castagna, Olindo Romano e Rosa Bazzi. Il 26 dicembre vengono disposti degli accertamenti sulla loro macchina. Viene rinvenuta, sul battiporta dello sportello del guidatore, una traccia di sangue di Valeria Cherubini, una delle vittime. I due coniugi vengono arrestati, e dopo alcuni interrogatori in cui negano di essere gli autori della strage, l’11 gennaio 2017 confessano davanti ai pubblici ministeri. La confessione avviene separatamente: ciascuno dei due coniugi rivela ai magistrati come si sarebbero svolti i fatti. Tuttavia, il 10 ottobre 2007, davanti al Giudice per l’udienza preliminare che deve decidere se rinviare i coniugi a giudizio, Olindo e Rosa ritrattano, affermando che la confessione gli è stata estorta dietro la promessa di ricevere sconti di pena e di poter condividere la cella. Il Gup li rinvia a giudizio. Durante il processo di primo grado, all’impianto accusatorio si aggiunge un altro elemento che peserà come un macigno sulla successiva condanna. Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage, riconosce come suo aggressore in aula Olindo Romano, confermando così quanto già aveva detto ai pubblici ministeri in fase di interrogatorio. Sulla base di queste tre, pesantissime prove (la macchia di sangue nell’auto, la prima confessione e il riconoscimento del testimone oculare), il 26 novembre 2008 i coniugi Romani vengono condannati all’ergastolo, sentenza confermata in appello e resa definitiva, il 3 maggio 2011, dalla Corte di Cassazione.
Perché Rosa e Olindo potrebbero in realtà essere innocenti. Proprio per la consistenza delle prove portate dall’accusa, i media si sono sostanzialmente uniformati nel fornire una ricostruzione che individua nei Romano i colpevoli certi della strage. In pochi hanno avuto dubbi sulle effettive responsabilità di Rosa e Olindo. Del resto, con una traccia ematica, una confessione e un testimone oculare, la loro colpevolezza sembra poter essere provata, come vorrebbe la legge, al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma è proprio così? Il documentario trasmesso su Nove martedì 10 aprile evidenzia una serie di elementi finora poco noti, per non dire del tutto sconosciuti, all’opinione pubblica. Elementi che non solo intaccano in maniera significativa le prove a carico dei Romano, ma che suggeriscono anche delle piste alternative scartate forse troppo frettolosamente da inquirenti e magistrati.
La macchia di sangue sul battiporta dell’auto. Va innanzitutto sottolineato come le numerose perquisizioni nell’abitazione dei Romano e sul luogo del delitto non abbiano portato al rilevamento del benché minimo elemento riconducibile a Rosa e Olindo. In altre parole, ad eccezione di quella macchiolina di sangue sul battiporta della macchina, della presenza dei Romano sulla scena del delitto non c’è traccia. Possibile che i due coniugi siano riusciti a ripulire in maniera così certosina auto, abitazione e appartamento della strage, nonostante quest’ultimo fosse già in fiamme pochi minuti dopo l’aggressione (e dunque ben difficilmente accessibile e “ripulibile”)? È quantomeno ipotizzabile che quell’unica traccia di sangue trovata nella macchina fosse il risultato di una contaminazione (ovviamente non volontaria). Nel documentario su Nove, viene evidenziato come già la sera della strage, quando Olindo e Rosa vennero convocati in caserma in quanto vicini di casa, la loro auto fu perquisita, anche con lo scopo di inserirvi delle cimici. Uno dei carabinieri che effettuarono l’ispezione, come risulta dal verbale, nell’immediatezza dei fatti era andato sulla scena del crimine. La perquisizione della macchina avvenne solo poche ore dopo. Potrebbe quindi essere stato proprio quel carabiniere a trasportare involontariamente una traccia ematica dall’abitazione all’auto. Inoltre, viene rilevato come la presenza della macchia di sangue sia attestata dagli inquirenti sulla base di una semplice fotografia effettuata senza il luminol, un composto chimico utilizzato dalla polizia scientifica per evidenziare macchie di sangue. “In quale versione della scienza si accetterebbe un principio scientifico invisibile, quello di una macchia che nessuno ha visto?”, si chiede nel documentario Luca D’Auria, avvocato di Azouz Marzouk, il marito di Raffaella Castagna.
La confessione di Rosa e Olindo. Durante un primo interrogatorio, che si svolge l’8 gennaio 2007, Olindo Romano e Rosa Bazzi, interrogati separatamente, negano entrambi di aver commesso il delitto. In una telefonata intercettata tra i due coniugi subito dopo gli interrogatori, emerge chiaramente la loro preoccupazione di poter restare separati per il resto della vita, reclusi in due diverse celle. In un successivo interrogatorio uno dei procuratori, sapendo di poter far leva sul fortissimo legame tra i due coniugi, dice a Romano: “Sua moglie ora la trasferiamo di carcere, e lei non la vede più”. Lo stesso giorno, nell’interrogatorio di Rosa Bazzi, quest’ultima dice agli inquirenti: “Lo so che mio marito non ce la fa a stare qua dentro, e io così lo perdo per sempre”. I due coniugi parlano nuovamente tra loro dopo questa sessione di interrogatori, e Romano prospetta alla moglie la possibilità di prendersi tutta la colpa “per far finire questa storia”. La moglie protesta contestandogli che non hanno nulla da confessare perché nulla hanno fatto. Ma il 10 gennaio, temendo che il marito possa auto-incriminarsi, Rosa Bazzi va dai magistrati e confessa di essere lei l’unica autrice del delitto, scagionando il marito. Poco dopo, Olindo Romano fa la stessa cosa, invertendo i ruoli: sarebbe stato lui a salire, da solo, in casa di Raffaella Castagna, e a commettere la strage senza che la moglie fosse minimamente coinvolta. In una telefonata intercettata poco prima che i due coniugi decidano di confessare, Olindo dice a Rosa che, così facendo, sarebbero potuti tornare entrambi a casa in tempi brevi, mettendo fine a quella insopportabile separazione, e che avrebbero inoltre goduto di notevoli benefici. Ci sono quindi seri dubbi sul fatto che la confessione sia arrivata sulla base della falsa convinzione, verosimilmente indotta dall’esterno, di ricevere un trattamento di favore, una pena mite nonché di poter condividere la cella. Diversamente, Olindo e Rosa erano convinti che non si sarebbero mai più rivisti. Oltre a questo, va rimarcato come la ricostruzione fatta dai due coniugi sulle modalità con cui sarebbe stato commesso il delitto risulti del tutto incompatibile con molte circostanze poi accertate dagli inquirenti. Tra i tanti esempi che si possono fare: Olindo e Rosa non sapevano che gli assassini avevano staccato la luce in casa Castagna attorno alle 18.30 (per poi verosimilmente commettere il delitto, che si consumerà alle 20, dopo aver aspettato le vittime all’interno dell’appartamento). Inizialmente non menzionano la circostanza. Quando gli viene segnalato che la luce era stata staccata, affermano di averlo fatto alle 20, cosa assolutamente impossibile secondo quanto rilevato dagli inquirenti.
E ancora: viene accertato che gli assassini, per dare fuoco alla casa, hanno usato del liquido infiammabile. Olindo e Rosa invece, nelle loro confessioni, affermano di aver fatto tutto con un semplice accendino. Sono solo alcune delle numerosissime contraddizioni rilevabili in quegli interrogatori. Persino la sentenza di secondo grado stabilirà come la ricostruzione fatta da Olindo e Rosa durante le loro prime confessioni non fosse sovrapponibile con il reale svolgimento dei fatti, affermando però che si sarebbe trattato di una strategia deliberata dei due coniugi volta a lasciarsi aperto uno spiraglio per una futura ritrattazione.
Il testimone oculare: Mario Frigerio. L’ultima decisiva prova è quella relativa alla testimonianza di Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage. Frigerio, durante il processo, riconosce in aula Olindo Romano come suo aggressore. Tuttavia, nell’immediatezza della strage, quando aveva ripreso conoscenza in ospedale, Frigerio aveva dichiarato (in conversazioni registrate) di non essere minimamente in grado di identificare il suo aggressore. Poco dopo affermerà di avere qualche vago ricordo di una persona “di carnagione olivastra, comunque non del posto”. Ripetutamente imbeccato in questo senso dai pm, dopo numerosi colloqui, Frigerio arriverà all’identificazione di Olindo Romano. Come viene mostrato nel documentario su Nove, inoltre, nelle settimane successive al delitto, a causa del trauma subito, le capacità cognitive di Frigerio erano sensibilmente compromesse. Visitato da un neuropsichiatra, Frigerio mostrerà di non riuscire a svolgere nemmeno calcoli estremamente banali come 100-7.
Le piste alternative. Come visto, quindi, tutti gli indizi che hanno portato alla sentenza di colpevolezza per Olindo Romano e Rosa Bazzi sono molto meno solidi di quello che si potrebbe pensare sulla base di una conoscenza superficiale della vicenda. Ma se non fossero stati loro a commettere la strage, chi potrebbero essere i veri colpevoli? La pista sulla ‘ndrangheta e sui compagni di cella di Azouz Marzouk, il marito di Raffaella Castagna, viene vagliata dagli inquirenti almeno in una prima fase, ma non porta a nulla di concreto. Il documentario di Nove fa invece luce su un’altra pista, forse troppo frettolosamente scartata in fase di indagini. Secondo quanto riferisce Azouz Marzouk, Raffaella Castagna, due mesi prima del delitto, aveva chiesto ai genitori un anticipo di eredità. I fratelli di Raffaella, Pietro e Beppe, avevano visto dietro questa richiesta una manovra di Azouz, accusandolo così la sorella di volergli sottrarre il patrimonio per darlo al marito tunisino. Da quel momento, sempre secondo Azouz, i rapporti tra Raffaella e i suoi fratelli si erano interrotti del tutto. In una telefonata tra Pietro Castagna e un suo amico, effettuata pochi giorni dopo il delitto e intercettata, si sente il fratello di Raffaella ridere di gusto sulla strage, facendo ironia sugli sforzi degli inquirenti di trovare i colpevoli a abbandonandosi a frasi come “sarà stata la Franzoni”. Carlo Castagna, il padre di Raffaella, afferma che la sera della strage era preoccupato perché non aveva visto rientrare la moglie, la quale generalmente effettuava i suoi spostamenti con un Fiat Panda, che invece non veniva utilizzata dal marito. Carlo Castagna dirà poi che sempre la sera della strage, aveva visto proprio quella Fiat Panda rientrare nel suo garage attorno alle 22.30, con a bordo una persona diversa da sua moglie. La circostanza inquietante, e mai del tutto chiarita dagli inquirenti, è che i Castagna, nell’immediatezza del delitto, hanno provato (riuscendoci) a liberarsi di questa Fiat Panda. Nello specifico, l’auto viene donata a un convento di suore, come verrà confermato dalle stesse religiose. Come viene fatto vedere nel documentario, le suore rivelano addirittura come i Castagna (padre e due fratelli) si fossero recati in convento due o tre giorni dopo il delitto per lasciare in dono la macchina. Questa circostanza verrà però scoperta solo alcuni anni dopo il delitto grazie a delle intercettazioni telefoniche. Nonostante questo, gli inquirenti non riterranno di dover fare alcun tipo di accertamento sulla Panda “per rispetto del dolore dei familiari”, come dice nel documentario Luciano Gallorini, comandante dei carabinieri di Erba. “Io mi domando, ma stiamo scherzando? Se si fossero voluti accertare davvero i fatti, la prima cosa da fare era sequestrare quella Panda per fare le opportune analisi”, sono le parole di Azouz Marzouk. Come rivela lo stesso Azouz, inoltre, pochi giorni dopo la strage un suo amico tunisino, anche lui residente a Erba, gli racconta che quella sera si trovava nel cortile del condominio di via Diaz, e che aveva visto tre persone confabulare indicando l’ingresso di casa Castagna. Anche un altro testimone, Fabrizio Manzeni, sosterrà di aver visto quella sera alcune persone nella corte del condominio, riconoscendo poi una di queste persone in Beppe Castagna, uno dei fratelli di Raffaella Castagna. Infine, la porta dell’appartamento non presentava segni di effrazione, lasciando presumere, o quantomeno ipotizzare, che gli esecutori del delitto fossero in possesso delle chiavi.
Conclusioni. Al di là di quello che deciderà la Corte di Cassazione sulla richiesta di incidente probatorio presentata dai legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, il documentario trasmesso su Nove solleva non pochi dubbi sulla colpevolezza dei due coniugi. Viene evidenziato come inquirenti e pubblici ministeri, nei giorni successivi alla strage, si siano forse troppo frettolosamente convinti della colpevolezza dei due vicini di Raffaella Castagna, non indagando abbastanza a fondo sulle altre possibili piste. Lo stesso Azouz Marzouk, marito e padre di due delle vittime, inizialmente convinto della colpevolezza dei Romano, ha poi cambiato idea: “Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla. Credo che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità”.
N.B.: Per completezza d’informazione, pubblichiamo a questo link la lettera scritta da Beppe Castagna – “fratello, zio e figlio” di tre delle quattro vittime del delitto di Erba – e indirizzata alla redazione del programma di Nove “Tutta la verità”.
La lettera scritta da Beppe Castagna "fratello, zio e figlio" di tre delle quattro vittime del delitto di Erba, pubblicata su TPI il 20 Aprile. 2018. Giovedì 19 aprile 2018 abbiamo pubblicato un articolo che ricostruiva le tesi presentate nel documentario del programma “Tutta la verità” andato in onda su Nove, di Discovery Italia, sulla strage di Erba.
Per completezza d’informazione, pubblichiamo la lettera scritta da Beppe Castagna – “fratello, zio e figlio” di tre delle quattro vittime del delitto di Erba – e indirizzata alla redazione del programma “Tutta la verità”.
“Buongiorno, ci avete fatto passare un paio di giorni d’inferno, mio fratello non si è ancora del tutto ripreso, ma abbiamo la pelle dura e supereremo anche questo. Ma veramente credete di aver fatto un buon lavoro? Avete spacciato per verità delle tesi innocentiste che non hanno mai avuto valore in nessuno dei gradi di giudizio. Non contenti avete buttato fango su di noi… ma avete un’idea di quello che abbiamo vissuto e sopportato? di quanto è stato difficile andare avanti? Ci avete messi alla gogna, insinuando dubbi e sospetti su di noi, utilizzando addirittura il nostro diniego ad una vostra intervista come rafforzativo. Avete fatto ascoltare un’intercettazione di mio fratello, ulteriore rafforzativo per creare un mostro, ma guardate che anche dopo aver subito un lutto plurimo la vita continua, fra le lacrime si continua a mangiare, a sentire amici e magari a fare battute ciniche… P.S.: la risata era dell’amico. Ma, non avete fatto ascoltare le intercettazioni di Azouz, tipo: “è il periodo più bello della mia vita” o: “mi pagano anche per fare sesso” o addirittura: “cosa me ne frega a me delle bare” …Avete riportato solo e soltanto il materiale che vi è stato suggerito da Panza, Montolli e Schembri, tralasciando le montagne di materiale che certifica la colpevolezza dei coniugi Romano. Avete montato in modo strumentale le interviste a Gabrielli e Gallorini. Avete permesso a Montolli di dire una serie di inesattezze strumentali, come ad esempio il verbale che ci riguarda: Verso le ore 22.00, non riuscendo ancora a contattare mia moglie, ho informato mio figlio Giuseppe che la mamma non era ancora rientrata. Mio figlio mi informava che aveva sentito una macchina e quindi mi diceva di controllare in quanto la mamma poteva essere in cortile o in giro per casa. Io facevo un controllo ed accertavo che la macchina arrivata era sì quella di mia moglie, ma con un’altra persona sopra, tralasciando quello che c’era dopo la virgola: in quanto come detto, mia moglie aveva preso la mia LANCIA K e non la sua. L’utilizzo della mia infatti avveniva da una settimana, in quanto la sua la utilizzava mio figlio che a sua volta aveva la sua in auto officina. Vorrei tralasciare tutto il discorso della Panda perché è veramente ridicolo… quel fenomeno di Candian l’ha “trovata” non grazie al suo fiuto, ma perché lo dissi al direttore Brindani, durante uno scambio di messaggi e poco dopo l’investigatore arrivò dalle suore. Perché l’abbiamo regalata così frettolosamente? Perché mio padre stava male nel vederla parcheggiata in cortile, solo per questo…Non avete detto che Chencoum, il tunisino, egiziano o marocchino che ha detto di aver visto mio fratello con un cappello mentre parlava in arabo con due tunisini, solo questo dovrebbe far capire tanto, era un tossico cliente fisso della famiglia Marzouk, bastava andare a leggere i giornali di quel periodo per capire l’odio che i Marzouk nutrivano nei nostri confronti, bastava ascoltare le loro intercettazioni agli atti per capire che loro vivevano la strage come un ostacolo ai loro traffici e si sentivano il fiato sul collo, quindi avevano bisogno di qualcuno che indicasse altri, inoltre nel secondo grado a Milano venne letta una lettera di un compagno di cella del Chencoum che raccontava le ammissioni di falsa testimonianza…Non avete riportato le intercettazioni dei due assassini che raccontano un’altra storia rispetto alla vostra: “guarda che non sono cattivi .. No, no no … no veramente io ho trovato delle brave persone … Infatti anche io non sapevo come comportarmi perché non sapeva come finiva, Poi quello che c’era lì mi ha spiegato tutto e allora … Forse stiamo meglio adesso … DOPO AVER FATTO QUELLO CHE ABBIAMO FATTO.” – Non avete parlato del colloquio di Olindo con Picozzi, il video è ben custodito dalla difesa ma il testo è questo: «Mi ricordo che abbiamo anche pensato: avremo rimorsi. E invece non ne ho neanche uno. Ecco tutto. E siccome l’abbiamo fatto insieme io dico che ci devono mettere insieme. Dividerci no. Non è giusto». «Così, appena entrato nella casa gli ho dato una stangata secca. Madre, idem. Mia moglie è andata di là e ha sgozzato il bambino. Poi abbiamo dato fuoco e poi abbiamo chiuso la porta per non danneggiare il resto della casa. A quel punto ho visto la signora Valeria con il cagnolino. Siamo rientrati nel soggiorno ma non si poteva più respirare. Abbiamo aspettato qualche minuto. Quando siamo usciti ce li siamo ritrovati davanti. Io l’unica cosa che mi ricordo è che sono saltato addosso a lui. Poi basta, siamo scesi in lavanderia e ci siamo cambiati. Io non avevo tutto il sangue che dicono, un po’ in faccia, un po’ sui pantaloni. E poi belli tranquilli a Como. Dove ci siamo guardati le nostre vetrine. Ci siamo mangiati uno spuntino e siamo tornati. Tranquilli che erano morti tutti. Invece appena arrivati sentiamo che il Frigerio non è morto. Allora ci siamo detti: speriamo che muoia anche questo. Non che dobbiamo per forza pregare, però insomma speriamo che muore anche lui. Invece non è morto. Io dico che se lui moriva noi la facevamo franca, perché non c’erano tante cose contro di noi. Sapevamo che dovevamo stare tranquilli e soprattutto che dovevamo stare attenti con Gallorini. Siamo stati interrogati una sola volta, poi basta. Per un mese si stava bene, andavamo a dormire alle nove, eravamo tornati a fare una vita normale». Non avete parlato dei “pizzini” di Olindo sulla sua Bibbia, ulteriore confessione scritta: “Oggi a colloquio con Rosa mi ha raccontato che sono alcune notti che vede Raffaella davanti alla branda come quella sera col sangue che le scende sul volto ed i colpi che gli ho inferto quando la uccidemmo” – “accogli nel tuo regno il piccolo Youssef, la sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Cherubini Valeria a cui noi abbiamo tolto la vita...” – “i Frigerio dovevano farsi i cazzi suoi” …Fino a quando conoscono i nuovi difensori e sulla Bibbia di Olindo qualcosa cambia (26/7/2007): “mi hanno chiesto di dare una logica alle coltellate che nella confessione ho detto di avere dato alla Valeria in testa …” – “SEMINARE DUBBI, INCERTEZZE, CAOS nella stampa che ci è contro ed agli imbecilli colpevolisti” dopo l ‘udienza preliminare dell’ ottobre 2007:“i nostri legali hanno presentato le loro istanze di annullamento per le nostre confessioni precedenti. Il giudice ha preso nota e si è ritirato per deliberare. DOPO TRE ORE HA ACCOLTO L’ ANNULLAMENTO DELLE NOSTRE CONFESSIONI PER VIZIO DI FORMA…ABBIAMO PRESO TUTTI IN CONTROPIEDE, NON SI ASPETTAVANO UNA STRATEGIA COSI’ SEMPLICE”
Non avete parlato del movente, anzi dei moventi che i due coniugi avevano, non ultimo la comparsa davanti al giudice 2 giorni dopo per una denuncia di lesioni che mia sorella aveva loro fatto. Non avete parlato di un sacco di cose, ma solo di quello che vi hanno dettato…Avrei delle domande da porvi, visto che dovreste esservi documentati: secondo le tesi difensive gli assassini si trovavano già all’ interno dell’appartamento all’arrivo delle loro vittime. Come mai le vittime hanno comunque il tempo per: mia mamma maneggiare un accendino, cercando di fare luce, prendere un cartone del latte dal frigorifero e appoggiarlo sul piano della cucina, togliere berretto e piumino al piccolo, mia sorella togliersi berretto, appoggiarlo sul cassettone dietro al divano vicino a quello di Jouseff togliersi le scarpe e infilare le ciabatte, prima di riuscire per riaccendere il contatore? secondo le tesi difensive la signora Valeria ricevette il colpo di grazia all’ interno del suo appartamento.
-Come mai la signora Valeria dopo essere stata assalita sul pianerottolo insieme a suo marito, non scappa nel suo appartamento ma lo raggiunge lentamente, come se ne deduce dalla forma dalle macchie di sangue sui gradini e dalle impronte delle sue mani sul muro?
-come mai gli assalitori le danno anche il tempo di togliersi il giubbotto?
-come mai viene trovata inginocchiata sotto all’ abbaino, davanti la sua finestra con il volto rivolto al pavimento appoggiato alle sue mani, come se cercasse di respirare l’aria più pulita, che come tutti sanno, durante un incendio si trova proprio in basso?
secondo le tesi difensive gli assassini scapparono dal terrazzo di Raffaella.
-Come mai non vengono trovate tracce sul parapetto e sul canale pluviale dello stesso?
-Gli inquirenti dicono di aver cercato tracce ematiche anche lì, se così non fosse, come mai gli avvocati difensori, con l’aiuto dei loro consulenti, Candian e Bruzzone, non le hanno cercate anche loro, vista l’importanza per loro di dimostrare quella via di fuga?
-Come mai la grossa pianta di Olia Fragrans nel vaso montato su ruote che occupava tutto lo spazio davanti al parapetto non risulta essere stata spostata o danneggiata?
-Come mai la maniglia interna del portoncino di ingresso della palazzina viene trovata imbrattata di sangue con impronte lasciate da guanti del tutto simili a quelli che Olindo ha detto di aver utilizzato?
secondo le tesi difensive vengono trovate all’ interno dell’ appartamento di Raffaella delle impronte digitali e palmari su un muro e all’ interno dell’ appartamento Frigerio un’ impronta di scarpa che non appartengono nè ai Romano nè a nessuno dei soccorritori.
-come fanno a dire che non appartengono a nessuno dei soccorritori se le uniche impronte prese dagli inquirenti furono quelle dei Romano e del primo soccorritore Bartesaghi, tralasciando le decine di altre persone che andarono e venirono dalla scena del crimine quella sera e i giorni successivi, fra pompieri, medici legali, carabinieri, Ris e personale del 118?
come fa Olindo a confessare di aver dato delle pugnalate con il suo coltellino a scatto sulla testa di Valeria, ferite di cui il medico legale non si era accorto e che quindi non erano a conoscenza degli inquirenti, ma confermate, autogol, dal perito di parte durante il processo ?
Potrei continuare elencando quello che non avete detto, ma in fondo la cosa più grave è che non avete fatto il vostro lavoro, anzi, l’avete fatto, a mio parere, in modo disonesto. Beppe Castagna, figlio, fratello e zio.”
STRAGE DI ERBA, PIETRO CASTAGNA: “ASSALTO” DE LE IENE. Azouz Marzouk difende Rosa e Olindo. Pietro Castagna, parente di tre vittime della strage di Erba: intervista-assalto de Le Iene. “Rosa e Olindo innocenti”: la tesi del programma di Italia 1, scrive il 30 settembre 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Antonino Monteleone torna a parlare della strage di Erba alle Iene, con un servizio che vuole approfondire il caso, aprendo a nuovi scenari sconvolgenti. "Nell'immaginario collettivo Rosa e Olindo sono colpevoli, anche a causa delle sentenze, eppure Azouz Marzouk, marito della vittima Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, sembra dubitare della sentenza su Rosa e Olindo". Azouz infatti non crede siano loro i veri colpevoli, nonostante le confessioni, forte delle teorie di alcuni giornalisti investigativi che chiedono la riapertura del caso. Durante il servizio, la iena ha intervistato diversi esperti e contattato una psicologa, la quale, a sorpresa, sembra sostenere l'innocenza di Rosa Bazzi e Olindo Romano. Il giornalista investigativo Montolli va nella stessa direzione: "Non risulta alcuna traccia di Olindo e Rosa nel palazzo della strage". E Azouz, parente delle vittime, continua a non essere convinto delle sentenze dei giudici: "Prima o poi verranno fuori i veri colpevoli". (Aggiornamento Jacopo D'Antuono)
LA STRAGE DI ERBA 12 ANNI DOPO. Sono passati quasi 12 anni dalla terribile strage di Erba dell'11 dicembre 2006, nella quale rimasero uccise 4 persone tra cui un bambino di appena due anni. A perdere la vita furono Raffaella Castagna, il figlioletto Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Tra le vittime anche il cane di quest'ultima. Per l'assurdo duplice omicidio furono accusati e condannati in via definitiva alla pena dell'ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Di recente, nei loro confronti la Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dai legali della coppia contro la decisione dell'Appello di Brescia di negare l'incidente probatorio su presunti nuovi reperti, confermando così a loro carico l'ergastolo definitivo. Sono in tanti, però, negli anni, ad aver messo in dubbio la colpevolezza dei coniugi Romano, a partire da Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, il quale aveva commentato ai microfoni della produzione Tutta la verità sul Nove, asserendo: "Hanno confessato perché non avevano nessuno, vivevano uno per l'altra, punto e basta". Voci di presunti complotti hanno messo in dubbio la vera colpevolezza di Rosa e Olindo e proprio su questo aspetto punterà la trasmissione Le Iene, in un servizio che andrà in onda questa sera, nel corso dell'esordio della nuova stagione.
LE IENE, INTERVISTA-ASSALTO A PIETRO CASTAGNA. Stando a quanto reso noto da La Provincia di Como, le telecamere della trasmissione di Italia 1 hanno raggiunto Pietro Castagna, che nella strage di 11 anni fa ha perso la madre, la sorella e il nipotino ed ora protagonista di quella che è stata definita una vera e propria intervista-assalto. Contro di lui, come spiega il quotidiano, domande provocatorie del calibro di "Sa che ci sono due innocenti in carcere?" ed ancora "Come mai avete fatto sparire subito la Panda di sua madre?", "Perché ha cambiato versione su dov’era quella sera?". Il tono, dunque, è stato quello inquisitorio con il quale si è quasi voluto mettere sul banco degli imputati l'uomo, parente delle vittime, additato negli anni come possibile “pista alternativa” rispetto a quella dei coniugi all'ergastolo in via definitiva. Stando alle domande fatte a Castagna, dunque, pare che Le Iene abbiano sposato la tesi innocentista e che vedrebbe in prima fila anche lo stesso Azouz Marzouk. Quest'ultimo da convinto colpevolista aveva poi cambiato rotta alla vigilia della Cassazione. Decisione che ha fece molto discutere.
Strage di Erba: un caso veramente chiuso? Scrivono "Le Iene" il 30 settembre 2018. Azouz Marzouk, che nella strage ha perso moglie e figlio, parlando con Antonino Monteleone, dice di non credere alla verità processuale. Come lui, alcuni esperti nutrono forti dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. “Voglio far riaprire il caso, Rosa e Olindo non c’entrano niente”. A parlare è Azouz Marzouk, che ha perso la moglie Raffaella Castagna e il figlio Youssef, uccisi assieme alla suocera e a una vicina di casa, nella strage di Erba (Como) dell’11 dicembre 2006, per la quale sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. Si tratta dei vicini di casa che avrebbero compiuti il massacro per continue liti condominiali. Marzouk, parlando con il nostro Antonino Monteleone, dice di non essere convinto di questa ricostruzione. Ritorniamo quindi a parlare delle prime piste su cui si è indagato: le liti precedenti di Marzouk in carcere con un uomo legato alla ‘Ndrangheta, quella dei contrasti per il traffico di droga. Un’altra pista è quella familiare: Marzouk conferma “freddezza” con i Castagna, i familiari della moglie. Rosa Bazzi e Olindo Romano, dopo l’arresto, hanno confessato, seppure con versioni differenti e con punti da chiarire. Poi hanno ritrattato e si sono detti innocenti. Fondamentale è anche la testimonianza di Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage nonostante le ferite. Non solo Marzouk non è convinto. Anche alcuni giornalisti non lo sono. E come lui, anche la psicologa del carcere di Como. Ad aumentare i dubbi ci sono le indagini del Ris di Parma: non ci sono tracce biologiche delle vittime nella casa di Rosa e Olindo (dove dopo la strage sarebbero tornati a cambiarsi) né dei due nella “casa del massacro”. Ci sarebbero poi elementi non analizzati, tra cui un accendino, un telefono, un mazzo di chiavi e tracce di persone, finiti poi quasi tutti stranamente distrutti. E non è finita qui: dopo questa prima tappa, continueremo nella nostra inchiesta sul caso.
Secondo appuntamento domenicale con Le Iene Show del 7 ottobre 2018. Condotto da Nadia Toffa, Filippo Roma e Matteo Viviani, scrive Irene Verrocchio Domenica, 7 Ottobre 2018 su maridacaterini.it. E’ andata in onda in prima serata, alle 21.15 su Italia1, la seconda puntata domenicale de Le iene Show. Condotto da Nadia Toffa, Filippo Roma e Matteo Viviani. Al rientro della pubblicità tornano sul caso di Olindo e Rosa (la Strage di Erba), i quali avrebbero sterminato una famiglia nel 2006. Mandano in onda un’intercettazione ambientale del 2 gennaio 2007 di Mario Frigerio (superstite) e le iene ascoltano i pareri di alcuni giornalisti. C’è chi è colpevolista e chi pensa invece che i coniugi siano innocenti. Solo l’unico superstite potrebbe dire la verità, Mario Frigerio. Inizialmente accusa come aggressore un uomo dalla pelle olivastra poi la colpa la fa ricadere su Olindo. Cambia quindi versione. Nell’intercettazione del 2007, invece, Frigerio confessava che l’aggressore era un uomo straniero dalla pelle scura. I dubbi, quindi, sono sempre di più. Il nome di Olindo viene fatto per la prima volta dal maresciallo Gallorini, il quale durante un interrogatorio avrebbe fatto il nome di Olindo per ben 9 volte. Si tratterebbe di manipolazione della memoria e dei ricordi. Le intercettazioni poi sarebbero sparite e mai messe agli atti. Mario Frigerio purtroppo è deceduto nel 2014. Ci sarebbero anche degli audio modificati al fine di incolpare Olindo.
Strage di Erba: due innocenti all'ergastolo? Scrivono "Le Iene" il 7 ottobre 2018. Seconda puntata dell'inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone sul massacro di 4 persone del 2006. Che mostra come le prime parole al risveglio del testimone chiave, l'unico sopravvissuto, vanno in senso opposto alle condanne. Seconda puntata dell’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone sulla “Strage di Erba” (Como) dell’11 dicembre 2006, per la quale sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa che avrebbero compiuti il massacro per le continue liti condominiali. Il primo a dubitare della colpevolezza della coppia, come vi abbiamo raccontato una settimana fa, è Azouz Marzouk, che ha perso nella strage la moglie Raffaella Castagna e il figlio Youssef, uccisi assieme alla suocera e a una vicina di casa. Ci sono poi quelli di giornalisti, psicologi e la mancanza di prove secondo le analisi del Ris di Parma e la distruzione di alcuni elementi eventualmente utili. L’unico superstite, Mario Frigerio ha riconosciuto Olindo come colpevole. Frigerio però, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di una persona di carnagione olivastra e più grosso di lui (tutto il contrario di Olindo Romano). Il nostro Antonino Monteleone ci fa sentire anche le registrazioni del primo colloquio con i magistrati di Frigerio, che vanno in questo senso. L'inchiesta ovviamente continua.
Strage di Erba: la macchia di sangue incastra veramente Olindo? Scrivono Le Iene il 14 ottobre 2018. Antonino Monteleone continua a indagare sulla strage di Erba, per cui sono finiti all'ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano. Il ministro della Giustizia Bonafede promette: "Verificherò perché sono sparite le intercettazioni". Sul giallo delle intercettazioni sparite della strage di Erba, che ha portato all’ergastolo i coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano, il ministro della Giustizia promette a Le Iene: “Verificherò perché sono sparite le intercettazioni. Voglio che la giustizia sia credibile agli occhi dei cittadini”. Antonino Monteleone racconta di come non si ritrovino più alcune delle intercettazioni dell’unico sopravvissuto e super testimone Mario Frigerio, che nella sua prima versione dei fatti disse di ricordare che l’uomo che aveva ucciso Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini era di carnagione scura e non era della zona. Sei giorni dopo cambia la sua versione, e dice di ricordarsi chiaramente che si trattava di Olindo Romano. Mancano all’appello, inoltre, le intercettazioni ambientali registrate nella casa dei coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano tra il 12 dicembre e il 16 dicembre. E i giudici hanno valutato che il fatto che i due non avessero parlato della strage come un elemento in più che ha portato poi a dichiarare la colpevolezza dei due. La Iena è riuscita a ottenere una clamorosa rivelazione sulla macchia di sangue di Valeria Cherubini trovata sulla macchina di Olindo Romano, l’unica prova scientifica che inchioda i coniugi alle loro responsabilità. Carlo Fadda, il brigadiere oggi in pensione che fece la fotografia alla macchia di sangue, ammette che il sangue potrebbe essere stato frutto della contaminazione dai carabinieri che erano stati sul luogo della strage.
Strage di Erba: Olindo e Rosa, innocenti all'ergastolo? Video Iene: “Una traccia potrebbe essere stata inquinata”. Video Iene: il caso delle intercettazioni sparite, Antonino Monteleone chiede al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di trovarle, scrive il 14 ottobre 2018 Silvana Palazzolo su "Il Sussidiario". Strage di Erba: Olindo e Rosa, innocenti all'ergastolo? Il nuovo servizio de Le Iene sulla strage di Erba non si è concentrata solo sul giallo delle intercettazioni, ma soprattutto sulla macchia di sangue che ha inchiodato Olindo Romano, quella sul battitacco dell’auto dell’uomo. Antonino Monteleone si è allora recato dal brigadiere Carlo Fadda, del nucleo operativo di Como, che trovò la macchina di sangue nei rilievi che fece. Si parte dalla presenza di un uomo nella foto che fece all’auto: «Quell’uomo era lì ma non faceva i rilievi». Non è stata neppure evidenziata la luminescenza: «Ci voleva la macchina fotografica più adeguata per fare quella foto». Quando Monteleone gli chiede se si può trattare di inquinamento, cominciano le rivelazioni: «Non posso sapere chi è entrato in macchina, se la macchina è stata lasciata da un collega». E quando pensa di non essere ripreso si sbilancia: «Gli avvocati potevano puntare sull’inquinamento di quella traccia. Perché non hanno combattuto su quello? Quella macchia non li avrebbe mai mandati all’ergastolo. L’auto comunque non è mai stata oggetto di analisi accurata». (agg. di Silvana Palazzo)
Strage di Erba: dov'è morta veramente la vicina Valeria Cherubini? Scrivono "Le Iene" il 17 ottobre 2018. Nuovo appuntamento con l'inchiesta sul massacro di 4 persone del 2006 per cui sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi. Dopo i dubbi sulla testimonianza dell'unico superstite e sull'unica prova scientifica. Quarto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e della Iena Antonino Monteleone sulla strage di Erba. Siamo partiti dai dubbi di Azouz Marzouk (e di molti esperti e giornalisti) che ha perso la moglie Raffaella Castagna e il figlio Youssef, uccisi assieme alla suocera, Paola Galli, e a una vicina di casa, Valeria Cherubini, nella sua casa l’11 dicembre 2006. Per gli omicidi sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa che avrebbero compiuto il massacro per le continue liti condominiali. Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole e che, in realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, più grosso di lui e non del posto. Ci siamo soffermati poi su un’altra prova contro i condannati: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Oggi ci concentriamo sulla morte di Valeria Cherubini. Quando arrivano i soccorsi, l’11 dicembre 2006, la vicina chiedeva ancora “aiuto” dal secondo piano della palazzina del massacro. Secondo tre gradi di giudizio sarebbe salita al secondo piano in condizioni già devastate dalle coltellate. L’altra ipotesi è che sia stata uccisa con l’ultimo colpo al secondo piano, dopo aver chiesto aiuto ai soccorritori. Gli aggressori sarebbero poi scappati da casa casa Castagna, con un salto che non sarebbe alla portata dei due condannati. In quella zona sarebbero state viste scappare invece tre altre persone. I dubbi sono alimentati anche dalla testimonianza del generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri che, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene: “È lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”.
Strage di Erba, dov’è morta veramente Valeria Cherubini? Il servizio de Le Iene, scrive la Redazione di"Blitz Quotidiano" il 18 ottobre 2018. Continua l’inchiesta de Le Iene con l’inviato Monteleone che, dopo il primo servizio, si interroga su dove è stata aggredita e poi colpita a morte Valeria Cherubini, la moglie del super testimone del processo della strage di Erba Mario Frigerio. Scoprire come è morta la Cherubini infatti può svelare come si sono mossi gli assassini, ovvero se hanno lasciato la palazzina scendendo le scale o attraverso una via alternativa come affermato dalla difesa. Il giornalista Edoardo Montolli ha commentato: “Viene trovata morta sotto la tenda della mansarda, con le mani a protezione del capo: sia Frigerio che i soccorritori la sentono chiedere aiuto. Loro provano a salire ma non ci riescono e tornando indietro”. E il primo soccorritore Glauco Bartesaghi ha confermato che la Cherubini urlava “aiuto”. Il volontario, che si trovava al pianerottolo del primo piano e sentì gridare la Cherubini, è sicuro che lei si trovasse all’interno della sua abitazione al secondo piano: quello che sarebbe fondamentale scoprire è se la Cherubini era da sola ferita a morte con gli assassini in fuga oppure se insieme a lei c’era ancora il suo assassino pronto a infliggerle il colpo di grazia. “Il problema nasce dal fatto che se lei è stata uccisa lì, gli assassini non potevano scendere le scale facendo quel percorso, per la presenza dei soccorritori: a quel punto Olindo e Rosa sarebbero innocenti”, sottolinea Montolli, anche se secondo i giudici, la Cherubini avrebbe risalito le scale e chiesto aiuto ai soccorritori dopo essere già stata aggredita dai killer, con la gola squarciata e la lingua tagliata. Luciano Garofalo, ex comandante del Ris, ha ammesso: “Noi abbiamo fatto tanti tentativi se ci fossero presenze delle vittime o viceversa, ma il risultato è stato negativo. Non so il perché, ma è normale che ai cittadini vengano dei dubbi. Effettivamente per il modo in cui sono state aggredite le vittime, non potevano non sporcarsi per il sangue versato”.
Strage di Erba, dov’è morta Valeria Cherubini? Video Le Iene, l'ex comandante dei Ris Luciano Garofalo rivela: "dubbi su Rosa e Olindo condannati", scrive Carmine Massimo Balsamo il 17 ottobre 2018 su "Il Sussidiario". Strage di Erba, dov’è morta Valeria Cherubini? Continua l’inchiesta de Le Iene con l’inviato Monteleone che, dopo il primo servizio, si interroga su dove è stata aggredita e poi colpita a morte la Cherubini, la moglie del super testimone Frigerio. Scoprire come è morta lei infatti può svelare come si sono mossi gli assassini, ovvero se hanno lasciato la palazzina scendendo le scale o attraverso una via alternativa come affermato dalla difesa. Il giornalista investigativo Edoardo Montolli ha commentato: “Viene trovata morta sotto la tenda della mansarda, con le mani a protezione del capo: sia Frigerio che i soccorritori la sentono chiedere aiuto. Loro provano a salire ma non ci riescono e tornando indietro”. E il primo soccorritore Glauco Bartesaghi ha confermato che la Cherubini urlava “aiuto”.
IL COMMENTO DI LUCIANO GAROFALO. Quando il volontario che si trova al pianerottolo del primo piano sente gridare la Cherubini, è sicuro che lei si trovasse all’interno della sua abitazione al secondo piano: quello che sarebbe fondamentale scoprire è se la Cherubini era da sola ferita a morte con gli assassini in fuga oppure se insieme a lei c’era ancora il suo assassino pronto a infliggerle il colpo di grazia. “Il problema nasce dal fatto che se lei è stata uccisa lì, gli assassini non potevano scendere le scale facendo quel percorso, per la presenza dei soccorritori: a quel punto Olindo e Rosa sarebbero innocenti”, sottolinea Montolli, anche se secondo i giudici, la Cherubini avrebbe risalito le scale e chiesto aiuto ai soccorritori dopo essere già stata aggredita dai killer, con la gola squarciata e la lingua tagliata. Luciano Garofalo, ex comandante del Ris, ha ammesso: “Noi abbiamo fatto tanti tentativi se ci fossero presenze delle vittime o viceversa, ma il risultato è stato negativo. Non so il perché, ma è normale che ai cittadini vengano dei dubbi. Effettivamente per il modo in cui sono state aggredite le vittime, non potevano non sporcarsi per il sangue versato”. Clicca qui per vedere il video de Le Iene.
INTERCETTAZIONI SPARITE: LE IENE DAL MINISTRO BONAFEDE. Prosegue l’inchiesta de Le Iene sulla strage di Erba, per la quale Olindo Romano e Rosa Bazzi sono stati condannati all’ergastolo. Antonino Monteleone, convinto che il caso non sia veramente chiuso, ha chiamato in causa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiedendogli di trovare le intercettazioni ambientali che sono misteriosamente sparite. Mancano sei giorni interi, in cui Mario Frigerio ha ricevuto la visita del neurologo che doveva testare i suoi ricordi della strage. Il giallo delle intercettazioni sparite non finisce qui: mancano le registrazioni dei colloqui di Olindo e Rosa dopo la strage. Interpellato da Le Iene, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: «Il ministero può fare delle verifiche, nelle valutazioni del magistrato non posso entrare. Mi riservo di verificare. Non snobbo le segnalazioni. Questo è un caso molto grave, io voglio che la giustizia sia credibile agli occhi dei cittadini».
LE IENE E I DUBBI SULLA TESTIMONIANZA DI FRIGERIO. Rosa e Olindo Romano potrebbero non essere gli autori della terribile strage di Erba: questo è il dubbio che ha lanciato il programma Le Iene, che per la nuova stagione ha deciso di occuparsi della strage del 2006. Nel servizio della scorsa settimana il mirino è stato puntato su Mario Frigerio, colui che indicò il nome di Olindo Romano come autore della mattanza in cui morirono quattro persone: Raffaella Castagna, il piccolo Youssef, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Nonostante tre gradi di giudizio abbiano condannato in via definitiva i due coniugi all’ergastolo, la trasmissione approfondisce un caso che continua a dividere l’opinione pubblica. La vicenda è stata ripercorsa fino a mettere in dubbio la testimonianza chiave dell’unico sopravvissuto a quella strage, Mario Frigerio. A far vacillare le certezze alcuni file audio registrati durante le indagini, in cui emerge come Mario Frigerio al suo risveglio in ospedale dopo l’aggressione non ricordi Olindo Romano ma un’altra persona. A fomentare i dubbi de Le Iene sarebbero infine anche alcune registrazioni audio “scomparse”, come rilevato dal giornalista investigativo Edoardo Montolli, autore di alcuni libri sulla strage di Erba. Clicca qui per il video del secondo servizio.
LA PRIMA TAPPA DELL'INCHIESTA DE LE IENE. L’inchiesta de Le Iene sulla strage di Erba si è aperta con l’intervista ad Azouz Marzouk, che perse moglie e figlio. Parlando con Antonino Monteleone raccontò di non credere alla verità processuale, confessando di avere quindi dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. «Voglio far riaprire il caso, Rosa e Olindo non c’entrano niente», confida l’uomo. La ricostruzione di quella strage dell’11 dicembre 2006 non lo convince. Rosa Bazzi e Olindo Romano dopo l’arresto hanno confessato, ma con versioni differenti, poi hanno ritrattato e si sono detti innocenti. Decisiva è stata la testimonianza di Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage nonostante le ferite. Ma Azouz Marzouk non è convinto, e non è l’unico. Le indagini del Ris di Parma non trovano tracce biologiche delle vittime nella casa dei coniugi, dove sarebbero tornati a cambiarsi al termine della mattanza, né della coppia nelle abitazioni delle vittime. Ci sarebbero poi elementi non analizzati, tra cui un accendino, un telefono, un mazzo di chiavi e tracce di persone, finiti poi quasi tutti stranamente distrutti. Clicca qui per il video del primo servizio.
Strage di Erba: Le Iene ritornano sul caso, scrive Luana Geria, Autore della news (Curata da Valentina) il 10/10/2018 Blasting News. I dubbi sulla confessione di Rosa e Olindo e le incongruenze sul caso messe in evidenza da Azouz Marzouk, marito e padre delle vittime. A dieci anni dalla Strage di Erba, Le Iene indagano sui veri colpevoli. A distanza di 12 anni dalla condanna all'ergastolo attribuita ai coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano accusati nell'anno 2006 di esser stati i fautori della strage di Erba, il programma condotto da Nadia Toffa e trasmesso su rete Mediaset Le Iene indaga sulla veridicità della condanna, ponendo un quesito che attualmente sembrerebbe essere quasi irrisolto: Rosa e Olindo sono realmente gli autori della strage in cui morirono brutalmente tre adulti e un bambino? Domenica 7 ottobre, in prima serata è andata in onda la seconda puntata del format televisivo Le Iene che con un servizio della durata di circa mezz'ora ha risollevato le questioni riguardanti uno dei casi più cruenti della cronaca italiana: la strage di Erba. L’intero servizio è stato dedicato sia alle dichiarazioni rilasciate dal testimone della strage unico sopravvissuto, Mario Frigerio, che interrogato direttamente in ospedale e successivamente in aula indicò Rosa e Olindo come fautori della strage, sia ad alcuni dettagli del caso non presi in considerazione finora.
Rosa e Olindo sono innocenti?
A decidere di far riaprire il caso secondo quanto mandato in onda durante la puntata è stato proprio Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, vittime della mattanza. L’uomo, durante un’intervista svolta da Antonino Monteleone, giornalista del format televisivo, ha spiegato di essere convinto dell’innocenza di Rosa e Olindo, di non credere alla ricostruzione dell’omicidio fatta dagli inquirenti e alle testimonianze di Mario Frigerio, incongruenti nelle diverse fasi degli interrogatori alla quale l’uomo, attualmente deceduto, si è sottoposto.
Ripercorrendo e analizzando i dettagli del caso e il racconto del testimone chiave, sia la psicologa del carcere di Como dove i coniugi sono detenuti, sia molti giornalisti che si sono occupati del caso in maniera dettagliata sembrano non essere convinti né della confessione di Rosa e Olindo né del racconto del sopravvissuto Mario Frigerio che durante una prima confessione, parlando dell’assassino aveva dichiarato: "Si tratta di un uomo più alto di me di almeno di 10 cm, carnagione olivastra e probabilmente di nazionalità araba”. Secondo quanto mostrato durante il servizio, Frigerio sia in tribunale durante il processo, sia durante gli interrogatori successivi svolti durante la sua permanenza in ospedale, aveva ritrattato il profilo dell’assassino da lui dichiarato e additato il vicino di casa Olindo e la moglie come unici colpevoli della strage.
Confessioni ritrattate e dettagli mancanti. A incrementare i dubbi sulla colpevolezza dei coniugi, secondo quanto dichiarato al termine delle indagini condotte dal Ris di Parma, sarebbe inoltre l’assenza di tracce biologiche delle vittime all'interno dell’abitazione di Rosa e Olindo. Secondo quanto dichiarato dalla coppia durante la prima confessione dove si dichiarano colpevoli, entrambi dopo aver commesso la mattanza sarebbero tornati a cambiarsi all'interno del proprio appartamento, quindi in base a quanto sottolineato dai giornalisti, da Marzouk e dalla polizia scientifica sembrerebbe quasi impossibile non aver rilevato alcuna traccia delle vittime. Durante le indagini, oltre all'assenza di tracce biologiche sopracitate sembrerebbero essere emersi alcuni dettagli fondamentali mai presi in considerazione in maniera approfondita: non sarebbero mai stati analizzati alcuni elementi che potrebbero essere di fondamentale importanza, come un accendino, un mazzo di chiavi ed un telefono, finiti in maniera inspiegabile distrutti. Tra le incongruenze del caso, sottolinea il giornalista, vi sarebbe la confessione di Rosa e Olindo successivamente ritrattata, le motivazioni dell’omicidio e il racconto dettagliato di come si sarebbe svolto, incongruente per alcuni versi con quanto dichiarato dalle forze dell’ordine e dal personale sanitario intervenuto sul luogo del delitto.
Strage di Erba, gli audio mai entrati a processo a Le Iene e l’imbarazzante impreparazione dei giornalisti, scrive Edoardo Montolli l'8 ottobre 2018 su Fronte del Blog. Sui social si scatenano le reazioni dei colpevolisti. Tra loro anche la giornalista del Corriere della Sera che seguì il caso, più Selvaggia Lucarelli e Salvo Sottile. Il risultato? Imbarazzante. Leggere per credere. Domenica Le Iene mandano in onda la seconda puntata sulla strage di Erba. Vengono analizzate le dichiarazioni e le intercettazioni di Mario Frigerio, il superstite della strage che accuserà Olindo Romano di essere l’aggressore dopo aver detto per dieci giorni che a colpirlo era stato un olivastro sconosciuto. Tra le prime a reagire c’è Selvaggia Lucarelli, che sui social ha un brillante seguito. E cosa scrive su Twitter? Questo: "I giudici hanno già valutato la questione delle primissime dichiarazioni di Frigerio e spiegano la cosa nelle varie sentenze, basta leggere. È storia vecchia care #leiene. E pure stracciando la confessione di Frigerio, rosa e olindo restano colpevoli. Basta fuffa. Basta". Già. Basta leggere. Come abbiamo visto, Selvaggia Lucarelli invita gli altri a leggere, ma lei non lo fa. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che sulla vicenda le notizie le inventi letteralmente, come ha fatto per il testimone della strage Chencoum. Anche questa volta si ripete. Infatti gli audio mandati in onda da Le Ienedel 22 dicembre, del 24 dicembre e del 26 dicembre in cui Frigerio parla rispettivamente con il suo avvocato, con i figli e di nuovo con il suo avvocato, non sono MAI entrati a processo. MAI riportati nelle sentenze. Nemmeno MAI trascritti. Come dice Selvaggia, basta leggere. Attività che evidentemente le riesce davvero male. E che compensa inventando anche questa volta una notizia. Ma perché sono importanti questi audio? Perché Mario Frigerio disse in aula che da quando il comandante dei carabinieri Luciano Gallorini gli fece il nome di Olindo il 20 dicembre, lui fu sicuro su chi fosse il suo aggressore. Così come confermò il figlio Andrea. Ma gli audio del 22 dicembre, del 24 dicembre e del 26 dicembre col suo avvocato lo smentiscono, dato che in quelle circostanze sembrava non ricordare proprio nulla. Per essere molto chiari, sempre a beneficio della Lucarelli e del suo “basta leggere” nemmeno l’audio del 20 dicembre tra Gallorini e Frigerio mandato in onda da Le Iene fu MAI fatto ascoltare in aula a Como, dove invece venne fatto ascoltare un audio del 15 dicembre in cui Frigerio diceva “è stato Olindo”. E il processo di primo grado si chiuse lì. Peccato che i giudici avessero fatto ascoltare un audio involontariamente modificato, come è scritto nella sentenza d’appello (basta leggere!) con il programma Cool Edit 2000, che cambiò la frase “stavano uscendo” con “è stato Olindo”. Lasciamo da parte le elucubrazioni e i problemi di lettura della giudice di ballo per concentrarci ora su chi ha seguito la strage fin dall’inizio. Perché la Lucarelli ritwitta un messaggio di Giusi Fasano del Corriere della Sera: "L'avvocato non ha avuto bisogno di dire granchè. L'«hanno arrestato», ha tagliato corto, Mario Frigerio ha chiuso gli occhi: «Bene, avvocato. Per me è una conferma». «C'è un'altra cosa, è in carcere anche lei» ha aggiunto il legale, Manuel Gabrielli. Sapeva che questa seconda informazione l'avrebbe stupito e così è stato. Ma lo stupore di Frigerio, il sopravvissuto della strage di Erba, non è durato che un attimo. I pensieri, ieri, erano tutti per la sua Valeria, la moglie uccisa nella carneficina dell'11 dicembre assieme a Raffaella Castagna, al suo piccolo Youssef e a sua madre, Paola Galli. Per il massacro di quella sera sono in carcere da due giorno Olindo Romano e Rosa Bazzi, i coniugi vicini di casa di Frigerio. Lui accusato di omicidio plurimo aggravato, lei di concorso in omicidio. «I Romano ed i Castagna si odiavano. Ma noi cosa c'entriamo? - si dispera Frigerio in lacrime - non abbiamo fatto niente...Io ho aiutato la procura. Adesso chiedo che mi ridiano mia moglie»". La preparatissima cronista del Corriere della Sera scrive polemicamente rispetto alla trasmissione de Le Iene: “Così. Per saperne un po’ di più… @stanzaselvaggia #Erba” E allega un suo articolo del gennaio 2007. Prima ancora, forte della sua preparazione in materia, twittava: "Un assassino crede sgozzato un uomo che invece rimane vivo per una malformazione alla carotide. Lui si salva (sua moglie e il cane no) e diventa il testimone-chiave, ovvio. Ergastolo. Sentenza definitiva Eppure c’è sempre qualche genio che “io la so meglio” @stanzaselvaggia #Erba". Eh già. Basta leggerlo l’articolo di Giusi Fasano. La seconda parte. Perché, all’epoca, Giusi Fasano scriveva questo: "«indicazioni confuse», come ripetono gli inquirenti. Ha raccontato tutto in dettaglio ai magistrati, precisando ogni volta di più. E l'ultima volta è stato il 2 gennaio. IL VERBALE - «La porta si è aperta all'inizio piano piano, poi di colpo. Ho visto lui, il mio vicino Olindo. Sembrava un indemoniato». Il supertestimone racconta che Olindo non ha detto una parola, descrive l'espressione rabbiosa del suo volto. «Mi ha sollevato di peso e mi ha sbattuto a terra - ricorda. Poi si è chinato e lo ha riempito di pugni e calci. - Sentivo Valeria che gridava, lui continuava a colpirmi». Frigerio si ritrova in faccia in giù, incassa botte in testa, sulla schiena, sul collo. «Poi si è messo a cavalcioni sulla schiena, non potevo muovermi». Il superstite, sottile di statura, rivive in ogni deposizione l'immobilità e il senso di impotenza di quei momenti. Ricorda che un peso enorme lo teneva schiacciato a terra. Sente l amano di quell'uomo, che a lui sembra quella di un gigante, mentre gli afferra la testa e gliela tira indietro. Descrive un gesto simile a quello visto nei video dei terroristi islamici che sgozzano l'ostaggio. Ecco «Mi ha sollevato la testa e ho sentito una lama che mi ha tagliato la gola». Frigerio spiega le sensazioni di quel taglio, il sangue, sua moglie che urla più forte e che probabilmente lo salva, perchè a quel punto, mentre lui è a faccia a terra, la furia cieca dell'assassino si sposta sulla moglie Valeria. Lei scappa, su, per le scale. Lui la rincorre e la uccide. Le ultime parole che Frigerio sente sono «Mario aiutami». Ma lui non può muoversi. Resta lì, davanti alla porta di Raffaella Castagna, mentre il «demonio» scappa e il fuoco appiccato dall'assassino si avvicina sempre più. Frigerio (che ha anche ustioni al viso) adesso sta meglio. Ci vorrà molto tempo per rimettersi fisicamente. Non basterà tutto il tempo che..."
Concentriamoci qui: "Frigerio spiega le sensazioni di quel taglio, il sangue, sua moglie che urla più forte e che probabilmente lo salva. Perché a quel punto, mentre lui è faccia a terra, la furia cieca dell’assassino si sposta sulla moglie Valeria. Lei scappa, su, per le scale. Lui la rincorre e la uccide. Le ultime parole che Frigerio sente sono «Mario aiutami». Ma lui non può muoversi". Giusi Fasano non si rende conto, o forse non lo sa pur essendo tutto agli atti, che se questa fosse la versione delle sentenze, non staremmo qui a scrivere da anni che Olindo e Rosa sono innocenti. Per spiegarlo anche all’autrice dell’articolo, questa ricostruzione sull’assassino che insegue Valeria Cherubini e la uccide nel suo appartamento dopo che la donna ha gridato aiuto, è purtroppo per lei quella che la difesa dei Romano ha sempre sostenuto. Ma i giudici hanno detto tutt’altro: hanno infatti scritto che Valeria Cherubini, con il cranio fracassato da otto colpi e una quarantina di ferite su tutto il corpo, fu colpita SOLTANTO all’altezza del pianerottolo di Raffaella Castagna. Poi salì in casa, senza deglutire sangue, senza respirarlo (non c’è sangue nello stomaco né nei polmoni) e senza perdere che minuscole gocce di sangue sulle scale. Infine arrivò sotto la tenda della sua mansarda e lì, con la gola già squarciata e la lingua già tagliata al piano di sotto, gridò “aiuto” prima di morire. Come si può credere che sia possibile una cosa simile in natura? Com’è possibile gridare aiuto con lingua tagliata, gola squarciata e cranio fracassato? Eppure, i giudici furono costretti a sostenere questa tesi per condannare Olindo e Rosa, perché se Valeria Cherubini fosse stata uccisa in mansarda come logica impone (compresa quella del vecchio articolo di Giusi Fasano), la coppia sarebbe innocente. Il motivo è semplice: dopo che Valeria Cherubini gridò “aiuto”, la coppia non poteva più scendere da lì e andare in casa a cambiarsi, perché di sotto c’erano già i soccorsi. Ma Giusi Fasano questo evidentemente non lo sa. Tanto che scrive «Sentenza definitiva Eppure c’è sempre qualche genio che “io la so meglio”» e allega un suo articolo che per contro scagionava i Romano. Davvero imbarazzante, perché fa capire quale sia il livello di conoscenza dei fatti di chi scrisse della strage per il maggiore quotidiano italiano. Ma il top lo raggiunge Salvo Sottile. Il brillante giornalista e conduttore televisivo twitta: "Ad @a_monteleone ho detto tante altre cose che spero trasmetterà prima o poi. Capisco che non ero funzionale a questa sua parte di racconto ma ascoltando i giornalisti ‘investigativi’ non capisco ancora perché avrebbero dovuto incastrare Olindo e Rosa #erba". E, soprattutto, aggiunge, con l’aria di chi la sa lunga: "La difesa di Olindo e Rosa poteva controinterrogare Frigerio negli anni e non l’ha fatto, poteva chiedere un incidente probatorio sulle tracce di sangue trovate dai Ris e non l’ha fatto. Poteva cercare altre prove, altre testimonianze…che mancano dov’è il complotto? Cos’è che poteva fare la difesa negli anni?! “Controinterrogare” Frigerio negli anni successivi?! Ma da dove l’ha dedotta questa cosa?! La seconda frase è anche migliore: “poteva chiedere un incidente probatorio sulle tracce di sangue trovate dai Ris e non l’ha fatto”. Ora, non lo so come segua Salvo Sottile le vicende, ma sono anni che la difesa chiede di fare gli incidenti probatori sulle tracce di sangue trovate dai Ris e all’epoca giudicate “scientificamente non interpretabili”: lo hanno scritto pure nei bollettini parrocchiali. Anche perchè, com’è noto anche a chiunque, i Ris NON hanno trovato alcuna traccia di Olindo e Rosa nel palazzo della strage e NEMMENO tracce delle vittime in casa loro. Non voglio neppure ipotizzare che Salvo Sottile si riferisca, quanto a incidente probatorio, alla macchia di sangue rinvenuta sull’auto di Olindo. Perchè, in quel caso, anche i muli sanno che non fu trovata dai Ris, ma dal Rono di Como. Infine Sottile, argutamente, dice che la difesa poteva cercare altre prove e altre testimonianze. Ma vah? Però se almeno chi informa sapesse di ciò che parla, potrebbe essere utile a fare chiarezza. O no? Edoardo Montolli
P.S.: Sui social scrivono che è troppo facile tirar fuori gli audio di Frigerio mai entrati a processo solo ora che il testimone è morto. Ma quando la difesa mi mise a disposizione le intercettazioni non trascritte eravamo nel 2010 e nel 2011. Uscirono gli articoli sul settimanale Oggi che ne rivelavano il contenuto e vennero fatti i lanci alle agenzie. Mario Frigerio era ancora vivo. Ma tutti finsero che quegli audio non esistessero.
La strage di Erba e l’imbarazzante articolo di Selvaggia Lucarelli: quando le fantasie diventano notizie, scrive Edoardo Montolli il 30 settembre su Fronte del Blog. Dare giudizi sulle persone che ballano le riesce benissimo. Ma quando si tratta di cose serie, come la vita delle persone, Selvaggia Lucarelli che fa? Inventa di sana pianta le notizie, come se fosse al bar. Così come fa sulla strage di Erba. A distanza di quasi dodici anni dalla strage di Erba, non pensavo che potessero uscire ancora articoli completamente disinformati sulla vicenda. Invece, e con grande stupore su Il Fatto Quotidiano, ci riesce benissimo Selvaggia Lucarelli. Che, rispetto ad allora, quando tantissimi negavano l’esistenza di alcuni atti, riesce pure ad inventarsi notizie di sana pianta e a dare, sulla base delle sue invenzioni, lezioni morali, come se stesse giudicando una gara di ballo o si trovasse al bar a discutere con le amiche davanti ad un gelato. Il titolo dell’articolo è Strage di Erba, i fan di Rosa & Olindo contro i sopravvissuti. E all’interno se la prende con il documentario Tutta la verità, andato in onda sul Nove, spiegando che «con i social pronti all’indignazione a comando e l’orda di programmi a tema cronaca nera, riaprire mediaticamente casi archiviati e lavorare sulle suggestioni è facile». Già, è facile. Non si capacita, Selvaggia Lucarelli, del perché il documentario focalizzi l’attenzione su Pietro Castagna, fratello di Raffaella, figlio di Paola Galli e zio del piccolo Youssef Marzouk, tre delle vittime, domandandosi cosa ci fosse contro di lui. Ma questo dovrebbe chiederlo ai carabinieri di Erba, che – come confermato in aula dal luogotenente Luciano Gallorini – lo sospettarono fin da subito. Salvo non far emergere le macroscopiche contraddizioni tra le dichiarazioni tra padre e figlio e far sparire dalle indagini da subito l’auto utilizzata da Pietro, la Panda nera della madre, che infatti non sarà mai messa sotto intercettazione né cercata. La cosa comica è che Selvaggia Lucarelli, nel riprendere l’articolo sulla propria pagina Facebook, sostiene di aver letto gli atti dell’inchiesta. Se così fosse, dovremmo concludere che abbia patologici problemi di comprensione. Perché nell’articolo su Il Fatto quotidiano si inventa di sana pianta un particolare piuttosto rilevante su un testimone che vide una persona verbalizzata come “il fratello della morta” sul luogo della strage: "Quindi si sottolinea che tale Chencoum, tossicodipendente cliente di Azouz, dichiarò di aver visto un tizio con la barba rossiccia qualche giorno prima della strage parlare con due arabi proprio davanti alla corte. Lo stesso testimone poi sparisce nel nulla". Ho inizialmente pensato ad un, per quanto ingiustificabile, refuso. Invece no. Perché Selvaggia Lucarelli, che dice di aver letto gli atti, lo ribadisce su Facebook aggiungendo un altro dettaglio. E cioè che Chencoum addirittura ritrattò. Nientemeno. Se le cose stessero così, non si capisce in effetti perché parlare di Chencoum. Ma ovviamente le cose non stanno affatto così ed è di tutta evidenza che la Lucarelli non sappia di cosa stia parlando. E figuriamoci dunque se ha letto gli atti. Dunque, Ben Brahim Chencoum era un senza fissa dimora che si presentò in caserma il 16 dicembre del 2006, a distanza di circa un’ora da quando andò lì a rilasciare sommarie informazioni Pietro Castagna. Sostenne di aver visto qualcosa fuori dalla corte esattamente all’ora della strage (non due giorni prima). La sua versione era piuttosto interessante perché la descrizione combaciava con quanto narrato da un dirimpettaio, Fabrizio Manzeni. Ma non basta. Il 25 dicembre Chencoum tornò dai carabinieri, fece stavolta un racconto molto dettagliato e aggiunse che la persona che aveva visto fuori dalla corte era la stessa incrociata in caserma il 16, e che fu insolitamente verbalizzata come “il fratello della morta”, senza cioè alcun nome. Naturalmente Chencoum poteva essersi sbagliato. Ma qual è l’aspetto inquietante di tutto questo? È che il 16 e soprattutto il 25 dicembre non c’erano ancora indagati per la strage (Olindo sarà riconosciuto da Frigerio davanti ai pm solo il 26). Ma il comandante dei carabinieri di Erba – che pure sospettava di Pietro Castagna – tenne inspiegabilmente questa testimonianza a Erba, inviandola in Procura soltanto il 15 gennaio, dopo le confessioni dei coniugi Romano. Perché, non si sa. Ovviamente Chencoum non ha mai ritrattato, è un’altra invenzione da bar della Lucarelli. Al processo venne dichiarato irreperibile quando invece era in prigione e lo si poteva rintracciare benissimo. Ulteriore dettaglio curioso è che il comandante Gallorini disse in aula di aver svolto dei lavori sulla testimonianza di Chencoum. Ma agli atti non esiste alcun verbale in proposito. Le invenzioni dell’articolo su Il Fatto Quotidiano, proseguono. E la Lucarelli le utilizza ancora per dare giudizi morali. Ad esempio:
"Azouz. Che tra le altre cose, solo dalla Cassazione in poi, è diventato improvvisamente innocentista". Qui non c’era nemmeno bisogno di leggere gli atti. Alla Lucarelli sarebbe bastato seguire il processo di primo grado (anche banalmente guardando i giornali) per sapere che Azouz aveva fin da subito avuto dubbi sulla colpevolezza dei coniugi. La polizia penitenziaria di Vigevano inviò una relazione in tribunale con questi dubbi espressi mentre era detenuto e Azouz, prima che la Corte si ritirasse per la sentenza, fu ascoltato. Ma stranamente lì il tunisino negò tutto. Alla vigilia della Cassazione decise infine di smettere di fingere di credere alla colpevolezza di Olindo e Rosa. Perché lo negò nel 2008, bisogna che Selvaggia Lucarelli lo chieda a lui. Potrei esercitarmi ancora a lungo sulle ulteriori sciocchezze messe nero su bianco da Selvaggia Lucarelli nell’articolo, ma dopo aver scritto due libri sul caso e innumerevoli articoli prima su Il Giornale e poi, soprattutto su Oggi, già molti anni fa pubblicai sul sito del settimanale uno speciale con i documenti originali dell’inchiesta. Per quanti volessero verificare le fesserie allora raccontate dalla gran parte dei media. È tuttora online. Selvaggia Lucarelli potrebbe così scoprirle da sola – trovando pure i verbali sulla Panda e su Chencoum – anche se so che non lo farà, essendo più comodo giocare a fare il giudice e a prendere like. Mi preme tuttavia sottolineare un suo commento su Facebook, perché denota quale sia stata l’unica sua fonte per scriverlo. E cioè, con l’aria di chi la sa lunga e conosce i segreti delle redazioni, sciorina ai suoi fan, ottenendo un gran successo di like, la seguente frase: Dove fosse finita la Panda, l’ha poi detto Beppe Castagna al direttore di Oggi Brindani, pensa che gran segreto. Pensa che incredibile coincidenza. Gli articoli su Oggi li scrivevo io: dove fosse la Panda era scritto nei brogliacci delle intercettazioni. E lo sapevamo da subito: è la conversazione tra Carlo Castagna e un’impiegata del 21 dicembre 2006, delle ore 9,20. Lo dico a beneficio della preparatissima opinionista. Secondo Selvaggia Lucarelli, che dunque non ha letto gli atti e non ha manco seguito il processo sui giornali – e neppure ha letto libri e articoli a proposito di ciò di cui si occupa – c’erano tuttavia così tante prove che i Romano sarebbero stati condannati anche «con 34 gradi di giudizio». Addirittura. Deve essere per questo che la Cassazione, nel chiudere la vicenda, scrisse che sul caso si addensavano numerosi dubbi e aporie. Ossia domande senza risposta. Avrebbero potuto chiedere a lei. Se ne sarebbe senz’altro inventata una. Edoardo Montolli
I veri numeri della giustizia in Italia: i dati allarmanti di Strasburgo, scrive Edoardo Montolli il 31 agosto su Fronte del Blog. Quali sono i veri dati sulla giustizia in Italia? Davvero la giustizia funziona perfettamente e ha solo la (notevole) pecca della lentezza processuale? Ho raccontato in questo intervento su Onda Libera, condotto da Giulio Cainarca su Radio Padania, quali sono i veri dati sulla giustizia in Italia, che ci inquadrano, quanto a rispetto del diritto dei cittadini, in un fazzoletto di “patrie” della democrazia come Russia, Turchia, Ucraina e Romania. Ovvero lontanissimi dagli Stati occidentali dell’Europa. Si tratta di dati della Corte di Strasburgo, che riporta tutte le condanne dei paesi europei per la violazione del Trattato dei diritti dell’Uomo dal 1959 al 2017. L’Italia “eccelle” non solo nella lentezza processuale, ma anche, di gran lunga, nella violazione dei diritti della difesa, nell’intrusione illecita nella vita famigliare (in cui si contano notevoli sentenze sanzionate a Strasburgo per sottrazione illecita di minori) e nella proprietà privata.
Strage di Erba: perché Rosa e Olindo hanno confessato? Scrivono il 23 ottobre 2018 Le Iene. Quinto appuntamento con l'inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone sul massacro di 4 persone del 2006 per cui sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi: ecco perché la loro confessione potrebbe non essere una prova decisiva. Eccoci di fronte alla prova ritenuta più importante che ha portato alla condanna definitiva all’ergastolo di Rosa Bazzi e Olindo Romano per la Strage di Erba, ovvero la loro confessione dell’uccisione della vicina di casa Raffaella Castagna e il figlio Youssef, assieme alla suocera, Paola Galli, e a un’altra vicina di casa, Valeria Cherubini, l’11 dicembre 2006 a Erba (Como). Il motivo: le continue liti condominiali. Siamo al quinto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e della Iena Antonino Monteleone sulla strage di Erba. Siamo partiti dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlio Youssef, e di molti esperti e giornalisti. Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, più grosso di lui e non del posto. Ci siamo soffermati successivamente su un’altra prova: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Nel quarto servizio abbiamo parlato della morte di Valeria Cherubini. Una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze sul suo decesso potrebbe scagionare Rosa e Olindo. Anche il generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene: “È lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”. Dalle intercettazioni, in questo nuovo servizio, emerge come Olindo decide di confessare sperando di ottenere benefici di pena e non l’ergastolo e di lasciare la moglie in libertà. Rosa però non ci sta: confessa per prima. Olindo prova allora a scagionare lei, sostenendo di aver fatto lui tutto da solo. Hanno confessato potendo vedere le foto della strage e conoscendo man mano le dichiarazioni dell’altro. Le versioni con il tempo “si aggiustano”. Olindo a un certo punto dice al pm: “Metta quello che vuole”. Rosa chiede continuamente: “È giusto, così?”. Nonostante tutto questo, gli errori delle due versioni restano. Quella di Rosa sembra surreale, quella di Olindo contiene inesattezze clamorose da quando avrebbe staccato la luce al semplice accendino con cui avrebbe appiccato il fuoco alla casa (cosa impossibile), dai numeri dei colpi (da 2 a 43 coltellate a Valeria Cherubini) alle armi del delitto, “una stanghetta e un coltellino svizzero”. In tutto colleziona 243 errori, uno ogni 30 secondi. Gli errori di Rosa sono incalcolabili. “Il fenomeno delle false confessioni è più che frequente: mediamente una confessione su quattro è falsa”, dice un esperto di neuroscienze forense, Sartori, che dubita delle confessioni di Rosa Bazzi e Olindo Romano. I dubbi ormai sono molti. Vorremmo porre le domande a entrambi i condannati. Il ministro della Giuistizia, Alfonso Bonafede, dice che non ci sono ostacoli. Abbiamo ottenuto l’intervista con Olindo Romano in carcere: in conclusione di questo servizio ne vedete l’esordio, domenica prossima ne manderemo in onda la versione integrale in esclusiva assoluta.
Strage di Erba, perchè Rosa e Olindo hanno confessato? Ultime notizie, le due versioni zeppe di errori: le anomalie sui coniugi Romano, la ricostruzione de Le Iene, scrive il 23 ottobre 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussiadiario". Strage di Erba, perchè Rosa e Olindo hanno confessato? Dopo la sparizione delle intercettazioni e i dubbi sul luogo della morte di Valeria Cherubini, una nuova puntata dell’inchiesta de Le Iene sulla tragedia di Erba. Il focus è su cosa hanno spinto i coniugi Romano a confessare la strage: riascoltando le prime intercettazioni dopo il fermo, i due non sembrano due spietati assassini, faticano a capire perché sono finiti in carcere, “tant’è che la moglie piange” come evidenzia l’inviato Monteleone. Interrogato dai pm, Olindo spiega: “Il fatto di essere stati riconosciuti dal Frigerio e le tracce di sangue delle vittime trovate sull’auto di Olindo Romano”. Ricordiamo che, sebbene ritrattata prima del rinvio a giudizio, la confessione ha convinto i giudici della loro colpevolezza. Ma ancora prima dell’ammissione, dopo il primo incontro con i magistrati, queste erano le parole dei Romano: “Non è da noi fare quelle cose lì, abbiamo litigato ma non da arrivare a quel livello lì”.
PERCHE’ OLINDO E ROSA HANNO CONFESSATO? Olindo Romano ha perseverato: “Io non l’ho mica fatto eh. Frigerio può dire quello che vuole, che ci posso fare io”. Il 10 gennaio seguente Olindo chiede di incontrare i magistrati con l’unico scopo di vedere la moglie: “Era l’unico modo per vederla”, confessa ai pm. I magistrati insistono per cercare di strappare la confessione e, dopo due giorni in isolamento e la minaccia di non vederla più, i pm gli permettono un incontro con Rosa. Olindo arriva a capire che con le prove che hanno in mano rischia l’ergastolo, mentre con il rito abbreviato ci sarebbe uno sconto: “Ma cosa c’è da confessare, non siamo stati noi”, sottolinea Rosa, “Non è vero niente Olli, sai che non è vero niente di questa cosa”. Olindo replica: “Se facciamo così prendiamo anche dei benefici, te ne vai a casa”. Subito dopo la svolta: dai magistrati entra Rosa prima di Olindo e inizia racconto delirante, cercando di prendersi le colpe per scagionare il marito. “Ho preso il coltello e sono partita… Niente, Olindo è entrato e gli ha dato il colpo. Lei, la mamma è caduta, si è accasciata a terra, lei invece si è alzata subito: mi ha sputato in faccia, si è messa a ridere e abbiamo lottato insieme. Più picchiavo, più la accoltellavo e più mi sentivo sollevata”, lo straziante racconto della donna. Il giornalista investigativo Edoardo Montolli sottolinea che “le confessioni non tornano quasi mai con i fatti, non erano dettagliatissime”. E l’avvocato Schembri conferma: circa un errore ogni 30 secondi in testimonianze considerate dettagliate e sovrapponibili nella sentenza di primo grado.
LA STRAGE DI ERBA, L’AVVOCATO DI OLINDO E ROSA: “NON CREDO AI COMPLOTTI MA E’ EVIDENTE CHE QUALCUNO HA OSTACOLATO E FORSE INDIRIZZATO LE INDAGINI.” Scrive la Redazione di TAG24 il 22 Ottobre 2018. Nuovo clamoroso capitolo della strage di Erba avvenuta l’11 dicembre del 2006 e per la quale sono stati condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, ritenuti responsabili dell’uccisione del piccolo Youssef Marzouk, di Raffaella Castagna, Paola Galli e Valeria Cherubini. A Radio Cusano Campus è andato in onda lo sfogo dell’avvocato Fabio Schembri, legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, intervistato per “La Storia Oscura” da Fabio Camillacci.
C’è stata la distruzione della gran parte dei reperti utili a far riaprire le indagini. “E’ successo e sta succedendo un po’ di tutto. Verbali sbagliati, intercettazioni ambientali scomparse, altre non messe agli atti, presunta manipolazione della memoria dell’unico superstite della strage di Erba, Mario Frigerio, dubbi sulla repertazione che ha portato a rilevare una piccola traccia di sangue trovata nella macchina di Olindo Romano, estenuanti rimpalli tra Procure. Ma la cosa più grave e più recente è la distruzione della gran parte dei reperti utili a far riaprire le indagini. Questi contenevano le tracce dei veri assassini: reperti distrutti nell’inceneritore di Como prima che la Cassazione decidesse di dire no alla revisione del processo.
Nemmeno nella casa dei coniugi Romano sono state rinvenute tracce di sangue delle vittime. Questo nonostante i provvedimenti delle Procure di Brescia e di Como che avevano sospeso la distruzione di quei reperti. Tutto ciò non solo è incredibile ma è inammissibile in uno Stato di diritto. Credo che una cosa del genere non sia mai accaduta nella storia della nostra Repubblica. Fortunatamente - ha aggiunto l’avvocato Schembri - ci sono altri reperti che siamo riusciti a far conservare presso l’università di Pavia e ora infatti chiederemo un accertamento tecnico su questi reperti rimasti. Ovviamente, ci auguriamo anche che tramite il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si possa fare chiarezza su questo. E anche su altri strani episodi che si sono verificati come la scomparsa di importanti intercettazioni ambientali. Oltre a questo abbiamo a disposizione altri elementi nuovi utili per dimostrare che Olindo e Rosa sono innocenti. Voglio infatti ricordare - ha concluso il legale di Olindo e Rosa - che i Ris di Parma hanno accertato che sulla scena del crimine non ci sono tracce di Olindo e Rosa. Nemmeno nella casa dei coniugi Romano sono state rinvenute tracce di sangue delle vittime. Si dice, ‘però Rosa e Olindo hanno confessato’. Ma la loro confessione è stata clamorosamente smentita dal dato scientifico che acquista maggior rigore soprattutto se c’è stata una confessione. Non credo ai complotti ma qualcuno ha ostacolato e indirizzato le indagini”.
Strage di Erba. Ecco Olindo privatissimo: gli incubi, la cella. E su Bossetti..., scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” del 14 dicembre 2015. «Tra me e Rosa non è cambiato nulla, ma vorrei passare più tempo insieme a lei. È la cosa che mi manca». Olindo Romano è ancora innamorato di sua moglie Rosa Bazzi, nonostante si possano vedere solo tre volte al mese. Sei ore in tutto. Lui, classe 1962, faceva lo spazzino. Ora è rinchiuso nel carcere di Opera. Lei, di un anno più giovane, era una donna delle pulizie. È in cella a Bollate. Sono stati condannati all'ergastolo per aver ucciso quattro persone - ferendone gravemente un'altra - a Erba, l'11 dicembre 2006. Secondo le sentenze, dopo anni di liti condominiali hanno stroncato con coltelli e spranga la loro vicina Raffaella Castagna (30 anni), suo figlio Youssef Marzouk di 2, sua madre Paola Galli di 60 e un'altra residente del palazzo: Valeria Cherubini, 55. Mario Frigerio, 65 primavere, è riuscito a sopravvivere per miracolo (poi è morto per malattia). Ora gli avvocati di Olindo e Rosa (Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D' Ascola) sperano di poter riaprire il processo. Facendo analizzare del «materiale pilifero», probabilmente capelli, trovato sul corpo del piccolo Youssef. Olindo - ciabatte, pantaloni della tuta blu e maglietta azzurra - crede di poter essere scagionato. Lo confida in una lettera, dove risponde a delle domande di Libero.
Signor Romano, come sta?
«Come salute sto abbastanza bene, mentalmente sono provato ma guardo avanti. A tempi migliori».
Ci descriva la sua giornata tipo.
«Mi sveglio verso le 8, faccio colazione e terapie per la pressione. Dalle 9 alle 11 lavoro. Tengo pulito fuori dal fabbricato dove mi trovo: strada, parcheggio e giardino».
Poi?
«Verso le 13 pranzo, con un'ora per andare nel locale cucina se voglio prepararmi qualcosa. Poi a volte vado all' ora d' aria con gli altri, mi occupo del giardino, taglio l'erba, se mi avanza tempo mi occupo dell'orto. Dalle 16 alle 19 faccio doccia e bucato».
E si arriva all' ora di cena.
«Non mi perdo mai Il segreto! (Una soap opera spagnola, ndr). Ma nei fine settimana non c' è, quindi vado in una saletta a giocare a carte, poi ceno. Mi piace preparare piatti veloci: spaghetti col sugo, carni, cibi surgelati. Alle 23 vado a dormire, magari sbrigo le faccende domestiche e rispondo alla corrispondenza».
Chiuda gli occhi. Che profumo c'è in carcere?
«C' è un po' di odore di fumo, nel bagno di Lysoform con il detersivo che uso per il bucato».
Com' è la sua cella?
«Entrando a destra, c' è un mobiletto con le ruote dove tengo le scarpe e sul ripiano le cose di cartoleria. Alle pareti ho tre calendari compreso quello di frate Indovino».
E che se ne fa di tre calendari?
«Sono indispensabili per non dimenticarmi cosa ho da fare!».
Diceva della cella.
«C' è un vecchio letto da ospedale con materasso e cuscino da campeggio che ho acquistato un paio di anni fa. Lì vicino ho il campanello per le emergenze e una lampadina che mi permette di scrivere. Ho una finestra, sulla sinistra c' è un piccolo bagno con lavabo, wc e una vaschetta attaccati insieme in acciaio, con i rubinetti da giardino. Poi ho un armadietto in metallo e un tavolino dove tengo quello che mi serve per cucinare. Tutto è tinteggiato di arancione col soffitto bianco».
Ha mai diviso la cella con qualcuno?
«No».
Può leggere i giornali e navigare in Internet?
«Leggo un po' di tutto, la tv la guardo poco, a Internet non si può accedere».
È interessato anche alla cronaca nera?
«Non la seguo molto».
Si è fatto un'idea di Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver ucciso Yara Gambirasio?
«Anche su Bossetti hanno fatto un grande pasticcio, non ho idea di come andrà a finire».
Riceve molte lettere?
«Sì, se fossero di più farei fatica a rispondere perché non ne avrei il tempo. Ho degli amici di penna che per qualche ora mi aiutano a dimenticare questo brutto luogo».
Lei è considerato un mostro.
«Mi sento come un pesce di lago finito in una palude».
E come la trattano gli altri detenuti?
«C' è chi mi parla e chi no e io mi comporto di conseguenza, non ho mai avuto grossi problemi».
C' è qualcosa che le ha dato particolarmente fastidio?
«Il modo, o la maniera, con cui tanti giornalisti della carta stampata e della tv, estrapolando da atti e documenti, sono stati colpevolisti a prescindere perché non hanno guardato tutto il contesto. Evidentemente non faceva notizia. Così hanno rovinato tanta gente, influenzando chi è chiamato a giudicare».
Qual è il momento più bello e più brutto che ha avuto in carcere?
«Diciamo che i momenti, belli o brutti, qui hanno un sapore diverso. Anche perché non mi manca qualcosa in particolare, qui mi manca sempre tutto!».
E in particolare le manca sua moglie Rosa...
«Il nostro rapporto non è cambiato, ma si è ridotto alle poche ore che abbiamo a disposizione».
Ha più sentito qualcuno della famiglia Castagna, per esempio il signor Carlo che nella strage ha perso figlia, moglie e nipote?
«Non ho più sentito nessuno, se poi loro considerano esaurienti i processi e sono convinti di aver ottenuto nel suo insieme un giusto processo al di là di ogni ragionevole dubbio, be' non c' è niente da dirgli».
E cosa pensa di Azouz, il marito di Raffaella Castagna e del piccolo Youssef?
«Azuz ha capito che le cose non tornavano, ma ormai è andata così. Guardiamo avanti. C' è ancora Strasburgo (la corte di giustizia europea che dovrà stabilire se i Romano hanno avuto un giusto processo, ndr) e la revisione del processo».
Ha incubi?
«No, dato che vivo un incubo. Quando mi sveglio non ricordo cosa ho sognato».
Lei e sua moglie prima vi siete autoaccusati e poi vi siete professati innocenti. Perché avete confessato, se non avete commesso la strage?
«È successo il 10 gennaio (2007, ndr), quando un carabiniere della scientifica di Como è venuto per prendermi delle impronte. Con lui ce n' era un altro, che non doveva essere lì e mi chiedo: chi l'ha mandato?».
E cos'è successo?
«Soprattutto lui, con insistenza, mi ha prospettato la migliore via d' uscita dalla mia situazione, e a Rosa hanno detto la stessa cosa».
Scusi, signor Romano: lei e sua moglie Rosa eravate accusati di reati gravissimi. Come potevate credere che la migliore via d' uscita fosse confessare un crimine mai commesso?
«Sul momento mi è sembrato il minore dei mali, non avevo capito che ero finito in qualcosa di più grande di me. Chiamatela come volete: manipolazione, trappola psicologica… L'avvocato d' ufficio è stato travolto pure lui».
Poi avete cambiato idea.
«Grazie a persone che ci erano vicine abbiamo capito che stavamo sbagliando e abbiamo ritrattato, ma quando sono arrivati gli avvocati che abbiamo tuttora il disastro era già stato fatto. Il giudice non ci ha ascoltati».
Cosa ricorda della sera della strage, quando siete tornati da Como e avete trovato la vostra palazzina zeppa di carabinieri, pompieri, giornalisti e curiosi?
«Ricordo quasi tutto, ma sono ricordi poco piacevoli e sfuocati dal tempo trascorso».
Ma se non siete stati lei e Rosa, chi ha ammazzato quelle persone?
«Non saprei».
Si sente una vittima?
«Vittima o capro espiatorio, la differenza è poca».
Cosa pensa della giustizia italiana?
«Va cambiata, lo sanno e lo dicono quasi tutti, il problema è che non lo fa mai nessuno. Per il momento».
Nei momenti difficili cosa l'ha aiutata?
«La speranza. E tante brave persone che ci hanno sostenuto a partire dai nostri legali e da altri che non conosco ma che a suo modo ci hanno aiutato».
Va a messa?
«Posso andarci ogni quindici giorni, Dio è sempre di conforto come lo sono i cappellani che ci sono nelle carceri».
S' immagini fuori di qui.
«La prima cosa che farei è abbracciare Rosa!».
Le capita di pensare alla vostra vecchia casa di Erba?
«Qualche volta, anche se non è più nostra».
Non si distrae col calcio?
«Non lo seguo».
Ascolta musica?
«Sì ma non ho preferenze: ogni cantante o gruppo ha dei brani che mi piacciono. Italiani e non».
Segue la politica?
«Non mi pongo il problema: mi hanno tolto il diritto di voto».
Ultima domanda: crede davvero di poter tornare libero, dimostrando la sua innocenza?
«Certo che ci credo, e non sono il solo a crederci».
«Abbiamo sbagliato a confessare» Olindo e Rosa, l’ultima battaglia. Carcere di Opera, l’ex netturbino all’ergastolo dopo la sentenza definitiva della Cassazione punta alla revisione: speriamo di uscirne, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno” il 28 giugno 2015 - La voce di Olindo Romano dal carcere di Opera. Appesa alla speranza che il lavoro dei difensori riesca a riannodare il filo esilissimo che conduce alla revisione e un nuovo processo. Le sentenze sono state inequivocabili, grevi come macigni. La condanna all’ergastolo è stata resa definitiva dal pronunciamento della Cassazione: l’ex netturbino e la moglie Rosa Bazzi sono i carnefici della strage di Erba, la notte degli orrori dell’11 dicembre del 2006, quando, in un condominio di via Diaz grande come un falansterio, vennero trucidati Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef, di due anni, la madre Paola Galli, la vicina Valeria Cherubini, mentre il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, si salvò solo perché una malformazione della carotide deviò il coltello dell’assassino che gli trapassava la gola.
Signor Romano, spera nella revisione?
«La nostra difesa sta lavorando bene alla revisione del processo. Certamente, dopo tutto speriamo che si giunga a rimediare all’errore giudiziario fatto nei nostri confronti».
Tutti si chiedono perché, dopo avere confessato, avete ritrattato. Perché?
«Ho ritrattato semplicemente perché non avendo detto la verità, ho deciso di dirla. Cioè che non eravamo noi gli autori della strage. Inizialmente, sbagliando, ho pensato che fosse il minore dei mali (confessare - ndr), visto il quadro che ci era stato prospettato. La stessa cosa ha pensato Rosa e siamo finiti nei guai».
Come vive oggi? Come trascorre le sue giornate?
«Oggi vivo male, guardando avanti, in attesa che le cose cambino. Intanto passo tre ore come giardiniere, un’ora all’aria, due nell’orto, un’altra in saletta a giocare a carte. Dopo cena qualche lavoretto domestico, la corrispondenza ed è passata la giornata».
Tempo fa i giornali hanno pubblicato che ha ideato una particolare scacchiera per il gioco della dama.
«Dama da una parte e scacchiera dall’altra, ideata quando non avevo niente da fare. Ci si può giocare in due, tre e in quattro. Per un po’ ci giocavo da solo, poi l’ho messa nel cassetto».
Sua moglie. Vivevate in assoluta simbiosi. Come sono, oggi, i vostri colloqui?
«I nostri colloqui, tre ogni mese, sempre al venerdì, punto di riferimento in attesa che ci mettano nello stesso “collegio”, se non altro».
Cosa vorrebbe dire alla famiglia Castagna? Carlo Castagna, padre, marito e nonno di tre delle vittime, ha espresso il desiderio di incontrarvi per quello che dovrebbe essere un momento di raccoglimento.
«Al signor Castagna non saprei cosa dire, visto che ci ritiene responsabili della perdita dei suoi familiari. Senza essere polemico, trovo strana questa sua insistenza nel volere venire a trovarci, come il fatto, diciamo così, di pubblicizzare il suo perdono. Penso che i momenti di raccoglimento devono essere personali e privati, come il perdono che si raggiunge non nell’immediatezza, ma con il tempo».
Azouz Marzouk, il tunisino marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, si è schierato in vostra difesa. Questo l’ha stupita? Le ha fatto piacere?
«Azouz non mi ha stupito, mi ha fatto piacere. Penso che già da molto tempo aveva capito che non c’entravamo, arrivando poi alla conclusione che conosciamo».
Riesce a vedere un futuro davanti a sé?
«Un futuro lo vedo, come sarà non posso saperlo. Questo grazie alle tante persone che ci sono vicine e ci aiutano. Li ringraziamo tutti di cuore. Concludendo, nella vita ci sono cose che ti cerchi e altre che purtroppo ti vengono a cercare. Speriamo in bene».
“Chi la visto?” su Rai tre ripercorre le tappe di una vicenda tutta da chiarire.
ROSA: “Ma che cosa c’è da confessare… non siamo stati noi…” OLINDO: “Lo so aspetta… Per tagliare le gambe al toro… Metti che sono stato io…” ROSA: “Ma quando sei andato su?” OLINDO: “Non lo so.” (Intercettazione ambientale del 10 Gennaio 2007 nel carcere di Bassone, Como).
IL GRANDE ABBAGLIO. Due innocenti verso l’ergastolo? di Felice Manti e Edoardo Montolli. Aliberti editore.
La verità è che questa storia è ancora tutta da raccontare.
Controinchiesta sulla strage di Erba. Il problema vero è che in questa vicenda non torna niente. Non tornano le perizie, non torna il riconoscimento che Marco Frigerio ha fatto di Olindo, non torna la macchia di sangue sull’auto, non torna niente…
“Quando abbiamo iniziato a occuparci del caso, esattamente come immaginerà il lettore, abbiamo pensato che si trattasse di un’idea folle. Poi, sfogliando le carte, scoprimmo che ogni cosa non tornava.
Non tornava la perizia del Ris, depositata ben dieci mesi più tardi, che non aveva trovato tracce dei vicini di Erba sul luogo della strage, né delle vittime in casa loro o in garage. Eppure le avevano cercate la sera stessa del massacro, non mesi, né settimane, né giorni dopo.
Non tornavano le intercettazioni ambientali in cui i coniugi, ignari di essere ascoltati, si mettevano d’accordo per confessare il falso perché spiazzati dalle prove a loro carico.
Non tornavano le confessioni, rilasciate, annotava il gup Vittorio Anghileri, con violazione dei diritti della difesa. E ancora non tornava quell’unica macchia di sangue trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano e Rosa Bazzi e il singolare riconoscimento dell’unico sopravvissuto, Mario Frigerio. Che, dopo aver detto che l’aggressore era un gigante di colore e dai capelli rasati, nove giorni dopo la strage accusava un vicino di casa che conosceva bene da tempo.
E soprattutto non tornavano, questi dettagli, perché nessuno li aveva mai scritti. Di ogni cosa era stato riportato l’esatto contrario di quanto era nelle carte. Scavando e indagando, il dubbio ha preso sempre più piede, fino ad accorgerci che le cose potevano essere andate, dati alla mano, in tutt’altra maniera”.
Felice Manti ed Edoardo Montolli hanno così iniziato a scrivere dalle colonne del “Giornale”. Poi il materiale era così tanto e così da approfondire, da decidere di farne un libro.
Un libro sconvolgente e appassionato, che contiene anche testimonianze inedite e una lettera inviata da Olindo Romano e Rosa Bazzi, scritta in carcere, nella solitudine della cella.
STRAGE DI ERBA: "Montagne di dubbi sulla colpevolezza di Olindo e Rosa" (Edoardo Montolli).
E se la strage di Erba non fosse stata compiuta da Rosa Bazzi e Olindo Romano? Sembrava fantascienza, un’ipotesi del genere: poi Edoardo Montolli e Felice Manti si sono letti le carte del processo, e hanno scoperto che qualcosa non tornava. Ci hanno scritto un libro, Il grande abbaglio, inizialmente ignorato. Loro due? Pazzi, figurati: a Erba, sono stati i vicini diabolici, la questione è chiusa. Ora sembra che le cose stiano cambiando. Gabriele Ferraresi ne ha parlato con Edoardo Montolli:
— intervista —
Sembra che chi dava dei pazzi a te e Felice Manti si stia ricredendo. Una bella rivincita, no?
«E’ presto per dirlo. Di certo gli inviati speciali del Tg1 e del Tg2, dopo aver visto le carte, si sono resi conto che ci sono diversi dubbi. Così come se n’è accorto il direttore di Oggi, che oggi fa uscire in edicola il mio ultimo libro, “L’enigma di Erba”.»
Che cosa non vi ha convinto, nelle carte del processo di Erba?
«Niente. C’è un testimone che racconta che il suo aggressore era olivastro. Arrivano i carabinieri e gli chiedono se “la figura nera che aveva di fronte” potesse invece essere Olindo. Glielo chiedono un sacco di volte e lui alla fine dice sì, potrebbe essere Olindo. Un brigadiere trova una macchia di dna, della moglie del testimone sull’auto dei Romano. Per passarla in diverse parti prima con il crimescope e poi con il luminol ci mette sette minuti. Solo che la macchia sull’auto non si vede: non c’è una foto buia dove si vede il blu del luminol. C’è una foto normale con sopra un cerchietto in cui il brigadiere sostiene ci fosse la macchia. Sarà senz’altro così. Però non sa molto di altro il brigadiere di quella sera: non sa nemmeno che l’orario di inizio del verbale è sballato rispetto a quando iniziarono gli accertamenti. Non sa nemmeno che non era da solo, come dichiarò in aula, a fare accertamenti: da una foto scattata da lui, ho scoperto che, alzando la luminosità, appariva sullo sfondo un uomo con il volto coperto e lo spruzzino del luminol in mano. Chi, è Olindo? E’ Olindo che faceva gli accertamenti per mandarsi all’ergastolo? E poi le strabilianti confessioni che ho provato siano state fatte guardando le foto della strage, recuperando un vecchio verbale del 6 giugno 2007. E sono pure gli unici dettagli, quelli visti nelle foto, i dettagli che tornano nelle confessioni. Infatti Rosa la prima volta disse addirittura di aver ammazzato Raffaella Castagna da sola. E che dopo 20 minuti arrivarono Paola Galli e il bambino, che invece arrivarono e furono uccisi insieme. Disse sempre di aver tentato di accoltellare Frigerio, che mai lo ha ammesso. Non sapeva nemmeno che non ci fosse la luce in casa di Raffaella Castagna. E sostenne che Frigerio fosse stato preso a sprangate, quando invece fu trascinato nell’appartamento e sgozzato, secondo lo stesso Frigerio. Ma in aula a Como, questi dettagli preferirono non farli sentire. Era più ad effetto il video rilasciato al criminologo Massimo Picozzi, quello che poi passò in tv. Anche se nessuno, davanti alla tv, poteva sapere se ciò che diceva la donna corrispondesse al vero. E questo, per essere chiari, è solo l’inizio della montagna di dubbi che sorgono sulla colpevolezza dei coniugi.»
Crollano le certezze: se ci pensi, Alberto Stasi, altra icona della “nera” degli ultimi anni, è stato un assassino per mesi, poi l’assoluzione, poi una puntata a Matrix ed è tutto ribaltato, ora è un povero ragazzo cui “qualcuno” ha ucciso la ragazza, Chiara Poggi. Prevedi che qualcosa del genere possa accadere anche con Olindo e Rosa? Ma soprattutto: funziona maluccio la giustizia in Italia, se le cose stanno in questa maniera…
«Il caso Stasi non l’ho seguito. Quanto a Erba io spero solo che sia consentito di riaprire il dibattimento, chiarendo a Milano ciò che a Como non fu fatto, visto che alla difesa furono tagliati 64 testimoni e che il processo con quell’audio mandato in aula in cui si sentiva “per me è stato Olindo”, una frase che Frigerio non sapeva di aver detto visto che accusava nello stesso momento un uomo di colore. Quell’audio, analizzato dalla difesa, risulta trattato con un programma per l’amplificazione e l’elaborazione del suono, Cool Edit 2000. Per ciò che riguarda la giustizia, siamo il Paese più condannato per ingiuste detenzioni. Ma pure quanto a errori giudiziari non scherziamo: negli ultimi due anni sono usciti dalla galera due innocenti che si sono fatti rispettivamente 15 e 30 anni di prigione ingiustamente.»
Puoi spiegare ai nostri lettori perché a compiere la Strage di Erba potrebbero non essere stati Olindo Romano e Rosa Bazzi?
«Non c’è il sangue delle vittime, sangue di cui sarebbero dovuti essere lordi, in casa loro. Si parla di microtracce, eppure non ci sono. E su questo non si trovano precedenti nella nera. Perché, com’è noto, il sangue anche quando è lavato o su cui addirittura sia stata passata sopra vernice, si trova. Invece non c’è nulla. Ed è curioso. Di più. Rosa aveva un cerotto sul dito: e non c’è sopra il dna delle vittime. Non c’è neppure il sangue degli imputati nel palazzo e nelle case delle vittime, dove pure ci sono impronte di scarpe mai identificate e perfino un’impronta palmare che, confrontata con tutti quelli entrati nel palazzo, non si sa di chi sia. Le confessioni sono quelle che sono. Sul resto mi pare di aver già risposto prima.»
Strage di Erba. I dubbi di “Oggi”. Dalle prime udienze del processo d’appello di Erba si conferma quello che Oggi ha messo in luce. Sulla strage dell’11 dicembre 2006, sull’omicidio di Raffaella Castagna, di suo figlio Youssef, di sua madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini troppi sono i punti oscuri, i vuoti investigativi, i dubbi. E se Rosa e Olindo, condannati all’ergastolo, fossero innocenti? Sulla loro colpevolezza si è cristallizzata una convinzione generale. Ma dalle carte emergono circostanze, interrogatori, indizi che dovrebbero suggerire qualche cautela. Soprattutto se si rileggono gli atti in cui il 10 gennaio 2007 Olindo Romano e Rosa Bazzi confessano (e poi ritrattano) nella convinzione di ottenere una cella matrimoniale; in cui il riconoscimento di Mario Frigerio, unico sopravvissuto, arriva solo dopo che il nome di Olindo glielo fanno a lungo i carabinieri; in cui si ammanta di mistero perfino l’unica prova concreta trovata contro la coppia: la macchia di sangue individuata sull’auto di Olindo.
L’UOMO SENZA VOLTO
Il 26 dicembre 2006 è la giornata cruciale. Frigerio, sopravvissuto allo sgozzamento per una malformazione della carotide, è ancora in ospedale. Dopo la strage, per due volte ha descritto un aggressore sconosciuto e olivastro, ma alle 13.10 del 26 davanti al pm che lo interroga conferma il dubbio avuto coi carabinieri e cioè che l’aggressore è Olindo. Ma è ancora un po’ confuso: dice che Olindo è olivastro, quando in realtà è bianco cadaverico. La testimonianza però non trova riscontri: negli «stracci» sequestrati ai coniugi Romano la notte della strage il Ris non ha trovato tracce di sangue. Non ne troverà nemmeno in casa loro e nulla di riconducibile a loro verrà scoperto nell’appartamento della strage. Dopo il fragile riconoscimento di Frigerio ai pm, la sera stessa la sorte va in aiuto degli inquirenti e fornisce la prova che inchioda Olindo. Lo spazzino viene invitato a presentarsi in caserma a Como con la sua Seat Arosa. «Accertamenti urgenti», dicono i carabinieri. Anche se li verbalizzeranno due giorni dopo. Se ne occupa il brigadiere Carlo Fadda. Ha i reagenti per il sangue. Prima passa il mini crimescope, invano. Poi il luminol, che dà l’effetto di luminescenza sul battitacco lato guida. Il brigadiere passa la carta filtro e preleva il campione in cui sarà trovato il dna di Valeria Cherubini, moglie di Frigerio. Verso le 23 Fadda comincia gli accertamenti e scatta 12 foto. Al primo processo gli avvocati dei Romano, Luisa Bordeaux e Fabio Schembri, gli chiederanno: «Si è occupato solo lei di questo accertamento?». «Sì», risponderà il brigadiere, «ho fatto tutto io». E precisa: è lui che ha spruzzato il luminol, ed è sempre lui che ha scattato le foto. Al presidente, Fadda aggiungerà che era presente anche Olindo. Dunque c’erano Fadda, Olindo e basta. Come da verbale. La foto decisiva è la numero 11: è quella del battitacco su cui c’era il sangue della Cherubini. La prova per l’ergastolo. La prima cosa da chiarire è che non si vede l’effetto del luminol, che in presenza di una traccia brilla. No, è una foto normale su cui è disegnato un cerchietto: sul verbale c’è scritto che la traccia era lì dentro. Bisogna fidarsi del verbale, dunque. E allora è interessante tornare a leggerlo. C’è una frase curiosa: «Gli operanti decidevano di repertare…». Perché «operanti» se l’operante è uno, Fadda? Forse è meglio guardare con più attenzione le foto originali. Guardando bene la foto 3, presa alle 23.29, si intravede un uomo. Si copre il volto con qualcosa e ha lo spruzzino del luminol nella mano sinistra. Chi è? Le immagini scattate con una reflex digitale, una Fujifilm Finepix S7000, vengono registrate nella memoria con data e ora di scatto. La foto precedente è stata scattata 11 secondi prima, dal retro della vettura. Non c’è alcuna possibilità che l’uomo senza volto sia lo stesso che ha fatto la foto. Non c’è nemmeno il tempo fisico per l’autoscatto, tanto che il cavalletto appare proprio in disparte. E nemmeno ci sarebbe motivo per fare un autoscatto e mettersi dietro la vettura con uno straccio sul volto. E allora chi è l’uomo? È forse Olindo? E cosa ci fa Olindo con lo spruzzino del luminol in mano? Quello che appare nell’immagine sembra anche molto più snello di Olindo. Allora, l’uomo che si copre il volto è Fadda ed è Olindo la persona che scatta la foto? Assurdo. Ma se così fosse e si prendesse in considerazione l’ipotesi più inverosimile del mondo, e cioè che il colpevole della strage abbia aiutato il brigadiere Fadda a fare gli accertamenti sulla sua auto per spedire se stesso all’ergastolo, perché Fadda, in aula, non l’ha detto? Ma se quello non è Olindo, chi è? Perché non lo ha messo a verbale e non ne ha nemmeno parlato in aula? Oppure c’è un uomo di cui nessuno sa nulla, né volto, né ruolo, né addirittura se si tratti di un carabiniere, nel momento in cui viene trovata la prova decisiva per un ergastolo? Ma se davvero c’è lì un altro uomo di cui Fadda tace se c’è un uomo ignoto nel momento in cui si reperta la prova per un ergastolo, ma per quale ragione ci si deve allora fidare di una foto normale con sopra un cerchietto, scattata otto minuti dopo dallo stesso Fadda, alle 23.37, nella quale il brigadiere, senza altri testimoni se non l’inattendibile Olindo, sostiene che ci fosse la macchia con il dna della vittima senza che la macchia si veda? Chi è l’uomo senza volto?
LA PANDA NERA
Nelle ore successive alla strage gli inquirenti tengono d’occhio tutti. Anche i Castagna, il padre Carlo e i figli Giuseppe e Pietro. Ascoltati dai carabinieri Carlo e Pietro Castagna cadono inizialmente in contraddizione. Le versioni agli atti sono almeno tre. La prima in cui Pietro sostiene di aver dormito tutto il pomeriggio. La seconda in cui il padre afferma che Pietro è invece uscito e rientrato verso le 22. La terza, che li accorda in aula, sostiene che Pietro è uscito e rientrato tra le 20 e le 20.20, certamente prima delle 21. Nel memoriale consegnato a Oggi la settimana scorsa, Giuseppe ha poi fissato l’orario di rientro di Pietro tra le 20.00 e le 20.05. Tre anni fa, però, nessuno degli inquirenti ha approfondito. Nemmeno quando il 25 dicembre il tunisino Ben Brahim Chemcoum, che poi sparirà, mette a verbale di aver riconosciuto il «fratello della morta» che aveva già notato in caserma il giorno 16 nelle vicinanze di via Diaz, in orario compatibile con quello della strage. E il 16 in caserma c’era Pietro. L’unica cosa certa sulla sera della strage riguardo ai Castagna è che Pietro va e viene da casa su una Panda nera. È l’auto di Paola Galli, moglie di Carlo, madre di Beppe e Pietro, che quel giorno ha usato la Lancia K del marito. I Castagna vengono sottoposti a intercettazioni telefoniche e ambientali: tranne che sulla Panda. Il 19 dicembre Carlo spiega a un interlocutore che, così come gli hanno detto, i telefoni possono essere sotto controllo. Due ore dopo, parla col figlio Beppe di una macchina. Il giovane propone al padre di regalarla alla Croce Rossa. «Sei meraviglioso», risponde il padre. Due giorni più tardi, a nove giorni dal massacro della sua famiglia, Carlo chiama in ditta spiegando che la Panda della defunta moglie, con un solo anno di vita, verrà regalata alle suore di Albese. E che si trova in carrozzeria per qualche ritocchino e per una “pulizia interna”: per i carabinieri, all’epoca, si tratta di conversazioni “non utili”. Nel novembre 2008 Carlo Castagna dirà all’inviato del Corriere della Sera d’aver consegnato la macchina a una suora amica di famiglia nel gennaio 2007. Nell’indifferenza degli inquirenti, l’auto sparisce da Erba, anche se continua a figurare sui registri del Pra, sempre intestata a Paola Galli. L’auto, in effetti, è là dove doveva essere: sotto un portico, all’istituto delle suore di Albese, dove l’hanno trovata la settimana scorsa i cronisti di Oggi. Giuseppe ha spiegato a Oggi i motivi per cui l’auto fu data alle suore, e ha dichiarato che la Panda fu portata ad Albese «una decina giorni dopo», non a gennaio. Le monache dicono che Castagna portò loro la Panda il giorno dopo la strage. «Al massimo», aggiungono, «due o tre giorni dopo». Probabilmente non c’è nulla di strano, a distanza di tanto tempo i ricordi possono essere confusi. Ma, visto che Oggi può documentare la presenza dell’auto, perché gli inquirenti non vanno sul posto a verificare l’esistenza di un mezzo ripetutamente citato nei verbali ma ignorato dai controlli?
La svolta di Azouz Marzouk Appare per certi aspetti indecifrabile l’atteggiamento del tunisino Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna, padre del piccolo Youssef e genero di Paola Galli. Nelle fasi iniziali dell’inchiesta era stato indicato dalla procura di Como come l’autore della strage. Bufala colossale. Azouz era dai suoi familiari in Tunisia. È rientrato in Italia nei giorni scorsi per seguire il processo d’appello in cui è parte civile, contro i Romano. Fuori dall’aula, prende la parola e reagisce ai proclami di innocenza dei due imputati: «Vogliono giustizia, no?», dice Azouz. «L’avranno. È già tutto scritto, giustizia è già stata fatta una volta e sarà fatta anche la seconda con la conferma dell’ergastolo. Da subito ho riconosciuto lo sguardo di chi ha sterminato la mia famiglia e non lo dimenticherò mai». Da subito mica tanto. A caldo Azouz si esprimeva in modo completamente diverso. Fu lui a convincere il connazionale Ben Brahim Chemcoum a presentarsi dai carabinieri per dire che la sera dell’11 dicembre aveva visto il «fratello della morta» nei pressi di via Diaz. Fu sempre lui che, detenuto a Vigevano per spaccio, confidò i suoi sospetti sulla famiglia della moglie, tanto da spingere la direzione del penitenziario a scrivere un’informativa al presidente della Corte d’assise di Como. E non poteva che essere stato lui a orientare la madre Souad, che al telefono dalla Tunisia confidava al figlio il suo terribile sospetto: «Vedrai che con il tempo troveranno che è stato suo fratello [di Raffaella, ndr] dietro tutto questo… Il mio cuore non mi mente, te lo dico io, Azouz». Cosa intendesse, non si sa: in aula lei non verrà. Ma oggi anche Souad è parte civile contro Olindo e Rosa, accusati di aver ammazzato il nipote Youssef.
PARLIAMO DI CREMONA
MALAGIUSTIZIA
Il togato di Unicost Fabio Roia, ha chiesto al Comitato di presidenza del Csm di aprire una pratica per indagare sui pm che si sono occupati del caso di Gaetano De Carlo, l’uomo che ha ucciso due ex fidanzate prima di suicidarsi, scrive "Il Quotidiano". Nelle poche righe di richiesta, Roia, riferendosi alle notizie di stampa secondo cui De Carlo era stato "denunciato 7 volte per condotte persecutorie nei confronti delle vittime", fa notare che è "opportuno verificare la veridicità" delle notizie. L’obiettivo è "valutare se il caso fosse stato adeguatamente trattato e valutato da parte della magistratura procedente", quella di Crema. "È infatti compito della magistratura, in presenza di un quadro probatorio consistente e all’esito di un giudizio di pericolosità sociale pregnante dell’agente violento - spiega il togato di Unicost - intervenire con gli strumenti cautelari già esistenti nel sistema processuale penale e che la nuova legge sullo stalking ha ulteriormente rafforzato". A distanza gli risponde il procuratore di Crema, Daniele Borgonovo, che commenta: "Il Csm fa il suo dovere e fa bene a farlo. Io risponderò a tutte le domande che mi saranno eventualmente poste". Lo stalker assassino era imputato a Crema per stalking a causa di un’aggressione ai danni di Sonia Balconi, la seconda donna uccisa: per lui era stata fissata l’udienza preliminare a novembre. In realtà le denunce non sono sette: esiste una sola denuncia relativa all’aggressione, integrata poi con altri episodi di molestie di vario genere a carico di De Carlo, per il quale era già stato chiesto il rinvio a giudizio.
PASSEGGERI ABBANDONATI
Doveva festeggiare il Capodanno e nulla e nessuno glielo avrebbe impedito, nemmeno gli impegni di lavoro. E così, prima dello scoccare della mezzanotte, un macchinista ha visto bene di parcheggiare in stazione il treno per raggiungere la combriccola di amici. Niente di strano se non fosse che all'interno, ugualmente in ansia per i festeggiamenti, sono rimasti anche i passeggeri. Chiusi, bloccati dentro.
L'incredibile disavventura è accaduta nella stazione di Cremona. Una volta arrivato a destinazione in orario, l'incauto macchinista ha spostato il mezzo proveniente da Brescia nella zona di sosta notturna e si è allontanato. Accortisi che qualcosa non andava e soprattutto dopo aver scoperto che le porte non si aprivano, i passeggeri hanno chiamato i carabinieri. Archiviato il cenone di San Silvestro, hanno chiesto "almeno" di esser liberati.
Si è fermato in stazione senza aprire le porte e ha poi “parcheggiato” il treno con i suoi passeggeri nella zona per la sosta notturna, andando a festeggiare il Capodanno: è quanto ha fatto un macchinista in servizio sul treno regionale che da Brescia è arrivato puntuale, alle 20.52, nella stazione ferroviaria di Cremona la sera del 31 dicembre. Quanto accaduto nella serata di lunedì è stato riferito solo oggi da uno dei passeggeri, che con altri ha già chiesto il rimborso del biglietto alle Ferrovie.
Arrivato a destinazione, le porte non si sono aperte e, dopo un po', il treno è ripartito dalla stazione e si è fermato poche centinaia di metri più in là, nella zona deputata alla sosta notturna. Il macchinista ha chiuso il treno e, dimenticandosi dei viaggiatori a bordo, se n'é andato a festeggiare il Capodanno. Dall'interno, al buio e al freddo, i passeggeri hanno tentato inutilmente di aprire le porte mentre la rabbia montava e i bambini, impauriti, piangevano.
La spiacevole vicenda si è conclusa grazie alla telefonata fatta da un viaggiatore ai carabinieri che hanno avvisato l'ufficio movimentazione delle Ferrovie di Cremona. Circa un'ora dopo, un ferroviere è arrivato sul posto, "ha liberato" i passeggeri e ha fatto loro strada tra i binari, illuminati con una torcia fino alla stazione.
PARLIAMO DI LECCO
LECCO MAFIOSA.
«Il sindaco Brivio mediatore con i clan della ‘ndrangheta». Nell’indagine della Dda le intercettazioni delineano un «comportamento allarmante», scrive Luigi Corvi su “Il Corriere della Sera”. C’è anche il nome del sindaco di Lecco, Virginio Brivio (Pd), nelle molte intercettazioni che costituiscono il supporto dell’operazione «Metastasi», l’inchiesta condotta dalla Dda di Milano che all’alba di mercoledì ha portato in carcere il sindaco di Valmadrera, Marco Rusconi, il consigliere comunale di Lecco Ernesto Palermo e altre otto persone tra cui il capo clan della ‘ndrangheta Mario Trovato. Un comportamento «allarmante», come lo definisce il gip, quello che Brivio ha avuto nella vicenda dell’appalto per il Lido Parè. Perché, anche se sino ad oggi non sono emersi rilievi penali, il sindaco di Lecco «senza avere dirette competenze istituzionali e ben consapevole dei collegamenti mafiosi prospettati a carico delle persone coinvolte, attraverso contatti con Palermo e altri cerca di raggiungere con la sua mediazione un compromesso economico tra i primi e il Comune di Valmadrera». Secondo gli inquirenti Brivio era a conoscenza che dietro l’operazione del Lido si nascondeva Mario Trovato e si sarebbe mosso per cercare di aiutare Rusconi, accusato di aver ricevuto cinquemila euro come prima tranche per pilotare l’appalto andato in fumo quando la prefettura aveva detto chiaramente che non avrebbe rilasciato il certificato antimafia. Un frangente, quest’ultimo, nel quale il sindaco «nonostante la delicatezza della vicenda e la caratura dei personaggi coinvolti», aveva preso contatti con l’ufficio del prefetto girando poi le informazioni a Ernesto Palermo. Proprio da quest’ultimo il sindaco aveva ricevuto conferma diretta del coinvolgimento di Mario Trovato nell’operazione del Lido. «Quando gliel’ho detto - spiega Palermo a un amico in una conversazione telefonica - lui invece di dire cazzo minchia, ha detto va bene siamo più tranquilli». Da notare che dal novembre 2012 Brivio era scortato da un vigile dopo aver ricevuto minacce - così aveva denunciato - per aver fatto chiudere qualche mese prima il bar «The village» perchè gestito da uomini del clan Trovato. Dalle indagini emerge che Mario Trovato disponeva, principalmente attraverso Palermo, di contatti con esponenti di primo piano del Comune di Lecco, «in primo luogo del sindaco Virginio Brivio, coinvolto nella vicenda dell’aggiudicazione della concessione del Lido di Parè, oltre che con il consigliere comunale Alberto Invernizzi, più volte contattato da Palermo in relazione agli interessi della ‘ndrangheta». Ma secondo gli inquirenti i contatti della «locale» erano anche con altri politici. Oltre a Silvia Ghezzi (Udeur e poi Pdl), c’erano rapporti con Antonio Oliverio, già assessore alla Provincia di Milano e con Luigi Calogero Addisi (Pd), consigliere comunale di Rho, nonchè con numerosi esponenti politici di primo piano in Calabria. Inquietante, infine, anche la capacità della ‘ndrangheta di avere informazioni riservate dalla prefettura di Lecco, con la connivenza e la complicità di alcuni dipendenti, tra cui un non meglio identificato Giuseppe.
Operazione ‘ndrangheta, in manette anche il sindaco di Valmadrera. Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pm Claudio Gittardi hanno portato in carcere altre nove persone, scrive Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Il sindaco di Valmadrera, Marco Rusconi, 36 anni, è stato arrestato mercoledì mattina all’alba nel corso di una maxi operazione della Direzione antimafia di Milano. Con lui sono finite in manette altre nove persone, tra cui il consigliere comunale di Lecco, Ernesto Palermo, 45 anni, e Mario Trovato, 64 anni, esponente di spicco della ’ndrangheta, oltre a tre imprenditori, un immobiliarista, un commerciante di auto e un artigiano con una piccola impresa edile. Sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, corruzione, concussione ed estorsione. Le indagini sono partire nel 2009 a seguito di un incendio di origine dolosa che, nel luglio di quello stesso anno, distrusse il locale «Pareo Beach» sulla sponda lecchese del lago di Como a Valmadrera. Un bar che fu distrutto da un rogo anche nell’estate nel 2008. L’operazione, chiamata «Metastasi», è stata coordinata dal procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, e dal pm Claudio Gittardi ed eseguita dai finanzieri del comando provinciale di Milano. A incastrare i dieci lecchesi sarebbero state una serie di intercettazioni ambientali e telefoniche. «Gli ho detto prendi due taniche di benzina e dagli fuoco». Così parlava il consigliere comunale di Lecco, Ernesto Palermo, arrestato nell’inchiesta sulla cosca della ‘ndrangheta dei Trovato, intercettato in compagnia del presunto boss Mario Trovato e di un altro presunto affiliato, riferendosi a una persona che si lamentava con lui perché stavano aprendo un nuovo bar «sotto i portici». Un’intercettazione ambientale che è riportata nell’ordinanza di custodia cautelare di 566 pagine firmata dal gip di Milano Alfonsa Ferraro, su richiesta dei pm della Dda Claudio Gittardi e Bruna Albertini. Nel provvedimento sono riportate numerose intercettazioni che dimostrano, secondo l’accusa, che Palermo parlava proprio come un affiliato alla cosca. In una telefonata del 21 gennaio 2012, nella quale Palermo parla con la figlia Anna, offre poi, secondo i magistrati, uno «spaccato illuminante sia della struttura associativa» che dell’attività di «sostegno» del consigliere «alla vita» del clan. Alla figlia che gli chiede spiegazioni su alcuni personaggi che Palermo frequenta, il consigliere risponde: «Papà lo sai che cosa fa? Ti dico la verità... papà, fa incontrare i delinquenti e loro fanno le cose, hai capito? A me non interessa! Io non le faccio le cose, hai capito? Io sono sicuro, io non le ho mai fatte, io le faccio fare a loro!». Palermo, consigliere comunale a Lecco ed ex assessore, era iscritto al Pd e dal 2011 è passato al Gruppo misto. È accusato, stando all’imputazione, di essere un «partecipe sotto le direttive» di Mario Trovato, fratello del boss Franco Coco Trovato, e si sarebbe occupato per conto del clan «in qualità di uomo politico e consigliere comunale dei rapporti con esponenti politici e pubbliche amministrazioni comunali». Ma Palermo si lamentava in una telefonata intercettata anche della «debolezza» del presunto boss della cosca Mario Trovato, rispetto alla «potenza» che esercitava in passato il fratello Franco, già condannato all’ergastolo: «Se c’era Franco fuori e io ero in questa posizione qua andavo da lui e dicevo che potevo avere la possibilità di essere eletto (...) mi faceva eleggere! Andava lui a contrattare l’assessorato». Ancora Palermo parlando con un presunto affiliato: «Tutti i boss io tutti i boss li conosco tutti, io c’ho lo stesso rapporto con il boss, quello che abbiamo visto lì, quello era Mancuso». Il ruolo di Palermo, secondo gli inquirenti, sarebbe stato quello di acquisire «appalti e concessioni» e di intervenire per modificare il piano di governo del territorio per favorire gli interessi dell’associazione mafiosa. E sempre secondo la Procura, inoltre, Palermo, che è anche accusato di estorsione, corruzione e turbativa d’asta, si sarebbe attivato per fare acquisire alla famiglia dei Trovato la concessione di un’area comunale sul Lido di Valmadrera, sempre nel Lecchese. Stando alle indagini, per tale concessione, il sindaco di Valmadrera, Marco Rusconi, avrebbe intascato una tangente per circa 10 mila euro. Giovane esponente del centrosinistra, il sindaco Rusconi, ingegnere, sposato, due figlie, eletto con la lista civica «Progetto Valmadrera» nel giugno nel 2009, è stata arrestato mercoledì mattina all’alba nella sua casa di Valmadrera. Una notizia che ha lasciato sotto choc il comune alle porte di Lecco, che conta 11.600 abitanti. Con lui, in manette sono finiti anche: Antonello Redaelli, 58 anni, di Valmadrera; Saverio Lilliu, 50 anni, di Lecco; Alessandro Nania, 54 anni, di Lecco; Antonino Romeo, 54 anni, di Lecco; Claudio Bongarzone, 45 anni, di Lecco; Massimo Nasatti, 39 anni, di Lecco, e Claudio Crotta, 48 anni, di Pescate. Inoltre la Procura di Milano ha sequestrato 17 fra abitazioni e box, 5 auto, 2 complessi aziendali e quote di partecipazione in tre società: E ancora: tre depositi amministrativi, due fondi pensione, 14 rapporti di conto corrente, un libretto postale, tre rapporti di partecipazione a fondi comuni d’investimento per un totale di 700 mila euro.
'Ndrangheta, dieci in manette: la guardia di finanza sequestra beni per milioni di euro. Nell'inchiesta della Dda è coinvolto il fratello del boss Coco Trovato e alcuni amministratori locali del Lecchese. Uno dei politici è accusato di aver "procacciato voti per i clan", è stato arrestato nella scuola in cui insegna, scrive Emilio Randacio su “La Repubblica”. Da una parte le attività più classiche, come le estorsioni nei confronti dei commercianti e i business dell'edilizia e delle slot machine. Dall'altra l'inserimento negli ambienti istituzionali, grazie al ruolo di un politico-affiliato, per turbare le gare d'appalto, corrompere pubblici ufficiali e condizionare le elezioni amministrative. E' il "connubio", come rimarcato dal procuratore aggiunto della Dda milanese Ilda Boccassini, fra "braccia armate" e "esponenti delle istituzioni" che emerge dall'ultima importante inchiesta sulla presenza della 'ndrangheta in Lombardia. In particolare, a Lecco e nella zona del lago di Como. Nell'ambito delle indagini coordinate dai pm Claudio Gittardi e Bruna Albertini e condotte dal Nucleo di polizia tributaria e dal Gico della guardia di finanza sono finite in carcere dieci persone, tra cui il presunto boss Mario Trovato, fratello dello storico 'patriarca' Franco Coco Trovato (ergastolano e coinvolto nell'inchiesta 'Wall Street' degli anni Novanta), il consigliere comunale lecchese Ernesto Palermo e il sindaco di Valmadrera (Lecco), Marco Rusconi. Il consigliere comunale, 45 anni, eletto con il Pd e poi dal 2011 passato al gruppo misto, è accusato non solo di corruzione e turbativa d'asta, ma anche di estorsione e associazione mafiosa. La Guardia di finanza ha sequestrato Gdf 17 immobili, tra abitazioni e box, cinque auto, quote di partecipazione in tre società, due bar e conti correnti in cui sarebbero transitati circa 700 mila euro. Decine e decine sono le intercettazioni, contenute nelle 566 pagine dell'ordinanza firmata dal gip Alfonsa Ferraro, che dimostrano, come hanno spiegato i magistrati, che Palermo faceva parte della cosca dei Trovato, che era uno degli "uomini nuovi" del clan e ne curava gli "interessi" nell'ambito dei suoi rapporti con altri "esponenti politici" e della pubblica amministrazione. Palermo, di professione insegnante in un istituto professionale di Morbegno (Sondrio) dove è stato arrestato, secondo l'accusa si sarebbe adoperato direttamente per far ottenere al clan la concessione dell'area comunale Lido di Pare, sul lago di Como, già oggetto in passato di una serie di attentati incendiari. Per l'acquisizione della concessione, che doveva essere effettuata da una società dei Trovato in cui aveva investito anche Palermo, secondo l'inchiesta sarebbe arrivata una mazzetta da 5 mila euro (a fronte di una promessa di 10mila euro) al sindaco di Valmadrera, Rusconi (eletto con una lista civica appoggiata dal Pd), arrestato per corruzione e turbativa d'asta e molto attivo, prima di finire in carcere, in iniziative antimafia sul territorio. Palermo, inoltre, sempre stando all'ordinanza, avrebbe anche partecipato "all'attività estorsiva e di protezione nei confronti degli esercizi commerciali". E sarebbe coinvolto in un attentato a "colpi d'arma da fuoco" contro il ristorante Old Wild Cafè, avvenuto la notte del 16 gennaio 2012 a Lecco: Palermo e Mario Trovato avrebbero cercato di "costringere" i gestori del locale a versare "una somma di denaro a titolo di protezione". In pratica, una richiesta di pizzo 'evasa' a cui sarebbe seguita la loro vendetta. In una delle numerose telefonate agli atti, inoltre, il consigliere lecchese parlava con il presunto boss del clan di come "avanzare richieste di 'pizzo' a operatori economici, in specie costruttori". E sempre Palermo non solo sarebbe stato eletto con i voti dei Trovato e puntava a fare l'assessore, ma si sarebbe dato da fare anche per "incidere sulla raccolta dei voti e sull'andamento delle consultazioni elettorali locali". Tanto che in accordo con Mario Trovato, il consigliere "pur appartenendo a diversa forza politica" nel 2011 si offrì di "procurare voti alla candidata per il Pdl al consiglio comunale milanese Moioli Maria Mariolina", anche ex assessore milanese alla Famiglia nella giunta di Letizia Moratti. Si sarebbe offerto di mettere a "disposizione" di Moioli, che non è indagata, il "proprio bacino elettorale e quello di altri politici in collegamento con famiglie calabresi" come Antonio Oliverio, ex assessore provinciale di Milano, e Luigi Calogero Addisi, ex consigliere comunale a Rho (Milano). Oliverio, per esempio, nel novembre del 2011 contattava Palermo, come si legge negli atti, per "stabilire un contatto politico con l'ex governatore calabrese Agazio Loiero". Il procuratore della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ha riassunto l'inchiesta in una frase, non proprio una battuta: "Quel ramo del lago di Como non è poi così tranquillo".
Allarme, Lecco come Reggio Calabria. Scatta l’offensiva contro la mafia. Tra i primi posti come numero di aziende confiscate al crimine organizzato. Al primo posto c'è Milano mentre al secondo Brescia, scrive Fabio Landrin su “Il Giorno”. Allarme mafia: Lecco è tra le prime provincie per infiltrazione mafiosa in Italia. Lo rivela uno studio dell’Università Cattolica di Milano. La provincia lariana infatti si trova al sedicesimo posto nella classifica nazionale per aziende confiscate alla mafia. Dal 1983 al 2012 sono ben 20 le imprese che lo Stato ha tolto dal controllo delle cosche per farle tornare alla legalità. Il dato allarmante è che a Lecco 7,3 aziende su 10mila sono state confiscate, più di Napoli, Lecce, Brindisi, Bari e Agrigento. Il capoluogo campano ha un tasso di 6,8 imprese confiscate su 10.000, Bari 3,5 e Brindisi 6,7. A livello regionale Lecco si posiziona al terzo posto per il numero totale di aziende tolte alla mafia. Al primo posto c'è Milano (terza in Italia) con 143 imprese, mentre al secondo viene Brescia (undicesima) a quota 33. «Questi dati vanno contestualizzati – spiega Antonio Bellomo, prefetto di Lecco –. Se qui a Lecco ci sono state molte confische è solo grazie alle indagini della polizia giudiziaria che ha fatto un grande lavoro togliendo i beni del clan Coco Trovato negli anni ‘90». A Lecco le aziende confiscate sono state in prevalenza bar e ristoranti. «Se rapportiamo il numero delle aziende al volume di affari – continua il prefetto – siamo a livelli molto bassi, visto che erano in prevalenza aziende di ristorazione». Dopo aver lavorato in luoghi dove la mafia agisce da decenni, Bellomo dà un consiglio importante a tutto il territorio: «Bisogna tenere molto alta l’attenzione, sia le amministrazioni sia le forze dell’ordine». Per Renato Bricchetti, presidente del Tribunale di Lecco, il tema delle infiltrazioni mafiose a Lecco è un «problema serio». Il numero uno del Palazzo di giustizia sottolinea come »un elemento importante da monitorare è il controllo dei patrimoni». Un problema della confisca è la perdita dell’occupazione. «Se c’è da salvaguardare l’occupazione – afferma Bricchetti – è necessario che lo Stato reinventi le imprese tolte alle cosche, perché nessuno dica che era meglio quando c’erano i mafiosi».Lo scorso autunno il sindaco di Lecco Virginio Brivio aveva ricevuto minacce dopo aver imposto, su segnalazione della questura, la chiusura del bar «The Village» nel quartiere di Germanedo. Per settimane il primo cittadino aveva girato con una scorta formata da uomo della Polizia locale, così da tutelare la sua incolumità. «Le infiltrazioni ci sono – spiega Brivio –, dobbiamo debellarle per migliorare la vita dei cittadini nel territorio». Maria Venturini, presidente dell’associazione liberi professionisti di Lecco segnala come sia «fondamentale l’azione repressiva e di controllo, ma anche un’azione preventiva da parte di tutti. Da commercialisti dico che troppe volte controlliamo la pagliuzza nell’occhio, ma non vediamo le travi che ci sono. Il controllo dei capitali e dei movimenti bancari è sacrosanto per tutelare la nostra economia».
LA BANDA DEGLI ONESTI LECCHESI.
Ogni mese è andato a incassare l’assegno della pensione del nonno, scrive Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Ha riscosso dall’Inps novantuno mensilità. Ma, in verità, il nonno era morto da sette anni. Nei guai è finito un nipote, che con questo raggiro «arrotondava» il proprio stipendio. E' questo il caso più grave della maxi frode smascherata con l’operazione «Lazzaro» dalla Guardia di finanza di Lecco, che ha scoperto 300 casi in cui i familiari continuavano a intascare la pensione d’anzianità di parenti defunti per una somma totale di 700 mila euro al netto delle reversibilità. Spiega il comandante Corrado Loero: «Le persone denunciate sono 50. Nei confronti delle altre 250 non c’è stato invece nessun procedimento, in quanto non hanno superato la soglia penale dei 4 mila euro indebitamente incassati e, dopo un sollecito, hanno regolarizzato la posizione con l’ente previdenziale». Le indagini dell’operazione «Lazzaro» sono cominciate un anno fa. I finanzieri, in collaborazione con la direzione provinciale dell’Inps, hanno passato al setaccio, attraverso l’incrocio dei dati, le pensioni di 10 mila persone che, mentre all’anagrafe dei comuni della provincia di Lecco risultavano deceduti, continuavano a percepire pensioni di anzianità. Dai controlli effettuati, anche per mezzo di indagini finanziarie, sono emerse 300 posizioni irregolari «ai fini amministrativi e responsabilità penali per 50 persone». «Queste ultime, titolari di un proprio reddito da lavoro dipendente o autonomo, hanno continuato a riscuotere per anni le pensioni dei parenti defunti», spiega ancora il colonnello Loero. E per questo motivo, sono state denunciate alla Procura di Lecco. Sono accusate sia di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, sia del reato d’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. L’operazione delle Fiamme Gialle ha permesso l’immediata sospensione delle prestazioni pensionistiche non dovute, consentendo il rientro nelle casse dello Stato di oltre 100 mila euro, mentre sono ancora in corso le procedure di recupero. Inoltre, considerando che alcuni parenti dei defunti hanno riscosso la pensione in rinomate località balneari poste sulle rive mediterranee di Spagna e Francia, i finanzieri stanno valutando la possibilità di attivare la procedura internazionale per il recupero delle somme illegalmente percepite.
VIOLENZA DI STATO.
IL CASO: Lecco, denuncia contro i Carabinieri. "Mi hanno preso a calci e torturato".
Isidro Diaz, di origini argentine ma da 23 anni in Italia: timpani perforati e distacco della retina. Viene difeso dagli stessi legali delle famiglie Cucchi e Aldrovandi, scrive Caterina Pasolini su "La Repubblica".
"Vengo dall'Argentina dove la mia generazione è stata massacrata. Qui pensavo di vivere in un paese civile. Invece mi sono ritrovato ammanettato, preso a calci e pugni in testa dai carabinieri, trascinato sull'asfalto, torturato e sbattuto contro i muri della caserma senza poter vedere un medico. Insultato, con i militari che mi puntavano la pistola addosso. E ancora non so perché".
Isidro Luciano Diaz ha 41 anni, dei quali 23 vissuti in Italia dove, nel lecchese, gestisce l'allevamento di cavalli "Dal Gaucho". Da quando il 5 aprile del 2009 è stato fermato dai carabinieri vicino a Voghera, è stato operato agli occhi 6 volte per distacco della retina e ha i timpani perforati. Ferite "compatibili" col suo racconto da incubo, scrive il medico legale nella relazione che riporta alla memoria le vicende di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi.
Di giovani morti dopo essere stati malmenati da uomini in divisa, entrati vivi in caserma o in carcere e mai usciti, tragedie di cui si è occupato lo stesso studio legale, Anselmo di Ferrara, che ora difende Diaz.
"Una storia assurda. Qualunque sia l'imputazione uno deve avere tutte le garanzie, pena la rinuncia dello Stato ad essere uno stato di diritto, perché la legittimità giuridica e morale dello stato è affidata alla capacità di garantire l'incolumità delle persone affidategli", dice sociologo Luigi Manconi che con il suo lavoro come sottosegretario alla Giustizia e poi come presidente dell'associazione a “Buon Diritto” ha avuto una parte importante nel far emergere tutte queste vicende.
Una storia inquietante, quella raccontata da Diaz, che rischia di finire nel nulla perché la sua denuncia contro i carabinieri è a pochi passi dall'archiviazione nonostante agli atti ci sia il riconoscimento fotografico da parte dell'argentino dei militari che l'hanno aggredito. Il giudice dovrà decidere in questi giorni. Diaz, infatti, condannato a un anno poi commutato in due di libertà controllata per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni (8 giorni di prognosi ai militari), solo dopo aver patteggiato la pena ha presentato la denuncia per percosse, allegando le immagini del suo volto stravolto dalle botte, della schiena martoriata.
Ma andiamo con ordine. Il 5 aprile 2009 di ritorno da una gara di monta di vitelli mentre è alla guida della sua Mercedes, un suv nero, Diaz viene fermato dai carabinieri sulla Torino-Piacenza. Al termine di un lungo inseguimento a folle velocità, scrivono i militari. Senza motivo, ribatte l'argentino. "Vedo che hanno le pistole in pugno, ho in macchina il coltello che mi serve per i cavalli glielo mostro per consegnarglielo. Mi sono addosso, mi ammanettano e poi calci e pugni in testa, mi trascinano sull'asfalto". Portato in caserma continua il pestaggio, "mi trattavano come un pallone, buttandomi contro il muro. Mi dicevano: devi morire. Provo a chiamare un amico, mi strappano il cellulare. Alla fine ho firmato qualsiasi carta anche perché non mi chiamavano un medico".
MALAGIUSTIZIA
Aste truccate, corruzione in Tribunale, scrive Claudio Del Frate su "Il Corriere della sera".
Lecco: arrestati un cancelliere, un ufficiale giudiziario, un avvocato e tre imprenditori.
I «furbetti» di Lecco avevano il quartier generale a Palazzo di Giustizia. Nella casa che dovrebbe essere il tempio della legalità le aste immobiliari finivano per favorire sempre tre o quattro nomi noti.
Infallibile fiuto per gli affari? No, indebite complicità nelle cancellerie del Tribunale, decreta adesso un' ordinanza di custodia cautelare che sta mettendo a rumore l' ambiente giudiziario della città manzoniana.
Tre imprenditori, un avvocato e due dipendenti del Palazzo di Giustizia sono finiti agli arresti per una serie di gare abilmente pilotate in cambio di «cadeaux». Il pubblico ufficiale, l' imprenditore, il professionista che media l' accordo: il vecchio copione di Tangentopoli rispunta stavolta in una città che già nel recente passato era stata al centro di pesanti inchieste su usura, estorsioni e affari poco confessabili. Anzi, gli arresti di queste ore sarebbero una sorta di effetto domino delle due operazioni precedenti: avevano cominciato i fratelli Dalmazio e Antonello Gilardi, arrestati due anni fa, a vuotare il sacco, a svelare che a Lecco funzionava una sorta di finanza occulta, di giro di prestiti facenti capo a due commercianti di auto: Pietro e Antonio Colombo, padre e figlio. A loro volta i Colombo - condannati in primo grado - hanno cominciato a riempire pagine di verbali, con tanto di nomi e cognomi e a dire in sostanza: «Perché solo noi ci dovremmo andare di mezzo quando tanti altri facevano parte del gioco?».
Alle udienze del processo che li ha riguardati hanno puntato l' indice proprio su quanto accadeva a Palazzo di Giustizia. Polizia e Guardia di Finanza hanno lavorato per mesi su quelle e altre informazioni e il lavoro è sfociato nella raffica di arresti. Si trova in carcere Gennaro Concetto, responsabile della cancelleria fallimentare del Tribunale di Lecco e con lui un ufficiale giudiziario dello stesso palazzo, Pietro Salciccia. Un comunicato diramato ieri dalla Procura definisce i due funzionari «a libro paga» di alcuni imprenditori che venivano sistematicamente favoriti nelle procedure esecutive e di sfratto, nelle vendite e nelle aste dei beni (solitamente case e terreni) derivanti da fallimenti. In cambio avrebbero ricevuto compensi in denaro, auto a prezzi scontati e anche vacanze in un villaggio turistico in Puglia.
Le informazioni passate sottobanco dalle due «talpe» in Tribunale avrebbero favorito due immobiliaristi della zona del lecchese, Massimo e Luigi Magni e un altro imprenditore della zona, Alessandro Cesare Negri. Le accuse per tutti sono di turbativa d' asta e corruzione. Allo stesso meccanismo avrebbe preso parte secondo l' accusa anche un avvocato di Lecco, Walter Cerbiatti, al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari: avrebbe fatto da «ponte» tra gli imprenditori e gli impiegati del Tribunale.
L' interrogativo è adesso se i due impiegati potessero da soli garantire l' esito delle aste derivanti dalle procedure fallimentari. E soprattutto: perché non hanno funzionato una serie di filtri e controlli che avrebbero dovuto tutelare tutte le parti interessate?
PARLIAMO DI MANTOVA
MANTOVA MAFIOSA.
Mafia al Nord, c'è anche Mantova. Un libro-inchiesta scritto da Sara Di Antonio mostra come la 'ndrangheta, dopo l'Emilia, si stia infiltrando anche nel Mantovano. Citate anche le inchieste della Gazzetta, scrive “La Gazzetta di Mantova”. La mafia non è più solo al Sud od oltre Atlantico. E' salita lungo lo Stivale del Bel Paese e, pezzo a pezzo, si sta pappando l'Emilia un tempo rossa e, varcato il Po, dilaga. Dove c'è ricchezza, danè, schèi e bèssi a palate, la mafia accorre e fa affari. Tutto si mescola, si amalgama, i confini tra soldi sporchi e puliti si fanno incerti, impossibili o difficili da scoprire. Tutto si confonde in una zona grigia come quando gli argini rompono e ogni cosa diventa fango: colletti bianchi, colletti neri, stimati professionisti e uomini d'onore, uomini politici e 'ndranghetisti, portaborse (con borsa piena di mazzette) e picciotti. Mafia, infatti, qui da noi, significa 'ndrangheta calabrese. Un tempo calabrese, ma oggi? Emiliana? Lombarda? Lombardo-veneta? E anche un pochino, o un tantino, mantovana? Sara Di Antonio, con il suo libro-inchiesta Mafia. Le mani sul Nord (Aliberti editore, 157 pagine), ci dà un quadro di questo underground: ma sono davvero memorie del sottosuolo dove agiscono uomini e enormi capitali o è tutto alla luce del sole perché tanto non c'è più distinzione tra ciò che è legale e ciò che non lo è? Come fa la mafia a insinuarsi nelle istituzioni? Qualche ingranaggio è diventato mafioso? Chi compra casa (un appartamento nuovo) da chi la compra? Da dove sono venuti i soldi per costruirla? Sono stati lavati, così tutto è diventato legale? Le dinamiche sono note e spesso anche i protagonisti, nome e cognome. Il problema è che sono protetti e continuano a fare affari. Spedirli in galera è difficile. Sara Di Antonio, attraverso un racconto spedito e chiaro, con una formidabile messe di citazioni e riferimenti, mostra i meccanismi a cui ricorrono le cosche per insinuarsi in un'economia ricca come quella emiliana e lombarda. Secondo l'Eurispes - scrive Antonio Nicaso nella prefazione - l'11,4% del Pil italiano è prodotto dalle mafie. Sconfortante, ma potrebbe essere peggio. Reggio (nell'Emilia, non di Calabria) è diventata il salvadanaio della 'ndrangheta: migliaia di appartamenti sfitti (non c'è fretta di venderli) giustificano un'esorbitante ricchezza prodotta da mille traffici illeciti, droga soprattutto, col suo corollario di omicidi e estorsioni. E, oltre ogni logica che non sia quella del crimine, ci si ostina a costruire, ovunque. Lo sanno tutti, ma continua la cementificazione. Pompei crolla per incuria, la mafia tira su palazzi che per farli andar giù servirebbe il tritolo della legalità. Ma è merce rara. Mantova e provincia non si salvano dalla mafia. Ecco i titoli di alcuni articoli della Gazzetta di Mantova citati dall'autrice: 'Da Viadana il boss garantiva i voti al senatore Di Girolamo' (26 febbraio 2010), 'Sindaci mantovani in allarme per le infiltrazioni mafiose' (10 giugno), 'Al vaglio partite Iva e licenze, ecco il piano contro le cosche' (16 giugno), 'Il pentito della 'ndrangheta: così è entrata nel Mantovano' (18 giugno). Profondo Nord, «dove la parola mafia continua a sembrare un'etichetta estranea e dove è facile passare inosservati». Ma il mafioso c'è. Può essere barista, camionista, casalinga: persone normali, «rispettose ed educate», in rapporto strettissimo con i parenti in Calabria. Non una mafia stracciona però, come potrebbe sembrare, ma evoluta e tecnologica. Il libro-inchiesta descrive l'allarmante situazione ricorrendo a tre personaggi simbolo: il magistrato, il giovane 'ndranghetista e il colletto bianco. A loro, l'autrice fa descrivere i meccanismi e le vicende che hanno portato la mafia calabrese a insinuarsi in un tessuto economico forte, da sempre appetibile. E a loro è affidata la visione di come il panorana di una terra un tempo felix sia diventato un po' più cupo e fragile. L'autrice di Mafia. Le mani sul Nord, Sara Di Antonio, è nata nel 1976 ed è giornalista.
CONCORSI PUBBLICI. E POI PARLANO DI MERITO.
Aspiranti guide turistiche a Mantova: i test dell'esame erano pieni di errori. Polemiche e ricorsi per le prove organizzate dalla Provincia: Palazzo Ippoliti da settecentesco diventa seicentesco, l'appartamento verde di Palazzo ducale confuso con quello dell'imperatrice. E altro ancora,scrive “La Repubblica”. Palazzo Ippoliti che da settecentesco diventa seicentesco, l'appartamento verde di Palazzo ducale confuso con quello dell'imperatrice, il Grana padano che diventa tale dopo una stagionatura da otto a 24 mesi. Sono alcune delle risposte errate che al test per diventare guida turistica organizzato dalla Provincia di Mantova hanno mandato su tutte le furie i 28 partecipanti bocciati. Il test, fatto di sole domande a crocetta, con la risposta esatta da scegliere tra quattro possibilità, era stato predisposto da una commissione. Una volta che i concorsisti si sono accorti delle risposte errate pre confezionate, hanno chiesto alla Provincia di annullare la prova. La risposta, però, è stata che l'ente locale assumerà qualsiasi decisione soltanto quando saranno "trascorsi i 60 giorni dalla chiusura del procedimento". Il problema è che la prova è stata effettuata il 15 novembre scorso e le aspiranti guide, che si sono già rivolte a un avvocato, temono che i tempi per eventuali ricorsi siano già scaduti e che alla prova orale possano ora accedere solo i due promossi. "Tuteleremo sia chi è stato vittima di errori sia chi ha superato la prova", assicura Gianni Petterlini, direttore generale della Provincia. "Se si superano le due prove scritte e orali si conseguirà il patentino di guida turistica che consente di svolgere in proprio l'attività di accompagnamento dei turisti in giro per i monumenti della città. Non è, dunque, un posto pubblico".
Dal Grana Padano a Palazzo Ducale, da Volta Mantovana agli agriturismi. Gaffe in serie nelle domande del test per il patentino da guida turistica organizzato dalla Provincia. Finisce con ventotto bocciati e soltanto due promossi. I candidati presentano ricorso, ma l’amministrazione di Palazzo di Bagno per ora non annulla il test, scrive Gabriele De Stefani su “La Gazzetta di Mantova”. Storia leggera di errori in una prova pubblica. Ma anche spaccato pesante su una burocrazia che può frustrare ambizioni e frenare aspettative. Il 15 novembre il palazzo del Plenipotenziario, in piazza Sordello, ospita la prima delle due prove che consentono di mettersi in tasca il patentino da guida turistica. Organizza la Provincia (competente in materia turistica) e in palio non c’è un contratto ma la possibilità di esercitare la professione: l’ente pubblico sancisce che sei preparato e puoi accompagnare i visitatori in giro per la città. Prima però devi superare un esame fatto di una prova scritta e una orale. Si iscrivono in 55, poi si presentano in trenta, quasi tutti giovani. Per gli aspiranti cicerone la prima sorpresa si materializza con la distribuzione del test, fatto di sole domande a crocetta. Un po’ frustrante per chi ha studiato e dovrà fare dell’argomentare raccontato il proprio mestiere, ma così ha voluto la commissione presieduta dal dirigente Gianni Petterlini e composta da figure di spicco nel panorama culturale cittadino tra cui il presidente degli Amici di Palazzo Te, Italo Scaietta, l’ex presidente di Italia Nostra, Giuse Pastore, e Paola Sabbadini, professoressa all’indirizzo turistico del Bonomi. Crocette a parte, l’imbarazzo dei candidati cresce con lo scorrere delle domande. Un refuso nella prima, un errorino nella terza e via con sbagli assortiti fino in fondo. Così Castellaro Lagusello diventa Castellano, i requisiti per godere del marchio del Grana Padano cambiano, palazzo Ippoliti da settecentesco diventa seicentesco, l’artista Giuseppe Spadini diventa Armando. E ce n’è pure per palazzo Ducale, perché l’Appartamento Verde diventa quello dell’Imperatrice. Dai banchi i ragazzi si accorgono che qualcosa non va, ma sulle prime c’è sempre il dubbio di non aver studiato abbastanza. Vuoi vedere che è colpa mia. Anche perché in molti casi gli esaminatori giocano proprio sul piccolo errore da domanda trabocchetto. All’uscita però il controllo incrociato tra la soluzione del quiz diffusa dalla Provincia e il responso dei manuali toglie il velo su errori ed imprecisioni in serie. Che fare? Mentre i ragazzi ci pensano su arrivano le pagelle: 28 bocciati e due promossi. Le risate si trasformano in fastidio e una manciata di aspiranti guide chiede di annullare la prova, di vedere i test corretti e di sbirciare pure quelli degli ammessi all’orale (quest’ultima autorizzazione tarda ad arrivare). Dopo un paio di settimane la Provincia risponde con una lettera di Petterlini: «La commissione ha deliberato di assumere ogni decisione definitiva nel merito allorquando siano trascorsi i sessanta giorni dalla chiusura del procedimento». Qui serve un avvocato, perché scaduti i due mesi la gara non sarà più annullabile se non con un laborioso ricorso al presidente della Repubblica e allora nei ragazzi si fa strada il sospetto che il burocratese serva a far calare il sipario sugli scivoloni. Petterlini assicura che non sarà così: «Ho già riunito la commissione, che si è rimessa al lavoro per analizzare le eccezioni sollevate dai candidati. Ora dobbiamo aspettare perché ne potrebbero arrivare altre, ma assicuro che tuteleremo i diritti di tutti. Di chi è stato eventualmente vittima di errori ma anche di chi ha superato la prova e ha raggiunto l’idoneità. L’avvocato dei ragazzi dice che non va bene aspettare 60 giorni? Risponderà il nostro legale ma posso assicurare che faremo il massimo per favorire le istanze ricevute». E i commissari? Scaietta e Pastore sono zittiti dal segreto d’ufficio. Maledetta burocrazia.
STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA
Era stato accusato dell’omicidio di un amico, Giovanni De Luca, morto all’ospedale di Mantova nell’agosto 1989. Ventitrè anni con un’accusa pesantissima sulle spalle, cinque anni e quattro mesi passati in carcere, finché nel 2005 un testimone raccontò com’erano andati i fatti e chi era il vero assassino di De Luca, scrive “La Gazzetta di Mantova”.
Sette anni dopo quella testimonianza, solo ora la Corte d’Assise d’Appello di Venezia ha accolto la richiesta di revisione del suo processo, in base alle nuove prove, cioè testimonianze. E si tratta dell'unica revisione concessa dalla Corte in tutto il 2012. Per Raffaello Accordi, 60 anni, di Gazzo Veronese, ora residente a Trevenzuolo (due passi dal nostro confine) la notizia ha rappresentato «la fine di un calvario per me e la mia famiglia».
L’altro ieri Accordi è stato anche uno dei protagonisti della trasmissione televisiva su La7, “Che aria tira”, che ha affrontato il problema della giustizia in Italia. Tra i casi emblematici anche il suo.
Accordi venne accusato dell'omicidio di Giovanni De Luca avvenuta nell'agosto 1989. Da sempre Accordi aveva sostenuto di aver trasportato il ferito che era suo amico, all'ospedale di Mantova dove l'uomo morì poco dopo a causa della coltellata che lo aveva colpito alla gamba. Accordi venne assolto in primo grado ma poi condannato in appello a sette anni e 4 mesi con l'accusa di omicidio preterintenzionale (pena che poi fu diminuita a cinque anni). Pochi anni dopo, nel 2005, i carabinieri di Legnago ricevettero la testimonianza di una delle persone che la sera del 21 agosto del 1989 erano nel capannone di Sanguinetto dove si verificò il pestaggio. E il testimone dichiarò che a prendere De Luca a schiaffi, a dargli una testata e a colpirlo con alcune coltellate fu Antonio Galasso (cugino del super boss della camorra vesuviana, Pasquale, ora pentito) che all'epoca era in soggiorno obbligato a Venera di Sanguinetto. Anche Accordi sapeva che il colpevole era Galasso, era presente al fatto. Ma non ha mai parlato per paura di ritorsioni. Ora Galasso è morto, è stato ucciso nel 2005 da un commando armato mentre usciva di casa.
«Il reo è morto ma la colpa è ancora sulle mie spalle - ci spiega Accordi al telefono - Così quando Gabriele Magno e Claudio De Filippi, i miei avvocati mi ha dato la notizia dell'accoglimento della revisione ho urlato, ho pianto. Spero tanto in questa revisione. Per anni sono stato guardato come quello che aveva ucciso qualcun altro, da 12 anni sono in terapia perchè questa accusa mi ha reso la vita impossibile».
Accordi venne portato in carcere - dove rimase cinque anni e quattro mesi - quindici anni dopo i fatti. «Ero un imprenditore affermato - ci racconta al telefono - Chiaramente ho perso tutto: avevo un autosalone, una pizzeria, una sala biliardo. Ho perso anche la mia compagna». Poi, una volta uscito dalla prigione, Accordi è riuscito lentamente a rifarsi una vita, «ma non a riavere quello che avevo perduto. Me ne sono andato via dall’Italia, ho vissuto dieci anni in Spagna. Da un anno sono tornato a Trevenzuolo». Qui vive con una compagna, una seconda figlia di 8 anni (la grande ne ha 36) e l’anziana mamma, 85 anni, che lui stesso accudisce. «La mia vita non mi verrà ridata - va avanti - ma spero almeno con la revisione del processo di cancellare questa macchia sulla fedina penale, che mi impedisce di poter trovare un lavoro, vivere serenamente. Ieri notte è stata la prima che ho potuto dormire tranquillamente».
QUANDO I BUONI TRADISCONO. POLIZIA VIOLENTA
No, gli autori del pestaggio in autostrada non erano body guard troppo solerti, erano poliziotti, scrive Sabrina Pinardi su “Il Corriere della Sera”. Li ha smascherati la prontezza di un testimone. Mercoledì mattina, sull'Autobrennero vicino a Mantova, il 32enne Riccardo Welponer, veronese, era alla guida del proprio furgone quando è stato fatto accostare da una macchina blu, una Renault Laguna, con i lampeggianti accesi. Dall'auto sono scesi tre uomini, imbufaliti - stando al racconto del giovane - perché non aveva lasciato libera rapidamente la carreggiata alla vista della loro auto. Al diverbio sono seguite le botte: due dei tre uomini lo hanno aggredito, sferrandogli pugni al volto e sbattendolo contro il guard rail, mentre il terzo ha assistito senza battere ciglio. Dopo l'aggressione, Welponer è stato lasciato per terra ferito e l'auto è sparita senza, all'apparenza, lasciare traccia. A carico di ignoti la denuncia che l'uomo ha sporto alla Polizia stradale e alla Squadra Mobile di Mantova, che mai sarebbero potuti risalire all'identità degli aggressori senza l'aiuto provvidenziale di un testimone. Vista la scena, ha annotato un numero di targa. I poliziotti mantovani sono risaliti in poco tempo all'auto, scoprendo con sorpresa che era un mezzo di servizio, e ai nomi degli occupanti, agenti di polizia in forza alla questura di Vicenza. Tra i due, il segretario regionale del sindacato di Polizia Coisp, Luca Prioli. Sul coinvolgimento dei poliziotti mantiene, però, uno stretto riserbo il procuratore capo di Mantova Antonino Condorelli, che ha aperto un fascicolo sulla vicenda. «Si tratta - dice Condorelli - di un episodio di particolare serietà e gravità, per il quale servono chiarezza e trasparenza». Domenica la questura di Mantova acquisirà tutta la documentazione proveniente da Vicenza e gli agenti coinvolti saranno interrogati anche dalla Procura di Mantova per chiarire le circostanze dell'aggressione.
PARLIAMO DI MONZA/BRIANZA.
QUALE MAFIA?
“Giornalista io ti ammazzo”: condannato il vicepresidente di Confindustria che aveva minacciato il cronista dell'Espresso. Un anno e 2 mesi per l'industriale Barzaghi che nel 2013 aveva intimidito Fabrizio Gatti dopo l'intervista sulle infiltrazioni criminali al nord, scrive il 27 febbraio 2018 "L'Espresso". L'industriale Mario Barzaghi, vicepresidente di Confindustria di Monza e Brianza all'epoca dei fatti, è stato condannato oggi a un anno e due mesi di reclusione per violenza privata e minacce nei confronti del giornalista de L'Espresso, Fabrizio Gatti. Condannata a otto mesi anche la figlia, Giovanna. Soltanto per lei il giudice del Tribunale di Monza, Letizia Anna Brambilla, ha disposto la sospensione della pena e la non menzione. Il pubblico ministero, Luigi Pisoni, aveva chiesto sei mesi per l'imprenditore, già raggiunto da altra precedente condanna, e l'assoluzione per la figlia. La difesa, affidata allo studio dell'avvocato Raffaele Della Valle, aveva invece chiesto la piena assoluzione dei due imputati per non aver commesso il fatto. Barzaghi, oltre a essere un famoso industriale nel settore dell'arredamento, aveva fondato una società, la “+Energy”, con l'ambasciatore di Matteo Salvini in Brianza, Giacinto Mariani, allora sindaco leghista di Seregno e il comandante della locale compagnia dei carabinieri, il capitano Luigi Spenga. La “+Energy”, che importava pannelli fotovoltaici dalla Cina, aveva quindi stipulato un accordo di collaborazione con un'altra società, la Simec, successivamente messa sotto sequestro dalla sezione di prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere perché legata a un prestanome di vertice del clan dei casalesi. Gatti, che stava svolgendo un'inchiesta sull'infiltrazione criminale al Nord favorita dalla crisi economica, il 10 aprile 2013 aveva intervistato l'allora vicepresidente provinciale di Confindustria nella sua azienda. Alla fine dell'intervista, dopo aver ammesso il coinvolgimento nella società “+Energy” come azionisti occulti del politico leghista e dell'ufficiale dei carabinieri, Barzaghi aveva tentato di far cancellare la registrazione minacciando di morte e trattenendo il giornalista nel suo ufficio alla presenza della figlia Giovanna, fino all'arrivo del socio-comandante di compagnia, poi trasferito. Alla pubblicazione dell'inchiesta “Brianza, tra Lega e clan” e del video “Giornalista io ti ammazzo” , i tre soci della “+Energy” avevano risposto con altrettante cause civili per un ammontare complessivo di 28 milioni di richieste di risarcimento. Richieste respinte dal giudice in primo grado o in appello. L'ambasciatore di Salvini, Giacinto Mariani, è stato poi costretto alle dimissioni nel settembre 2017 dopo le inchieste della Procura di Monza e della Direzione distrettuale antimafia su presunti favori tra la giunta comunale di Seregno e un imprenditore edile in contatto con la 'ndrangheta. La difesa farà probabilmente ricorso in Appello. «La sentenza del giudice Letizia Anna Brambilla», ha commentato Gatti presente all'udienza, «riconosce il puntuale lavoro della Procura di Monza e riafferma il diritto all'informazione in una terra, la Brianza, dove l'infiltrazione più o meno consapevole della criminalità organizzata non permette più scorciatoie o disattenzioni da parte di imprenditori e politici».
In Brianza tra Lega e clan. Il sindaco, il numero due della Confindustria locale, il capitano dell'Arma. In affari con i Casalesi. I segreti del modello Seregno, scrive Fabrizio Gatti il 22 aprile 2013 su "L'Espresso". l ragionier Giacinto Mariani non è soltanto una persona. È molte persone in una. È il terzo sindaco più influente della Lega Nord in Italia. È l'immagine del centrodestra che ha appena fatto vincere Roberto Maroni in Lombardia. È il testimonial dei gemellaggi antimafia con i Comuni del Sud come Lamezia Terme e Sant'Agata d'Esaro. Giacinto Mariani, 48 anni, titolare dello Studio Mariani & C. - gestione società e patrimoni immobiliari in corso Buenos Aires 28 a Milano, da due mandati è il primo cittadino leghista a Seregno, 44 mila abitanti e una distesa di famosi mobilifici nella provincia di Monza. Senza volerlo, l'inconsapevole Giacinto è anche il simbolo di un'epoca. La nostra. In una Brianza un tempo abituata a scegliere i suoi sindaci democristiani tra i presidi delle scuole e le casse rurali, il ragionier Mariani è una rivoluzione culturale. Lui, pur essendo un ex tenutario di un locale per strip-tease e socio di impresari che nella loro discoteca a Lissone ospitavano le serate dei killer della ' ndrangheta, è riuscito a farsi eleggere due volte. Proprio qui dove le prediche dei parroci la domenica influenzano ancora le opinioni. Una carriera onnivora quella del ragionier Mariani. Dalle donnine in tanga che si dimenano nella lap-dance del "Lilì la tigresse" a Milano, il night-club che ha venduto prima di lanciarsi in politica. Fino alle manifestazioni contro la criminalità. Contro gli immigrati. Contro la prostituzione straniera. Non dev'essere difficile dissimulare per un sindaco leghista, in una terra in cui da anni nessuno chiede conto di nulla. Mercoledì 10 aprile "l'Espresso" ha provato a intervistare sull'argomento il vicepresidente provinciale di Confindustria, il cavaliere del lavoro Mario Barzaghi, 69 anni. Qualche domanda sui suoi affari occulti con la famiglia del sindaco Mariani, con quella del comandante locale dei carabinieri e, tutti insieme, con una società paravento del clan dei Casalesi. Dopo aver ammesso gli affari davanti alla telecamera, il vicepresidente della Confindustria di Monza e Brianza evidentemente si è reso conto delle possibili conseguenze. Così ha sequestrato il giornalista per un'ora nel suo ufficio e l'ha minacciato di morte. Quel giornalista è chi scrive. Va subito detto che l'Arma dei carabinieri non c'entra nulla in questa incredibile storia. C'entrano piuttosto le scelte individuali. Un cortocircuito in cui si riflettono potere economico, politica e criminalità organizzata. Doveva essere un'inchiesta sulle infiltrazioni della camorra al Nord. Dopo le imprese della 'ndrangheta smascherate dalla Procura di Milano con l'operazione Infinito, ecco l'arrivo dei prestanome dei Casalesi. Nelle inchieste però non si sa mai dove si va a sbattere. E per descrivere come è finita, un'ora in balìa delle minacce di morte e dei pugni alzati del vicepresidente di Confindustria, le figure antropologiche della Brianza così ben raccontate da Alessandro Manzoni non bastano più. Oggi don Abbondio, i bravi, don Rodrigo non sarebbero personaggi distinti. Avrebbero la stessa faccia. La stessa maschera. Una generazione di dottor Jekyll e mister Hyde si è appropriata di questo modello d'Italia che la retorica vuole laborioso, bigotto e votato alla piccola e media industria. In un agghiacciante gioco di specchi, adesso non sai più dove si nasconde il pericolo. L'11 ottobre 2012 la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere mette sotto sequestro una piccola società con la sede legale a Somma Vesuviana e l'ufficio amministrativo a Cesano Maderno, vicino a Seregno. Si chiama Simec srl. E secondo la Direzione investigativa antimafia di Napoli e la questura di Caserta, l'impresa gestita da U. E. C., 55 anni, brianzolo di Desio, di fatto appartiene alla costellazione di un casertano, Pasquale Pirolo. Basta il titolo del capitolo che il Tribunale gli dedica per capire chi è Pirolo: "Le emergenze indiziarie in tema di pericolosità: dal clan Bardellino al clan dei Casalesi". Il sequestro della Simec e dei suoi uffici a Cesano Maderno finisce sui giornali del Nord. E la notizia si ferma lì. Ma due persone che contano in Brianza sanno cosa si nasconde oltre quella piccola società di Somma Vesuviana. Uno è il sindaco leghista di Seregno. L'altro il vicepresidente provinciale della Confindustria di Monza. Il ragionier Giacinto Mariani e il cavalier Mario Barzaghi. I due lo sanno bene. Perché oltre la Simec ci sono loro. Dal giugno 2010 la Simec ha riempito le industrie di mezza Italia di preventivi e progetti per l'installazione di pannelli fotovoltaici sui tetti dei capannoni. Dalla Brianza a Latina. Da Bergamo alla provincia di Benevento. A cominciare dai nomi delle aziende brianzole più famose. Come la Chateau d'Ax dei salotti a Lentate sul Seveso. O la Chanteclair dei detersivi a Seregno. Valore delle opere proposte: dai 60 mila euro ai 4 milioni. Il problema per il ragionier Mariani e il cavalier Barzaghi è che sulla carta intestata di quei progetti non appare soltanto il marchio della Simec. C'è anche quello della «+Energy srl», l'altra protagonista in questo gioco di specchi. La loro società. L'affare è proprio questo. La +Energy importa pannelli fotovoltaici dalla Cina. La Simec li installa. E alla fine, almeno fino a quando non vengono aboliti, si incassano gli incentivi statali. La collaborazione va avanti da due anni. Dal 23 giugno 2010 quando la Simec e la +Energy firmano un accordo di riservatezza. Cioè la società che verrà sequestrata per camorra e quella del ragionier Mariani e del cavalier Barzaghi si impegnano fin dall'inizio a mantenere segreta qualsiasi informazione «ad esempio documenti, progetti, risorse tecniche, dati societari». Un accordo superfluo. È scontato che nessuno parlerà. Perché mai un sindaco leghista che tanto si batte per la sicurezza dei suoi concittadini e un vicepresidente della Confindustria del Nord dovrebbero rivelare che il loro partner commerciale è un disoccupato di Maddaloni, provincia di Caserta, padre di quattro figli, che non sa come arrivare a fine mese? Sentite cosa racconta alla Direzione investigativa antimafia di Napoli, pochi giorni dopo il sequestro, Nicola Stefanelli, 42 anni, amministratore unico e proprietario al 90 per cento della Simec: «Io attualmente sono disoccupato. Non abbiamo né io né mia moglie beni immobili o veicoli, praticamente siamo nullatenenti. Riguardo la società Simec, venni contattato da un mio conoscente e compaesano, noto a me quale soggetto incline a commettere imbrogli assicurativi il quale attualmente mi sembra stia in carcere. Sapendo della mia indigenza», continua il socio di maggioranza della Simec, «mi chiese se volevo guadagnare un mensile di circa 800 euro intestandomi solo formalmente delle quote di società che sarebbero state gestite da altri. Io all'epoca assumevo sostanze stupefacenti e avendo necessità di denaro diedi la mia disponibilità». Anche la +Energy sembra costruita apposta per garantire la riservatezza ai suoi soci. Solo il 20 per cento è in chiaro: appartiene all'immobiliare di famiglia del vicepresidente di Confindustria. Il resto è coperto da una società del Credito Valtellinese: l'Aperta fiduciaria che nel 2011 per l'approvazione del bilancio delega un medico chirurgo di Seregno, Paolo Villa, 52 anni. Ma un anno dopo, sempre all'approvazione del bilancio, accanto al cavalier Barzaghi e al dottor Villa ecco che si siede la compagna del sindaco, Antonella Mauri, 55 anni. Sua la delega per il 20 per cento della +Energy. Non è soltanto lei però a smascherare la vicinanza del ragionier Mariani. Anche la sede legale porta a lui. È a Meda, sempre vicino a Seregno, nei capannoni di un'industria di pelletteria che il sindaco possiede con un assessore. Può capitare che uno faccia accordi con un'impresa senza sapere che dietro ci sia la camorra. La superficialità non è un reato. È invece curioso che proprio nei mesi in cui la compagna di Giacinto Mariani entra in società con il vicepresidente di Confindustria, il sindaco presenta la bozza del nuovo piano di governo del territorio. Un progetto che il primo cittadino illustra per la prima volta accanto a un nome famoso della Lega e poi delle cronache giudiziarie: l'ex assessore regionale Davide Boni, che verrà indagato per tangenti. Dice Boni quel giorno: «È un progetto pilota. Nasce il modello Seregno, con l'idea di esportarlo». La provincia di Monza e Brianza non è più solo un agglomerato di paesi: ormai è un'unica città di 850 mila abitanti, con tanto verde da cementificare. E proprio su una grande area, la stessa su cui il cavalier Barzaghi ha creato la sua Effebiquattro, primo produttore di porte in Italia, è prevista una trasformazione record. Da zona industriale a polifunzionale con 121 mila metri quadri di negozi, appartamenti, uffici e torri di 63 metri d'altezza. Giusto per capirci, la seconda trasformazione prevista dal piano del ragionier Mariani non supera i 15 mila metri. La terza 9 mila. Il progetto viene bocciato perfino dai consiglieri comunali di centrodestra. E il sindaco lo ritira. Forse è anche per questo che poco prima di Natale, il 21 dicembre 2012, i soci che si nascondono dietro l'Aperta fiduciaria cedono tutte le quote a Mario Barzaghi. Lasciandogli il cerino in mano. Ormai è quasi tutto chiaro. Ma fino a oggi il gioco di specchi è ancora in piedi. Soltanto qualcuno tra i clienti della +Energy sa cosa è successo. E vorrebbe segnalare le spericolate operazioni del sindaco leghista. Non se la sente però di uscire allo scoperto. Il motivo è l'uniforme indossata dall'altro amico e probabile socio occulto del ragionier Mariani e del cavalier Barzaghi: il giovane capitano Luigi Spenga, da qualche anno comandante della compagnia dei carabinieri di Seregno. Un cortocircuito che non ha bisogno di spiegazioni. Pochi giorni fa un esposto anonimo arriva alla redazione di Infonodo.org, un sito di informazione locale molto attivo tra Milano e Monza. E di fronte alla complessità della questione, la testimonianza viene girata a "l'Espresso". È per questo che mercoledì 10 aprile Mario Barzaghi risponde alle domande nell'ufficio della sua Effebiquattro a Seregno. Come amministratore unico della +Energy e come socio che ha rilevato tutte le quote, non può non sapere. Racconta che il progetto del fotovoltaico è nato per affrontare la crisi della Effebiquattro. Sostiene che la +Energy era inattiva, anche se è smentito dalle fatture sequestrate nell'ufficio della Simec. Ma sugli ex proprietari occulti, il vicepresidente di Confindustria di Monza e Brianza dice proprio così: «Non era il sindaco, è la compagna del sindaco. E come lei parla di Spenga, non era Spenga. Io sinceramente non so. Come la compagna del sindaco, non so se è la compagna o la moglie del capitano o qualche altro parente». La mamma? «Mi sembra. Sinceramente io non lo so neanche. Perché io ero solo come finanziario e basta». Il ragioniere. Il cavaliere. Il capitano. Il gioco di specchi sta per rompersi. La richiesta di spiegare meglio il suo ruolo di "finanziario" degli affari con la compagna del sindaco trasforma il volto del cavalier Barzaghi. Il vicepresidente di Confindustria si alza minaccioso dalla scrivania. Pretende la cancellazione dell'intervista. Si fa aiutare da una delle figlie. Si avvicina più volte con i pugni stretti. Promette di spaccare il muso al giornalista che ha di fronte. «Abbiamo già chiamato il capitano?», dice a un certo punto la figlia. Il padre è fuori di sé. Entra ed esce dall'ufficio. Parla con qualcuno là fuori: «Adesso gli spacco la telecamera sulla testa», urla: «Lo ammazzo io questo qua. Lo accoppo. Perché di qua el va foeura no», di qua non esce, «almeno vado in galera, ma vado in galera a ragion veduta». Continua così per un'ora. La telecamera filma e registra le grida. Alla fine arriva proprio il capitano Spenga. In modo professionale, cerca di calmare il cavalier Barzaghi. Ci fa sedere tutti alla scrivania. Manca soltanto il ragionier Mariani. Proprio a quest'ora il sindaco è impegnato in Tribunale a Monza. Testimone della difesa al processo contro Massimo Ponzoni. Un altro big del centrodestra regionale caduto dalle stelle, tra accuse di corruzione e bancarotta. Il cortocircuito adesso è totale. Il capitano è in divisa. È qui in servizio. Ma Mario Barzaghi deve considerarlo un amico qualunque. Perché nonostante la sua presenza insiste con le minacce: «Il signore che non vada a scrivere o a fare qualcosa di questo che ne abbiamo parlato, che esca», dichiara il vicepresidente di Confindustria: «Perché il signore deve ringraziare Gesù Cristo di non incontrarmi per strada poi. Sì, sì, sono minacce proprio. Sono minacce».
La Brianza dei sogni è diventata un deserto. Gente chiusa in casa. Scheletri di cemento armato. Capannoni vuoti. La crisi ha colpito meno che altrove, ma la gente vive nel timore. E anche per questo crescono i gruppi neofascisti, scrive Fabrizio Gatti il 26 febbraio 2018 su "L'Espresso". Non è facile trovare posto nel ristorante dei nazifascisti brianzoli. Ma bisogna provarci, perché la serata è piena di sorprese. Il padrone più famoso è Fausto Marchetti, 39 anni, capopopolo degli skinhead di Lealtà e azione, la Casa Pound delle teste rasate lombarde. Il suo punto di vista può essere riassunto in due righe su Facebook, proprio come fa lui: «Il multiculturalismo non esiste, esiste l’appiattimento, abbattimento di tradizioni ed identità, della cultura. Più ignoranza, più schiavitù». Il terzo socio in ordine di quota è l’ex assessore di una cittadina vicina, che d’estate usa Internet per mandare gli auguri a Mussolini: «Buon compleanno zio, per me sei e sarai sempre uno stile di vita», seguito da tre punti esclamativi. Non si sa se il Duce abbia mai risposto al nipote. Il settimo comproprietario ha un posto da consigliere alle municipalizzate, fratello di un politico locale disarcionato cinque mesi fa da un’inchiesta penale su destra, costruttori e ’ndrangheta. «È solo? Prego, abbiamo l’ultimo tavolo libero», dice la cameriera e fa strada in una sala da tutto esaurito. Benvenuti a Desio, due periferie in una: quarantaduemila residenti al centro della provincia di Monza e Brianza e contemporaneamente paesone dormitorio della grande metropoli milanese. Abitanti stanziali o pendolari. Dipende dall’ora in cui suona la sveglia, la mattina per andare a lavorare. Anche l’amministratore del ristorante è un camerata socio di Marchetti. Jeans, camicia a quadrettoni, 35 anni, la sera lo trovi alla cassa o a intrattenere i clienti. Portano il menù e vai subito a cercare il risotto alla monzese con zafferano e luganega, oppure la cassoeula o la busecca. E, magari ci fosse, la torta paesana sulla pagina dei dolci. Tradizione e identità come diceva il padrone, giusto? Macché: «Il locale permette di cenare immersi in un’atmosfera intima e avvolgente, dove lo stile e la cultura etnica incontrano e si mescolano alla perfezione con quella occidentale...», hanno scritto per presentarsi. È domenica 11 febbraio. Ottantanovesima ricorrenza dalla firma dei Patti lateranensi tra Stato e Chiesa. Ed è la serata più evocativa per venire a cena a pochi isolati dalla casa natale di Achille Ratti: passato alla storia come Pio XI, è il papa degli accordi con Benito Mussolini, morto a 82 anni il 10 febbraio 1939 alla vigilia dell’annuncio di un’enciclica mai pubblicata contro antisemitismo e razzismo. Troppo tardi anche per lui: sepolto il santo padre brianzolo dopo diciassette anni di pontificato e silenziosa convivenza con il fascismo, cestinata l’enciclica, Italia e Germania si sono incamminate verso la mortale distruzione. Arriva il maître del ristorante: «Buonasera, vuole ordinare?». È egiziano. E va meglio così: perché è un ragazzo molto più spigliato e sorridente delle taciturne signorine brianzole che lo aiutano. Al di là della vetrata, nella cucina dei camerati la presenza multiculturale è addirittura massiccia: cinque cuochi su nove sono di origine straniera, almeno a giudicare da volti e occhi che si avvicendano ai fornelli. Fanno il 55,5 per cento, molto più della media cittadina di immigrati che a Desio si ferma al 9,7. Preparano sushi e piatti simili. Siamo insomma finiti in un ristorante finto giapponese. Farlocco come quelli cinesi che spopolano nei quartieri. Perfino il nome sull’insegna viene da fuori: si chiama “Shabu” e si pronuncia come la droga sintetica shaboo. Nemmeno i fascisti più militanti riescono a farne a meno, forse perché davvero non si può. Senza immigrati all’ora dell’happy hour non ti servirebbero neanche i cocktail della Brianza da bere. La provincia inventata nel 2004 da un governo Berlusconi la vedi sempre lì: ostinata a vivere i nostalgici anni Ottanta, come lo spot dell’amaro che lanciò il mito di Milano. La ragazza seduta al tavolo di fronte ha addirittura il piumino Moncler come si usava allora. Il fidanzato che l’accompagna calza vistosi scarponcini Timberland. Piumino e scarponcini, da paninari fuori calendario. Tante facce under trenta. I più vecchi non superano i trentacinque: nati al massimo nel 1983 come Walter Di Lillo, il gestore del ristorante, lo stesso anno in cui un socialista, Bettino Craxi, nel momento di assumere per la prima volta la presidenza del Consiglio si dichiara contro la ghettizzazione dell’Msi, il partito del voto fascista. È l’inizio dello sdoganamento concluso dal suo delfino televisivo, Silvio Berlusconi. Da allora fino all’ultima parata nera non hanno mai smesso di erodere le barriere della memoria. Soprattutto qui in provincia, dove sono partiti a centinaia per il corteo che a fine aprile 2017 ha portato mille braccia tese davanti alle tombe della Repubblica sociale al Campo X, nel cimitero Maggiore di Milano. Prima fila a destra, in quelle foto, con la felpa nera di Lealtà e azione, c’è proprio lui, Fausto Marchetti, il leader che combatte il multiculturalismo. Ma poi te lo serve a cena in salsa sushi. Business is business o meglio, con l’accento locale e la venerazione brianzola per denaro e affari: i danee sono danee. Questo è l’unico buco aperto per chilometri quadrati in una domenica sera qualunque. La stessa posizione del ristorante è l’emblema del disordine. A sinistra l’officina che ripara parabrezza. A destra il gommista. Accanto, una sala scommesse. Di fronte il distributore dell’Eni. L’atmosfera intima e avvolgente non offre di meglio. La periferia brianzola è ridotta a questo: un’accozzaglia urbanistica che mescola fabbriche artigianali a ville di lusso, palazzoni della borghesia a impianti per la verniciatura dei mobili. E va già bene. Perché la spina dorsale del territorio, la superstrada Milano-Lecco che taglia in due la provincia monzese, mette in mostra rassegne di cadaveri in cemento armato e capannoni mai conclusi, orribili centri commerciali e showroom abbandonati. Il totem però è proprio qui. Lo puoi vedere da qualunque strada di Desio. Lo scheletro del grattacielo ti osserva, dai suoi ventidue piani lasciati a metà. E la notte lampeggia come un cimitero verticale nella sua costellazione di lumini rossi. Sarà anche questo disordine di spazi e vuoti ad alimentare la paura che tiene chiusa in casa la gente. Lo ritrovi nel distaccamento del Tribunale soppresso dal 2014 o nell’abbandono per trasferimento della monumentale sede dell’Agenzia delle entrate, mentre i cittadini con le loro tasse finanziavano la costruzione del nuovo mega municipio. E te ne rendi conto passeggiando la sera per chilometri di strade deserte. Hanno speso centinaia di milioni di euro ovunque per illuminare a giorno marciapiedi su cui nessuno cammina o panchine su cui nessuno si siede. Desio, Seregno, Lissone e dintorni sembrano il set di un film da cui gli attori sono scappati. Attraversi l’incrocio e ti chiedi se l’ennesima telecamera di fronte stia inquadrando te o il lato opposto della piazza. Ma poi, anche se ti stanno filmando, chi mai guarderà le immagini? Il risultato lo si scopre in poche ore: la spesa colossale in videosorveglianza ha rovistato negli stipendi di poliziotti, carabinieri o vigili urbani. Via gli straordinari, via le pattuglie fuori dagli orari d’ufficio. Per ore e ore, sere e notti di fila, non si incrocia un solo lampeggiante blu. Verso le tre del mattino un ragazzo in bicicletta dalla faccia italianissima passa davanti alla palazzina dove a Desio ha le sue vetrine Alberico Lemme, il dietologo reso famoso da Canale 5. Guarda nelle auto parcheggiate alla ricerca di qualcosa da sgraffignare. Forse anche i ladri hanno una fine turno, perché subito dopo lui va a lasciare i ferri del mestiere nei cespugli dietro la fontanella e le centraline telefoniche all’incrocio tra via Olmetto e via Pozzo Antico. Riparte molto più tranquillo ora. Ma quando si accorge che nella notte non è solo per strada, torna ai cespugli. Il ragazzo raccoglie da terra qualcosa e se lo infila dentro la cintura dei pantaloni, come si farebbe per nascondere una pistola, una spranga o un grosso coltello a serramanico. Risale in bicicletta e viene incontro piano piano. Forse non ha brutte intenzioni. Ma è meglio anticiparlo e fingere una telefonata al cellulare. Così, a voce alta, nel deserto: «Carabinieri? Buonasera, mi passi il colonnello. Abbiamo piazzato gli uomini a Desio, sono pronti a intervenire». La voce arriva anche a lui. E forse le intenzioni non erano proprio buone. Perché gira la bici e pedala via a tutta velocità. La paura, mia e sua, è anche questo. La demografia della provincia però non basta a capire. Tasso di disoccupazione annuale in diminuzione in dodici mesi dall’8,8 al 7,4 per cento. Immigrati residenti all’8,4 per cento sul totale di 869 mila abitanti. Saldo naturale delle nascite sui morti in crescita di oltre mille bambini fino al 2011 e negativo soltanto negli ultimi due anni. Reddito medio di 17.500 euro. La crisi qui ha fatto meno macerie che altrove. Ma la sensazione di paura è già diffusa molto prima dell’inizio dell’emergenza sbarchi nel 2013. La si ritrova nei programmi elettorali di coalizioni in cui sono presenti la Lega ed esponenti di destra che, tranne periodiche eccezioni, sono al potere quasi ovunque. Compreso il capoluogo, Monza, dove l’assessore allo Sport Andrea Arbizzoni, ora candidato alla Camera per Fratelli d’Italia, è un camerata fascista di Lealtà e azione. Forse l’unicità brianzola nasce proprio dallo sdoganamento della paura, cominciato da un paese di questa provincia, Arcore, nella villa di Silvio Berlusconi. Un’alta concentrazione di predicatori e una diffusa assuefazione ai simboli hanno fatto il resto. Anche dove non te l’aspetti. Ascoltate come viene celebrato con caratteri di bronzo il monumento al Bersagliere, inaugurato nel 1995 cinquant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il decalogo è ancora lì, nel parco davanti alla sede dell’Agenzia delle entrate oggi svuotata, pieno centro di Desio: «Cameratismo, sentimento della famiglia, onore alla bandiera, onore alla patria, fiducia in se stessi fino alla presunzione...». Anche il monumento dedicato al papa è circondato di memorie fasciste. Tra le quattro virtù cardinali ai piedi di Pio XI davanti alla basilica di Desio, la Fortitudo tiene in vista nella mano sinistra un grosso fascio littorio. Soltanto la bottiglia vuota di Estathe che qualcuno le ha messo in grembo rende un po’ meno solenne la scena. Uno dei collanti che oggi tengono insieme Lealtà e azione, Fratelli d’Italia e Lega è proprio la rete di locali notturni: ristoranti e discoteche, con qualche debolezza davanti alla ’ndrangheta. Come don Abbondio con i bravi o papa Ratti con i fascisti. Sembra una prassi secolare in Brianza. Poco prima delle dieci di sera si svuotano alcuni tavoli. E nel ristorante entra il politico locale disarcionato, fratello di uno dei soci. Se non è lui, è il suo sosia. Fino a cinque mesi fa Gianfranco Ciafrone, 56 anni, era assessore con il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e il vice Giacinto Mariani, a sua volta proprietario di una discoteca e un ristorante con uno dei soci di Desio. Mazza è del Pdl, Mariani è l’ambasciatore brianzolo di Matteo Salvini. Poi l’indagine della Procura di Monza per abuso d’ufficio obbliga tutti alle dimissioni con l’accusa di aver favorito un costruttore in contatto con i clan calabresi. È un ramo dell’ultima delle sedici inchieste antimafia che dal 1994 al 2017 hanno attraversato la Brianza: due per camorra, quattordici per ’ndrangheta. Dodici retate negli ultimi dieci anni. Addirittura sei nel biennio 2013-2014. Nemmeno Ciafrone sembra passarsela male. Sanno tutti che sono scesi in campo i big nazionali. Uno è sicuramente il segretario lombardo, parlamentare e ora capolista della Lega, Paolo Grimoldi, sempre accanto a Mariani anche dopo lo scandalo. L’altro è l’ex ministro Maurizio Lupi. Poco prima di Natale è proprio Lupi a riabilitare in pubblico il sindaco dimissionario. Terminata la cena con gli imprenditori di Monza e Brianza, tra cui molti esponenti di Confindustria, chiama al suo tavolo Edoardo Mazza, che era stato intercettato mentre diceva al costruttore amico della ’ndrangheta: «Ogni promessa è debito, no?». Applauso. Lupi: «Non ho mai creduto alle accuse». E contro i magistrati: «Questo è uno dei più gravi problemi del Paese». Applauso più forte. Il conto nel ristorante multiculturale dei nazifascisti brianzoli alla fine è 33,50 euro: 26 di prezzo fisso, più le bevande. Nel 2016 lo Shabu ha dichiarato un incasso di 911.507 euro, per un totale di oltre venticinquemila clienti in un anno. Un fatturato record prodotto per più della metà dai dipendenti stranieri. Basta non farlo sapere in giro. E tenere alta la tensione. Uno dei proprietari, il “nipote di Mussolini” Nicola Viganò, 50 anni, altro ex assessore nel passato di Mariani, questa settimana se la prende con il Festival di Sanremo. Sulla sua pagina rilancia la foto di Pierfrancesco Favino durante il monologo che racconta le peripezie di un immigrato: «Complimenti», gli scrive, «anche tu hai iniziato a fare il pagliaccio. Ma non ti preoccupare: il 4 marzo umilieremo anche te».
PARLIAMO DI PAVIA
QUALE MAFIA?
Politici, agenti e un uomo della Dia: così funzionava la rete della 'ndrangheta al Nord. Le motivazioni delle 40 condanne dell'inchiesta Infiniti-Tenacia rivelano gli intrecci che ruotavano attorno agli affari dei boss. Nei piani dei clan anche gli appalti milionari per l'Expo 2015 a Milano, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. C’era una rete tessuta dalla ‘ndrangheta, in Lombardia, che teneva insieme uomini dei clan, funzionari pubblici, politici, professionisti, investigatori infedeli. E imprese edili, infiltrate e «seguite» fin dalla Calabria, che dovevano essere la testa di ponte per conquistare i ricchi appalti di Expo 2015. Dopo la conferma delle condanne, a giugno, la Corte d’appello delinea nelle motivazioni della sentenza i «proficui rapporti con uomini dello Stato», emersi dall’indagine “Infinito-Tenacia” con cui, nel 2010, la Direzione distrettuale antimafia ha dato uno dei colpi più duri ai clan in regione. Con la sentenza erano state confermate le condanne ai 40 imputati, tra cui il presunto boss Pino Neri, capo della locale di Pavia, condannato a 18 anni, e l’ex dirigente dell’Asl pavese Carlo Chiriaco, condannato a 12 anni. In Lombardia, scrive il collegio della prima sezione, presieduto da Marta Malacarne, nelle oltre 800 pagine di motivazioni, agiva una «una sorta di franchising» mutuato dalla Calabria. E anche se al Nord le cosche agivano in autonomia, la Calabria è rimasta «proprietaria e depositaria del marchio ‘ndrangheta, completo del suo bagaglio di arcaiche usanze e tradizioni, mescolate a fortissime spinte verso più moderni ed ambiziosi progetti di infiltrazione nella vita economica, amministrativa e politica». E dal Sud era «seguita l’infiltrazione nelle aziende della famiglia Perego», importante impresa edile e del movimento terra, il cavallo di Troia — nei piani dei clan — per gli appalti milionari di Expo. C’erano i lavori pubblici e c’erano le mire sulla politica. Il ruolo di «stabile punto di riferimento per convogliare i voti controllati dall’associazione sui candidati in più tornate elettorali amministrative», scrivono i giudici, era svolto dall’ex manager sanitario Chiriaco. Solo uno dei colletti bianchi citati. È lungo infatti l’elenco dei «pubblici funzionari» e degli appartenenti alle forze dell’ordine che hanno tradito il loro giuramento di fedeltà allo Stato per mettersi al servizio delle mafie. Gli affiliati della locale di Desio, per esempio, erano in rapporti con l’ex assessore regionale Massimo Ponzoni, esponente della giunta dell’ex governatore Roberto Formigoni, condannato ad aprile a dieci anni per corruzione, concussione e bancarotta fraudolenta a Monza. Ma l’indagine, specifica il collegio, ha «analizzato i rapporti degli imputati con altri pubblici funzionari», come «un ufficiale giudiziario in servizio a Desio», «un ispettore dell’Agenzia delle entrate», un ex «presidente del collegio dei revisori dei conti della Provincia». E poi anche «un colonnello in pensione», «un ispettore della polizia stradale a Lecco», «un appartenente alla guardia di finanza che aveva fornito loro notizie di arresti imminenti», persino «un appartenente alla Direzione investigativa antimafia di Milano» rimasto ignoto. Contatti che hanno reso difficoltose in più di un’occasione le indagini, con «episodi di fuga di notizie» che hanno lasciato «nell’ombra altri proficui rapporti».
Il caso Pavia: 'ndrangheta, malaffari e minacce ai giornalisti. Nell'indifferenza della città. Giovannetti: «Pavia è una città omertosa. Con quello che è saltato fuori dovrebbe succedere il finimondo, invece c’è un silenzio tombale, sia da parte delle istituzioni che della società civile», scrive Daniele Ferro su “L’Espresso”. La Lombardia è terra fertile per i «proficui rapporti» tra 'ndrangheta e uomini dello Stato. È quanto scrivono i giudici della Corte d'Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che conferma le condanne a quaranta imputati, arrestati il 13 luglio del 2010 durante l’operazione «Infinito », che aveva l’obiettivo di smantellare la penetrazione delle cosche nella regione. Un Comune che ben simboleggia i «proficui rapporti» in Lombardia è Pavia, città molto pericolosa per chi ostacola i piani degli affaristi. Non a caso tra i condannati spiccano l’avvocato tributarista Giuseppe “Pino” Neri e l’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia Carlo Chiriaco: il primo condannato a diciotto anni di carcere con l’accusa di essere un boss della ‘ndrangheta in Lombardia, l’altro a dodici anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi sono calabresi cresciuti professionalmente a Pavia. Ma anche nei casi in cui non compaiono affiliati alla ‘ndrangheta, la sostanza dei «proficui rapporti» a Pavia è pur sempre mafiosa: lo sostiene chi, denunciandoli, ne è rimasto vittima. «Pavia è una città omertosa. Con quello che è saltato fuori dovrebbe succedere il finimondo, invece c’è un silenzio tombale, sia da parte delle istituzioni che della società civile», dice l’attivista e giornalista freelance Giovanni Giovannetti. Il cronista si riferisce a minacce di morte nei confronti suoi e di un collega del quotidiano la Provincia pavese, Fabrizio Merli, emerse da alcune intercettazioni telefoniche rese pubbliche due settimane fa dopo la chiusura delle indagini della procura di Pavia su «Punta Est», un cantiere sequestrato all’imprenditore Dario Maestri, finito agli arresti domiciliari nel 2013. È lui a dire «questi bisogna eliminarli fisicamente», riferendosi a Giovannetti e Merli, perché infastidito dai loro articoli che denunciavano le irregolarità su cui si fondavano i suoi cantieri, avvallate da funzionari pubblici con le mani pronte a intascare denaro. Uno di questi, secondo gli inquirenti, è Ettore Filippi, ex dirigente della Polizia di Stato, vicesindaco durante l’amministrazione di centro-sinistra di Piera Capitelli, poi passato a sostenere la giunta di Alessandro Cattaneo (Fi), infine arrestato per corruzione lo scorso marzo con l’accusa di avere ricevuto da Maestri circa 130mila euro. È con lui che l’imprenditore, nella primavera del 2012, si sfoga contro i due cronisti (che si aggiungono agli oltre 2mila giornalisti minacciati in Italia negli ultimi otto anni, come rilevato dall’ osservatorio Ossigeno per l’Informazione ). Alle minacce di morte, Filippi dice a Maestri di «non scherzare», ma poi gli presenta un amico investigatore, Fabrizio Scabini di Voghera, per pedinare i giornalisti. Anche al telefono con Scabini, Maestri minaccia. Parla di Merli, che ha pubblicato quella mattina del 10 marzo 2012 un importante articolo: «Ormai non penso più alla querela ma gli spacco la faccia a quello lì», trascrivono gli inquirenti il 10 marzo del 2012. Dopo l’uscita di queste intercettazioni, a Pavia c’è stato un personaggio pubblico che ha reagito con un appello alla città e ai partiti. Nessuno, finora, l’ha raccolto. Cristina Niutta, ex assessore della giunta Cattaneo, in una lettera alla Provincia pavese del 16 settembre ha denunciato che Maestri «ha finanziato negli anni campagne elettorali di candidati variamente collocati», ed ha espresso solidarietà ai giornalisti. «La Città però deve rispondere. Non deve lasciarli soli», ha continuato Niutta, parlando di «un vero attentato al corretto svolgimento di una funzione costituzionalmente garantita» e chiedendo che i «politici che in passato hanno accettato il contributo elettorale o, comunque, l’appoggio della persona sospettata di tali gravi fatti ne prendano ora pubblicamente le distanze». A Pavia è come se nessuno avesse letto le righe dell’ex assessore. «In questa storia non è tanto importante il mio singolo caso, quanto la non reazione della città. La magistratura - dice Merli - parla di una condotta che ha in sé l'archetipo della mafiosità. Mi sarei aspettato che qualcuno affrontasse il problema, riflettendo su quanto sia facile arrivare al confine di condotte che sono sostanzialmente mafiose. Invece, Niutta a parte, Pavia dorme un sonno secolare». Secondo Giovannetti, dalle intercettazioni «emerge il sistema Pavia. Filippi è stato vicesindaco di Capitelli, perciò la vicenda imbarazza un po’ tutti: irregolarità nei piani urbanistici ci sono state anche prima della giunta di Cattaneo», dice il giornalista. Chi non sembra imbarazzato è l’attuale sindaco del Pd, Massimo Depaoli. Perché non ha detto nulla su quanto emerso dalle intercettazioni? «Il taglio netto con il passato lo stiamo dimostrando con la trasparenza della nostra amministrazione», risponde il sindaco, che al suo partito ha imposto Angelo Gualandi come assessore all’Urbanistica, «uomo di assoluta fiducia, perché proviene dai movimenti ambientalisti come me». Depaoli spiega che «il segno della mia campagna elettorale è stata la discontinuità con il passato. Anche l’amministrazione Capitelli ha fatto scelte politiche sbagliate, improntate a un eccessivo sviluppo». Come l’area della ex Marelli, riconvertita con 112 appartamenti rimasti invenduti, o l’abbattimento di un edificio storico dell’ex Snia (in teoria posti sotto tutela) per far spazio a centri commerciali e palazzine. Inoltre, continua Depaoli, «alle vittime delle minacce avevo già espresso solidarietà a suo tempo». Vale a dire quando nell’abitazione di Giovannetti era stato appiccato un incendio doloso, alla fine del 2012. Pochi mesi dopo i pedinamenti dell’investigatore ingaggiato da Maestri. E poche settimane in seguito all’auto in fiamme del consigliere comunale Walter Veltri e alle croci nere disegnate sulla porta dello studio dell’avvocato Franco Maurici, anche loro attivisti di Insieme per Pavia, colpevoli di presentare esposti in procura contro progetti urbanistici sospetti. Per Maestri è già stato chiesto il rinvio a giudizio come mandante delle croci a Maurici. Filippi, l’ex poliziotto che all’imprenditore consigliava di far pedinare i giornalisti, era stato il primo ad esprimere solidarietà a Giovannetti per l’incendio doloso. Oltre agli attentati, il giornalista è stato minacciato per le sue inchieste sui periodici locali con oltre venti querele negli ultimi sette anni. Non è mai stato rinviato a giudizio. L’ultima querela è arrivata un paio di settimane fa, dal presunto boss Pino Neri: «In un volantino l’ho definito il capo della ‘ndrangheta in Lombardia. Non sono per nulla preoccupato, verrà archiviata anche questa querela. Tutto è dimostrato dalle sentenze», dice Giovannetti. Per lo stesso volantino , il giornalista era già stato querelato dall’ex sindaco Cattaneo.
AMMINISTRATORI IN GALERA. NON SI SALVA NESSUNO.
Corruzione, arrestato l’ex vicesindaco di Pavia Filippi. È stato il poliziotto che arrestò il numero uno delle Br, Mario Moretti. Ai domiciliari anche l’imprenditore Ciro Manna, scrive “Il Corriere della Sera”. L’ ex vicesindaco di Pavia Ettore Filippi e l’imprenditore edile Ciro Manna sono stati sottoposti agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione. Le ordinanze, emesse dal Gip di Pavia, sono state eseguite da personale dei Comandi Provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Gli arresti - si precisa in una nota - sono il risultato della prosecuzione dell’indagine «Punta est», che già ha portato nel 2012 al sequestro di un cantiere di 9 mila metri quadrati del valore di circa 3 milioni di euro, e all’emissione di misure cautelari e interdittive nei confronti di un professore dell’Università di Pavia, un imprenditore pavese e un dirigente del settore Ambiente e territorio del Comune di Pavia. I due sono accusati di corruzione. Ciro Manna anche di minacce aggravate e altri reati. Ettore Filippi Filippi, 71 anni, ex vicesindaco di Pavia è stato il poliziotto che arrestò il numero uno delle Br, Mario Moretti. Filippi, funzionario e dirigente della Polizia di Stato, con molti anni di servizio passati in questura a Milano, era in passato già uscito da una serie di accuse che gli avevano lanciato contro uomini del clan Epaminonda.
Ettore Filippi, ex vicesindaco del Comune di Pavia, e l'imprenditore edile Ciro Manna sono stati sottoposti agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione. Le ordinanze sono state eseguite dagli uomini dei comandi provinciali di carabinieri e guardia di finanza, scrive “La Repubblica”. Gli arresti - si legge in una nota - sono il risultato della prosecuzione dell'indagine “Punta est”, che già ha portato nel 2012 al sequestro di un cantiere di 9mila metri quadrati, del valore di circa 3 milioni di euro, e all'emissione di misure cautelari e interdittive nei confronti di un docente dell'Università di Pavia, un imprenditore e un dirigente del settore Ambiente e territorio del Comune di Pavia. I due sono accusati di corruzione: Manna anche di minacce aggravate e altri reati. Al centro dell'indagine, avviata due anni fa, c'è una presunta lottizzazione abusiva di terreni alla periferia di Pavia. Nel progetto originario l'area di Punta Est doveva ospitare residenze universitarie e un centro di ricerca. Successivamente, come hanno spiegato gli inquirenti, la destinazione dell'area è cambiata: la società Punta Est srl avrebbe realizzato appartamenti da mettere in vendita a un prezzo commerciale, grazie a una variante del Piano regolatore. Un cambiamento che sarebbe stato possibile grazie a una serie di atti falsificati. Ettore Filippi, prima di entrare in politica e diventare vicesindaco di Pavia, è stato a lungo funzionario della questura di Milano e divenne noto alle cronache per aver arrestato il numero uno delle Brigate Rosse, Mario Moretti.
MAFIE A PAVIA.
Mafie, le mani su Pavia, scrive Riccardo Bocca su “L’Espresso”. I maxi progetti edilizi. Le infiltrazioni della 'ndrangheta. Le intimidazioni agli ambientalisti. È bufera sulla città lombarda. Non sono stati soltanto i botti di Capodanno, a scandire l'ingresso nel 2013 di Pavia. La sera del 30 dicembre 2012 qualcuno ha dato fuoco al seminterrato della casa dove vive Giovanni Giovannetti, editorialista del settimanale corsaro "Il lunedì", in prima fila contro l'intreccio occulto tra abusivismo edilizio e interessi delle mafie in Lombardia. Un episodio tutt'altro che isolato. Poche settimane prima, lo stesso Giovannetti ha trovato la finestra della cucina forzata, con armadi e cassetti aperti nelle stanze senza che nulla fosse stato rubato. «Il gioco oscuro delle intimidazioni», lo definisce lui. E nella stessa categoria, inserisce altri "incidenti" avvenuti in città a fine 2012. «Il 15 dicembre, per esempio, ha preso fuoco l'Opel Astra del consigliere comunale di opposizione Walter Veltri, fratello dell'ex sindaco Elio». Dopodiché hanno conquistato un posto in cronaca anche le croci nere apparse sul portone dello studio di Franco Maurici, avvocato noto in provincia per le battaglie ambientaliste. «Il messaggio è esplicito: la lobby sporca del cemento vuole spaventarci», commenta Walter Veltri. E a nome pure di Giovanetti e Maurici, schierati assieme a lui nella lista civica Insieme per Pavia, aggiunge: «Non ci faremo intimidire. E soprattutto insisteremo a censurare il degrado etico della città, sempre più vittima dei poteri forti e sempre meno esempio di politiche illuminate». L'opposto del ritratto tratteggiato dal sindaco Alessandro Cattaneo, Pdl, trentaduenne apprezzato dalla nouvelle vague montiana. Dal suo punto di vista la parola essenziale è "ottimismo". «Pavia», ricorda, «vanta un'importante tradizione industriale», e malgrado i tempi grami «guarda avanti con lucidità». Una prospettiva di sviluppo che dovrebbe passare, sulla carta, attraverso la riconversione «delle aree dismesse da fabbriche come Snia e Necchi», puntando in parallelo sullo«sviluppo sintonico tra il polo sanitario e quello dell'università, che ha festeggiato 650 anni di vita». Quanto al pericolo delle infiltrazioni criminali, Cattaneo è sereno: «Non siamo un'isola felice, ma abbiamo l'ossatura sana per contrastare qualunque incursione». Sarà. Resta il dettaglio che, il 6 dicembre scorso, l'ex direttore dell'Asl di Pavia Carlo Chiriaco è stato condannato a 13 anni di carcere: 11 per concorso esterno in associazione mafiosa e due per turbativa d'asta e intestazione fittizia di beni. Di più: al termine dell'inchiesta "Infinito", condotta da Ilda Boccassini, è stato condannato a 18 anni anche l'avvocato pavese Pino Neri, secondo i magistrati uomo perno della 'ndrangheta. Uno shock, per i più distratti. Non certo per Giovannetti e compagni, i quali da anni sono impegnati contro le disinvolture locali. «Chiriaco, per rendere l'idea, è stato responsabile del tesseramento per il Pdl, nonché uno tra i protagonisti della campagna elettorale di Cattaneo», fa notare Veltri. Inoltre, aggiunge Giovannetti, «è stato spiacevole apprendere che Cattaneo ha incontrato Neri per ben due volte: una nello studio di questo legale in piazza della Vittoria, e un'altra addirittura a casa di Neri a San Martino Siccomario». Ciò non basta a mettere in dubbio la correttezza del sindaco, ribattono i suoi sostenitori. Ma insomma: Neri, al momento dei fugaci incontri con Cattaneo, aveva già subìto una condanna a nove anni per narcotraffico. «E comunque è il clima d'insieme»,interviene Maurici, «a generare inquietudine». Perché è svanito«il senso delle regole, e in questo effluvio di disinvoltura avvengono piccoli e grandi abusi». Tipico caso, a detta degli ambientalisti, il cosiddetto Green Campus: «Oltre 300 appartamenti che, invece di estendere l'ospitalità universitaria, sono finiti in vendita sul libero mercato». Per non parlare dell'esposto che l'associazione Italia Nostra ha presentato in Procura il 29 novembre. Cinque pagine contro la costruzione di un «complesso residenziale» su uno degli ultimi spazi verdi nel centro urbano (l'ex orto del convento delle Clarisse): «Un'area», dice l'esposto, che a norma di legge rientrerebbe tra quelle«inedificabili». E che dovrebbe restare tale, senza «alterazioni dell'impianto arboreo». Storie prevedibili, tutto sommato. Basti pensare che dagli anni Novanta a oggi la città di Pavia ha perso 18 mila abitanti (ora sono 71 mila), mentre dalle statistiche recenti gli appartamenti sfitti risultano 3 mila. «Eppure», dice Giovannetti, a fronte «del decremento demografico, nell'arco di mezzo secolo lo spazio coperto dagli abitati è più che raddoppiato, schizzando da quota 3,4 per cento a 9,7». Una tendenza che colloca Pavia ai primi posti in Regione, e che s'interseca ancora una volta con storie poco felici. Nel senso che in questo cemento show, sono attualmente indagati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e truffa il dirigente comunale all'Ambiente Angelo Moro, il funzionario del medesimo assessorato Vittorio Rognoni e il responsabile dei Lavori pubblici Francesco Grecchi. «Il tutto», interviene l'avvocato Maurici, «mentre Italia Nostra e Legambiente lottano a colpi di ricorsi contro l'avvento di un centro commerciale che dovrebbe occupare nell'insieme 217 mila metri quadri a Borgarello»: località alle porte di Pavia, ma soprattutto a un chilometro in linea d'aria dalla famosa Certosa, frequentata ogni anno da un milione di visitatori. «Finora», dice Legambiente, «è stato eliminato dal progetto un albergo alto 13 piani». Ma oltre al quadro generale, preoccupa l'origine dei denari da investire. «Risulta infatti che la società Progetto Commerciale Srl, protagonista dell'operazione, abbia un capitale sociale di appena 250 mila euro», riferisce Maurici. E allora chi metterà gli 11 milioni previsti per le infrastrutture, e gli ulteriori 100 milioni ipotizzati per il centro commerciale vero e proprio?«Attualmente», ha dichiarato Alberto Serughetti, responsabile legale della Progetto commerciale srl, «ci sono due fondi d'investimento: uno russo e l'altro belga». Quanto al pool di imprenditori che dietro le quinte vuole questo business, Serughetti ha comunicato l'esistenza di una «multinazionale»: di cui però, secondo Maurici, «non si conosce il nome e tantomeno il profilo azionario». «Possono essere sufficienti, simili affermazioni, per garantirci che questa ghiotta torta non finisca in bocca al malaffare?»,chiede il consigliere Veltri. La sua risposta è «no». Anche perché troppo spesso capita, a Pavia, che le avventure immobiliari assumano profili confusi. Come mostra la polemica cresciuta attorno all'area dell'ex Neca, dove un tempo sorgeva la fabbrica Necchi-Campiglio, e dove adesso è in corso un maxi recupero da 87 milioni di euro. «A maggio», racconta Paolo Ferloni, professore di Chimica fisica ambientale all'università di Pavia, «il Corpo forestale ha sequestrato i terreni». Il sospetto era che la bonifica non fosse stata condotta al meglio dalla proprietà (la società I.s.a.n., al 100 per cento controllata dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia). E anche se in seguito è arrivato il dissequestro, «le analisi svolte dall'Azienda regionale per la protezione ambientale, hanno evidenziato nelle acque della falda quantità di inquinanti superiori al lecito». Da parte loro, i proprietari hanno sempre sostenuto la correttezza dell'operato. E avranno pure ragione. Soltanto che i sospetti, a Pavia, sono difficili da cancellare. «Soprattutto nel mezzo di una crisi economica», dice Renato Losio, segretario della Camera del lavoro, «che sta rendendo la città fragile, senza identità: inadeguata, insomma, a cogliere le opportunità future».Riflessioni che assumono un gusto ancora più speciale, se si considera che lo stesso compagno Losio è oggi indagato per il pagamento in nero di lavori svolti nei locali della Cgil.
CHIARA POGGI. IL DELITTO DI GARLASCO. ALBERTO STASI. 16 ANNI: POCHI PER UN COLPEVOLE; TANTI PER UN INNOCENTE.
Omicidio Garlasco: indagini difesa, non è di Stasi dna sotto unghie Chiara, scrive "Adnkronos" il 19 dicembre. Possibile clamorosa svolta nella vicenda di Garlasco che potrebbe riaprire il caso: secondo quanto la mamma di Alberto Stasi, condannato in via definitiva, dopo due assoluzioni, per l’assassinio della fidanzata Chiara Poggi e oggi detenuto nel carcere di Bollate, ha rivelato al ‘Corriere della Sera’, il profilo di dna trovato sotto le unghie della di Chiara non apparterrebbe al figlio, ma a una persona di sesso maschile, forse tra le conoscenze della vittima. Lo dicono gli esiti della consulenza della difesa, rappresentata dallo studio Giarda, che ha incaricato una società di investigazioni di riesaminare gli atti dell’inchiesta. La mamma di Stasi chiede che il figlio “esca subito dal carcere”. La rivelazione, scrive il Corriere della Sera, che emerge dai risultati di laboratorio, condotti da un noto genetista su incarico degli avvocati dello studio Giarda che si sono affidati a una società di investigazioni di Milano, dovrà ora ricevere conferma dalle indagini di polizia giudiziaria. La mamma di Stasi presenterà un esposto per chiedere la revisione del processo sulla base di una prova che considera risolutiva per l’innocenza del figlio.
Le nuove indagini difensive sono partite dall’esito dalla perizia del tribunale relativa al dna trovato in piccoli frammenti sotto le unghie di Chiara che in un primo momento gli investigatori non erano riusciti ad analizzare nella sua completezza. È stata successivamente la Corte d’Appello di Milano nel processo-bis a disporre una nuova perizia, eseguita dal professore Francesco De Stefano, e a identificare dna maschile in quelle tracce. Forse addirittura appartenenti a due persone. Campioni confrontati nel settembre 2014 con quello di Stasi e risultati compatibili solo per 5 marcatori contro la necessità di almeno nove corrispondenze. Ora, i consulenti hanno individuato il profilo del giovane diverso da Stasi grazie a un cucchiaino e una bottiglietta d’acqua. I legali si sono rivolti al perito che ha estratto i campioni di Dna, analizzati rigorosamente in forma anonima dal genetista (che mai aveva avuto incarichi nella vicenda) e confrontati con la perizia di De Stefano e i risultati di Stasi. I campioni sono quelli del quinto dito della mano destra e del pollice della mano sinistra di Chiara, giudicati ‘sovrapponibili tra loro’. Dal confronto emerge “una perfetta compatibilità genetica (profili identici) tra il profilo del cromosoma Y estrapolato dal professor De Stefano sul quinto dito della mano destra e sul primo dito della sinistra, con il profilo genetico aploide del cromosoma Y ottenuto dal cucchiaino e dalla bottiglietta d’ acqua”. Tuttavia “il cromosoma Y identifica tutti i soggetti maschi appartenenti al medesimo nucleo familiare (padre, fratelli, zii, nipoti) ed esso non è utilizzabile per identificare un singolo soggetto ma, piuttosto, una famiglia”. La famiglia, conclude il Corriere della Sera, dove vive una persona che deve dar conto delle ragioni del contatto diretto con Chiara, assassinata la mattina del 13 agosto 2007.
Delitto di Garlasco, nuove analisi: «Il Dna sotto le unghie di Chiara è di un giovane che la conosceva». A nove anni dall’omicidio, per il quale Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni, una perizia di parte della famiglia Stasi trova e isola un profilo di Dna: non corrisponde all’ex fidanzato, ma a un giovane che conosceva Chiara Poggi, scrivono Andrea Galli e Cesare Giuzzi il 19 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il profilo del Dna trovato e «isolato» sotto le unghie di Chiara Poggi non appartiene all’ex fidanzato Alberto Stasi, all’epoca studente universitario della Bocconi, ma a una persona di sesso maschile, probabilmente un giovane che potrebbe anche gravitare nel vecchio «giro» di amicizie oppure di conoscenze della 26enne uccisa la mattina del 13 agosto 2007 a Garlasco, un paese di diecimila abitanti in provincia di Pavia, nella villetta al civico 8 di via Pascoli. A nove anni dall’omicidio e a un anno dalla condanna definitiva, successiva a due assoluzioni, che aveva portato l’oggi 33enne Stasi a costituirsi nel carcere di Bollate, sua madre Elisabetta Ligabò condivide con il Corriere la rivelazione-choc. Una rivelazione che trova fondamento nei risultati di laboratorio, condotti da un noto genetista su incarico degli avvocati dello studio Giarda che si sono affidati a una società di investigazioni di Milano. Una rivelazione che, alla luce delle potentissime novità, dovrà ora ricevere conferma dalle indagini di polizia giudiziaria e dalla probabile riapertura del caso. La mamma di Stasi presenterà un esposto per chiedere la revisione del processo sulla base di una prova che considera risolutiva per l’innocenza del figlio: «Non ho fatto che ripeterlo e finalmente ne ho la conferma. Mai e poi mai Alberto avrebbe potuto uccidere Chiara. Si amavano e avevano progetti in comune. La sera prima erano andati a cena insieme. Di lì a poco sarebbero partiti per le vacanze. Erano felici, uniti, erano spensierati, vivevano con la gioia e la fiducia nel futuro tipica dei giovani fidanzati. Alberto stava per laurearsi e se c’era una persona che più di ogni altra lo spronava e gli dava forza, che lo incoraggiava e lo appoggiava, quella era Chiara. Amo mio figlio, l’avrei amato anche da colpevole ma chi sa del delitto ha continuato a non parlare e a stare nascosto, scegliendo il silenzio, un silenzio terribile, asfissiante, un silenzio atroce che ha coperto e depistato. Così facendo non ha reso giustizia a una ragazza morta e, allo stesso tempo, sta uccidendo una seconda persona». Alberto, dice la mamma, «è stato privato della vita. Io ho combattuto a lungo, a volte anche in solitaria, specie da quando è venuto a mancare mio marito. Ho combattuto contro le convinzioni dei tanti che a cominciare da qui, da Garlasco, subito avevano decretato la colpevolezza di mio figlio senza alcuna esitazione. Alberto il killer dagli occhi di ghiaccio... Non ho creduto nemmeno per un istante a una sua responsabilità. Non ha ammazzato Chiara. E se finora era una convinzione, adesso è una certezza: quella persona deve spiegarmi la presenza del suo Dna sotto le unghie della ragazza. Lo deve a me, lo deve ai genitori di Chiara, lo deve a tutti». Ha una straziante tenacia, Elisabetta Ligabò, consumata negli anni da questa infinita, estenuante battaglia. E hanno tenacia gli avvocati e la società di investigazioni incaricata di rileggere gli atti dell’indagine preliminare ed, eventualmente, di individuare nuove «piste». Il cadavere di Chiara fu scoperto alle 13.50 da Alberto il quale, nelle ore precedenti, l’aveva spesso chiamata. Invano, in quanto secondo la sentenza di condanna definitiva il decesso era da collocare tra le 9.12 e le 9.35; eppure, ha sostenuto la difesa, se davvero l’ex fidanzato è l’assassino, non si capisce per quale motivo avrebbe insistito a telefonare anziché cercarsi un alibi. Non è l’unico mistero, in questo che rimane il fatto più controverso e mediatico di cronaca nera italiana dell’ultimo decennio. Dell’arma, per esempio, non ci fu traccia. Per i giudici, Stasi colpì Chiara con un martello, che forse non era presente nella villetta e che, se davvero esistente, fu l’unico oggetto sparito dall’abitazione insieme a due teli da mare. All’esterno della villetta di Garlasco una testimone, Franca Bermani, vide intorno alle 9.10 una bicicletta nera da donna, notata anche da una seconda testimone (Manuela Travain) tra le 9.23 e le 9.31: quella bicicletta alle 10.20 non c’era più. Alle 9.35 Alberto era ancora a casa sua, al computer. Chiara era in pigiama. Fu aggredita all’ingresso, vicino alle scale che conducono al piano superiore. Stasi aveva lasciato sì impronte digitali sul dispenser del bagno ma la «traccia», ha ribadito la difesa, non era un’anomalia poiché, per la relazione con la ragazza, era un assiduo frequentatore della villetta. Secondo la Cassazione, che il 12 dicembre 2015 ha confermato la sentenza-bis d’Appello e la condanna a 16 anni, tra le prove decisive contro Stasi ci sono le «famose» scarpe che avrebbero dovuto macchiarsi di sangue e sulle quali non è stata trovata sostanza ematica, e c’è una evidente «incongruenza»: la camminata in casa (senza calpestare il sangue) nel momento del rinvenimento del corpo. In questo omicidio esiste una prova-regina per anni ignorata: il Dna trovato in piccoli frammenti sotto le unghie di Chiara che in un primo momento gli investigatori non erano riusciti ad analizzare nella sua completezza. È stata successivamente la Corte d’appello di Milano nel processo-bis a disporre una nuova perizia, eseguita dal professore Francesco De Stefano, e a identificare Dna maschile in quelle tracce. Forse addirittura appartenenti a due persone. Campioni confrontati nel settembre 2014 con quello di Stasi e risultati compatibili solo per 5 «marcatori» contro la necessità di almeno nove «corrispondenze». Ed è partendo dalla perizia del Tribunale che sono cominciate le nuove indagini difensive. I consulenti hanno individuato il profilo del giovane grazie a un cucchiaino e una bottiglietta d’acqua. I legali si sono rivolti al perito che ha estratto i campioni di Dna, analizzati rigorosamente in forma anonima dal genetista (che mai aveva avuto incarichi nella vicenda) e confrontati con la perizia di De Stefano e i risultati di Stasi. I campioni sono quelli del quinto dito della mano destra e del pollice della mano sinistra di Chiara, giudicati «sovrapponibili tra loro». Dal confronto emerge «una perfetta compatibilità genetica (profili identici) tra il profilo del cromosoma Y estrapolato dal professor De Stefano sul quinto dito della mano destra e sul primo dito della sinistra, con il profilo genetico aploide del cromosoma Y ottenuto dal cucchiaino e dalla bottiglietta d’acqua». Tuttavia «il cromosoma Y identifica tutti i soggetti maschi appartenenti al medesimo nucleo familiare (padre, fratelli, zii, nipoti) ed esso non è utilizzabile per identificare un singolo soggetto ma, piuttosto, una famiglia». La famiglia dove vive una persona che deve dar conto delle ragioni del contatto diretto con Chiara, assassinata la mattina del 13 agosto 2007. Elisabetta Ligabò, la madre di Stasi, confida una speranza non nascondendo di ritenerlo un atto dovuto: «Credo sia giusto e sacrosanto che mio figlio esca dal carcere. Al più presto. Alberto e io abbiamo già atteso e sofferto troppo. Troppo».
Matteo Salvini su twitter il 12 dicembre 2015 ore 11.42. “Delitto di Garlasco, confermata la condanna a 16 anni per Stasi. Ovviamente non entro nel merito, ma mi domando: che fiducia si può avere in una "giustizia" che arresta, condanna, assolve, ricondanna?”
Il vizio italiano di condannare chi è stato assolto. Nella sua cella a tre letti del carcere di Bollate, Alberto Stasi deve ringraziare per la sua sorte non tanto i giudici della Cassazione che lo hanno condannato in via definitiva per l'omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi quanto giudici ancora più autorevoli, scrive Luca Fazzo Lunedì 14/12/2015 su “Il Giornale”. Nella sua cella a tre letti del carcere di Bollate, Alberto Stasi deve ringraziare per la sua sorte non tanto i giudici della Cassazione che lo hanno condannato in via definitiva per l'omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi: quanto giudici ancora più autorevoli. Per l'esattezza, i giudici della Corte Costituzionale che nel 2007 dichiararono illegittima, e cancellarono dal nostro ordinamento, la norma varata l'anno prima dal Parlamento, che rendeva inappellabili le sentenze di assoluzione. Per la Consulta quella norma (varata indubbiamente in un contesto in cui i rapporti tra politica e giustizia erano più complessi di oggi, e gettavano la luce del conflitto di interessi su qualunque tentativo di riforma) violava la parità tra accusa e difesa, lasciando all'imputato condannato la possibilità di ricorrere in appello, ma impedendo al pubblico ministero di impugnare le sentenze di assoluzione. Pur di azzerare la norma, la Corte Costituzionale si dimenticò che a mettere in discussione la parità assoluta tra accusa e difesa è in realtà un principio cardine di ogni ordinamento civile: in dubio pro reo. Se la bilancia delle prove sta in equilibrio, la sentenza deve assolvere: perché è meglio avere un colpevole in libertà, che un innocente in carcere. Concetti ovvi, perfino banali. E sono questi stessi valori di fondo a rendere indigesto il percorso che ha portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi. A esprimere dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (o, più precisamente: sulla esistenza di prove sufficienti a dimostrarla) sono stati uno dopo l'altro tre giudici in toga: prima Stefano Vitelli, giudice preliminare a Vigevano; poi Anna Conforti e Fabio Tucci, presidente e giudice a latere della Corte d'assise d'appello di Milano che confermò l'assoluzione di Stasi. Giudice esperti, equilibrati, scrupolosi. Furono loro a certificare, nelle loro sentenze, che i dubbi esistevano. E allora, perché non scatta il principio dii civiltà, in dubio pro reo? Semplicemente, perché il nostro ordinamento consente un andirivieni teoricamente infinito di processi e di sentenze, in cui condanne e assoluzioni possono venire impugnate e annullate senza che si arrivi a un punto fermo. Dal caso Sofri a piazza Fontana, dal delitto di Perugia a quello di Garlasco, le cronache di questi anni sono cariche di casi in cui l'unico prodotto certo dell'andirivieni è il disorientamento inevitabile di quel popolo nel cui nome le sentenze vengono pronunciate. E il cui unico rimedio sarebbe stabilire che se un imputato sceglie di affrontare il processo, e un tribunale stabilisce che non ci sono prove per condannarlo, la faccenda si chiude lì.
Garlasco, la Cassazione conferma la condanna a 16 anni. Stasi in carcere a Bollate. La Suprema corte ha respinto sia il ricorso dell'imputato sia quello della Procura generale di Milano che chiedevano un nuovo processo. La mamma di Chiara: "Giustizia è fatta". La difesa di Stasi: "Verdetto allucinante", scrive il 12 dicembre 2015 “La Repubblica”. Alberto Stasi è in carcere da condannato definitivo a 16 anni per l'omicidio di Chiara Poggi. Si è costituito a Bollate alle porte di Milano, accompagnato dalla madre, poco dopo che la Cassazione ha confermato che è stato lui, otto anni fa, ad uccidere la sua fidanzata a Garlasco. E' la parola fine a un processo che è stato anche 'mediatico', che l'ha visto due volte innocente, prima che si insinuasse il dubbio che non tutti gli indizi fossero stati messi a fuoco e che la Corte d'Appello di Milano provvedesse a raccogliere le prove sufficienti ad incastrarlo. La Cassazione, davanti alla quale il caso è approdato per la seconda volta, contrariamente alle richieste dal pg che venerdì a sorpresa aveva chiesto un nuovo appello, ha respinto dopo due ore di camera di consiglio sia il ricorso della difesa di Stasi, per l'assoluzione, sia quello dalla procura generale di Milano, per un aumento di pena con l'aggravante della "crudeltà" dell'omicidio. "Giustizia è stata fatta", ha detto Rita, la madre di Chiara, che però non riesce a gioirne, prova solo "sollievo": "Si è trattato di una tragedia che ha sconvolto due famiglie", ha detto. Quando la mattina del 13 agosto di otto anni fa Chiara ancora in pigiama staccò l'allarme di casa, aprì la porta ad Alberto. E' stato lui a colpirla alla testa e gettarla già dalle scale che portano in cantina. Lei non ha reagito, le tracce dell'assassino sul cadavere non sono state trovate, era "così tranquilla, aveva così fiducia" in chi gli stava davanti "da non fare assolutamente niente", come dicono le motivazioni, di 140 pagine, della sentenza d'Appello, demolite nell'udienza finale dal sostituto procuratore generale della Cassazione, Oscar Cedrangolo, che ha ravvisato numerose "incongruenze", dall'aver dato peso al tentativo di depistaggio da parte di Alberto nella chiamata al 118, che in realtà depistaggio non fu, ai rilievi effettuati da Ris dopo che la scena del delitto era stata "contaminata" dal passaggio di 24 persone. "Incongruente", secondo il pg è stata anche la scelta di escludere l'aggravante della crudeltà in una sentenza in cui si dice che Chiara è stata "brutalmente" uccisa: "Se Alberto è innocente deve essere assolto, ma se è colpevole deve avere la pena che merita". 30 anni, come chiesto dalla procura generale di Milano. Su questo anche dovrà motivare la quinta sezione penale della Cassazione, presieduta da Maurizio Fumo, che ha dato per buon il calcolo della Corte d'Appello. Escluse sia le attenuanti generiche che l'aggravante di crudeltà, in ragione della scelta del rito abbreviato ha applicato lo sconto di pena di un terzo alla pena base di 24 anni: 16 anni e un milione di euro di risarcimento ai Poggi, più 22mila di spese per il processo quantificate dalal Suprema corte. Sull'esclusione dell'aggravante di crudeltà c'è un precedente recente: sempre la Cassazione ha disposto uno sconto di pena per Salvatore Parolisi spiegando che le 36 coltellate inflitte alla moglie Melania furono un "dolo d'impeto" ed escludendo che l'ex militare avesse voluto infliggere "sofferenze che esulino dal normale processo di causazione dell'evento". "Quanto detto dal pg è la verità dei fatti. Come si fa a mettere una persona in carcere quando c'è una sentenza completamente illogica?", ha detto amaro l'avvocato Fabio Giarda, figlio del professor Angelo Giarda che ha guidato il collegio difensivo di Stasi: "Se una persona ha commesso un fatto del genere deve avere l'ergastolo". Stasi dovrà scontare per intero la condanna visto che in questi 8 anni non ha mai fatto custodia cautelare a eccezione di pochi giorni nel settembre 2007 nel carcere di Vigevano.
Garlasco, il giurista: "per Stasi ingiustizia da overdose di rimasticatura di indizi". Il legale “con nuovo principio Alberto Stasi non si troverebbe in carcere”. Pubblicato il: 14/12/2015 su “Adnkronos”. "E' un'ingiustizia da overdose di rimasticatura degli indizi". E' quasi una condanna alla condanna inflitta ad Alberto Stasi per la morte di Chiara Poggi, quella che pronuncia Ennio Amodio, tra i penalisti più noti in Italia, docente e presidente dell'Aspp, l'associazione fra gli studiosi del processo penale intitolato a Gian Domenico Pisapia. Studioso di diritto, tra gli esperti che hanno scritto la riforma del codice di procedura penale nell'89, avvocato di fama, i suoi giudizi hanno un peso particolare quando si tratta di giustizia. All'Adnkronos, Amodio consegna una valutazione severa sull'ultima parola pronunciata dalla Cassazione su Stasi. "Dopo il filtro della sentenza di primo grado e la nuova pesatura con la bilancia della Corte d'appello con una duplice assoluzione -sottolinea- l'assenza di macchie di sangue sulle scarpe di Alberto, le tracce sui pedali della bicicletta e l'ispezione del computer non dovevano essere sottoposte ad ulteriori valutazioni in altri tre diversi giudizi come se fosse necessario cercare ad ogni costo la conferma di una inconcepibile presunzione di colpevolezza". Ma c'è di più. Amodio spiega perché Alberto Stasi dovrà presto subire, oltre il danno, anche la beffa. "Questo vizio di fondo della condanna per il delitto di Garlasco è stato ora riconosciuto dal nostro Parlamento che, in un disegno di legge approvato il 23 settembre scorso dalla Camera dei deputati ed ora all'esame del Senato, delega il Governo - riporta il penalista- ad escludere che il ricorso in Cassazione possa essere proposto al fine di far rivalutare la persuasività degli indizi attraverso il difetto di motivazione quando l'imputato è' già stato assolto due volte". Per Amodio "la 'doppia conforme' rafforza la presunzione di innocenza - rileva il legislatore della nuova disciplina - ed è quindi assurdo alimentare nuove occasioni di rilettura del merito che aprono la strade alla spirale degli eterni giudicabili. Se questo principio fosse diventato legge oggi Alberto Stasi non sarebbe nel carcere di Bollate". Ma, come si dice spesso, mai dire mai. Ennio Amodio non ha fatto parte del collegio difensivo di Stasi ma, dall'esterno, intravede un'ultima carta da giocare. "E' probabile -dice- che questa anomalia sia portata davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo anche perché nel processo per la vicenda di Garlasco non è stata applicata la regola del nostro codice che impone di accertare la colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. E la mancanza di un movente da parte di Stasi conferma che un dubbio ben corposo c'era ma è sfuggito al bilancio finale della sentenza". Parole, quelle di Amodio, che suscitano la reazione di Gian Luigi Tizzoni, legale della famiglia di Chiara Poggi. "Non si dovrebbero commentare sentenze che non si conoscono -afferma il legale all'Adnkronos - e soprattutto le sentenze per le quali vi è solo il dispositivo. E che in modo molto più prosaico le sentenze non dovrebbero basarsi su una testimonianza oggettivamente falsa e perizie incomplete". Stasi è stato condannato in via definitiva per il delitto di Garlasco del 13 agosto 2007.
Garlasco, il giurista: basta processi infiniti. Di Federico: un atto di civiltà impedire l’impugnazione dei pm, scrive Silvia Mastrantonio su “Il Quotidiano.net” del 13 dicembre 2015. Cinque processi, a volte di più. Anni ed anni trascorsi tra carcere e aule di tribunale per poi magari – non è il caso di Alberto Stasi – vedersi riconosciuti innocenti. Ecco perché si torna a parlare di quello che stabiliva una legge, laPecorella, poi definita «incostituzionale» dalla Consulta, che prevedeva l’inappellabilità della sentenza di assoluzione. In primo grado o in appello che fosse. E di quel principio abbiamo parlato con Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario all’Università di Bologna e già membro laico del Csm.
È assurdo ipotizzare un principio di inammissibilità del ricorso del pm?
«Non è assurdo, è un atto di civiltà. Se lo Stato con tutti i suoi elevati poteri svolge le investigazioni costringendo il cittadino a pagare un prezzo altissimo in termini sociali, economici, familiari e spesso anche di salute e poi lo ritiene innocente, da quel momento in poi quel cittadino ha il diritto di essere tutelato contro la possibilità che si prosegua ancora con processi».
Un po’ come accade nel sistema anglosassone?
«La differenza è che, da noi, vige il principio della verità assoluta da ricercare con il processo».
Ma perché la Legge Pecorella non ha retto?
«Per una motivazione che non saprei come definire. Ecco... direi ironica. La Consulta spiegava che quelle norme avrebbero violato l’articolo 111 della Costituzione sulla parità tra le parti. In sostanza, accusa e difesa. Per questo parlo di motivazione ironica: dà per scontato una cosa che non è, non esiste: pm e difesa non hanno una posizione di parità».
Penati, Stasi, Sollecito. I casi sono tanti con molti processi magari conclusi in modo diverso...
«Il cimitero è pieno di croci. Mi viene in mente anche Mannino, per dire. Secondo me ad uscirne male, da tutto questo, non sono soltanto i protagonisti ma l’immagine stessa della nostra giustizia».
Dove sono le resistenze che lei legge nel modificare il sistema? Nei pm?
«È difficile da stabilire. Certo, sentirsi dare torto non fa piacere a nessuno».
Certe volte, però, si ha la sensazione che i magistrati invece di perseguire un reato conducano delle vere crociate? È fondata?
«Parlare di accanimento giudiziario, in questo Paese, non è un’idea peregrina. Il sospetto, fondato, è emerso più di una volta. Non ritengo che si tratti soltanto di un’impressione».
Ma di fronte al palese fallimento di un’impostazione accusatoria magari ripetuta, il magistrato non paga mai conseguenze? Il Csm non interviene?
«Il Csm non può farci nulla. Sa come viene definita? Prova diabolica, ed è quella di riuscire a dimostrare che il pm si è accanito contro una persona. Certo, se questa accusa viene da altri magistrati allora le cose cambiano. Cito, ad esempio, quanto riportato in sentenze dove si spiegava che non si comprendono le cause che hanno portato a sviluppare l’azione penale. In quella circostanza si può valutare negativamente l’operato del pm».
E che cosa succede?
«Mah. Le faccio l’esempio di una vicenda avvenuta in Francia. Il loro giudice istruttore (che lì ancora esiste) fece arrestare una quindicina di persone per pedofilia. Uno degli indagati si suicidò e gli altri furono tutti assolti. Il Parlamento francese decise di avviare un’indagine per fare chiarezza e convocò il magistrato per avere spiegazioni sulla carcerazione preventiva degli indagati. Sa che cosa fece da noi il Csm? Un documento per esprimere una valutazione negativa sul comportamento del Parlamento francese che aveva convocato il giudice istruttore. Perché il potere politico aveva interferito con quello giudiziario».
Garlasco, dalla bici al movente: i dubbi del processo.
L'alibi. L'imputato non avrebbe alibi nel momento in cui Chiara è stata uccisa, secondo l'accusa, tra le 9,12 e le 9,35. Ma la difesa sostiene che non sia stato possibile stabilire quello come orario preciso della morte della giovane, in quanto “la vittima non venne pesata in sede di autopsia”, operazione “ritenuta fondamentale in tutti i manuali”, in più i rilievi tanatologici, come la misurazione della temperatura corporea", vennero effettuati solo dopo le 17 di quella giornata.
Le scarpe. Un tema dibattuto in tutti i processi, quello delle scarpe di Stasi senza alcuna traccia di sangue, che ha trovato via via spiegazioni diverse. Come mai le calzature che lo stesso giovane consegnò ai carabinieri il giorno seguente alla morte della ragazza, sarebbero rimaste immacolate? Secondo i periti del processo di primo grado, era possibile che nella sua camminata il giovane non avesse calpestato il sangue. Mentre per gli esperti chiamati a una nuova perizia nell'appello - bis era impossibile che il ragazzo potesse uscire con le suole candide da quella casa. Nel processo che portò alla condanna, la perizia sulla camminata di Stasi all'interno della villetta di via Pascoli venne estesa ai due gradini che portano alla scala sulla quale trovò il cadavere della fidanzata. Un esperimento scientifico privo di fondamenta secondo la difesa, poiché non prende in esame alcuni elementi "imponderabili e non ripetibili" come la "modalità di appoggio del piede e il tipo di camminata".
Il tappetino della golf. Nell'ultimo processo, quello che portò alla condanna, i giudici diedero importanza a una perizia che dimostrò, in sede di appello, come il ragazzo non potesse non lasciare tracce del sangue di Chiara sul tappetino della Golf a cui si mise alla guida per raggiungere la vicina stazione dei carabinieri. Anche in questo caso la difesa non ritiene la prova scientifica credibile, perché nell'esperimento non sarebbero stati rispettati canoni scientifici riproducendo le condizioni dell'epoca.
Le biciclette. Stasi venne fermato due giorni dopo l'assassinio di Chiara perché vennero trovate tracce del dna della ragazza sui pedali della bici bordeaux di Alberto (nella foto). Ma è la presenza di una bici nera da donna vista da una vicina davanti a casa Poggi su cui si è sempre concentrata l'inchiesta. Secondo la parte civile, il giovane avrebbe cambiato i pedali delle due biciclette quando tra i media si diffuse la notizia che gli investigatori cercavano una bici nera. Uno scambio non confermato nell'appello bis.
Il dispenser del sapone. A causa di un errore commesso dagli investigatori venne cancellate le quattro impronte di una mano presenti sul pigiama indossato dalla vittima, come si poteva vedere in una fotografia. Un'immagine che secondo l'accusa proverebbe come l'assassino si sporcò le mani prima di scappare. In sostegno di questa tesi, secondo l'accusa, le impronte della scarpe dell'assassino, taglia 42, davanti al lavabo, così come il sangue di Chiara misto a quello di Alberto sul portasapone. Un elemento che secondo la difesa non prova nulla: "Stasi frequentava casa Poggi", spiega. Per questo la presenza del sangue sul dispenser del sapone sarebbe "neutrale".
16 anni per Stasi, condanna definitiva. Alberto si è già costituito, è in carcere. La decisione è arrivata dopo circa due ore di camera di consiglio. Il sostituto procuratore generale aveva chiesto l’annullamento con rinvio della condanna, scrive “Il Corriere della Sera” del 12 dicembre 2015. La Cassazione ha reso definitiva la condanna nei confronti di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto del 2007. Nella tarda mattinata di sabato, come annunciato alla vigilia della sentenza dal suo legale, il giovane - 24 anni all’epoca dei fatti, oggi 32enne, ultimamente lavorava con la madre nell’officina di autoricambi della famiglia dopo la morte del padre - si è costituito, accompagnato dalla mamma Elisabetta, e si trova ora nel carcere di Bollate. Appena appresa la notizia, il commercialista non ha detto nulla, come hanno riferito fonti a lui vicine, ma è scoppiato in lacrime. La quinta sezione penale, dopo appena poche ore di camera di consiglio, ha respinto sia il ricorso presentato dai legali di Stasi sia quello della procura generale di Milano, che chiedeva per il bocconiano una condanna a 30 anni di reclusione contestando l’aggravante della «crudeltà» dell’omicidio. Con questa decisione la Suprema Corte ha messo la parola fine a una vicenda giudiziaria iniziata otto anni fa e ha convalidato la decisione della corte d’assise d’appello di Milano, che nel dicembre 2014 aveva condannato Stasi a 16 anni di reclusione (il delitto era stato qualificato come omicidio «semplice», senza l’aggravante della crudeltà, e la pena ridotta di un terzo nel processo con rito abbreviato). Durante le indagini preliminari e nelle varie fasi di giudizio il giovane non è stato mai posto in custodia cautelare, per cui ora dovrà scontare per intero la pena. Venerdì, a sorpresa, il sostituto procuratore generale Oscar Cedrangolo aveva chiesto un nuovo processo di appello in accoglimento di entrambi i ricorsi. Il presidente della quinta sezione, Maurizio Fumo, aveva rinviato alle 9 di sabato la camera di consiglio «considerata l’importanza e la complessità della decisione». «Sono emozionata. Dopo le parole di ieri del procuratore eravamo un po’ pessimisti, ma giustizia è stata fatta». Così Rita Poggi, la madre di Chiara, ha commentato fuori dalla villetta di Garlasco la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna a 16 anni per Alberto Stasi. «Forse questo sarà un Natale diverso, dopo questa sentenza proviamo sollievo - ha aggiunto la signora Rita - anche se non si può gioire per una condanna, questa è una tragedia che ha sconvolto due famiglie, per me Alberto era quasi come un figlio». Il padre di Chiara, rispondendo ai cronisti che gli chiedevano se si aspettava una condanna più dura, ha definito «giusta» l’entità della pena. Al termine della «notte più lunga», dopo un percorso lungo 8 anni e 4 mesi, da quel 13 agosto 2007, i giudici hanno dunque messo la parola fine al processo di Garlasco. «Una cosa allucinante. Prendiamo atto di questa decisione», è stato il commento di Fabio Giarda, legale di Alberto Stasi, subito dopo la conferma della condanna a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi. Alla domanda «Alberto andrà in carcere?» Giarda ha risposto: «Per forza, non può fare niente altro». «Quanto detto ieri (venerdì, ndr) dal pg è la realtà dei fatti - aggiunge Giarda - . È una pena che non sta né in cielo né in terra, come ha detto il pg, se uno ha fatto una cosa del genere deve avere l’ergastolo». E ancora: «Come si fa a mettere in carcere una persona quando c’è una sentenza che è completamente illogica?». La verità «è stata accertata» e quella pronunciata dalla Cassazione «non è una sentenza a metà»: questo il commento degli avvocati della famiglia di Chiara Poggi. «Non volevamo che fossero inflitti anni di carcere ma che fosse accertata la verità. È stato faticoso - affermano i legali Gianluigi Tizzoni e Francesco Compagna - e ci sono stati tentativi di depistaggio su cui vogliamo sia fatta luce. Non cerchiamo le polemiche ma ieri (venerdì, ndr) siamo rimasti molto dispiaciuti per un atteggiamento che non abbiamo compreso». Il riferimento è alla requisitoria del pg, che aveva chiesto di annullare la condanna di Stasi: «Ci è dispiaciuto molto sentire dire - aggiungono i due legali - che i processi mediatici vanno ghettizzati: gli italiani devono sapere come funziona la giustizia». I due avvocati di parte civile (che avevano chiesto e ottenuto un risarcimento danni per i familiari di Chiara pari a un milione di euro) hanno voluto ringraziare, a nome della famiglia Poggi, anche i cronisti per l’attenzione mostrata in questi anni.
La straziante frase pronunciata da Alberto Stasi un secondo prima di entrare in carcere: "Ve lo dico...", scrive “Libero Quotidiano” del 13 dicembre 2015. Poche ore dopo il suo arresto, si scoprono alcune parole pronunciate da Alberto Stasi poco prima di entrare in carcere per scontare la condanna, definitiva, a 16 anni per l'omicidio di Chiara Poggi. A rivelare le sue parole è l'avvocato Giada Bocellari, la donna che lo ha portato all'istituto di Bollate, e che ha spiegato che Stasi, prima di salutarla, le ha detto: "Vi voglio bene". Stasi, dunque, ha voluto comunque ringraziare il pool difensivo composto dagli avvocati dello studio legale Giarda di Milano. La Bocellari ha scritto sul social network che Alberto ha voluto ringraziare "tutti i nostri consulenti e tutti quelli che si sono occupati umanamente e professionalmente di questa triste vicenda". E ancora: "Vuole far sapere a tutti che vi vuole bene. Questa sentenza deve fare in modo che il nostro impegno ne impedisca delle altre simili che sono una vergogna per la giustizia. Alla domanda se è meglio lasciare libero un colpevole o condannare un innocente la Cassazione ha risposto che è meglio condannare un innocente". Dunque, la conclusione: "L'innocente uscirà dal carcere e allora la vita lo ripagherà proporzionalmente per tutto ciò che gli ha tolto, ma di sicuro non gli ha tolto oggi l'affetto, l'amore, l'amicizia e l'umana comprensione".
Stasi in carcere: «Non è giusto», poi le lacrime. In cella con altri due. L’arrivo con lo zaino in spalla accompagnato dalla madre. «Era provato ma sereno» La difesa «È una decisione completamente illogica, una cosa allucinante», scrive Giusi Fasano su “Il Corriere della Sera” del 13 dicembre 2015. Sembra di vederlo, Alberto Stasi. Con la sua borsa in spalla, stretto nel solito giaccone scuro mentre varca il portone del carcere di Bollate. L’hanno chiamato da Roma i suoi legali, ormai più amici che avvocati: «Hanno confermato, 16 anni» era l’essenza delle loro parole. Non ha importanza che abbiano detto altro, lui ha sentito soltanto quello: condanna, 16 anni. E il fiato trattenuto fino a quel momento è diventato un pianto incontenibile, soltanto lacrime, nemmeno una parola. Lacrime senza ritegno e la disperazione di chi ha perduto la partita contro il futuro. Alberto l’aveva già spiegato quando per la prima volta la Cassazione rimandò in appello il processo dopo due assoluzioni: «Quel giorno ho pianto moltissimo e non mi vergogno di dirlo perché sono convinto che l’uomo che non piange mai non sia un uomo ma una macchina. È stato un giorno nerissimo, un incubo che ha provato ad annientarmi» aveva detto. Annientato, appunto. Così è arrivato in cella ieri pomeriggio. Sotto choc, assente. Chi ha potuto avvicinarlo lo ha visto scuotere la testa, gli ha sentito dire «non è giusto», come ripete da quando finì sott’inchiesta, ad agosto di otto anni fa. Visto dagli occhi di un ragazzo che si dice da sempre innocente nessun giorno dev’essere sembrato più ingiusto di ieri. Eppure l’ipotesi che finisse così non gli è certo piovuta addosso all’improvviso. L’aveva messa nel conto, ne aveva ragionato con gli avvocati e gli amici (quelli storici non l’hanno mai mollato), l’aveva considerata assieme a sua madre Elisabetta. Era l’angoscia delle angosce anche quando c’era ancora suo padre Nicola, morto per una malattia a fine 2013 e fino a quel punto sempre al fianco del figlio nelle mille tappe giudiziarie («Mio padre ha cominciato a morire il giorno in cui la Cassazione ha deciso di riaprire questo processo» aveva commentato poi Alberto). Proprio perché una condanna definitiva non si poteva escludere, la scelta del carcere non è stata né improvvisata né casuale. Bollate è il penitenziario modello, il luogo in cui la vita di un detenuto è un po’ più vita di quella che altri reclusi vivono altrove. I suoi legali avevano annunciato: «Se dovessero condannarlo si consegnerà lui stesso». E lui l’ha fatto poche ore dopo la sentenza, nel posto migliore possibile e non lontano da casa, cioè da sua madre. «Quand’è arrivato sembrava molto provato ma tutto sommato era tranquillo» dice il direttore, Massimo Parisi. «Ha avuto un colloquio con il nostro responsabile educativo e divide la cella con altri due detenuti». Niente isolamento, perché nessun giudice lo ha prescritto e perché è sempre meglio non lasciare da soli i nuovi arrivati, soprattutto se non sono mai stati in carcere. Alberto per la verità aveva passato quattro giorni in cella a Vigevano, dal 24 al 28 settembre del 2007. Ma il giudice alla fine si convinse che non c’erano motivi per tenerlo dentro. Era il suo primo giro sull’altalena della giustizia. Scarcerato, assolto, poi di nuovo assolto, poi processo rifatto e condanna, fino a ieri, al ricorso bocciato. Condanna definitiva. Aspettando la sentenza, il suo avvocato e amico Fabio Giarda raccontava di averlo visto l’ultima volta mercoledì: «Avevo un processo a Bari e dovevo partire, poi sarei arrivato direttamente qui a Roma. Così l’ho incontrato in studio e ci siamo salutati pensando tutti e due che per lui quello poteva anche essere l’ultimo saluto da persona libera...». A sentenza letta, mentre i giudici erano ancora in aula, Fabio ha imboccato l’uscita e ha provato a tirare dritto. Nessuna voglia di commentare. Ma il muro di telecamere era impossibile da bypassare, come le emozioni del momento. E alla fine ha parlato la collera: «Una cosa allucinante», una «sentenza completamente illogica». «È una pena che non sta né in cielo né in terra e, come ha detto il procuratore generale, se uno ha fatto una cosa del genere deve avere l’ergastolo». Alberto ha avuto 16 anni, più otto anni e quattro mesi vissuti sotto accusa. Anche quando è stato assolto.
Garlasco, incontro con Stasi nella cella 315. "Penso a Chiara e a mia madre", scrivono Rossella Minotti e Gabriele Moroni su “Il Giorno” il 14 dicembre 2015. "Se penso a Chiara? Ci penso da otto anni...". Alberto Stasi è vestito con jeans e camicia. È nella cella 315, terzo piano, reparto 1, che divide con altri tre detenuti: un giovane italiano e due della ex Jugoslavia, di mezz’età. Il locale è tinteggiato con un vezzoso color rosa. Quattro letti singoli, quattro armadi di ferro e nessuna vista sul verde, solo su altre sbarre e su un cortile interno. Un vetro separa cucina e bagno contigui. Stasi ha trascorso la sua prima notte nel carcere di Bollate, dopo che la Cassazione ha confermato la condanna a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, il 13 agosto 2007 a Garlasco. Riceve la visita di un esponente politico. Le lacrime arrivano improvvise e irrefrenabili appena gli viene chiesto della madre: "Mia mamma è sola, l’ho sentita al telefono ieri". È la sua grossa pena insieme con il ricordo del padre scomparso il pomeriggio di Natale del 2013. "Devo ancora metabolizzare la sentenza, ancora non mi rendo conto, è arrivata inaspettata. Il procuratore generale aveva chiesto l’annullamento. Devo ancora capire dove mi trovo. Sono innocente". Per lui la carcerazione è un trauma, e vuole sottolinearlo: "Non ricordo più quella prima notte, quando ho trascorso pochi giorni in carcere otto anni fa". Nella cella c’è un televisore ma Alberto non ha voluto vedere nessun programma, sapeva che si sarebbe parlato tanto di lui. Il suo primo pranzo nel carcere modello è a base di carne e patate. Sabato subito l’incontro con due educatori, oggi lo psicologo. Le porte della cella si aprono al mattino alle 7 e si richiudono alle 20. Orari da ospedale, si pranza alle 11 e si cena alle 17. Durante il giorno ci sono la palestra e la biblioteca, che Stasi, sotto choc, non ha ancora visitato. Dal carcere Alberto Stasi ringrazia chi gli è stato vicino e lo fa tramite la pagina Facebook dell’avvocato Giada Bocellari, il legale dello studio Giarda che sabato l’ha accompagnato a costituirsi. L’avvocato scrive: "Allora una riflessione e scusate se la pubblico ma mi è necessario farlo". "Intanto voglio ringraziare, portando un messaggio del diretto interessato, il Prof, Fabio, Giuseppe, tutti i nostri consulenti e tutti quelli che si sono occupati umanamente e professionalmente di questa triste vicenda. Vuole far sapere a tutti che vi vuole bene". "Detto questo – continua – dico una cosa sola: nessuno, a mio avviso, deve mollare. Mai. Questa sentenza deve servire a fare in modo che il nostro impegno ne impedisca delle altre simili che sono solo una vergogna X la giustizia. Oggi è passato un concetto. Alla domanda: è meglio lasciar libero un colpevole o condannare un innocente? La Cassazione ha risposto: è meglio condannare un innocente". "Ma ragazzi l’innocente uscirà dal carcere e allora la vita, son sicura, lo ripagherà proporzionalmente X tutto ciò che gli ha tolto. – conclude l’avvocato –. Ma di sicuro non gli ha tolto oggi, né mai gli toglierà l’affetto, l’amore, l’amicizia e l’umana comprensione. Quelli saranno X sempre suoi alla faccia di chi adesso ride X l’omicidio di una povera ragazza". Nella tragedia di Garlasco anche il dolore di due mamme: Elisabetta Ligabò, la madre di Stasi, continua a essere ospite di parenti in Brianza. Il suo è un pianto senza fine da quando l’unico figlio è in carcere. "È incredibile – ripete -, sono disperata ma mi batterò perché mio figlio abbia giustizia". Rita Poggi, la mamma della vittima, parla di queste feste: "Sarà il Natale di sempre, a casa, in famiglia. Ma con un peso in meno nel cuore". Chiusa la vicenda penale rimane la questione del risarcimento da un milione di euro che Alberto Stasi è stato condannato a versare. "Ma questo – dice la mamma di Chiara – ci interessa relativamente. Quello che volevamo era che chi ha ucciso mia figlia fosse messo di fronte alle sue responsabilità". Garlasco prova a voltare pagina. La sentenza divide, c’è chi la approva e chi manifesta i suoi dubbi con la classica frase "E se non fosse stato lui?". Per tutti parla il sindaco Pietro Farina: "La giustizia ha fatto il suo corso, ora siamo più sereni".
Alberto Stasi in carcere a Bollate: «Spegnete la tv, non voglio sapere cosa dicono di me». Il primo giorno in cella dopo la condanna a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi: «Non me l’aspettavo - dice Stasi - Da casa non ho preso nulla sono venuto subito qui», scrivono Giusi Fasano e Pierpaolo Lio su “Il Corriere della Sera” del 14 dicembre 2015. In piedi, occhi bassi e mani in tasca. Alberto Stasi comincia dal suo ultimo momento di speranza, il punto esatto in cui la parola «innocente» sembrava ancora possibile. «Non me l’aspettavo. Giuro che proprio non me l’aspettavo. Anche il procuratore generale aveva chiesto l’assoluzione. Io non ho ucciso Chiara, ero tranquillo...». Poi il mondo che si capovolge: «Quando mi hanno detto della condanna ero dall’avvocato. Non sono nemmeno passato da casa a prendere il necessario. Mi sono immaginato la ressa di giornalisti davanti al cancello, il muro di telecamere, il solito clamore. E allora ho preferito venire qui direttamente». Qui. Nel carcere di Bollate, cella 315 del reparto I, terzo piano, luogo di partenza dei suoi 16 anni di condanna per aver ucciso Chiara Poggi (la sua fidanzata) la mattina del 13 agosto 2007. Davanti al consigliere regionale che alle undici passa a trovarlo c’è un ragazzo «abbattuto e dimesso». Faccia stanca di chi ha dormito poco o nulla. «Com’è andata la prima notte?» chiede il suo interlocutore. E lui: «Veramente non è la prima volta, in carcere c’ero già stato ma non mi ricordavo com’era, sono passati più di otto anni... però anche allora mi avevano rilasciato al quinto giorno, avevano analizzato il sangue (era il Dna di Chiara trovato sul pedale della sua bicicletta, ndr) e alla fine avevano capito di avere davanti un innocente». Il chiodo batte sempre sullo stesso punto: sono innocente, questa sentenza è ingiusta. Nel penitenziario-modello di Bollate le celle non sono piccole. Stasi condivide la sua con altri tre detenuti, un italiano e due montenegrini. Quand’è arrivato, sabato, ha chiesto a tutti un unico favore: «Vorrei non guardare in televisione i programmi che parlano di me. Non voglio vederne nessuno. Si può?». Quasi una preghiera. Alberto non vuole sapere che cosa dicono di lui oltre le barriere del carcere, non ha più importanza, non vale più neanche la pena di arrabbiarsi per le interpretazioni fuori luogo, per un titolo sbagliato, per il saccente di turno che parla di lui e del processo senza aver mai letto nessuna carta. «Ve lo chiedo per favore» ha implorato i nuovi compagni delle sue giornate. E loro hanno capito, hanno evitato qualunque notizia o trasmissione sul caso Garlasco. «Tua mamma?» chiede il consigliere cambiando argomento. «L’ho chiamata, la vedrò lunedì». Pausa. Nodo in gola e poche altre parole, «la mamma ora è sola...». Il politico regionale lo vede in difficoltà, così emozionato da essere sul punto di piangere. E allora cambia di nuovo la direzione del discorso. Gli chiede del futuro, di come immagina tutto quel tempo dietro le sbarre. «Devo ancora capire, non riesco a credere di essere qui» dice. «Ero convinto che sarebbe finita bene e non ho avuto il tempo di pensarci né di preparare niente, domani la mamma mi porterà un po’ di cose, magari vado in biblioteca a prendere un libro, vedrò come devo organizzarmi, cosa fare...». La vita in carcere è una sequenza di azioni che si ripetono identiche ogni santo giorno, di orari sempre uguali per fare questo o quello. Si pranza alle 11, si cena alle 17, le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. Si può passeggiare nei corridoi, andare in palestra, in biblioteca, appunto. Ma ieri mattina era troppo presto per fare qualsiasi cosa che non fosse parlare, raccontare, sfogarsi. Consegnare a qualunque sconosciuto fosse arrivato quella parola che Alberto ripete da sempre: innocente, io sono innocente. Prima di costituirsi, sabato, aveva affidato all’avvocatessa Giada Bocellari (che lo aveva accompagnato fino al portone del carcere) un saluto a «tutti quelli che si sono occupati umanamente e professionalmente di questa triste vicenda». «Grazie, vi voglio bene» aveva chiesto di far sapere. Poi lei aveva seguito la sagoma di quel ragazzo fino a vederla sparire dietro il portone. Per i prossimi 16 anni.
Delitto di Garlasco, Stasi colpevole. La Cassazione conferma la condanna a 16 anni per il fidanzato di Chiara Poggi. Rigettati i ricorsi della difesa e della Procura di Milano, scrive il 12 dicembre 2015 "Panorama". La Cassazione ha confermato la condanna a 16 anni per Alberto Stasi per l'omicidio di Chiara Poggi. Dunque si aprono per lui le porte del carcere di Bollate, alle porte di Milano, dove il giovane si è già costituito. Durante le indagini preliminari e nelle varie fasi di giudizio non è stato mai posto in custodia cautelare per cui dovrà scontare per intero la pena. Si chiude cosi' una vicenda durata otto anni. La quinta sezione penale della Cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi, sia quello della difesa di Alberto Stasi che chiedeva l'assoluzione sia quello della procura generale di Milano che chiedeva un aumento di pena per l'aggravante di crudeltà. Ieri la procura generale della Cassazione aveva chiesto l'accoglimento di entrambi i ricorsi. "Non è una sentenza a metà" ha detto l'avvocato Gian Luigi Tizzoni, difensore della famiglia Poggi. "Non volevamo che fossero inflitti anni di carcere ma che fosse accertata la verità". "Forse questo sarà un Natale diverso, dopo questa sentenza proviamo sollievo" ha detto Rita Poggi parlando con i cronisti fuori dalla villetta di Garlasco (Pavia). "Non si può gioire per una condanna - ha proseguito - Si è trattato di una tragedia che ha sconvolto due famiglie". Il padre di Chiara Poggi, Giuseppe, ha spiegato di "non essere in grado di dire" se la pena inflitta ad Alberto Stasi sia giusta ma "ci atteniamo alle regole". "Otto anni per avere una sentenza definitiva sono tanti - ha sottolineato Rita Poggi - ma in tutto questo tempo non abbiamo mai pensato di mollare e di rinunciare a chiedere la verità... Nel corso dei processi sono emersi elementi che ci hanno reso sempre più convinti della colpevolezza di Alberto Stasi - ha concluso Rita Poggi - in questo momento mi sembra prematuro andare a parlare con sua madre". Giustizia è dunque fatta. E non era così scontato. Proprio ieri infatti il sostituto pg della Cassazione Oscar Cedrangolo aveva richiesto l'annullamento con rinvio in accoglimento del ricorso dell'imputato, che chiedeva l'assoluzione, e del ricorso del pg di Milano, che chiedeva al contrario il riconoscimento dell'aggravante di crudeltà. Cedrangolo ha sottolineato "la debolezza dell'impianto accusatorio", che ha portato alla condanna a 16 anni di Alberto Stasi per l'omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi. Nell'articolata requisitoria aveva scandagliato punto per punto gli indizi che hanno portato la corte d'appello di Milano lo scorso anno, dopo il rinvio della Cassazione, ad emettere la condanna. "In questa sede non si giudicano gli imputati ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi" ha detto il pg rivolgendosi al collegio, "ma insieme possiamo stabilire se la sentenza è fatta bene o fatta male. A me pare che la sentenza sia da annullare". Il pg aveva sottolineato che a suo avviso "potrebbero esserci i presupposti di un annullamento senza rinvio, che faccia rivivere la sentenza di primo grado" e quindi l'assoluzione di Alberto.
L'inchiesta. Il sostituto procuratore generale di Milano Laura Barbaini, in una sessantina di pagine, oltre a cercare di smontare uno per uno i motivi di impugnazione con cui il pool di difensori guidato da Angelo Giarda ha sostenuto che il verdetto di condanna va ribaltato, ha sottolineato come la Corte d'Assise d'Appello guidata da Barbara Bellerio ha "valorizzato la circostanza (..) per la quale l'omicida non poteva non appartenere alla cerchia ristretta delle persone" che frequentavano la vittima e la sua casa e come sia stata "rivalutata l'assenza di alibi" del giovane, ora commercialista 32enne rimasto senza lavoro, "nella finestra temporale" in cui sarebbe avvenuto il delitto, tra le 9.12 e le 9.35 della mattina.
La perizia. Il pg ha evidenziato come i giudici "attraverso la rinnovazione della perizia sulla camminata" estesa ad altri gradini della scala della villetta dell'assassinio, abbiano concluso ritenendo impossibile che Alberto non si sia sporcato le scarpe di sangue e come non abbia potuto trasferire tracce ematiche nemmeno sul tappetino della sua Golf. In più ha osservato che Corte ha utilizzato la "dimostrata traccia di polpastrelli insanguinati" sulla maglietta del pigiama rosa di Chiara per provare che Stasi abbia afferrato il corpo della vittima per buttalo giù dalle scale che portano alla cantina della villetta dei Poggi per poi lavarsi le mani nel bagno lasciando le sue tracce sul dispenser del sapone. A ciò si aggiunge, tra l'altro, la rivalorizzazione del "tema della bicicletta nera da donna e quindi del Dna della vittima" sul pedale di quella bordeaux, la Umberto Dei Milano, acquisita a casa di Alberto ai tempi delle indagini. E questo grazie agli accertamenti sulla bici, sempre nera da donna, sequestrata agli Stasi solo un anno fa, e per l'appunto nel nuovo processo di appello.
La bicicletta nera. Bicicletta, che è uno degli elementi centrali della memoria presentata dagli avvocati della famiglia Poggi, Gian Luigi Tizzoni e Francesco Campagna, i quali, pur sposando le tesi del pg e della Corte d'Appello sono andati oltre: dagli accertamenti hanno scoperto non solo che è "oggettivamente diversa da quella che sarebbe stata esibita nell'immediatezza dal padre di Stasi e descritta in un'annotazione di servizio a firma del Maresciallo Marchetto", ma anche che i pedali della Umberto Dei erano stati sostituiti. E poi, per loro, "la presenza delle impronte dell'anulare dell'imputato sul porta sapone del bagno in cui si recò l'assassino" costituiscono uno dei "dati processuali assolutamente certi ed incontestati".
Le tesi della difesa. Giarda e il collega Antonio Albano nella loro memoria hanno sostenuto che uno dei punti controversi della sentenza di condanna sia stato il ritenere "sostanzialmente irrilevante l'individuazione dell'ora della morte di Chiara Poggi" pretendendo di "individuare un preciso arco temporale (23 minuti), per farlo coincidere ex post (...) con l'affermata responsabilità dell'imputato". La difesa inoltre ha passato in rassegna i capitoli più dibattuti nel processo d'appello "bis", a partire dalla impossibilità per l'ex bocconiano di sporcarsi le scarpe per concludere che, "se non vi è certezza si impone l'assoluzione - è scritto nella memoria -. La totale carenza di certezze dovuta anche ad indagini preliminari svolte con approssimazione e finanche negligenza e' un dato condivisile ma non addebitabile all'imputato" definito "il bersaglio più semplice e forse anche quello già scontato" sul quale si è indirizzata l'inchiesta che aveva anche l'"esigenza di dar seguito a istanze di giustizia per la morte" di Chiara. Ma questo si scontra "con le basilari garanzie" della difesa. (ANSA).
Eppure il giorno prima si scriveva…
Stasi ricomincia a sperare: "Assolto o nuovo processo". Il procuratore generale smonta l'impianto accusatorio che ha porato la corte d'appello a condannarlo a 16 anni, scrive Andrea Acquarone Sabato 12/12/2015 su “Il Giornale”. Alberto Stasi è un mezzo innocente. O un mezzo colpevole. Dipende dai punti di vista, ma tale, a prescindere, rimarrà per sempre. La nostra giustizia non è riuscita prima a scoprire e poi a punire il colpevole.Otto anni dopo l'assassino di Chiara Poggi, massacrata a 26 anni in quel di Garlasco con un oggetto che le fracassò la testa, non si sa ancora chi sia l'assassino. Una notte di camera di consiglio- insieme con le preghiere di Rita Preda, madre della vittima -(«parlo sempre con Chiara e dico di guidare i giudici verso la verità»)- si spera illuminino la Corte suprema. Che potrebbe però decidere di non decidere. Ennesima ordalia del nostro sistema giudiziario. Lui, l'indiziato numero 1, unico fin da subito ad essere accusato d'omicidio, ieri in attesa del verdetto era a casa. Così come i famigliari della sua ex, chiusi, a un chilometro e mezzo di distanza, nella villetta di via Pascoli, la stessa dove il 13 agosto 2007 qualcuno ammazzò la loro ragazza. Due volte assolto, poi condannato nel dicembre dello scorso anno a 16 anni nell'appello «bis» (24 ne avrebbe rimediati senza lo sconto del rito abbreviato), il biondino dallo sguardo algido fin dalle prime ore del pomeriggio aveva cominciato a tirare un respiro di sollievo. L'arringa del procuratore generale Oscar Cedrangolo sembrava preparata per aprirgli le porte verso un destino nuovo. Con orizzonti di libertà. Il togato che avrebbe dovuto rappresentare l'accusa aveva invocato, di fatto, la sua assoluzione. O meglio un nuovo processo bocciando, di conseguenza, la richiesta a 30 anni di carcere presentata nel ricorso del pg di Milano, che avrebbe voluto anche il riconoscimento dell'aggravante di crudeltà e premeditazione nei confronti dell'imputato. Una requisitoria a sorpresa. All'apparenza contraddittoria. «L'annullamento che chiedo è con rinvio - sottolineava il procuratore - per una questione di scrupolo e rispetto nei confronti del grido di dolore di tutte le parti. Il rinvio servirà per nuovi accertamenti prove e valutazioni». «Siamo in presenza di un omicidio efferato, commesso con brutalità e proprio per questo non si può dare un colpo al cerchio e uno alla botte». Un «eufemismo» per smontare l'architrave colpevolista del giudice dell'Appello bis che aveva condannato il neo commercialista. «Se l'imputato è innocente - la puntualizzazione critica del pg - va assolto, altrimenti va condannato a pena adeguata per l'atrocità del delitto commesso». Tutto smontato dunque, la nuova inchiesta della pm milanese Laura Barbaini, il lavoro troppo tardivamente certosino degli investigatori, l'annesso teorema accusatorio che lo vuole assassino perché Chiara lo avrebbe smascherato, «presenza ingombrante che rischiava di distruggere la sua immagine di bravo ragazzo». Gli spezzoni di filmini pedopornografici trovatigli nel pc, sarebbero una conferma. Ma evidentemente non sufficiente.Non solo: deboli anche gli indizi contro di lui. «La scena del delitto è stata calpestata da ventiquattro persone. Per questo gli accertamenti fatti risultano inaffidabili per il massiccio inquinamento del luogo». Oltre a una prove certa, secondo il pg della quinta sezione della Cassazione- la stessa, sarà un caso? che ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito- manca un movente per il delitto. Un perché, ha insinuato Cedrangolo, che si può «costruire ad arte». Più o meno lo stesso concetto espresso in aula dalla difesa.
Garlasco, il procuratore generale alla Cassazione: "Annullare la condanna di Stasi". Al termine della sua requisitoria la richiesta di un nuovo processo che dovrà decidere se l'imputato va assolto o condannato, scrive “La Repubblica” l'11 dicembre 2015. Colpo di scena in Cassazione per il nuovo atto del processo contro Alberto Stasi condannato a 16 anni in appello per l'omicidio della fidanzata Chiara Poggi. Il procuratore generale ha chiesto alla Quinta sezione della Suprema Corte, presieduta da Maurizio Fumo, di annullare la condanna. In aula non ci sono né Stasi né la famiglia Poggi. "L'annullamento che chiedo è con rinvio - ha sottolineato il pg Oscar Cedrangolo - per una questione di scrupolo e rispetto nei confronti del grido di dolore di tutte le parti. Il rinvio servirà per nuovi accertamenti prove e valutazioni". Nell'articolata requisitoria ha scandagliato punto per punto gli indizi che hanno portato la Corte d'appello di Milano lo scorso anno, dopo il rinvio della Cassazione, a emettere la condanna. "In questa sede non si giudicano gli imputati, ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi" ha detto rivolgendosi al collegio, "ma insieme possiamo stabilire se la sentenza è fatta bene o fatta male. A me pare che la sentenza sia da annullare". Il pg ha sottolineato che a suo avviso "potrebbero esserci i presupposti di un annullamento senza rinvio, che faccia rivivere la sentenza di primo grado" e quindi l'assoluzione di Stasi. Ma il procuratore ha sottolineato come la prima sentenza della Cassazione dell'aprile 2013 abbia voluto "ascoltare il grido di dolore" dei genitori della vittima. "Ho apprezzato lo scrupolo della Cassazione, quando dopo le due assoluzioni ha chiesto un nuovo giudizio. E vi chiedo di concedere loro lo stesso scrupolo". Il pg ha quindi suggerito che si dispongano "nuove acquisizioni o differenti apprezzamenti" ma ha poi precisato che "l'annullamento deve essere disposto sia in accoglimento del ricorso del pg, sia di quello dell'imputato. Perchè se Alberto è innocente deve essere assolto, ma se è colpevole deve avere la pena che merita". Il magistrato ha sottolineato anche che l'omicidio di Garlasco, così come altri, ha sofferto di "quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di queste vicende". Nel corso della sua analisi Cedrangolo ha spiegato che "al di là delle motivazioni tecniche, la Corte di Cassazione nell'annullamento disposto nell'aprile 2013 non se l'è sentita di dire la parola fine su una vicenda così articolata. Ma di questo ampio mandato il giudice del rinvio, ritengo, non ha fatto buon governo". E ha proseguito il pg: "E' successo che il giudice del rinvio abbia ritenuto che gli fosse stato affidato un imputato che dalla posizione di accertato innocente fosse passato alla posizione di presunto colpevole e ha ritenuto che il suo compito fosse quello di ricercare gli indizi a carico. Un modo di procedere non corretto, anzi in alcuni casi inaccettabile". Cedrangolo ha sottolineato come sia necessario fare chiarezza tra le due perizie contrapposte rispetto allo scivolamento del corpo della vittima sulle scale. Quanto alle impronte delle scarpe trovate sul luogo del delitto, il pg ha sottolineato che "ci sono voluti sette anni per individuare taglia e marca delle scarpe, Frau numero 42", e ha anche evidenziato che "se le scarpe dell'aggressore erano copiosamente imbrattate di sangue, perché le impronte sono state ritrovate sul tappetino del bagno, come mai non sono state evidenziate le impronte di uscita fino alla porta d'ingresso? Mistero". A suo avviso "questa è un'altra incongruenza che merita accertamento". Quanto alle impronte sul dispenser di sapone liquido in bagno, il Pg ha detto "che l'imputato frequentava la casa: ci mangiava, ci dormiva, ci faceva l'amore e da un punto di vista razionale non aveva alcun interesse a cancellare le sue impronte". Cedrangolo ha ancora sottolineato che "sono 24 le persone che si sono recate in quell'appartamento prima che vi accedessero i Ris per i rilievi", che "non si sono dimostrati affidabili per l'impossibilità di verificare l'essiccamento del sangue e per il massiccio inquinamento del luogo". "Non siamo qui a rappresentare nessun grido di dolore ma la convinzione granitica che la verità sia emersa". Lo ha detto nella sua arringa l'avvocato Francesco Compagna, che assieme a Gian Luigi Tizzoni rappresenta la famiglia di Chiara Poggi. "E' vero - ha aggiunto Compagna - come dice il procuratore che scontiamo il peso di un processo mediatico. L'errore in cui si rischia di incorrere è farci un'idea esaminando gli atti maniera pregiudiziale". Le arringhe delle parti sono durante diverse ore, tanto a lungo da spingere il presidente Fumo a chiedere più sintesi per consentire ai giudici di "ritirarci in camera di consiglio con una capacità mentale congrua". A proposito di Alberto Stasi "non possiamo parlare di non colpevolezza ma di presunzione di innocenza". Così Angelo Giarda, legale del giovane di Garlasco. Giarda nella sua arringa definisce una sentenza "fumosa", "sgangherata", "scritta in fretta" e "che fa acqua da tutte le parti", quella di appello bis con la quale il suo assistito è stato condannato a 16 anni di carcere. "L'indizio parte da un dato noto per arrivare a un dato ignoto - sottolinea Giarda - ma gli indizi su Stasi a che dato portano? Non c'è nessun indizio che porti al fatto storico dell'uccisione di Chiara Poggi. Stasi va assolto per non aver commesso il fatto". Al termine dell'udienza i giudici si sono riuniti in camera di consiglio. La sentenza è attesa per domani, sabato mattina.
Garlasco, il pg della Cassazione: «Annullare la condanna di Stasi». La pubblica accusa: «Qui non possiamo stabilire se l’imputato è colpevole o innocente, ma se la sentenza è fatta bene o male. A mio parere è sicuramente da annullare», scrive “Il Corriere della Sera” l’11 dicembre 2015. La pubblica accusa chiede di annullare la condanna di Stasi per l’omicidio di Garlasco. Questo lo sviluppo inatteso dell’udienza di venerdì della quinta sezione penale della Cassazione, nel processo per l’omicidio di Chiara Poggi, uccisa nella sua casa a Garlasco il 13 agosto 2007. La richiesta del sostituto pg della Cassazione Oscar Cedrangolo è stata quella dell’annullamento con rinvio, in accoglimento del ricorso dell’imputato, che chiedeva l’assoluzione, e del ricorso del pg di Milano, che chiedeva al contrario il riconoscimento dell’aggravante di crudeltà e quindi un aumento di pena. Il procuratore generale Cedrangolo ha sottolineato «la debolezza dell’impianto accusatorio», che ha portato alla condanna a 16 anni di Alberto Stasi per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi. Stasi era stato assolto sia in primo grado sia in appello, con rito abbreviato fino a che la Cassazione nell’aprile 2013 non ha disposto l’annullamento e un nuovo processo che rivalutasse le prove. «In caso di condanna Alberto si costituirà», ha detto l’avvocato Fabio Giarda del collegio difensivo di Stasi. Il giovane bocconiano - diversamente dalle altre occasioni - non si è presentato in aula, e neppure i genitori di Chiara. «Un po’ agitato, ma fiducioso che in Cassazione emerga la verità», le parole di Alberto. Concetto identico per Rita Poggi, mamma della vittima, che da tempo non crede più all’innocenza dell’imputato. I giudici si sono ritirati in camera di consiglio intorno alle 20: poco dopo le 22 l’annuncio del rinvio della sentenza a oggi. «In questa sede non si giudicano gli imputati ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi» ha detto il pg rivolgendosi al collegio, «ma insieme possiamo stabilire se la sentenza è fatta bene o fatta male. A me pare che la sentenza sia da annullare, perché ha travisato le risultanze processuali». Il pg ha sottolineato che a suo avviso «potrebbero esserci i presupposti di un annullamento senza rinvio, che faccia rivivere la sentenza di primo grado» e quindi l’assoluzione di Alberto. Ma il procuratore ha sottolineato come la prima sentenza della Cassazione dell’aprile 2013 abbia voluto «ascoltare il grido di dolore» dei genitori di Chiara Poggi nel chiedere di trovare l’assassino della figlia: «Ho apprezzato lo scrupolo della Cassazione, quando dopo le due assoluzioni ha chiesto un nuovo giudizio. E chiedo lo stesso scrupolo oggi, perché non ho la presunzione di ritenere insussistenti le possibilità di ulteriori contributi o precisazioni. Sarà la Corte a stabilire se vi siano o meno ulteriori margini». Il pg ha quindi suggerito che si dispongano «nuove acquisizioni o differenti apprezzamenti» ma ha poi precisato che «l’annullamento deve essere disposto sia in accoglimento del ricorso del pg, sia di quello dell’imputato. Perché se Alberto è innocente deve essere assolto, ma se è colpevole allora va inflitta una pena adeguata all’atrocità del delitto». Il pg, di fatto, ha «demolito» punto per punto non solo la sentenza di condanna dell’appello bis di Milano, ma anche i motivi di ricorso della procura di Milano. «Stasi è arrivato in giudizio come presunto colpevole», ha dichiarato. «Il movente non c’è ma si costruisce ad arte», ha aggiunto. «La sentenza di rinvio dà atto che il movente non è stato individuato, ma poi si industria a costruirne uno legato alla vicenda delle immagini pornografiche», con il timore che Chiara potesse distruggere «l’immagine di ragazzo perbene e studente modello di Alberto» ma «la logica ci viene in soccorso e impone di escludere l’insostenibile ipotesi secondo la quale per evitare che la sua fidanzata rendesse nota la passione per la pornografia decidesse di ucciderla costituendosi come alibi proprio quel pc pieno di immagini pornografiche consegnato la mattina dopo ai carabinieri». Toccando il nodo centrale delle impronte delle scarpe, il pg ha notato che «la scena del delitto è stata calpestata da 24 persone. Per questo gli accertamenti fatti risultano inaffidabili per il massiccio inquinamento del luogo». Si chiede ancora il pg: «Che fine hanno fatto le impronte in uscita? Stasi non può essere andato via volando, anche perché la sentenza dice che le scarpe di Stasi sono copiosamente imbrattate di sangue». L’omicidio di Garlasco, così come altri, è stato oggetto di «una perniciosa forma di spettacolarizzazione» attraverso «quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di queste vicende». Lo ha sottolineato il sostituto pg della Cassazione, Oscar Cedrangolo, nel processo ad Alberto Stasi per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi a Garlasco. La frase sul «grido di dolore» del pg Cedrangolo non è piaciuta all’avvocato Francesco Compagna, che assieme a Gian Luigi Tizzoni rappresenta la famiglia di Chiara Poggi, convinta della colpevolezza di Stasi. «Non siamo qua a rappresentare nessun grido di dolore ma la convinzione granitica che la verità sia emersa», ha dichiarato. «È vero - ha aggiunto l’avvocato Compagna - come dice il procuratore che scontiamo il peso di un processo mediatico. L’errore in cui si rischia di incorrere è farci un’idea esaminando gli atti maniera pregiudiziale». «Bisogna dare una verità alla famiglia Poggi ma non seguendo l’interrogativo retorico ed aberrante “se non lui chi?”». Lo ha evidenziato l’avvocato Angelo Giarda, difensore di Alberto Stasi, nel corso della sua arringa. Il legale di Stasi evidenzia una anomalia di questo processo: «A differenza di tante altre vicende, nessun giudice della Repubblica italiana ha mai evidenziato gravi indizi di colpevolezza nei confronti di Stasi. Non sappiamo poi il perché la Procura di Milano, pur chiedendo trent’anni per Stasi, non abbia mai chiesto nei suoi confronti un provvedimento cautelare. Forse perché su Alberto ci sono dei dubbi? La presunzione di innocenza è fondamentale, in questo caso invece si sta ragionando su una presunzione di colpevolezza, ma così non si darà mai una verità alla famiglia Poggi». Il legale di Alberto Stasi dice che «Alberto avrebbe voluto venire in udienza ma non se l’è sentita di lasciare da sola la madre». Nella sua arringa il legale ha denunciato che la ricostruzione di come sarebbe avvenuto l’omicidio secondo la tesi dei giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano che hanno condannato Stasi a 16 anni «sembra più un soggetto da film horror che una ricostruzione ragionevole». La quinta sezione dovrà decidere, dopo aver ribaltato due assoluzioni, se confermare o meno la condanna a 16 anni inflitta ad Alberto Stasi, unico imputato per la morte della fidanzata Chiara Poggi, avvenuta nell’agosto del 2007. Tre le possibili soluzioni. Confermare la sentenza con cui, il 17 dicembre dello scorso anno, l’appello bis di Milano ha condannato Stasi a 16 anni. Accogliere il ricorso della procura generale di Milano e aggravare la pena. Oppure, ed è questa la richiesta del pg, annullare la sentenza milanese e scagionare definitivamente l’ex bocconiano. Nei primi due casi si apriranno per Stasi le porte del carcere. Non ricorrono le parti civili, ossia i familiari di Chiara. Il 28 marzo 2009, a sorpresa, gli avvocati di Stasi chiesero che il proprio assistito fosse processato con il rito abbreviato. Nel processo, iniziato il 9 aprile, l’accusa chiese 30 anni per Stasi; la difesa invece l’assoluzione. Il 17 dicembre 2009 la sentenza: Stasi venne assolto per insufficienza di prove. Il 30 aprile 2010 il ricorso in appello dei sostituti procuratori Rosa Muscio e Claudio Michelucci, con quello dell’avvocato di parte civile Gian Luigi Tizzoni. Tre sostanziali novità negli atti d’appello: la richiesta di un esame approfondito su un capello castano chiaro lungo 1,2 centimetri trovato nella mano sinistra della vittima; un riesame del martello sequestrato in casa Stasi; l’ampliamento della forbice per l’orario della morte. Il 7 dicembre 2011 anche la corte d’appello di Milano ha assolto il ragazzo. Non ha convinto il collegio presieduto da Anna Conforti la ricostruzione del delitto proposta dal sostituto procuratore Laura Barbaini. Il 18 aprile 2013 la prima sezione penale della Cassazione ha annullato l’assoluzione inducendo la disposizione di un nuovo, ulteriore, processo d’appello. Il 17 dicembre 2014 Stasi è stato condannato a 16 anni di reclusione dai giudici della prima Corte d’Assise d’Appello di Milano, davanti ai quali si è celebrato l’appello bis.
Processo a Stasi, tutti i motivi dell’ennesimo cambio di rotta. La richiesta di Cedrangolo, pg della Cassazione: se Alberto è innocente va assolto, se è colpevole non bastano 16 anni e quindi va accolto anche il ricorso che chiede 30 anni, scrive Giusi Fasano l’11 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Il caso Garlasco è così da sempre. Arriva un momento in cui tutto ciò che sembra andare in una direzione prende improvvisamente una strada inaspettata. Venerdì mattina l’ennesima conferma. Il procuratore generale della Corte di Cassazione Oscar Cedrangolo, che rappresenta l’accusa e che tutti si aspettavano facesse una requisitoria per chiedere la conferma della condanna di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, ha invertito la rotta ed è andato incontro alla difesa. A braccia aperte. Ha praticamente demolito (o quantomeno ci ha provato: vedremo che cosa decideranno i giudici alla fine), ciascun elemento dell’accusa. Dall’ormai famosa camminata di Alberto a casa della vittima senza sporcarsi le scarpe al movente che non è stato accertato, dalla chiamata al 118 alle impronte digitali dell’imputato sul dispenser del bagno a casa di Chiara. Era il 13 agosto del 2007. Chiara Poggi fu colpita alla testa e uccisa con un’arma mai trovata. Dopo più di sette anni il suo fidanzato dell’epoca, Alberto Stasi, oggi 32 anni, è stato ritenuto responsabile e condannato a 16 anni di carcere. Da lì il ricorso ora in discussione alla suprema corte di Cassazione. Lui chiede di annullare la sentenza di condanna e il procuratore generale di Milano che ha sostenuto l’accusa nel processo d’appello bis chiede invece di aumentare la pena di quella condanna: da 16 a 30 anni. Bene. Il procuratore generale Cedrangolo, dopo un’ora e mezza di discussione, ha chiesto che i giudici accolgano sia il ricorso di Alberto sia quello della procuratrice generale Laura Barbaini. Vorrebbe, in sostanza, che fosse annullata la sentenza di condanna per l’appello bis perché «sono state travisate le risultanze processuali» e perché «sono state valutate in modo palesemente illogico». Dice, il procuratore Cedrangolo, che in fondo capisce e apprezza lo scrupolo che ha indotto la Corte ad annullare l’assoluzione di primo e secondo grado riaprendo il caso con un processo d’appello-bis. «Non se l’è sentita di dire la parola fine su una vicenda così sofferta e tormentata», ha spiegato. E ha detto di capirlo così bene che nemmeno lui se la sentirebbe, proprio come i giudici del primo rinvio. Quindi proprio per questo la sua richiesta non va nella direzione di chiudere per sempre il processo ma in quella di indagare, una volta di più, tutto ciò che è possibile per arrivare a delle certezze. Quindi ecco la decisione di chiedere un nuovo rinvio. Con una postilla in più. Dice in sostanza il magistrato: se Alberto è innocente sarà assolto. Se invece risultasse colpevole, non sarebbero sufficienti i 16 anni della condanna precedente. Per questo va accolto anche il ricorso del procuratore generale che vorrebbe una condanna a 30 anni, ipotizzando la colpevolezza. Ora la parola passa all’avvocato Gian Luigi Tizzoni che rappresenta la famiglia di Chiara Poggi. Dopodiché sarà il turno dell’avvocato Angelo Giarda, difensore di Alberto. Tutte le possibilità restano aperte nonostante il colpo di scena della mattinata. Sapremo entro poche ore se avrà vinto la linea del procuratore Cedrangolo o se i giudici opteranno per una delle altre due possibilità secche: annullamento senza alcun rinvio (in pratica assoluzione per sempre) oppure conferma della condanna (cioè colpevolezza definitiva).
Quei pasticci nelle indagini e l'impronta decisiva. Anche nell'omicidio di Perugia gli stessi problemi. Ma stavolta una prova è spuntata, scrive Luca Fazzo Domenica 13/12/2015 su "Il Giornale". Un lavoro cocciuto, compiuto risalendo a ritroso tracce vecchie di anni, per colmare le incredibili lacune che accompagnarono nell'agosto del 2007 le indagini sulla morte di Chiara Poggi. La spiegazione dell'esito del processo per il delitto di Garlasco che condanna definitivamente Alberto Stasi dopo che per due volte era stato assolto, si può trovare solo ricostruendo come Laura Barbaini, sostituto procuratore generale a Milano, abbia scavato sul delitto quando il fascicolo è arrivato sul suo tavolo, ormai simile a un cold case. Se ci si fosse accontentati delle ricostruzioni, pasticciate e incongruenti, che gli inquirenti dell'epoca avevano portato in aula al primo processo contro il bocconiano dagli occhi azzurri, l'esito sarebbe stato probabilmente scontato: assoluzione definitiva, e la morte di Chiara destinata a restare senza perché. Invece la Barbaini ha riannodato i fili, ha ripercorso all'indietro la corrente dei fatti e degli indizi. E ha portato in aula, in occasione del secondo processo d'appello, le prove che sono risultate decisive per ribaltare la sorte di Stasi, avviandolo verso una carcerazione da cui solo una improbabile revisione del processo potrà salvarlo prima di avere espiato la pena. L'andirivieni del processo per la morte di Chiara è certamente destinato a non colmare i dubbi dell'opinione pubblica, e a non chetare le dispute tra colpevolisti e innocentisti: come è accaduto, d'altronde, in una vicenda simile ma dall'esito opposto, l'assoluzione di Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l'assassinio a Perugia di Meredith Kercher. Anche in quella vicenda, la sciatteria con cui erano state compiute le indagini saltava all'occhio, quanto e più che nel caso di Garlasco. La differenza è che nel caso di Chiara, la Procura generale milanese non si è accontentata - come accade di solito - del lavoro fatto dai colleghi del primo processo. Si è scavato di nuovo. Alcuni tasselli non sono andati a posto, per colpa del tempo trascorso. Ma altri sono balzati in superficie. Sono stati decisivi perché nel dicembre di un anno fa la Corte d'appello milanese, investita del processo bis, dichiarasse Stasi colpevole. E ieri gli stessi elementi convincono la Cassazione a mettere una pietra definitiva sul caso di Garlasco e sulla morte di Stasi. Chiara, scrisse la Corte d'appello, era divenuta «per un motivo rimasto sconosciuto, una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo per bene e studente modello, da tutti concordemente apprezzato». Per la Procura generale quel «motivo rimasto sconosciuto» era invece un movente preciso e determinato, la passione di Stasi per la pornografia, conosciuta e subita da Chiara da tempo, ma ormai fuori controllo, come dimostrato dal contenuto del suo computer. L'esistenza di un movente, da sola, però non bastava a condannare il fidanzato della vittima. Servivano prove concrete. Ed era chiaro che l'unico elemento portato in primo grado contro Stasi, l'assenza di macchie di sangue sulle sue scarpe dopo il ritrovamento di Chiara, e di conseguenza la prova delle sue bugie e delle sua colpevolezza, era troppo affidata a un ragionamento logico per essere sufficiente a incastrarlo. Così le nuove indagini hanno scavato di nuovo, fascicolo per fascicolo, foto per foto. E sono arrivate a individuare il tassello che mancava. È una foto raggelante, l'immagine del corpo senza vita della ragazza: si potrebbe dire che è lei, Chiara, che da morta parla e accusa il suo fidanzato. Perché in quella immagine, incredibilmente tralasciata nei primi processi, la nuove indagini hanno visto il palmo sporco di sangue dell'assassino. Non ci sono solo i segni delle dita, dalle impronte illeggibili. C'è, netto, il palmo della mano. La foto dimostra che chi ha colpito Chiara si sporcò, e molto, del suo sangue. L'assassino, poi, si andò a lavare le mani nel bagno, si insaponò toccando il dispenser, poi lo pulì dal sangue: ecco il motivo per cui su quel dispense non ci sono le impronte di Chiara, che pure lo usava ogni giorno. Ci sono invece, evidenti, due impronte di un anulare destro. Sono le impronte dell'assassino. Le impronte di Alberto Stasi.
Garlasco, le tappe della vicenda. Dall'uccisione di Chiara Poggi alla definitiva condanna di Alberto Stasi, scrive “L’Ansa” il 12 dicembre 2015.
La conferma della condanna a 16 anni di carcere per Alberto Stati decisa oggi dalla Cassazione mette la parola "fine" al cosiddetto Giallo di Garlasco, una vicenda durata oltre 8 anni.
13 AGOSTO 2007 - Chiara Poggi viene uccisa nella sua villa in via Pascoli, a Garlasco. Il suo fidanzato Alberto Stasi, laureando alla Bocconi, dà l'allarme dicendo di aver trovato il corpo senza vita riverso sulle scale della cantina con il cranio fracassato.
20 AGOSTO - Stasi riceve un avviso di garanzia per omicidio volontario. La sua casa è perquisita. I carabinieri sequestrano tre auto, tra cui la sua Golf, due biciclette e vari attrezzi.
13 SETTEMBRE - Stasi cambia difensori. Il prof. Angelo Giarda e i fratelli Colli sostituiscono Giovanni ed Eleonora Lucido. La condanna a 16 anni per Alberto Stasi diventa ora definitiva e dunque si aprono per lui le porte del carcere. Il pm decide il fermo di Alberto. Sui pedali di una bici sono state trovate tracce di Dna compatibile con quello di Chiara: per i Ris è sangue della ragazza, per la difesa può essere sudore o saliva.
28 SETTEMBRE - Dopo quattro giorni in carcere a Vigevano, il gip non convalida il fermo e rimette in libertà Stasi. Non ci sono prove sufficienti per giustificare un arresto.
5 NOVEMBRE - Depositato l'esito dell'autopsia. Chiara è stata uccisa tra le 11 e le 11.30, con un oggetto appuntito. Tra i 10 e 15 i colpi inferti. L'ultimo, alla nuca, è stato mortale.
20 DICEMBRE - Stasi è indagato anche per detenzione di materiale pedopornografico trovato nel suo pc, vicenda per cui verrà successivamente assolto definitivamente.
3 NOVEMBRE - Il pm Rosa Muscio chiede il rinvio a giudizio di Alberto Stasi per l'omicidio della fidanzata.
23 FEBBRAIO 2009 - Davanti al gup di Vigevano Stefano Vitelli si apre l'udienza preliminare e circa un mese dopo Stasi chiede il rito abbreviato.
9 APRILE 2009 - Comincia il processo con rito abbreviato. Il pm Rosa Muscio, affiancata dal collega Claudio Michelucci, chiede al gup Stefano Vitelli la condanna di Stasi a 30 anni. Per la difesa Stasi è innocente e va assolto.
30 APRILE 2009 - Il gup non emette sentenza, ma esce dalla camera di consiglio con un'ordinanza con cui dispone una superperizia medico-legale ed altri accertamenti peritali chiedendo, tra l'altro, verifiche sul pc di Stasi, sul percorso compiuto dal giovane nella villetta di Garlasco quando trovò il corpo di Chiara e sull'orario della morte.
17 DICEMBRE 2009 - Stasi viene assolto. Il gup ritiene il quadro istruttorio, come ha scritto nelle motivazioni, "contraddittorio e altamente insufficiente a dimostrare la colpevolezza dell'imputato".
8 NOVEMBRE 2011 - Parte a Milano il processo d'appello. Il pg Laura Barbaini chiede 30 anni di carcere per Stasi, la parte civile che venga riconosciuta la sua responsabilità e il risarcimento di 10 milioni di euro, mentre la difesa punta ancora sulla mancanza di prove.
6 DICEMBRE 2011 - Stasi viene di nuovo assolto dalla Corte d'Assise d'appello secondo la quale "la decisione di primo grado è immune da vizi e merita di essere confermata''.
18 APRILE 2013 - La Cassazione annulla il processo di secondo grado e rinvia gli atti alla Corte d'Assise d'Appello di Milano, perchè ricelebri il dibattimento. Per gli ermellini, nel giudizio di secondo grado erano stati 'svalutati' gli indizi contro Stasi e andavano effettuati, come era stato chiesto dalla parte civile e dal pg, una serie di approfondimenti istruttori. E dunque propongono un integrazione probatoria.
9 APRILE 2014 - A Milano si apre il processo d'appello bis.
30 APRILE 2014 - La prima Corte d'Assise d'Appello dispone la riapertura del caso con un'integrazione dell'istruttoria dibattimentale e nuovi esami e perizie. Tra questi la ripetizione della sperimentazione della camminata di Alberto che viene completata a due gradini e alla zona antistante la scala della abitazione dei Poggi. Viene, tra l'altro, sequestrata la bici nera da donna nella disponibilità degli Stasi.
24 NOVEMBRE 2014 - Il pg di Milano Laura Barbaini chiede 30 anni di carcere per Stasi ritenendolo colpevole dell'omicidio e contestando l'aggravante della crudeltà.
27 NOVEMBRE 2014 - I legali della famiglia Poggi, parte civile al processo, chiedono di giudicare Stasi colpevole, un milione di risarcimento, e indicano 11 gravi indizi a suo carico.
3 DICEMBRE 2014 - La difesa di Stasi chiede la sua assoluzione per mancanza di prove aggiungendo "di volere giustizia ma non sulla testa di Alberto".
17 DICEMBRE 2014 - Alberto Stasi è condannato a 16 anni di reclusione dalla corte d'Assise d'Appello di Milano nel processo d'appello bis.
30 APRILE 2015 - Doppio ricorso in Cassazione contro la condanna a 16 anni di carcere per Stasi: a impugnare la sentenza da un lato la difesa che ha chiesto di cancellare il verdetto dello scorso dicembre della Corte d'Assise d'Appello di Milano, dall'altro il pg Laura Barbaini che ha invece chiesto di riconoscere l'aggravante della crudeltà esclusa dai giudici di secondo grado.
12 DICEMBRE 2015 - La Cassazione conferma la condanna a 16 anni di carcere per Alberto Stasi, mettendo la parola "fine" a una vicenda durata oltre 8 anni. La condanna diventa definitiva, per Stasi si aprono per lui le porte del carcere.
Delitto di Garlasco, l’ex maresciallo accusato di falsa testimonianza. Francesco Marchetto avrebbe mentito sulla bicicletta nera da donna vista sul luogo del delitto: disse che non assomigliava a quella in possesso della famiglia Stasi, scrive Enrico Venni su “Il Corriere della Sera” del 14 Luglio 2015. È accusato di falsa testimonianza nell’ambito delle indagini per l’omicidio di Chiara Poggi. Per l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Garlasco, Francesco Marchetto, ieri ha preso il via il processo (subito aggiornato all’8 febbraio dell’anno prossimo) che si celebra al tribunale di Pavia. Il rinvio a giudizio era arrivato dopo l’esposto presentato dall’avvocato Gianluigi Tizzoni, legale dei genitori di Chiara, uccisa nella sua villetta di via Pascoli il 13 agosto 2007. Il reato di cui deve rispondere l’ex carabiniere è legato alle indagini sull’uccisione della 26enne e, in particolare, agli accertamenti sulla bicicletta nera da donna che, una testimone, diceva di aver visto appoggiata al muretto della villetta in un orario compatibile con quello dell’omicidio. Secondo il capo di imputazione, Marchetto sarebbe responsabile di un’annotazione di servizio, che attestava la non somiglianza tra la bicicletta nera da donna in possesso della famiglia di Alberto Stasi, l’ex fidanzato della vittima accusato dell’omicidio. «Un particolare chiave che nel primo grado di giudizio e nell’appello - spiega l’avvocato Gianluigi Tizzoni - aveva portato all’assoluzione di Alberto Stasi perché i giudici indicavano sicuramente che l’assassino avesse usato quella bici. Purtroppo è arrivata in aula solamente nell’aprile 2014 e ha portato alla condanna a 16 anni di reclusione di Stasi». Secondo quando contestato all’ex maresciallo di Garlasco la sua deposizione davanti al gup di Vigevano Stefano Vitelli fu falsa. Le sue parole consentirono di non sequestrare la bici nera a Stasi, perché non avrebbe avuto un portapacchi, invece era dotata di un regolare mollettone. A questa bici poi, da quanto è stato ricostruito, furono sostituiti i pedali per cancellare eventuali tracce. Nella prima udienza di ieri mattina sono state ammesse le prove e i testimoni: due per l’accusa, nove per la parte civile e due per la difesa. Si sono costituiti parte civile i coniugi Poggi che da sempre chiedono di fare chiarezza sulla morte della figlia.
LA STORIA IL CASO DELL'OMICIDIO DI CHIARA POGGI NEL 2007 E DELL'ASSOLUZIONE DI ALBERTO STASI. IL SOTTUFFICIALE CONTRODENUNCIATO A VIGEVANO PER CALUNNIA. La Procura Secondo il pm la ricostruzione dell'investigatore è «priva di fondamento», al giudice è stata chiesta l'archiviazione. Il maresciallo: potevo scoprire la verità, il capitano compromise tutto. Il maresciallo riassumerebbe la sua denuncia così: lo stavo incalzando. Ancora un po' e avrebbe ceduto. Peccato che a un certo punto arrivò il capitano a interrompere l'interrogatorio, sennò avrebbe detto tutta la verità...Siamo a Garlasco, 13 agosto 2007. Un giorno che va raccontato dall'inizio. Il maresciallo dei carabinieri Francesco Marchetto è fuori sede per il suo turno di riposo. Nella piccola caserma della Lomellina il capitano Gennaro Cassese affronta ore di afa che più afa non si può. Succede sempre poco o nulla nella provincia pavese. Figurarsi ad agosto... Nulla. Finché non chiamano dal 118. Un certo Alberto Stasi, dicono, aveva appena telefonato: «Credo che abbiano ucciso una persona, non sono sicuro. Forse è ancora viva...». «Lei è un parente?» aveva chiesto l'operatrice. «No, sono il fidanzato». Un delitto. Anzi, per Garlasco è «il» delitto. Chiara Poggi, 26 anni, uccisa a casa sua da qualcuno che l'ha colpita fino a sfondarle la testa. E il fidanzato Alberto sospettato, interrogato, poi indagato, arrestato, rilasciato, processato e alla fine assolto sia in primo grado sia in appello (Cassazione fissata per il 5 aprile 2013). Ma questa è storia più recente. Per scrivere la denuncia e dire (fra le mille altre cose) che il suo superiore avrebbe «compromesso» le indagini, invece, il maresciallo Marchetto punta tutto su quel 13 agosto 2007. In sostanza la tesi è che lui venne estromesso (e quindi l'interrogatorio di Alberto Stasi finì senza che si scoprisse la verità) e che da lì in poi il capitano divenne, a suo dire, un nemico e persecutore. Quattro pagine di veleno contro Cassese che a parte l'omicidio ancora irrisolto tirano in ballo anche svariati presunti abusi d'ufficio. «Tutto da archiviare» secondo il pubblico ministero. Ma il maresciallo Marchetto si è opposto e il giudice delle indagini preliminari non ha ancora deciso il da farsi. Mentre ha deciso la procura di Vigevano: controdenuncia, inchiesta e richiesta di rinvio a giudizio per lui, Marchetto. Accusato di aver calunniato il suo superiore (e non è l'unico capo di imputazione). Il solo a non aver mosso nemmeno una pedina giudiziaria è il capitano Cassese. Niente. Rimane a guardare e aspetta che decidano i giudici. Ma torniamo al delitto di Chiara Poggi. Scrive il maresciallo nella sua denuncia: «Così come quel tragico evento ebbe a rovinare la vita di una normale famiglia e a scuotere una intera comunità di provincia, anche la mia vita ne è stata indelebilmente segnata e qui è corretto che io ripercorra quanto occorsomi....».Ecco. Ripercorriamo. «Quel giorno ero di riposo settimanale ma feci immediato rientro nel pomeriggio tardo (...). In caserma c'era il capitano Cassese (...) e il signor Alberto Stasi si trovava in sede di interrogatorio. Chiesi al pubblico ministero se potessi anch'io porre due domande a Stasi e la dottoressa Muscio me lo concesse. Entrai nella stanza e a differenza dei miei colleghi che lo facevano parlare senza interromperlo, per loro scelta o modus operandi, io iniziai a incalzarlo e notai subito, sia per peculiare somatica dello stesso (ovvero comportamento) oltre che per le risposte date, che qualcosa non tornava e a tal punto uscii dalla stanza e lasciai Stasi solo con il brigadiere e conferii immediatamente con la dottoressa Muscio». Marchetto disse al pubblico ministero che sarebbe tornato da quel ragazzo e avrebbe ripreso a incalzarlo «e nel caso» avrebbe «richiesto il fermo». La confessione gli sembrava cosa fatta, in pratica. Solo un po' di pazienza. «Ma rientrato in ufficio venivo interrotto dal capitano Cassese? dice nella denuncia? che invece faceva accomodare fuori dall'ufficio il signor Stasi dandogli la possibilità di confrontarsi con i suoi familiari». Il risentimento del maresciallo verso il capitano cominciò in quel momento. Che errore, tiene a precisare, offrire a Stasi quella pausa con i familiari... «Lascio comprendere a chi se ne intende di polizia giudiziaria cosa possa significare una tale azione», considera Marchetto, che aggiunge: «A quel punto avevo già compreso dopo anni di polizia giudiziaria attiva che di fatto era stato compromesso l'esito di tale operazione e lo feci presente "a tu per tu" al capitano Cassese. Da quel momento il mio rapporto amichevole e fiduciario con lui cessò e lo stesso mutò il suo comportamento, che divenne puro odio e continua istigazione finalizzata alla persecuzione». Persecuzione: la stessa parola che avrà pensato chissà quante volte per se stesso anche Alberto Stasi. Fasano Giusi, Pagina 20, (23 dicembre 2012) - Corriere della Sera
17 dicembre 2014. Alberto Stasi condannato a 16 anni per il delitto di Garlasco. Il 24 novembre il sostituto procuratore generale, Laura Barbaini, aveva chiesto 30 anni di carcere. I giudici hanno escluso l'aggravante della crudeltà contestata e hanno applicato lo sconto per il rito abbreviato, pari a un terzo della pena. Il 17 dicembre del 2009, stessa ora, l'ex bocconiano veniva assolto dal gup Stefano Vitelli, lo stesso giorno di cinque anni dopo l'epilogo è opposto. Come la Franzoni: colpevole, ma solo un po'. Siamo allibiti. La Corte d'appello ha ribaltato i giudizi precedenti pur basandosi sugli stessi indizi che altri tribunali avevano considerato insufficienti a infliggere una pena per omicidio, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Alberto Stasi come Annamaria Franzoni: colpevole, ma solo un po'. Dopo due sentenze assolutorie, in primo e secondo grado, il giovane commercialista di Garlasco è stato condannato a 16 anni di reclusione per avere ucciso la fidanzata Chiara Poggi, nel 2007. Siamo allibiti. La Corte d'appello di Milano ha ribaltato i giudizi precedenti pur basandosi sugli stessi indizi che altri tribunali avevano considerato insufficienti a infliggere una pena per omicidio. Sette anni durante i quali gli investigatori hanno indagato, ordinato e vagliato perizie più o meno contraddittorie; sette anni e quattro processi per emettere una sentenza che, se sono buoni gli elementi usati dall'accusa, doveva essere pronunciata almeno cinque anni orsono. Elementi, peraltro, smontati sistematicamente dalla difesa. C'è qualcosa di molto strano nel verdetto. Abbiamo citato la mamma di Cogne alla quale i giudici, per avere massacrato il figlioletto, rifilarono 15 anni, relativamente pochi se si tiene conto della gravità del delitto. Lo stesso discorso vale per Stasi. Sedici anni anche a lui per avere fatto fuori una ragazza nel modo noto, a sprangate. Entrambi i casi si sono chiusi senza prove e con indizi sulla cui consistenza non abbiamo dubbi solamente noi, ma anche (per Stasi) i giudici dei primi due procedimenti. Significa che la colpevolezza del giovanotto era assai difficile da accertare. Da quando un genio modificò il codice di procedura penale, abolendo l'insufficienza di prove, il compito delle toghe è diventato arduo. A ogni costo devono pronunciarsi a favore o a sfavore dell'imputato. Tertium non datur. La formula dubitativa, cioè l'insufficienza di prove, permetteva invece una soluzione più equa, in determinate circostanze. Si dice che le sentenze si rispettano e non si discutono. Storie. Alberto Stasi è obbligato a beccarsi la condanna. Noi invece siamo liberi di discuterla e perfino di contestarla. Ci sembra assurdo quello che è successo. Possibile che i medesimi indizi siano stati valutati allo stesso modo da due tribunali e diversamente dal terzo? Non vorremmo che l'ultimo e, forse, definitivo giudizio (se la Cassazione non avrà nulla da obiettare) si fondasse su impressioni e suggestioni piuttosto che su un autentico convincimento. Una specie di compromesso giustificato dall'esigenza di sciogliere un giallo che ha turbato l'opinione pubblica, e attorno al quale sono state organizzate decine di trasmissioni televisive, con la partecipazione di guru, criminologi, giornalisti, esperti di vario genere e talora fasulli. La nostra è solo un'ipotesi, ma suffragata dall'osservazione della realtà. Una realtà peggiore del delitto in questione, pur salvando la pietà per Chiara, stroncata poco più che ventenne. Nell'elenco di chi patisce sofferenze indicibili va aggiunto il nome di Alberto Stasi, strattonato per lungo tempo come un cencio e alla fine candidato al carcere. Sedici anni: perché?
Garlasco: Stasi come Franzoni, verdetto riflette dubbi processo, scrive Agi. E' una sentenza che ricorda da vicino quella inflitta in via definitiva ad Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne, per l'omicidio del figlio Samuele. Anche Alberto Stasi viene condannato a 16 anni di carcere dopo un'aspra battaglia processuale con un verdetto che sembra riflettere i dubbi emersi in questa indagine. Non quindi ai 30 anni chiesti dal procuratore generale Laura Barbaini che comunque vince, insieme alla parte civile Gian Luigi Tizzoni, una 'partita' che ribalta i precedenti esiti processuali di uno dei più controversi casi di cronaca nera degli ultimi anni. Difficile per la Corte d'Assise d'Appello, presieduta da Barbara Bellerio, ignorare la sentenza della Cassazione che nell'aprile 2013 aveva annullato con rinvio le assoluzioni pronunciate dal gup di Vigevano Stefano Vitelli, prima, e dalla stessa Corte d'Assise di Milano (ovviamente in composizione diversa) poi. Gli ermellini avevano chiesto di "rivisitare gli indizi" e sottolineato le "incongruenze" nel racconto di Stasi, identico dal primo giorno, su quanto accadde quella mattina d'estate. Ma la pena per l'ex studente bocconiano dagli occhi celesti scende sensibilmente rispetto alle previsioni perchè i giudici hanno tolto alla contestazione della Procura Generale l'aggravante della crudeltà. Ai 24 anni di pena massima prevista per l'omicidio è stato quindi applicato lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato. Dopo la lettura della sentenza, in un clima surreale con decine di giornalisti presenti, è stata allestita una conferenza stampa. Da un banchetto improvvisato, si sono affacciati mamma Rita e papà Giuseppe, che sono apparsi molto emozionati e hanno ringraziato con calore i loro legali, "per i quali Chiara è diventata una figlia". Per loro e per il fratello della vittima, Marco, anch'egli presente, i giudici hanno stabilito un risarcimento di un milione di euro. "Ora guarderò Chiara e le dirò "ce l'hai fatta", ha detto la mamma, aggiungendo che "finalmente e' stata riconosciuta la verità". Stasi è invece "sconvolto", ha riferito uno dei suoi legali, dopo aver provato a convincere i giudici della sua innocenza rendendo dichiarazioni spontanee: "Non cercate a tutti i costi un colpevole, condannando un innocente. In questi sette anni ci si è dimenticati che la morte di Chiara è stata un dramma anche per me. Era la mia fidanzata. E' accaduto a me e non ad altri. Perchè? Mi appello alle vostre coscienze: assolvetemi". Alla fine hanno pesato i nuovi elementi raccolti durante questo appello bis. In attesa delle motivazioni del verdetto, previste tra 90 giorni, si può ipotizzare che sia stata accolta la ricostruzione dell'accusa. Quella mattina, l'allora laureando, ora 31enne commercialista, bussò alla porta della villetta della sua fidanzata. Poi la massacrò colpendola più volte alla testa con un'arma mai trovata (un martello, l'ipotesi del pg) e gettò il suo corpo dalle scale. Quindi si presentò dai carabinieri per denunciare il ritrovamento del cadavere indossando un paio di Lacoste pulite, dettaglio che la nuova perizia eseguita durante questo appello ha valorizzato. Secondo gli esperti, non sarebbe stato possibile per Stasi non macchiarsi le suole col sangue della vittima cosparso in ogni angolo della casa. Erano dunque di Alberto le impronte di 4 dita insanguinate sul pigiama rosa della vittima, immortalate in una fotografia che l'accusa ha mostrato in aula. Per lavarsi le mani Stasi avrebbe usato un dispenser nel bagnetto di casa Poggi sul quale è stato trovato il suo dna. Le speranze di Stasi non sono però esaurite perchè i suoi legali presenteranno ricorso nella speranza che la Cassazione ordini un quarto processo.
Nazzi: "Scarpe e biciclette, il caso Garlasco sarà ricordato come il processo degli errori", scrive Andrea Curreli su “Tiscali Notizie”. Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni per l'uccisione di Chiara Poggi e, in attesa del pronunciamento della Cassazione, il "caso Garlasco" può considerarsi chiuso. La sentenza dell'appello bis sul delitto della giovane, avvenuto il 13 agosto 2007 nel comune pavese, pare mettere fine a un caso giudiziario lungo sette anni e caratterizzato da colpi di scena, due assoluzioni, prove contestate, perizie ribaltate e soprattutto da tanti errori. Ma proprio l'errore è stato per Stefano Nazzi il tema portante di questo processo. Il caporedattore di Gente e autore del libro Kronaca, ha seguito l'omicidio di Garlasco per tutti questi anni e spiega a Tiscali Notizie come si è giunti alla condanna di Stasi.
Nazzi, perché sostiene che è stato soprattutto il processo degli errori?
"Basta considerare un fatto: uno degli elementi che ha portato alla condanna di Stasi sono state le foto delle flebili impronte insanguinate di quatto dita sul pigiama di Chiara Poggi cancellate durante la rimozione del cadavere. Il giudice scopre l’esistenza di queste impronte sette anni dopo il delitto. Ma non è l’unico errore e non riguarda solo la scena del delitto. Ad esempio è stata sequestrata la bicicletta sbagliata. L’accusa e soprattutto la parte civile hanno sempre sostenuto che sarebbero stati cambiati i pedali della bicicletta nera da donna che sarebbe stata vista da una testimone davanti a casa di Chiara. Il perito della Umberto Dei (la marca della bicicletta) ha stabilito che quei pedali non erano quelli originali e qualcuno li avrebbe cambiati dopo il delitto. E’ un dubbio e non una prova, ma nasce dal fatto che le biciclette erano due (una nera da donna ed una bordeaux da uomo) ma fu sequestrata quella sbagliata ovvero la Umberto Dei bordeaux. Quella nera è stata portata davanti ai giudici del nuovo processo ma aveva i pedali Union che la Umberto Dei monta sul modello da uomo".
La perizia sulla camminata, le scarpe senza sangue o i pedali della bicicletta: che cosa ha fatto cadere la linea difensiva?
"Alberto Stasi è stato assolto per due volte, ma la Cassazione ha ritenuto che non fossero state considerate alcune cose e ha fatto rifare la principale perizia per dare una risposta alla domanda che ha accompagnato l’omicidio di Garlasco sin dall’inizio: può una persona camminare sulla scena del crimine senza che sulle sue scarpe rimanga una traccia di sangue a distanza di 48 ore? La perizia del primo processo sostenne che era possibile, ma la nuova perizia ha sostenuto l’esatto contrario puntando sulla probabilità bassissima. Questa ha portato un ribaltamento completo dal punto di vista tecnico".
E’ sorpreso della condanna di Stasi?
"No, questa volta tutto lasciava intendere che sarebbe stato condannato".
La difesa ha puntato sempre sull’assenza di nuove prove concrete.
"Infatti non ci sono state nuove prove, ma c’è stato un modo differente di leggerle. Si torna ancora una volta alle scarpe senza sangue. La perizia sostiene che una minima quantità di sangue sarebbe rimasta nelle scarpe. L’accusa sostiene che lui avrebbe gettato via le scarpe che aveva quel giorno per consegnare poi una altro paio 48 ore dopo l’omicidio".
Resta il fatto che mancano due elementi importanti: il movente e l’arma del delitto.
"Sì non c’è un movente, ma probabilmente i giudici propendono per uno scatto d’ira e quindi per un delitto d’impeto. Anche la mancata contestazione dell'aggravante della crudeltà lascia intendere che abbiano deciso così. Sull’arma del delitto è stato detto e scritto veramente di tutto, ma la mia idea che così come è successo a Cogne non verrà mai ritrovata. Mancano sia l’arma del delitto che il movente, ma per sapere qualcosa di più bisognerà attendere novanta giorni e le motivazioni della sentenza di condanna".
Si era ipotizzata una condanna a 24 anni che sono divenuti 16 anni. Perché?
"Avendo scelto il rito abbreviato e non essendoci l’aggravante della crudeltà è normale che si arrivi ad una condanna di 16 anni. Non dimentichiamoci che anche Anna Maria Franzoni fu condannata agli stessi anni di pena esattamente per lo stesso motivo. Penso che anche i legali di Stasi si attendessero questo numero di anni in caso di condanna. Uno degli avvocati ha detto: ‘Poche prove, poca pena’. La logica potrebbe essere: ti condanno, ma dato che non ho le prove ti condanno a 16 anni anziché a 30".
Dobbiamo attendere un nuovo colpo di scena con la Cassazione?
"La certezza non c’è, ma è improbabile che la Cassazione mandi indietro tutto un’altra volta. Diverrebbe un processo infinito. Ma per una serie di motivi e per i colpi di scena sul caso Garlasco qualche dubbio rimane e rimarrà. Ci sono storie, e questa è una di quelle, in cui la certezza non ci sarà mai almeno che non salti fuori qualcuno che confessi di aver ucciso Chiara Poggi scagionando Alberto Stasi. Ma è un’ipotesi altamente improbabile".
Secondo lei la spettacolarizzazione che ha accompagnato questo caso (ma non solo) può aver in qualche modo influito sulle varie sentenze?
"No, sulla sentenza non ha influito ma è stato un elemento costante di questo processo. In pochi ricordano che nel 2011 arrivò a Garlasco Fabrizio Corona per cercare di scritturare le gemelle Cappa, le cugine di Chiara Poggi. Il paese divenne un set grottesco e di pessimo gusto e, per fortuna, queste scene recentemente non si sono ripetute. Resta un’eccessiva e morbosa attenzione per casi come questo che viene alimentata da voci incontrollate. Si dice di tutto e tutti parlano senza che nessuno verifichi la fondatezza delle voci".
Prima innocente, poi ancora innocente, adesso colpevole. Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni per l’omicidio dell’allora fidanzata Chiara Poggi, nel processo d’appello-bis del cosiddetto delitto di Garlasco, avvenuto il 13 agosto 2007. Un processo che, come altri, ha diviso l’opinione pubblica italiana fra innocentisti e colpevolisti, scrive Paola Bergonzoni su “Infooggi”. E adesso? I colpevolisti non possono certo cantar vittoria, perché i legali di Stasi hanno immediatamente annunciato il ricorso in Cassazione dove ancora una volta - e non sarebbe certo la prima - il verdetto potrebbe essere ribaltato. Mentre gli innocentisti gridano allo scandalo. Una sentenza che scontenta tutti, insomma, perché invece di sgombrare il campo da dubbi, semmai li aumenta. Vediamo perché. La condanna a 16 anni. Il verdetto pronunciato nei confronti di Alberto Stasi è subito stato accostato, sia secondo alcuni esperti, sia nei numerosissimi commenti sul web, ad altri due della stessa entità: quello nei confronti di Annamaria Franzoni condannata per l’omicidio del figlio, e di Rudy Guede, in carcere per il delitto Meredith Kercher. La domanda ricorrente è: ma se questi davvero si sono macchiati del più orrendo dei crimini - aver tolto la vita a un essere umano - non dovrebbero rimanere in galera per il resto della loro esistenza? Ben poco convincenti risultano le spiegazioni tecniche a suon di codici per illustrare come si è arrivati al conto. La perplessità resta, tanto che da più parti si parla di “sentenza salomonica che vuole accontentare tutti”. E, a quanto si vede, non accontenta nessuno. Le prove. Prima non c’erano, adesso sì. Ma è proprio vero? Sono sette anni che si parla di camminate sul sangue, si disserta di suole e numeri di scarpe, si cercano pedali di biciclette, si discute di graffi sulle braccia di Stasi che c’erano ma non sono mai stati fotografati, si va a caccia inutilmente di armi del delitto. Di fatto l’impressione di un lettore che cerca di mantenere il giudizio obiettivo, è che il castello di prove sia fatto più di “non poteva non…” che di prove vere e proprie. Prove che magari c’erano, ma non sono state trovate. Ancora: ma Stasi all’ora del delitto non stava lavorando al computer, come sarebbe provato dalle analisi del computer stesso? Allora perché quell’alibi prima era vero e adesso no? Misteri delle perizie e dei periti in aggiunta al fatto che, subito dopo l’omicidio, un investigatore non chiuse il computer come doveva. Quindi c’è il rischio che alcuni dati siano andati persi. Il movente. Dovrebbe essere questo: il rapporto di coppia fra Alberto e Chiara era ormai logoro, in crisi. La notte prima dell’omicidio, Chiara aprì il computer di Alberto e verificò da alcune foto che certe inclinazioni sessuali del fidanzato erano inaccettabili, così la mattina dopo scoppiò la lite e Alberto in un impeto d’ira la uccise. In estrema sintesi questa è la convinzione della corte che ha emesso la condanna. Perfetto, ma quali prove sostengono questa ipotesi? Anche nel delitto Kercher la teoria dell’accusa parlava di un gioco erotico di gruppo finito a coltellate per il rifiuto di Meredith a sottostare. La teoria è stata poi cambiata in corso d’opera: non valeva più nell’ultimo processo che, dopo una condanna e un’assoluzione, si è concluso con un’altra condanna e un altro ricorso in Cassazione. Risultato: Amanda Knox è tornata negli Stati Uniti e ha detto chiaro e tondo che l’Italia la rivedrà al massimo in cartolina, Guede ha preso i 16 anni di cui sopra e anche Raffaele Sollecito rischia di rimanere incastrato nell’ingranaggio. Per sapere come sono state fatte (e pasticciate) le indagini, basta leggere “Il processo imperfetto”, il libro sul caso scritto dall’ex comandante del Ris Luciano Garofano. Il risultato. Scontenta tutti, persino quelli che sono fermamente convinti della colpevolezza di Stasi. E la fine processuale della vicenda è ancora di là da venire. Eppure, nel delitto di Garlasco come nell’omicidio di Meredith, i giudizi non cambiano perché, in corso d’opera, esce una prova nuova, un elemento che effettivamente aggiunge qualcosa di essenziale per l’accusa o per la difesa. Tutto si gioca invece su perizie, ipotesi, orari spostati quasi a piacimento. Sulla discrezionalità, insomma. Ma una condanna non dovrebbe essere “oltre ogni ragionevole dubbio”? Ecco perché assieme agli interrogativi resta una considerazione amara: comunque vada a finire, una persona assolta due volte e condannata una, è comunque un errore giudiziario. Da qualsiasi parte lo si voglia vedere.
Alberto Stasi, l’inaffidabilità della giustizia italiana, scrive Marco Chierici su “Italia chiama Italia”. In Italia per lo stesso reato un giorno sei innocente e l’altro sei colpevole, per un giudice sei innocente e per l’altro sei colpevole. La sentenza di appello bis che ha condannato a 16 anni Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, fatto avvenuto sette anni fa, a mio parere rappresenta in tutte le sue lacune la politica italiana, la mentalità italiana, l’inconcludenza italiana, il rimedio italiano. A parte la lunga serie di errori degli inquirenti, delle omissioni, degli inquinamenti delle prove, non sono certo qui a prendere la posizione dell’accusa né della difesa, ma per contestare una giustizia italica sempre più traballante, precaria, pericolosa. In Italia per lo stesso reato un giorno sei innocente e l’altro sei colpevole, per un giudice sei innocente e per l’altro sei colpevole, spesso di fronte agli stessi elementi probatori. I 16 anni sono il risultato delle riduzioni della pena; partendo da 30 anni, se ho compreso bene, se ne sottraggono 8 perché non è stata considerata l’aggravante della crudeltà e 8 anni perché il rito è abbreviato. A questo punto, l’uomo della strada che cosa capisce? Una povera ragazza massacrata con chissà quale oggetto e lasciata in una pozza di sangue e nemmeno soccorsa… ma secondo la giuria non c’è l’aggravante. Che caratteristiche avrebbe dovuto avere questo crimine per considerare l’aggravante della crudeltà? Dovevano amputarle gli arti? Che cosa significa aggravante? E poi il rito abbreviato. Non voglio nemmeno sapere il significato tecnico di rito abbreviato, ma era il 13 agosto del 2007, secondo l’opinione pubblica la brevità cosa sta a significare? Sette anni di processi e poi manca un altro grado di giudizio è brevità? Insomma io, e non solo io, ma anche alcuni giornalisti che ho sentito ieri su emittenti nazionali, ho l’impressione che siamo di fronte ad una condanna che fa paura per la sua inaffidabilità. Lo stesso discorso vale per il caso Yara-Bossetti, il caso Franzoni e molti altri. Se un assassino ha compiuto un crimine di questa gravità, deve prendere l’ergastolo e se, invece, non ci sono prove schiaccianti, l’imputato deve rimanere libero; questa è la giustizia come la intendo io.
Pubblichiamo l'articolo di Cristiana Lodi uscito su Libero il 19 ottobre 2007. Carlo Taormina irrompe sulla scena del crimine e sferra un attacco al Ris dei carabinieri. Stavolta è molto di più di una battaglia garantista. L’avvocato - professore, ieri mattina, ha consegnato un esposto alla procura di Roma. Cinque pagine infuocate (fascicolo numero 096928), con le quali chiede al Tribunale penale di Torino (competente per territorio), l’apertura di un procedimento per accertare se il Reparto investigazioni scientifiche di Parma abbia indotto (con una «certificazione falsa») il pm di Vigevano Rosa Muscio, a emettere un provvedimento di fermo illegittimo nei confronti di Alberto Stasi, il fidanzato di Chiara Poggi, trovata uccisa nella sua casa il 13 agosto. Taormina chiede di fare chiarezza sul “pasticciaccio brutto” dell’arresto dello studente bocconiano, unico indagato per l’omicidio, trascinato in cella il 24 settembre e subito scarcerato dal gip Giulia Pravon. Per «mancanza di indizi». L’avvocato non usa mezzi termini e con l’esposto già partito per Torino, mette sul piatto una serie di elementi. Diciassette punti - chiave, che una volta riuniti, tracciano un grave sospetto.Il Ris di Parma ha forse consegnato al pubblico ministero Rosa Muscio una certificazione falsa, inducendola a trascinare erroneamente in cella Alberto? Il magistrato ha ordinato il fermo del ragazzo poiché la Scientifica dei carabinieri ha scritto di avere trovato il sangue della vittima sulla sua bicicletta. Ha concluso (senza provarlo) che egli l’abbia usata la mattina del 13 agosto per andare a uccidere la fidanzata. Se è vero, spiega Taormina nell’esposto, che il gip conclude non si tratti di sangue («arrivando così a negare la prova dirompente portata dal Ris»), significa che l’accusa ha emesso un provvedimento falso. Costruito su una premessa altrettanto infondata. È un fiume in pena, Taormina.
Reati a catena - Ipotizza «la consumazione di una serie di reati a catena» da parte della Procura di Vigevano. Si va dal falso ideologico (art. 469) al sequestro di persona (art. 605), fino alla calunnia reale (art. 368). L’avvocato sostenitore della prova provata, chiede lumi all’autorità giudiziaria torinese. Sottolineando che questi magistrati hanno già dato prova («si è potuto vedere nel processo di Cogne»), di sensibilità e attenzione in materia di «fabbricazione di false prove». Adesso spetta al Tribunale penale piemontese decidere di accertare se il pm Muscio abbia agito nel dolo. «Incolpevolmente istigato dal Ris». Leggiamo la “tesi taorminiana” contenuta nell’esposto.Premesso 1) che il presente atto ha finalità esplorativa ed è redatto da chi non conosce gli atti del procedimento, mentre tutte le notizie sono state tratte dall’informazione giornalistica (...), con la conseguenza che questo esposto dovrebbe aversi non scritto;2) che il fatto di non conoscere gli atti di un procedimento non significa che il cittadino non conservi il diritto di interpellare l’autorità giudiziaria per sapere se ciò di cui è informato corrisponda a verità (...);3) che dopo oltre due mesi di investigazioni dai contenuti altalenanti - circostanze di fatto indicate come indizi non rivelatesi tali il giorno dopo (...) - il RIS di Parma avrebbe individuato una macchia di sangue sul pedale della bicicletta di Alberto Stasi , sangue che sarebbe appartenuto alla fidanzata;4) che, in conseguenza di tale scoperta, l’inchiesta fece registrare una svolta per Stasi , unico indagato, giacchè (...), tale imbrattamento ematico lo avrebbe inchiodato alla sua responsabilità di assassino e avrebbe insieme costituito prova dell’uso della bici per la consumazione dell’omicidio;5) che questa macchia di sangue determinò l’adozione di un provvedimento di fermo contro Stasi , a opera del pm di Vigevano;6) che (...), gli organi di informazione divulgarono notizia che il Gip di Vigevano NON convalidò il fermo per non essere sicuro si trattasse di “macchia di sangue” appartenuta alla vittima (...); 7) che non è risultato chiaro se il DNA fosse riconducibile a Chiara;8) che, ove fosse vera la notizia che il RIS avrebbe attestato trattarsi di sangue, la negazione di tale essenziale e determinante dato da parte del Gip comporterebbe anche la NON corrispondenza al vero della rilevazione che il RIS ha consegnato al pm inducendolo al provvedimento di fermo;9) che se così fosse (...), non solo sarebbe non corrispondente al vero attestato dello stesso RIS ma esso avrebbe indotto anche il pm alla formazione di un provvedimento di fermo non corrispondente al vero (...);10) che, se così stessero le cose, si sarebbero verificate due fattispecie di falso: una con la attestazione non veritiera racchiusa nella relazione del RIS, l’altra per induzione dell’affermazione che si sarebbe trattato di sangue di Chiara nel provvedimento di fermo;11) che queste ipotesi di falsità potrebbero anche trattarsi di fattispecie dolose (...);12) che, laddove si trattasse di due fattispecie di falso ideologico in atto pubblico (...), sarebbero state consumate due altre gravissimi reati: sequestro di persona e calunnia;13) che il pm di Vigevano sarebbe stato istigato incolpevolmente, per la consolidata regola penalistica del non agit sed agitur a sequestrare la persona di Alberto Stasi , così integrandosi la fattispecie delittuosa di cui all’art. 605 n.2 c.p.p. punita con la pena da uno a dieci anni, operando l’aggravante ad effetto speciale della qualità di pubblico ufficiale (...);14) che potrebbe essere stata consumata una fattispecie di calunnia reale, incolpando Stasi sapendolo innocente o potendo sapere che fosse innocente (...);15) che è interesse del sottoscritto come cittadino e studioso di fatti criminali (...), conoscere come siano andate in realtà le cose (...);16) che non può non confidarsi nella puntualità e precisione dell’Autorità Giudiziaria torinese cui ci si rivolge, giacché esso ha dato già ampia prova di attenzione e sensibilità di fronte alla rappresentazione che nel processo di Cogne avrebbero potute essere fabbricate impronte false (...), non esitò, ad aprire un procedimento penale per calunnia e frode processuale contro lo staff difensivo di Annamaria Franzoni (...);17) che identica è la situazione nel caso in esame. E occorre perciò altrettanta doverosità nell’attivazione di una inchiesta penale per stabilire la verità dei fatti;Chiede che l’Autorità Giudiziaria, adita per la denunziata ipotesi di falso per induzione nei confronti della Procura di Vigevano, voglia aprire un procedimento penale per accertare se le circostanze di cui in premessa siano o non siano corrispondenti a verità.
SERVIVA UN COLPEVOLE A TUTTI I COSTI: HANNO PURE CANCELLATO IL MIO ALIBI DAL PC, scrive Paolo Berizzi per “la Repubblica”. Come si vede che a questo giro sentiva di restare impigliato. Il modo in cui ripone il blocco degli appunti nella cartelletta, la lentezza. La stessa che, sempre in udienza, accompagna il gesto flemmatico, quasi scarico, della mano destra che forse vorrebbe ghermire l’aria e invece si appoggia sul dorso del computer tenuto aperto sul banco. Alberto Stasi raccoglie le forze. Si rivolge, supplicante, ai giudici della Corte. «Non cercate a tutti i costi un colpevole condannando un innocente — li guarda negli occhi — Mi appello alle vostre coscienze, spero mi assolviate». Sette ore dopo, bianco in volto, in piedi e non più a braccia conserte, ricurvo nel pullover verde, ascolta la sentenza che lo condanna a 16 anni per omicidio volontario. Resta immobile, una pietra. Accenna un movimento del capo verso sinistra, dove siede il decano del suo pool di avvocati. Quel professor Giarda, ora ammutolito, che per due volte l’ha tirato fuori dalle sabbie mobili di un destino che forse attendeva solo di compiersi, laggiù in fondo. Poi afferra il giubbotto picot blu e guadagna in fretta l’uscita dell’aula, dietro la gabbia degli imputati. «Sono sconvolto da questa sentenza», dice a caldo l’ex fidanzato di Chiara. Più tardi, lo sfogo coi difensori: «Volevano un colpevole a tutti i costi... Ma io sono innocente e andrò avanti a combattere». Con quali speranze, a questo punto, è da vedere. Il tempo di Stasi sembra fermarsi qui, sette anni e quattro processi dopo l’omicidio che — secondo il pg Laura Barbaini — Alberto ha commesso e coperto con una «messa in scena». Un copione quasi perfetto, disvelato solo alla fine. Sangue e cartapesta, realtà e finzione. Il commercialista per bene che entra ed esce dal corpo dell’efferato killer. Due assoluzioni e quindi, dopo il rinvio stravolgente della Cassazione, la nuova verità, scritta ieri. «Lo Stasi assassino si è mimetizzato dietro lo Stasi scopritore». Ci sono due Alberto. L’assassino che uccide e trascina il corpo di Chiara in corridoio e giù dalle scale per simulare «un incidente», e lo scopritore mimetico che trova il cadavere e balbetta ai carabinieri «la mia fidanzata forse è morta, in casa... ». In mezzo c’è posto per un terzo Stasi. L’avvocato di se stesso. Fino all’ultimo. Ieri mattina, tre minuti dopo mezzogiorno. La presidente della Corte: «Signor Stasi, se lei ha delle dichiarazioni da fare le faccia...». Eccolo. Si alza in piedi. La voce flebile. «Sono quasi otto anni che sono sottoposto a questa pressione, al centro di questo caso. È accaduto a me e non ad altri. Perché? ». Nomina Chiara solo una volta. Per difendersi. «Si sono dimenticati che ero il suo fidanzato... Sono andati avanti a mettermi in mezzo. Sono persino andati a parlare con il mio pediatra...». È il momento più drammatico. Lo Stasi che mimetizza e dissimula, l’esperto di carte che si è studiato tutto il processo, ogni riga di ogni perizia, mette sul tavolo la carta bagnata della disperazione. «Non voglio accusare nessuno... però mi chiedo perché hanno cancellato il mio alibi nel pc? (il riferimento è ai tempi di lavorazione della tesi di laurea: che però come alibi in realtà aveva anche retto, ndr) E perché quest’estate sono stato accusato di avere sostituito i pedali della bicicletta?». È il primo a entrare in aula e l’ultimo a prendere la parola. Ascolta per tre ore le repliche delle parti, prende appunti, legge i file sul computer che tiene aperto a mo’ di lavagna sul banco. Gli serve perché, appena può, sussurra all’orecchio dei difensori: offre spunti, suggerimenti. Lui. «A mano a mano che leggevo i risultati delle evidenze scientifiche, mi convincevo che la verità non poteva non emergere. E questo mi ha dato forza». Diceva così, Stasi, dopo la prima assoluzione. Dicembre 2009. E poi, dopo l’appello del 2011: «Sono contento che un altro giudice, il secondo, abbia deciso che io non c’entro con la morte di Chiara». Gli avevano consigliato di proferire parole sfumate, di questo tenore: «Assolto, sì. Ma questa non è una vittoria. Qui non ci sono né vinti né vincitori. C’è Chiara uccisa, e ci sono io, innocente». Così avevano deciso i giudici in primo e secondo grado. E prima ancora il gip che, dopo quattro giorni in carcere, settembre 2007, l’aveva tirato fuori. «Non è una vittoria anche perché non so nemmeno se Chiara potrà un giorno avere giustizia». Aveva scarsa fiducia nella giustizia l’avvocato di se stesso. C’era, in quelle parole, anche un presagio. Riguardava lui. «So che potrebbe non essere finita, anzi, non credo sia finita qui...». Stasi entra nel lessico banale della vulgata come «il biondino dagli occhi di ghiaccio». La memoria collettiva tiene impressa una foto: a braccetto con la mamma di Chiara, il giorno del funerale. Lo sguardo basso, un caldo cane e lui in camicia abbottonata sui polsi. Siamo a un funerale: di che stupirsi? Di nulla se non saltasse fuori, sette anni dopo, che i carabinieri di Garlasco — uno è a processo per falsa testimonianza — si erano dimenticati di fotografare i graffi che Stasi «scopritore», accorso in caserma, aveva sull’avambraccio. «Si sono accaniti con me perché vogliono un colpevole a tutti i costi». Intanto Alberto fa la sua vita, la vita che va oltre. Si laurea, esce con gli amici, lo fotografano con la nuova fidanzata. Prende casa e studio a Milano dove gira a testa alta con due assoluzioni sul petto. Un giorno di tre anni fa gli apparecchiano una domanda: le capita di pensare che il vero assassino è nell’ombra e forse spera nell’impunità? Risposta: «Il pensiero mi sfiora, ma fa i conti con la mia impotenza di piccolo cittadino che può solo guardare a chi avrebbe dovuto cercare il colpevole altrove».
Il caso Garlasco e l'inesauribile voglia di mostro. A sette anni o poco meno dal delitto, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia. Il clima in cui si celebrerà il processo non promette nulla di buono, scrive su “Il Giornale”. A sette anni o poco meno dal delitto di Garlasco, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia, quella della terza Corte d'assise di Milano. Non sono bastate due assoluzioni a scagionare il fidanzato della vittima, Chiara Poggi, dall'accusa di esserne stato l'assassino. Incredibile la lunghezza del giudizio definitivo. L'imputato, Alberto Stasi, vive in un incubo ogni dì rinnovabile. Domani egli sarà di nuovo alla sbarra, come si dice, per difendersi, poiché la Cassazione, qualche tempo fa, nell'esaminare la sentenza d'appello che lo sollevava da ogni responsabilità, ha ordinato una sorta di riesame. In altri termini, l'appello è da rifare perché i giudici di terzo grado sono convinti che non tutti gli indizi siano stati valutati appieno. Cosicché, nonostante Stasi sia stato processato con rito abbreviato una prima volta (assolto) e una seconda (assolto) con tutti i crismi della legalità, è ancora ai nastri di partenza, come se fino adesso le toghe avessero scherzato. Sette anni sono lunghi da passare. Ma non conta. Il nostro sistema farraginoso prevede sempre la possibilità di rifare tutto. In effetti, si ricomincia. Le torture non finiscono mai. Ricostruire tutti i passaggi processuali, con i vari dettagli, sarebbe per noi un'operazione troppo complicata, noiosa e forse inutile giacché i lettori puntano al sodo. E il sodo è che Chiara Poggi è stata ammazzata in casa sua con un'arma contundente (mai ritrovata). Da chi? Da una persona che conosceva bene, tanto che la mattina di buon'ora le aprì la porta. Che cosa sia accaduto poi in quella villetta non è dato sapere: lite, colluttazione, fuga e inseguimento? Chi può dirlo. È un dato che la ragazza è stata trovata morta al piano terra. Macchie di sangue dappertutto. L'indagine si svolge nel raggio di mezzo chilometro. Chi può essere stato se non il fidanzato? Gli inquirenti puntano su di lui. Come al solito, in vicende di questo tipo, si guarda nell'ambito familiare. Stasi finisce subito in galera gravato da pesanti sospetti. Perché la sera precedente l'aveva trascorsa con lei. Perché qui perché là. Perché lui quella mattina si recò a casa di lei e la scorse morta in fondo alla scala. Perché Alberto telefonò ai carabinieri e la sua voce non tradiva emozione. Insomma, i racconti divulgati dalla stampa e dalle tivù sono interpretati quali indici di colpevolezza. Pochi giorni dopo l'arresto, tuttavia, Stasi viene rimesso in libertà in mancanza di prove. Andiamo veloci. Seguono decine di programmi televisivi che sviscerano ogni dettaglio del giallo; l'opinione pubblica, tanto per cambiare, si divide in colpevolisti e innocentisti. Personalmente, difendo il ragazzo non perché sia simpatico; anzi, è odioso. Ma contro di lui ci sono solamente pregiudizi: ha gli occhi di ghiaccio (in realtà è solo miope), è un tipo strano, ha trascorso un mese a Londra mentre la morosa aveva principiato a lavorare a Milano (uno stage), gli piaceva compulsare il computer laddove c'è del porno. Un sacco di stupidaggini che non c'entrano nulla con l'assassinio. Tra la coppia non vi sono state telefonate in cui si percepiscano liti, non si rintracciano mail in cui emergano liti o battibecchi. Tutto normale, piatto, piattissimo. Non è finita. Lui non si è sporcato le scarpe sulla scena del delitto. Però vi sono sue impronte sul sapone del bagno. Capirai. Uno che frequenta abitualmente la casa della fidanzata si sarà talvolta, suppongo, lavato le mani nel gabinetto. Avete capito? Tutta robetta. Manco una prova. Che dico, una prova, nemmeno mezza. Il movente eventuale? Gli inquirenti si arrampicano sui vetri. Dicono: lei ha scoperto che lui osservava le schifezze sul computer, ecco la causa della lite che ha scatenato la furia omicida di Alberto. Congetture. Se contrasti fra i due ci fossero, non sono stati appurati. E allora? Stasi dal presunto reato di pedopornografia web è stato scagionato. Quindi le porcherie non possono essere state il movente: tra l'altro piacevano anche a lei. Non mancano le elucubrazioni degli avvocati di parte civile che vorrebbero incastrare il giovane, ma sono inconsistenti e, quando si arriva davanti al giudice del rito abbreviato, il professor Angelo Giarda non fatica a far risaltare l'innocenza del suo assistito, Stasi, che viene assolto. Il verdetto di secondo grado è la fotocopia del primo. Basta? Nossignori. La Cassazione rimette tutto in discussione: bisogna approfondire questo e quell'elemento. Le toghe indicano sette od otto punti da verificare. Nel frattempo sono trascorsi sette anni (sette). Siamo al delirio. Ovvio che i genitori di Chiara pretendano che l'omicida sia inchiodato e condannato. Anch'io sono dalla loro parte. Concordo. S'identifichi l'assassino; non ci si accontenti però di punire uno qualsiasi cui addossare a casaccio la colpa di aver ucciso. Come si fa ad accanirsi su un tizio contro il quale non vi sono che oscuri presentimenti e dubbi? Il clima in cui si celebrerà l'ennesimo processo non promette nulla di buono. Trasformare pallidi indizi - mezzi indizi - in elementi probatori è tecnicamente un gioco da bambini per magistrati esperti. Una sentenza di condanna spesso placa le coscienze anziché tormentarle. Questo è il costume italiota. Fossi in Alberto, sarei terrorizzato. Sento puzzo di verdetto pesante. Spero di sbagliare. Il suo destino è nelle mani del professor Giarda, che è un fuoriclasse, ma non un padreterno. Auguri.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
L’appuntamento è nello studio dell’avvocato, il professor Angelo Giarda, scrive Giusi Fasano su “Il Corriere della Sera”. Alberto Stasi arriva con dei fogli arrotolati fra le mani, appunti della sua storia, della sua vita, di questi sei anni e mezzo passati sulla graticola. Li terrà sul tavolo senza aprirli mai. Anche perché conosce ogni riga delle migliaia e migliaia di pagine scritte sul caso Garlasco, il «suo» caso. La fidanzata, Chiara Poggi, fu uccisa la mattina del 13 agosto 2007, lui fu indagato, arrestato e rilasciato dopo quattro giorni, processato e assolto in primo e in secondo grado e adesso è di nuovo sul banco degli imputati perché la Cassazione - caso rarissimo dopo una doppia assoluzione - ha deciso di rimandare tutto in Corte d’appello per un nuovo processo. Ancora sotto accusa, ma stavolta a differenza di sempre, Alberto ha voglia di parlare.
Il 9 aprile si ricomincia, quindi.
«Si riapre la ferita, sì».
Pronto ad affrontare di nuovo tutto daccapo?
«Beh, diciamo che sarò presente in aula come ho sempre fatto. Solo che stavolta non avrò mio padre accanto. Fisicamente, intendo. Perché per il resto lui è sempre con me, anche adesso».
Una malattia fulminante, la morte a 57 anni...
«Se n’è andato il giorno di Natale, ho passato la notte del 24 a guardare su uno schermo un numerino che segnava il suo battito cardiaco. Finché è arrivato a zero...Mio padre ha cominciato a morire il giorno in cui la Cassazione ha deciso di riaprire questo processo».
Sta dicendo che è morto di dispiacere?
«Io sono convinto che la malattia autoimmunitaria che l’ha portato via in pochi giorni sia legata a tutta la sofferenza e lo stress che ha vissuto in questi anni. Ci sono molti studi scientifici che collegano le malattie a situazioni che una persona ritiene ingiuste e lui era devastato psicologicamente dalle accuse contro di me. Sono assolutamente certo che tutto questo lo abbia fatto ammalare nel fisico oltre che nello spirito».
Quando la Cassazione rimandò in appello il processo per l’omicidio di Chiara suo padre disse «sarà un altro massacro mediatico e psicologico». Lei come ricorda quel giorno?
«Ho pianto. Ho pianto moltissimo. lo scriva pure, non mi vergogno di dirlo, sono convinto che l’uomo che non piange mai non sia un uomo ma una macchina. È stato un giorno nerissimo, un incubo che ha provato ad annientarmi, a soffocarmi. Se non c’è riuscito è soltanto perché mi sono stati accanto gli amici, quelli di sempre che non mi hanno mai abbandonato. E poi c’erano i miei genitori che hanno pianto con me e che mi hanno aiutato a ritrovare la forza e la determinazione. Non era una cosa facile, mi creda».
Quindi, per tornare alla domanda iniziale, adesso si sente pronto ad affrontare il nuovo processo d’appello?
«Direi di sì. Gli argomenti contro di me sono sempre gli stessi. Non li ho mai temuti e non c’è ragione di temerli adesso. Sono stato scarcerato da un giudice e sono stato assolto in primo e in secondo grado. Adesso, come le altre volte, torno davanti alla Corte con la coscienza pulita di chi non ha fatto niente. E in più ho in tasca anche l’assoluzione per l’altro processo».
Quello per detenzione di materiale pedopornografico.
«Esatto. Anche lì: ho vissuto quell’infamia per anni e alla fine sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Si rende conto di cosa significa portare addosso l’etichetta del presunto pedofilo? Tante congetture, tante parole e alla fine niente: si sono finalmente accorti che sul mio computer quelle immagini non c’erano mai state. Se penso a mio padre che è morto senza vedermi scagionato per sempre da quell’infamia...».
Torniamo all’omicidio di Garlasco. Se i giudici decidessero di farla tornare a casa di Chiara per una nuova perizia avrebbe il coraggio di andarci?
«Vedremo. Decideremo ogni cosa con gli avvocati quando sarà il momento. L’aspetto emotivo di un eventuale ritorno in quella casa credo possa capirlo chiunque...».
Nel processo che partirà il 9 aprile c’è un capello mai analizzato, ci sono elementi da valutare daccapo, i giudici invocano una «corretta lettura dei dati probatori». E se quella lettura non fosse più a suo favore?
«Io sono innocente, quindi sono tranquillo. Possono valutare e rileggere tutto di nuovo anche mille volte. Servirà solo a confermare che non sono io l’assassino».
Mi parli di Chiara.
«Ci penso sempre e ogni volta cerco di ricordarla nei nostri momenti felici, non come l’ho vista quella mattina sulle scale. Quell’immagine resta un marchio perenne nella mia memoria, un trauma che mi segnerà per sempre. Vado ogni settimana a trovarla al cimitero. La cappella di famiglia è aperta, qualche volta entro, le parlo, vado a trovarla come si fa con una persona alla quale si vuole molto bene ma che non è più qui».
Se pensa a lei, adesso, cosa le viene in mente?
«Il suo sorriso e la sua allegria che erano contagiosi. Aveva il dono della gioia, era straordinaria».
I genitori di Chiara, dopo i primissimi tempi, hanno rotto i ponti con lei...
«Loro hanno la loro linea e io non voglio forzarli. Hanno detto più volte di non volere contatti con me e io rispetto la loro decisione. I nostri rapporti sono sospesi, per adesso. Non li ho mai incrociati nemmeno al cimitero. Quando il processo sarà finito magari torneremo a parlarci».
Ci torna spesso a Garlasco?
«Sì, certo. Garlasco rimane la comunità della mia infanzia, dei miei amici, della mia vita. E poi adesso devo stare vicino a mia madre più che mai e quindi ci torno spesso, sì. Lo so, è un luogo un po’ di provincia, ma io non aspiro a nient’altro che a un’esistenza normale, quindi anche la dimensione provinciale va bene. Basti pensare che sogno una vita con tanti bambini...li adoro. Ma sulla mia vita privata non voglio dire altro, girano fin troppi pettegolezzi».
Provi a immaginare il suo futuro. Ci pensa mai all’ipotesi di una condanna?
«Ci penso, certo. E vivo tutto questo con una paura enorme, non perché ho fatto qualcosa di male ma per i possibili errori giudiziari che un processo come questo può generare. Del resto non sarebbe la prima volta...per me sarebbe una vita annientata, azzerata».
Cosa ricorda dei suoi quattro giorni di carcere nel 2007?
«Non voglio nemmeno ripensarci. Lasciamo perdere. Io credo che non sia possibile capire fino in fondo come si sta nei panni di un accusato ingiustamente se non si è passati per la stessa esperienza. È come avere il cancro, solo chi lo prova può dire veramente come ci si sente».
Mai capitato che la fermassero per strada degli sconosciuti per dirle qualcosa sull’omicidio?
«Per fortuna mai per insultarmi. Al contrario mi hanno fermato più volte per dirmi di tenere duro. L’ultima volta che ricordo è stato con i miei, pochi mesi fa. Siamo andati a San Giovanni Rotondo, in pellegrinaggio da Padre Pio di cui mio padre era molto devoto. Mi ha avvicinato una signora che mi ha riconosciuto e mi ha detto: vedrai che andrà tutto per il meglio. Mi ha fatto piacere».
Alberto tira in continuazione le maniche del maglioncino verde con le righe bianche al livello dei polsini («lo so, fa molto british» dice lui). Racconta del mezzo esame appena superato per diventare commercialista («sto studiando molto per la seconda parte»). Prova a immaginare i tempi della prossima sentenza («entro l’estate forse ce la facciamo»). E pensa a una sola parola: «assoluzione. Ce la devo fare per un motivo molto semplice: non sono un assassino. E poi perché lo devo a mio padre che non c’è più, a mia madre che vive per me e a Chiara che non avrà giustizia finché ci sarò io sul banco degli imputati».
Arrotola i fogli che aveva in mano quando è entrato. Saluta e ricorda del tempo in cui non c’era giorno senza la sua fotografia in prima pagina o il suo nome nei titoli dei telegiornali.
«Quante volte ho sentito dire “occhi di ghiaccio”, serviva a creare l’immagine del cattivo... Che vuol dire? E poi ghiaccio fa venire in mente occhi azzurri, e invece guardi: i miei sono verdi...».
Garlasco, lite tra carabinieri sul delitto irrisolto. Dopo l’assoluzione di Alberto Stasi, si torna a parlare del delitto di Garlasco in cui nell’agosto del 2007 è rimasta uccisa Chiara Poggi, scrive “Blitz Quotidiano”. A far discutere sono delle accuse rivolte nei confronti del maresciallo Marchetto che punta il dito contro il capitano Cassese. Quest’ultimo, secondo il maresciallo, gli avrebbe impedito di proseguire l’interrogatorio con Stasi per far confrontare il sospettato con i famigliari. Il contrasto è sfociato in una denuncia contro Casese, e successivamente nella controdenuncia, chiesta dalla Procura, nei confronti di Marchetto. Secondo il maresciallo, il suo superiore quel 13 agosto 2007 avrebbe “compromesso” le indagini. La tesi è che lui venne estromesso (e quindi l’interrogatorio di Alberto Stasi finì senza che si scoprisse la verità) e che da lì in poi il capitano divenne, a suo dire, un nemico e persecutore. La denuncia è scritta in quattro pagine contro Cassese che tirano in ballo anche presunti abusi d’ufficio. Il pubblico ministero a cui è finita la denuncia, ha deciso che la questione fosse “tutta da archiviare”. Ma il maresciallo Marchetto si è opposto e il giudice delle indagini preliminari non ha ancora deciso il da farsi. Intanto però, la procura di Vigevano ha inviato una controdenuncia con richiesta di rinvio a giudizio per Marchetto. L’accusa, fra i vari capi d’imputazione, è di aver calunniato il suo superiore. Il solo a non aver fatto nulla è il capitano Cassese, il quale rimane a guardare e aspetta che decidano i giudici. Il maresciallo, secondo quanto pubblicato su “Menti Informatiche”, riassumerebbe la sua denuncia così: lo stavo incalzando. Ancora un po’ e avrebbe ceduto. Peccato che a un certo punto arrivò il capitano a interrompere l’interrogatorio, sennò avrebbe detto tutta la verità… Siamo a Garlasco, 13 agosto 2007. Un giorno che va raccontato dall’inizio. Il maresciallo dei carabinieri Francesco Marchetto è fuori sede per il suo turno di riposo. Nella piccola caserma della Lomellina il capitano Gennaro Cassese affronta ore di afa che più afa non si può. Succede sempre poco o nulla nella provincia pavese. Figurarsi ad agosto… Nulla. Finché non chiamano dal 118. Un certo Alberto Stasi, dicono, aveva appena telefonato: «Credo che abbiano ucciso una persona, non sono sicuro. Forse è ancora viva…». «Lei è un parente?» aveva chiesto l’operatrice. «No, sono il fidanzato ». Un delitto. Anzi, per Garlasco è «il» delitto. Chiara Poggi, 26 anni, uccisa a casa sua da qualcuno che l’ha colpita fino a sfondarle la testa. E il fidanzato Alberto sospettato, interrogato, poi indagato, arrestato, rilasciato, processato e alla fine assolto sia in primo grado sia in appello (Cassazione fissata per il 5 aprile 2013). Ma questa è storia più recente. Per scrivere la denuncia e dire (fra le mille altre cose) che il suo superiore avrebbe «compromesso» le indagini, invece, il maresciallo Marchetto punta tutto su quel 13 agosto 2007. In sostanza la tesi è che lui venne estromesso (e quindi l’interrogatorio di Alberto Stasi finì senza che si scoprisse la verità) e che da lì in poi il capitano divenne, a suo dire, un nemico e persecutore. Quattro pagine di veleno contro Cassese che a parte l’omicidio ancora irrisolto tirano in ballo anche svariati presunti abusi d’ufficio. «Tutto da archiviare» secondo il pubblico ministero. Ma il maresciallo Marchetto si è opposto e il giudice delle indagini preliminari non ha ancora deciso il da farsi. Mentre ha deciso la procura di Vigevano: controdenuncia, inchiesta e richiesta di rinvio a giudizio per lui, Marchetto. Accusato di aver calunniato il suo superiore (e non è l’unico capo di imputazione). Il solo a non aver mosso nemmeno una pedina giudiziaria è il capitano Cassese. Niente. Rimane a guardare e aspetta che decidano i giudici. Ma torniamo al delitto di Chiara Poggi. Scrive il maresciallo nella sua denuncia: «Così come quel tragico evento ebbe a rovinare la vita di una normale famiglia e a scuotere una intera comunità di provincia, anche la mia vita ne è stata indelebilmente segnata e qui è corretto che io ripercorra quanto occorsomi…. ». Ecco. Ripercorriamo. «Quel giorno ero di riposo settimanale ma feci immediato rientro nel pomeriggio tardo (…). In caserma c’era il capitano Cassese (…) e il signor Alberto Stasi si trovava in sede di interrogatorio. Chiesi al pubblico ministero se potessi anch’io porre due domande a Stasi e la dottoressa Musciome lo concesse. Entrai nella stanza e a differenza dei miei colleghi che lo facevano parlare senza interromperlo, per loro scelta omodus operandi, io iniziai a incalzarlo e notai subito, sia per peculiare somatica dello stesso (ovvero comportamento) oltre che per le risposte date, che qualcosa non tornava e a tal punto uscii dalla stanza e lasciai Stasi solo con il brigadiere e conferii immediatamente con la dottoressa Muscio». Marchetto disse al pubblico ministero che sarebbe tornato da quel ragazzo e avrebbe ripreso a incalzarlo «e nel caso » avrebbe «richiesto il fermo». La confessione gli sembrava cosa fatta, in pratica. Solo un po’ di pazienza. «Ma rientrato in ufficio venivo interrotto dal capitano Cassese — dice nella denuncia— che invece faceva accomodare fuori dall’ufficio il signor Stasi dandogli la possibilità di confrontarsi con i suoi familiari». Il risentimento del maresciallo verso il capitano cominciò in quel momento. Che errore, tiene a precisare, offrire a Stasi quella pausa con i familiari… «Lascio comprendere a chi se ne intende di polizia giudiziaria cosa possa significare una tale azione», considera Marchetto, che aggiunge: «A quel punto avevo già compreso dopo anni di polizia giudiziaria attiva che di fatto era stato compromesso l’esito di tale operazione e lo feci presente “a tu per tu” al capitano Cassese. Da quel momento il mio rapporto amichevole e fiduciario con lui cessò e lo stesso mutò il suo comportamento, che divenne puro odio e continua istigazione finalizzata alla persecuzione ». Persecuzione: la stessa parola che avrà pensato chissà quante volte per se stesso anche Alberto Stasi.
Caso Stasi: teletrasporto quantistico con Manzoni rivisitato, scrive il 29 dicembre 2015 Gilberto Migliorini su "Albatros Volando Controvento". Nel famoso esperimento (mentale) del gatto di Schrödinger si suppone che il felino si trovi in stato di sovrapposizione: contemporaneamente vivo e morto (entangled). Si sa… la meccanica quantistica è controintuitiva, lì il buon senso sembra venir meno con quegli strani paradossi di particelle che conservano in contemporanea la duplice natura corpuscolare e ondulatoria. È l’osservatore che sembra risolvere il principio di sovrapposizione e la connessa interferenza inducendo il sistema ad assumere uno stato determinato. Il declassamento della fisica classica e del determinismo comporta una interpretazione probabilistica. Ciò che supera l’entanglement è proprio quella misura che "costringe" il sistema a passare in maniera definitiva nello stato a o b. Da quel momento, la sovrapposizione è sparita e si parla di collasso della funzione d'onda. Comunque si guardi l’esperimento e comunque lo si valuti, in forma ristretta al campo microscopico o esteso a quello della quotidianità, si direbbe che la realtà oggettiva non esiste più. Il ruolo dell’osservatore non è più solo quello di una registrazione passiva di un evento. Si tratta della violazione del realismo locale e dell’oggettività della fisica classica. Quando si parla di osservatore in realtà si indica qualcuno o qualcosa di indefinito. Potrebbe trattarsi di un soggetto umano, di un androide, di una macchina dotata di un software adeguato… e perfino di un sistema giudiziario dotato di sorprendente ubiquità, per il quale un imputato è contemporaneamente sia colpevole che innocente. Il povero Alberto Stasi assomiglia davvero a una particella quantistica che viola il realismo locale, non solo per quel ragionevole dubbio che oramai è solo una questione di lana caprina, residuo di quel principio di non-contraddizione ormai obsoleto. Che in due gradi di giudizio l’imputato sia stato dichiarato innocente non comporta il dubbio che potrebbe trattarsi di persona completamente estranea al delitto? C’è da chiedersi in quale modalità il dubbio debba trovare espressione per essere derubricato come ragionevole. In fondo la ragionevolezza è non solo questione di libero convincimento di chicchessia, ma anche un criterio filosofico sul quale si potrebbe disquisire a lungo come riguardo al sesso degli angeli. Per la suprema corte di cassazione l’entanglement, il fantasmatico paradigma dell’azione a distanza (istantanea), può violare la relatività ristretta con velocità super luminare, sia riguardo a quella dinamica pressoché istantanea con la quale è avvenuto il fatto delittuoso, con un immediato recupero dell’aplomb dell’assassino, seguito da un proficuo e instancabile lavoro sulla tesi di laurea, come se il delitto fosse stato solo un intermezzo, il classico break o pausa pranzo. Nemmeno Superman sarebbe riuscito nell’impresa non dico senza tempi morti, ma perfino con olio di gomito e pedalando più veloce della luce. Forse Mefistofele senza farsi distrarre dal crimine appena consumato, in quanto per lui normale amministrazione, sarebbe riuscito nell’impresa di coordinarsi al computer con alacre vena produttiva e senza prendersi neppure una boccata d’aria? Da un po’ di anni si va affermando il nuovo paradigma nella giustizia italiana, quello per dirla in modo più prosaico del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda del punto di vista dell’osservatore. La realtà fisica oggettiva non può preesistere riguardo ai procedimenti di misurazione: siamo in pieno principio di indeterminazione. Alberto Stasi non aveva le scarpe sporche di sangue. Già una prova di colpevolezza al negativo fa una certa impressione, sembra di trovarsi a disquisire dell’isola che non c’è. E poi se proprio di logica perversa e criminale vogliamo parlare, che bisogno aveva il ragazzo di dire di aver scavalcato il cancello se era davvero lui l’assassino? Di alternative - per uno che a detta dei colpevolisti (anche sulla base del suo sguardo fotografato di sbieco) era davvero diabolico - ne avrebbe avute a iosa. Che poi anche riguardo sulle scarpe dei carabinieri non ci fosse traccia di sangue non sembra aver impressionato il verbo colpevolista. Che dunque il sangue fosse già secco nella calura agostana non rappresenta neppure il proverbiale dubbio cartesiano. Di quale altra natura avrebbe dovuto essere l’entanglement per instillare nella testa del giudice un tarlo logorante, un dubbio atto a farlo desistere da una condanna? Mistero. Se le scarpe non erano sporche di sangue allora il diabolico assassino se le è cambiate. Il ragionamento non fa una grinza, secondo il collasso della funzione d’onda che nella fattispecie è proprio quella dell’osservatore che misura l’evento. Va da se che i procedimenti induttivi come si sa (vedi il popperiano tacchino di Russell) sono in genere suscettibili di clamorose cantonate. Ricostruire una camminata in condizioni di umidità e pressione atmosferica, di modalità di deambulazione, di stato emotivo in rapporto alla distribuzione dei pesi e delle falcate, se sulle punte per quei normali automatismi inconsci di fronte a una situazione di ansia e incertezza, per poi ricostruire il tutto con una memoria impressionata dallo stress postraumatico per la morte di una persona cara… è qualcosa che richiederebbe una mente onnisciente e una memoria da super computer fotonico. Sembra che molti dimentichino che in un delitto non ci si trova nella situazione da laboratorio dove tutte le variabili sono tenute sotto controllo, ma in una complessità di fattori che per quanto abile sia l’investigatore sono per lo più fuori dalla portata del classico metodo sperimentale. Il ragionevole dubbio sembrerebbe a un’anima non onnisciente del tutto plausibile, anzi piuttosto consistente in mancanza di qualche prova che non sia tirata per i capelli. Come per ogni ragionamento si potrebbe perfino effettuare il suo inverso in ossequio al principio di ragionevolezza, ispirato alla logica e alla antropologia giuridica. Il sillogismo più che un ragionamento è una affermazione evidente nelle premesse (non sempre) e nella conclusione (qualche volta) e dove il processo mentale che porta da a (la premessa) a b (la conclusione) può essere evidente per Caio ma non per Sempronio, nel senso che la plausibilità delle conclusioni non fa fede della loro verità essendo basate essenzialmente sulla dialettica e sulla retorica (nuovamente il ruolo del soggetto). Se le scarpe di Stasi fossero state trovate sporche di sangue l’investigatore e il giudice avrebbero concluso dell’innocenza dell’imputato e che lo stesso avesse trovato il cadavere post factum? Direi proprio di no. Il ragionamento inverso sarebbe stato pronto all’uso per arguire magari con ancora più forza il criterio di colpevolezza. Il sillogismo basato su premesse apodittiche è sempre double face, avrebbe potuto seguire un ragionamento del tipo: i carabinieri non hanno sporcato le scarpe di sangue perché ormai già secco e perché comunque i pochi residui eventualmente rimasti si sarebbero dissolti con la camminata. Dunque se l’imputato ha le scarpe sporche di sangue significa che è proprio l’assassino della povera ragazza, ovvio che se le è sporcate non quando dice di aver scoperto il cadavere, ma proprio quando si è trovato nell’immediatezza del delitto, cioè quando ha ammazzato e il sangue era ancora fresco. In campo giuridico è proprio come trovarsi in un acceleratore di particelle con l’entanglement quantistico e il classico dualismo onda-particella. Il ruolo dell’osservatore è insostituibile. Nella fattispecie l’indizio è qualunque cosa riguardi un individuo considerato come sospetto, in quella evenienza tutto, proprio tutto, può essere derubricato come segno rivelatore. Che tizio abbia cucinato le uova al burro o si sia fatto la doccia, che sia andato al camposanto a far visita ai defunti o non abbia telefonato alla moglie… tutto assume rilievo in quanto il soggetto è indagato e la prova non è altro che la concatenazione dove l’osservatore fa collassare la funzione d’onda. All’occorrenza una volta sotto la lente del sospetto non esiste fatto (e perfino omissione) che non possa essere derubricata come indizio, e non esiste indizio che non possa trasformarsi in prova attraverso un sillogismo induttivo (il famoso tacchino di Russell). Se il povero Alberto avesse avuto le scarpe sporche o pulite sarebbe stato inguaiato in entrambi i casi? Nella logica del sillogismo giuridico, delle belle macchie di sangue sulle scarpe dell’aspirante colpevole avrebbero fatto un effetto meno suggestivo sulla platea mediatica e sul giudizio forense? Il caso Stasi è emblematico di un sistema giudiziario che ormai ha perso il senso della realtà? Si tratta di un organo giudicante o di un conclave cardinalizio? L’indecisione di tanti processi dagli esiti contraddittori, ispirati secondo i liberi convincimenti dei giudici, trova esito in una sentenza definitiva ispirata dallo Spirito Santo? Nel chiuso della torre d’avorio arzigogolata nelle circonvoluzioni ciceroniane si porta a compimento una condanna che si regge non si sa bene su quale teorema, ma che ha tutti i sacri crismi della verità disvelata, il giudizio universale dell’ultimo giorno. Sembrerebbe una logica di elementi che inchiodano con i contorsionismi di un prestigiatore: la valigetta piena di incantesimi, modulati a seconda del grado di giudizio e del consulente di turno. Ma il problema sono davvero i media in quanto tali e la logica della vendita di un prodotto editoriale, o si tratta invece di una informazione come supporto del surrettizio sistema del consenso? Il pubblico vive emotivamente il cold case come una sorta di spettacolo inconsciamente sostitutivo, con un imputato che assume i caratteri organolettici del colpevole (o dell’innocente) a seconda del grado di empatia e del livello di consonanza nel contesto psico-sociale indotto mediaticamente. Basta poco, magari la notizia dell’ultima ora su qualcosa come nucleotidi o mitocondriale, e un imputato si trova rivoltato come un calzino… da innocente a colpevole (o viceversa). L’opinione pubblica cambia il suo orientamento allo stesso modo di quando va a votare, sull’onda della notizia dell’ultima ora, magari costruita da una ingegneria mediologica che riesce a mimetizzarsi tra gli spot. La propaganda subliminale non sempre ha bisogno dell’evento d’impatto emotivo. Si tratta di offrire alla platea mediatica una sorta di compensazione per le ingiustizie e i soprusi dilaganti, di fornire il surrogato di un "colpevole" buttato sul proscenio per impersonare il ruolo di capro espiatorio del dramma nazional-popolare? Il disagio e le contraddizioni sociali hanno bisogno di attori che diano forza immaginifica ai procedimenti giudiziari, di figure emblematiche che assurgano al ruolo di protagonisti in vicende che ricordano quel manzoniano processo agli untori, figure che siano in grado di impersonare il colpevole e di convogliare e scaricare le tensioni del corpo sociale. La società italiana sembra pervasa, più o meno inconsciamente, da una costante ricerca di un capro espiatorio, di qualcuno su cui sfogare il malessere di un Paese dove le ingiustizie e le inadempienze costituiscono la regola costante di un sistema del malaffare in tutte le sue manifestazioni. La peste in fondo è più che altro una metafora, quella dove ognuno può rappresentare la colpa e la pena del quotidiano mestiere di vivere. Tanti personaggi che popolano l’etere, in quell’organigramma fatto di casi di cronaca nera, sembrano il risultato di procedimenti mediatici, colpevoli costruiti assemblando i classici indizi, sponsorizzati come tali anche quando si tratta soltanto di aria fritta. Ma la fenomenologia mediatico-giudiziaria è soprattutto di natura protocollare, come risposta convenzionale e perfino inconscia al grido di dolore che sale dal paese. La retorica e la demagogia sono così care a tutto un sistema che sponsorizza i casi edificanti e… le colonne infami. Il malessere potrebbe portare a risposte fuori controllo e comunque non auspicate da un sistema di potere che richiede stabilità, anche sul piano affettivo e passionale. Occorre incanalare l’aggressività, scaricare opportunamente le emozioni del corpo sociale in modalità controllate. I processi mediatici costituiscono il propulsore di interessi che utilizzano le spinte irrazionali e le pulsioni di una opinione pubblica spesso in balia delle sue illusioni metafisiche. Si tratta di automatismi istituzionali in parte inconsapevoli, perfino promossi in buona fede, procedimenti costruiti con una logica passepartout che trova sempre il sillogismo adatto per indicare il colpevole. Ma si tratta anche di formule programmate, dettate da una accorta regia che dà in pasto all’opinione pubblica il suo osso da rosicchiare, con un colpevole virtuale che deve fungere da parafulmine e da vittima sacrificale, proprio nell’aforisma manzoniano a chi la tocca la tocca, una peste che è la sventura di essere individuati come l’aspirante assassino che fa alle bisogna. Il processo prima ancora che mediatico è una costruzione fantasmatica che rappresenta l’effetto scenografico che scarica le frustrazioni e fornisce risposte tranquillizzanti a un corpo sociale che ha bisogno di dare consistenza di realtà a rabbia e sofferenza: trovare un responsabile acclarato per il quotidiano disagio sociale ed esistenziale. Il caso di cronaca nera che dà un volto al colpevole viene dunque propiziato e incoraggiato mediaticamente. Ma si tratta anche di quell’inclinazione all’accomodamento, alla Don Abbondio, quella attitudine ad adeguarsi alle circostanze. Se un presunto colpevole è lì a portata di mano nel classico chi se non lui?, chi lo fa fare di darsi pena a cercarne un altro? Il pubblico poi si accontenta di quello che viene sponsorizzato e al quale si sente affezionato, se non altro per il fatto che i media l’hanno così a lungo tenuto in grembo e partorito con un lungo e doloroso travaglio. Non è un caso che ci siano processi che durano lustri in un via vai di assoluzioni, condanne, assoluzioni e poi ancora condanne… uno stillicidio per l’imputato, ma un’occasione straordinaria e irripetibile per fornire all’utenza mediatica la bambola vudù sulla quale operare l’incantesimo, il trainer personale con il quale dare sfogo ai propri fantasmi ossessivi. Quel ragazzo condannato sulla base di una silloge di inferenze assiomatiche e di sillogismi dalle premesse indimostrate, costituisce non solo un abbaglio di una giustizia condizionata mediaticamente, ma anche l’attualità di quella storia della colonna infame manzoniana che meriterebbe una rilettura anche da parte di coloro che sono sempre pronti a giurare sulla colpevolezza di un qualunque imputato.
Alberto Stasi, un retroscena dal carcere: parlano di tasse, diventa una "belva", scrive di Franco Bechis il 22 dicembre 2015 su “Libero Quotidiano”. Alberto Stasi dopo la condanna a 16 anni per l'assassinio della sua fidanzata Chiara Poggi a Garlasco si è consegnato subito al carcere modello di Bollate per l'espiazione della pena. Il giorno dopo è andato a trovarlo un parlamentare del Pd, Giacomo Portas, che è anche a capo del movimento de I Moderati. Lo ha trovato incredibilmente sereno e tranquillo, vista la situazione. Poi però Stasi gli ha chiesto: «Cosa fa in Parlamento? Di che si occupa?». E Portas: «Sono presidente della commissione bicamerale sull'anagrafe tributaria, mi occupo soprattutto di fatturazione elettronica e di tasse...». Non l'avesse mai detto. Stasi, che durante i vari processi ha iniziato a fare il commercialista, si è messo subito a discutere di tasse. E più ne parlava, più diventava una belva: «Prenda l'Imu, cosa dobbiamo fare noi commercialisti? Avete cambiato le regole otto volte in sette anni. Un casino. Non parliamo poi delle proprietà indivise dei separati o divorziati. Le regole sono confusissime, non si riesce a venire a capo di nulla. In Parlamento sembrate godere a complicare la vita a noi professionisti...». Un diluvio di domande, chiarimenti e vibrate proteste. «Non riuscivo più a venire via, saremo stati un'ora e mezzo a discutere - racconta Portas - quel ragazzo ha una vera passione per il fisco...».
Alberto Stasi, lettera dal carcere: «Io come Enzo Tortora». In cella a Bollate dal 12 dicembre scorso dove dovrà scontare i suoi 16 anni di pena, dopo la condanna inflittagli dalla Cassazione per aver ucciso la fidanzata Chiara Poggi, scrive il 31 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Caso chiuso per il delitto di Garlasco che ha visto come vittima la giovane Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto nel 2007. Il fidanzato Alberto Stasi, 32 anni, è stato condannato in Cassazione a 16 anni di carcere. Dopo la sentenza definitiva, portato a Bollate, cella 315, reparto I, ha continuato a dichiararsi innocente: «Non me lo aspettavo, sono innocente, non ho ucciso io Chiara». Anche nella lettera scritta al Quotidiano Nazionale. Ha riempito — in stampatello — sei facciate di fogli protocollo, una lucida autodifesa dall’accusa di aver commesso l’omicidio della fidanzata. «Non è facile per un innocente che attendeva i giorni della sentenza con la speranza di ritornare libero, entrare in carcere. Sto cercando di inserirmi nella realtà carceraria. Il lavoro svolto da educatori, volontari e direzione penitenziaria è encomiabile. La vita di un detenuto non è solo una condizione fisica, ma è anche (e soprattutto) mentale: il corpo può essere ristretto, la mente no. Non mi sento un detenuto. Mi sento un prigioniero», scrive. La sentenza, secondo Stasi, era già stata scritta dai giornali e dai media, che avrebbero così condizionato le sentenze dei giudici. «Io come Sacco, Vanzetti e Tortora», spiega, parlando di «perniciosa spettacolarizzazione», citando il commento del procuratore generale in Cassazione: «I fatti e le carte hanno sempre provato la mia innocenza e le nuove perizie fatte l’anno scorso avevano rafforzato questa verità», prosegue. «Questo era il processo; io ho sempre saputo di essere innocente. Non nascondo di avere temuto l’assurdo epilogo che oggi sto vivendo, visto l’incomprensibile iter processuale che ho dovuto vivere». E poi il paragone che fa discutere: «In situazioni come queste, le persone vengono esibite come trofei alzati al cielo dopo una vittoria. È sempre stato così e sempre sarà, da Sacco e Vanzetti a Tortora». «Questi otto anni — conclude — mi hanno lasciato moltissime cose che mi porterò sempre dentro: la perdita di Chiara, con cui avrei voluto una vita insieme, la morte di mio padre, che è sempre stato al mio fianco, le tante difficoltà e ingiustizie, non ultimo l’allontanamento da mia mamma, che ora si ritrova da sola. Però in questi giorni tra tutti i miei pensieri ne prevale uno: un forte dubbio di non vivere in uno Stato di diritto». L’ex studente della Bocconi, nei giorni scorsi, attraverso il suo legale aveva raccontato il suo primo Natale dietro le sbarre: «Il carcere è un mondo parallelo. Nei quattro giorni che ho passato in quello di Vigevano non riuscivo a vedere l’orizzonte. Qui, almeno, sono al terzo piano, e lo vedo insieme con tutto il mondo di fuori». Una giornata resa ancora più dolorosa dal ricordo del padre, Nicola, scomparso il giorno di Natale di due anni fa. In questi giorni sta leggendo «Il piccolo principe», ricevuto in regalo, e le numerose lettere che arrivano da sconosciuti che esprimono solidarietà. Nei primi giorni Stasi ha chiesto ai tre compagni di cella — un italiano e due montenegrini — che il televisore rimanesse spento. «Sono stati — ha raccontato — molto gentili. Quando sono arrivato mi hanno aiutato a fare il letto, mi hanno prestato un accappatoio perché non l’avevo». Laureato alla Bocconi con il massimo dei voti, in seguito alla condanna dell’appello “bis” aveva perso il lavoro da commercialista e negli ultimi tempi aiutava la madre nella gestione dell’impresa di famiglia di autoricambi. Nei prossimi mesi potrebbe arrivare per lui la radiazione dall’Albo dei Commercialisti in seguito alla condanna definitiva. Un problema in più per quando, in futuro, potrà essere autorizzato al lavoro esterno. Prima di entrare in carcere, aveva consegnato all’ avvocato Giada Bocellari, che in questi ultimi anni gli è stato vicino, un messaggio di affetto postato su Facebook e indirizzato al prof. Angelo Giarda, al figlio Fabio, all’avv. Giuseppe Colli, ai consulenti e a chi lo ha aiutato: «Grazie a tutti, vi voglio bene».
Garlasco, Alberto Stasi: io, vittima come Tortora. "I giudici volevano un colpevole". Scrive al Qn dal carcere di Bollate: "Ricevo lettere da tutta Italia", scrive Gabriele Moroni su "Il Quotidiano Nazionale" del 31 dicembre 2015. Una lettera dal carcere di Bollate. Alberto Stasi scrive al nostro giornale. Lo fa riempiendo, in stampatello, sei facciate di fogli protocollo. Non è solo una lettera: è un memoriale, l’appassionata, lucida autodifesa del commercialista 32enne che la Cassazione ha definitivamente condannato a 16 anni di reclusione per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, il 13 agosto 2007, a Garlasco. Si è cercato il colpevole per il colpevole, sostiene Stasi, e da un processo mediatico è uscito il verdetto di condanna. Per questo non si sente un detenuto ma un «prigioniero». «Mi sembra – scrive Stasi – che in casi come il mio si voglia a tutti i costi consegnare un colpevole all’opinione pubblica, senza però preoccuparsi se colui che viene indicato come tale sia effettivamente il colpevole e non una vittima di errate decisioni e aspettative. Non dimenticherò mai le parole di un ex magistrato, che alla domanda su cosa pensasse dei processi mediatici rispose: ‘il peggio possibile’. Disse che tale fenomeno condizionava sensibilmente il magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in tv da colleghi togati, giornalisti ed esperti poiché l’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima». «La mia speranza, ancora oggi, è che tutti si possano rendere conto della condizione in cui vengono a trovarsi persone che come me, a causa di questa malsana tendenza a condizionare i processi celebrandoli, prima e male in tv, si trovano a essere giudicati in modo errato rispetto a quella che è la realtà. Ho saputo che nel mio caso – continua – la tematica è stata affrontata anche nella requisitoria del procuratore generale in Cassazione, il quale ha evidenziato come la mia vicenda processuale sia stata oggetto di ‘una perniciosa forma di spettacolarizzazione’ attraverso ‘quei processi in tv che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di questa vicenda». Ha atteso il finale di partita «con l’intima (vana speranza) di un epilogo secondo giustizia e di un ritorno a una vita normale, se così poteva essere chiamata dopo l’incubo vissuto per più di otto anni». Speranza alimentata dalla circostanza che il pg di Cassazione, «con apprezzabile e non comune onestà intellettuale» aveva chiesto l’annullamento dell’unica condanna. Cosa è intervenuto a cambiare il suo destino giudiziario, dopo due assoluzioni? Nulla, secondo l’ex bocconiano. «La sentenza che mi aveva condannato l’anno scorso portava con sé grandi e grossolani errori, in quanto non vi erano elementi che facessero di me un colpevole. I fatti e le carte hanno sempre provato la mia innocenza e le nuove perizie fatte l’anno scorso avevano rafforzato questa verità. Questo era il processo; io ho sempre saputo di essere innocente. Non nascondo di avere temuto l’assurdo epilogo che oggi sto vivendo, visto l’incomprensibile iter processuale che ho dovuto vivere. In ogni caso, ho preso atto della decisione e, nel pieno rispetto della stessa, ho deciso di costituirmi immediatamente, senza nemmeno attendere l’ordine di carcerazione. Devo dire che chi mi era vicino in quel tragico momento ha fatto in modo che io non dovessi anche prestare il fianco a ulteriori speculazioni, come io stesso ho sempre cercato di fare. Del resto, in situazioni come queste, le persone vengono esibite come trofei alzati al cielo dopo una vittoria. È sempre stato così e sempre sarà, da Sacco e Vanzetti a Tortora». Una riflessione su cosa significhi essere in una cella. «Non è facile per un innocente che attendeva i giorni della sentenza con la speranza di ritornare libero, entrare in carcere. Sto cercando di inserirmi nella realtà carceraria. Il lavoro svolto da educatori, volontari e direzione penitenziaria è encomiabile. La vita di un detenuto non è solo una condizione fisica, ma è anche (e soprattutto) mentale: il corpo può essere ristretto, la mente no. Non mi sento un detenuto. Mi sento un prigioniero». La volontà di resistere. «Non voglio cedere allo sconforto, se non altro per le persone che amo e che non mi hanno mai lasciato solo. Benché io sia esausto, mi auguro di trovare la forza per resistere e ricominciare, passo dopo passo, quella forza che solo un innocente in cuor suo può avere in questa situazione». Dopo otto anni. «Questi otto anni mi hanno lasciato moltissime cose che mi porterò sempre dentro: la perdita di Chiara, con cui avrei voluto una vita insieme, la morte di mio padre, che è sempre stato al mio fianco, le tante difficoltà e ingiustizie, non ultimo l’allontanamento da mia mamma, che ora si ritrova da sola. Però in questi giorni tra tutti i miei pensieri ne prevale uno: un forte dubbio di non vivere in uno Stato di diritto». La vicinanza della mamma, di parenti, «di persone che non conosco e che mi scrivono da tutta Italia. Ricevo tantissime lettere di conforto e vorrei ringraziarli di cuore». La conclusione: «Affido i miei pensieri, i pensieri di un uomo di cui fuori si parla tanto, ma senza mai sapere cosa davvero prova».
PARLIAMO DI SONDRIO
SONDRIO E LA MAFIA.
La mafia in Lombardia. La denuncia arriva dalla Commissione antimafia del Parlamento Europeo: «Non esiste un solo grande cantiere pubblico lombardo che non abbia problemi di criminalità e che non sia stato oggetto di un provvedimento di interdizione da parte dell'Antimafia». Tra le opere "infiltrate" i primi cantieri legati ad Expo, Brebemi, Tav e Pedemontana. Un vero e proprio bollettino di guerra quello emerso dalle audizioni della Commissione europea con i vertici della Procura e delle forze dell'ordine. Secondo i dati forniti sono oltre 140 i provvedimenti interdittivi e di esclusione di imprese dai principali cantieri pubblici lombardi. In alcuni settori come la movimentazione di terra «c'è di fatto un monopolio di certe aziende che operano nella zona grigia dell'economia». Imprese quasi sempre legate alla 'ndrangheta calabrese, mafia ormai egemone in Lombardia.
Un'operazione di Guardia di Finanza e Squadra mobile di Sondrio, battezzata «Iron», fa crollare dalla base una montagna di false fatture per operazioni inesistenti, utilizzate in buona parte dalle ferriere bresciane che lavoravano in nero gli scarti di ferro. Il sospetto del riciclaggio. L’ombra mafiosa, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno”. Una trentina i denunciati, sette in carcere su nove ricercati. Fernando Ronchi, 55 anni, casa a Valletta di Traona, frequente domicilio in Svizzera, è il personaggio di maggior caratura. Una condanna a sette anni per avere ferito, nel settembre del ’91, con un colpo di pistola alla testa il gestore della pizzeria «Bahia’s» di Piona, frazione di Colico. Un’accusa di associazione mafiosa evaporata lasciandolo indenne. Voci sulla cella che avrebbe diviso con Franco Coco Trovato, boss di Lecco. Estro di imprenditore, fra i primi a fiutare l’affare dei videopoker nei bar. Le 140 pagine dell’ordinanza firmata dal gip di Sondrio Fabio Giorgi riservano a Ronchi anche l’accusa di favoreggiamento in forma di sostegno finanziario (20mila euro), ospitalità, lavoro, passaggi in auto a Francesco Crivaro, originario del Crotonese, titolare del locale «Coconut» di Eupilio, nel Comasco, assurto a una certa notorietà mondana per la sua sua amicizia con Azouz Marzouk, il vedovo della strage di Erba. Ritenuto affiliato al «locale» di Erba, con i compiti di armiere e di mettere a disposizione il «Coconut» per riunioni ’ndranghetiste, Crivaro sfugge agli arresti dell’operazione «Crimine» nell’estate del 2010. Viene intercettato nell’aprile di un anno fa a San Bello di Morbegno, mentre alla guida di una moto Yamaha scorta un carico di ulivi destinato a una proprietà di Ronchi. 'Ndrangheta in Valtellina? «Possiamo isolare - dice Giordano Iobizzi, segretario della Filca, gli edili della Cisl - tre fatti. Le minacce a un imprenditore di Sondrio. Una villa confiscata a Delebio come bene mafioso e trasformata in scuola materna. Un’azienda allontanata dai lavori della statale 38». È l’episodio più appariscente. Nel settembre 2010 un magistrato della Direzione investigativa antimafia di Milano, Finanza e Forestale, si presentano al Trivio di Fuentes, al confine con Colico, dove si lavora alla mega-arteria di collegamento con la provincia di Sondrio. Un boccone ghiotto per gli appetiti mafiosi, come documentato dalle intercettazioni. E c’è il fenomeno sommerso. «Nel 2009 - dice Mirko Dolzadelli, segretario della Cisl sondriese -, con l’accentuarsi della crisi, abbiamo registrato in modo diffuso la denuncia, da parte di nostri associati e di piccoli imprenditori, di episodi di usura, soprattutto nella zona di Morbegno, economicamente la più vivace». Secondo il dossier di Legambiente Lombardia «Cemento spa» la provincia di Sondrio sarebbe al terzo posto nel Nord Italia, dopo quelle di Genova e Imperia e a pari demerito con Savona, per reati di stampa mafioso legati ad appalti edili e abusivismo edilizio: poco meno di 400 scoperti in cinque.
PARLIAMO DI VARESE
IL CALCIO: PEGGIO DI GOMORRA!
Notte folle: vandali devastano lo stadio e il campo del Varese calcio. Porte ai lati del campo spaccate, panchine danneggiate e manto erboso strappato in vari punti e preso a picconate. Sullo sfondo, le contestazioni degli ultrà alla dirigenza, scrive Roberto Rotondo su “Il Corriere della Sera”. Le porte ai lati del campo spaccate, panchine danneggiate e il manto erboso strappato in vari punti, preso a picconate. Lo stadio di Varese Franco Ossola è stato preso d’assalto, la notte tra il 17 e il 18 aprile 2015, da un gruppo di vandali che ha danneggiato in vari punti il campo da gioco. Si tratta probabilmente di un’azione dimostrativa degli ultras più accesi. Sul campo sono comparse anche scritte a caratteri cubitali contro il nuovo presidente (Cassarà vattene) e contro un ex dirigente, Imborgia, accusato dalla tifoseria di aver svenduto alcuni giocatori. Oggi a Masnago, nel vecchio stadio costruito negli anni quaranta, era attesa alle 15 la partita di Serie B contro l’Avellino. Il Varese è ultimo in classifica, e sembra ormai destinato alla retrocessione. Inoltre ha subìto una serie di problemi societari, a partire dalle dimissioni dell’ex presidente Laurenza, che però rimane il proprietario delle quote di maggioranza del Varese. Il nuovo presidente, Pierpaolo Cassarà, ha evitato nuovi punti di penalizzazione, pagando di tasca propria con 170mila euro le scadenze Irpef, ma si è presentato come un personaggio eccentrico e digiuno di calcio: ha riscosso un certo successo tra i media ma viene considerato molto negativamente dalla tifoseria. Gli ultras del Varese 1910 finora avevano solo contestato con cori e striscioni la società. La Digos sta indagando sull’episodio e non è in una prima fase non è stato chiaro se nel pomeriggio del 18 aprile la partita si sarebbe potuta svolgere regolarmente. La gara Varese-Avellino, valida per la 15a giornata di ritorno della serie B in programma oggi allo stadio Ossola, è stata poi rinviata a domani 19 aprile alle ore 15, da svolgersi probabilmente a porte chiuse. Almeno per i tifosi del Varese, su cui dovrà decidere il prefetto, mentre per i tifosi dell’Avellino è stato previsto l’ingresso allo stadio (nel frattempo, molti di loro sono rimasti ad attendere in zona cantando cori). Il rinvio al 19 aprile, ha reso noto la Lega di serie B, si è fatto necessario «preso atto dell’impraticabilità del terreno di gioco causata da atti vandalici». L’impianto è stato devastato forse per impedire alle squadre di scendere in campo, e per protestare contro il Varese. Le indagini per comprendere come sono andate le cose e per responsabilità di chi sono condotte dalla Digos di Varese. Lo stadio ha un sistema di videosorveglianza attivo 24 ore su 24, ma, prima di poter visionare le immagini, la Questura attende che i tifosi se ne siano andati per poter staccare l’impianto ed estrarre le immagini richieste. «Si tratta di un atto vergognoso, che fa male a tutta Varese e in cui non ci riconosciamo perché compiuto da delinquenti»: lo ha affermato il sindaco di Varese Attilio Fontana, dopo un sopralluogo allo stadio Franco Ossola di Varese devastato dai vandali. «Varese non si merita questo - ha proseguito Fontana -, pur con tutto il dispiacere per quello che sta accadendo alla squadra, non si può arrivare a tali fatti gravissimi. Speriamo si possa recuperare al più presto la partita». Sabato sono arrivati allo stadio anche numerosi tifosi del Varese, che si sono radunati sulle tribune mentre erano in corso i sopralluoghi e lavori di ripristino del campo. «D’ora in poi la Lega di serie B sarà parte civile in ogni procedimento contro i responsabili di atti che nuocciano agli interessi dei 22 club». Andrea Abodi, numero uno della Lega, ha annunciato all’Ansa il salto di qualità nell’affrontare l’emergenza per l’infiltrazione dei violenti. «Saremo durissimi e distingueremo tra tifosi, anche ultrà, e violenti».
Stadi devastati e botte: il calcio italiano è peggio di "Gomorra". Danni all'Ossola di Varese, schiaffi ai calciatori del Cagliari e derby blindato a Terni. È davvero tempo di ribellarsi agli ultras una volta per tutte, scrive Tony Damascelli su “Il Giornale”. Ultime notizie da calcio-Alcatraz: un manipolo di delinquenti ha devastato ieri notte lo stadio di Varese, intitolato a Franco Ossola, ala del Grande Torino che concluse la sua storia, ma non la sua leggenda, nella tragedia di Superga. Porte divelte, campo di gioco deturpato, lerciate le panchine, scritte volgari contro il club, impossibile giocare la partita tra Varese e Avellino, l'incontro è stato rinviato. A Terni, prima del derby con il Perugia, fermato un ultras ternano che trasportava, a bordo della sua vettura, il classico bagaglio appresso del vero tifoso nostrano: bastoni, bombe carta e ordigni vari pronti all'uso contro i nemici perugini. Se il continente calcistico è questo non si sta meglio sulle isole: a Cagliari gli hooligans sardi hanno fatto irruzione nello spogliatoio della squadra prendendo a schiaffi i calciatori e minacciandoli di altre lezioni, squadra sotto choc, come ha ribadito l'allenatore Zeman, ma nessuna notizia vera dei dirigenti del club, anzi hanno ridimensionato l'accaduto, gli aggressori sono dei bravi ragazzi, si è trattato di un confronto, i segni sul viso dei calciatori sono dovuti al caldo sole dell'isola. A Roma mille agenti di polizia sono pronti a tenere sotto controllo la vigilia della partita contro l'Atalanta, in programma oggi all'Olimpico: rischio di disordini dopo le parole forti di James Pallotta che ha definito i tifosi, che avevano esposto lo striscione contro la madre di Ciro Esposito, dei fottuti idioti, in originale slang bostoniano. La frase è stata immediatamente recepita e tradotta, sia dai fottuti, sia dagli idioti che hanno risposto secondo fair play e preannunciata lotta continua contro l'americano e i suoi sodali. Angelino Alfano, ministro degli Interni, ha annunciato con fierezza che quattro «espositori» dello striscione sono stati identificati e saranno colpiti dal daspo, tradotto sarebbe «Divieto di Accedere alle manifestazioni sportive», una terribile (mi viene da ridere) sanzione per i soliti noti che se ne fottono di leggi, norme, regolamenti, sentenze e continuano a okkupare stadi, spogliatoi, luoghi di ritiro delle squadre, spesso con la complicità e l'omertà dei calciatori e dei dirigenti, aggirando ostacoli, divieti, punizioni. È il nostro meraviglioso pubblico, quello che riempie le curve, che spara mortaretti, accende fumogeni (qualche magistrato si occuperà un giorno della tossicità di certi gas?) come in nessun altro stadio dell'Europa calcistica che conta, dall'Inghilterra alla Spagna, dalla Germania alla Francia, è la folla di razzisti veri, non contro il colore della pelle ma contro chiunque è avversario, popolo di sfacciati senza il quale il football non avrebbe senso, si dice e si scrive così, anche se non ho ancora capito quale sia il senso di dare spazio, credito, potere a questa ciurma, ormai padrona dell'evento. Sono la Gomorra del nostro calcio senza che nessuno osi ribellarsi davvero, perché le parole di James Pallotta hanno avuto tiepide reazioni e solidarietà di opportunismo degli altri presidenti, molti dei quali sono sotto schiaffo, timorosi, impauriti. Se Pallotta vuole bonificare gli stadi (l'educazione americana non prevede e non immagina atti di violenza nei siti dello sport), il suo sodale di Genova, Massimo Ferrero, inquietante e folkloristico presidente della Sampdoria, si oppone all'idea e sottoscrive striscioni, insulti e volgarità del popolo pubblico che attorno gli sta e lo esalta. Alfano ha poco da essere orgoglioso, provi a frequentare una curva e non una tribuna d'onore (anche se in questo settore vedo e sento di ogni), comprenderà che il divieto di accesso allo stadio è un buon titolo per i giornali ma provoca il solletico ai colpevoli che se la spassano e si infilano ovunque. Piuttosto, dopo aver smascherato identità e volto a parenti, amici e vicini di casa, li spedirei ai servizi sociali immediati, lavorando gratis per ripulire stadi, treni, bus, strade da loro distrutte, insudiciate, devastate, tutto a costo zero, tra gli applausi del resto dei cittadini. La cronaca si ferma, come sempre. Ieri si è giocato, oggi si rigioca, il sindacato dei calciatori finge di esistere e non reagisce, la Lega al massimo bussa a denari, la Federcalcio è impegnata altrove. Dopo un gol, tutti pronti alle solite corse fanatiche sotto le curve. Non per liberare la gioia ma per confermare la sottomissione ai ricattatori. Si replica.
TRIBUNALE SOTTO ESAME.
Tribunale sotto esame. Disfunzioni e vertenze interne: martedì 16 dicembre i vertici di Palazzo di giustizia convocati a Milano dal Consiglio giudiziario, scrive Luca Testoni su “La Prealpina”. A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. La celeberrima "perla di saggezza" di Giulio Andreotti sembra calzare a pennello alla notizia della convocazione dei vertici del Tribunale di Varese da parte del Consiglio giudiziario della Corte d'Appello di Milano fissata per il pomeriggio di martedì 16 dicembre 2014. È vero, l'Avvocato generale di Milano Laura Bertolè Viale, "vice" del procuratore generale presso la Corte d'Appello del capoluogo lombardo Manlio Minale, nonché componente del cosiddetto "parlamentino" delle toghe del distretto di cui fa parte anche il Tribunale di Varese, minimizza la portata dell'incontro convocato da Giovanni Canzio, presidente della Corte d'Appello di Milano e, naturalmente, del Consiglio giudiziario: «Se non ricordo male, la volta scorsa è stato sentito il presidente del Tribunale di Monza; stavolta è il turno del suo collega di Varese, Vito Piglionica (e con lui scenderanno a Milano con tutta probabilità anche il capo della Procura varesina Daniela Borgonovo e un rappresentante dei giudici togati del settore civile, ndr). Sì, sono state segnalate disfunzioni nell'andamento dell'ufficio varesino, alcune provengono direttamente dall'Avvocatura, e di questo parleremo, ma l'incontro rientra nell'attività routinaria del Consiglio giudiziario che ha il compito di vigilare sul corretto andamento degli uffici del distretto in nome e per conto del Ministero della Giustizia». Di carne al fuoco sul tavolo ce ne sarà parecchia. Detto fuori dei denti, appare certo che il Consiglio giudiziario - per la cronaca, nella composizione ordinaria fanno parte, oltre che i due membri di diritto, vale a dire il presidente della Corte d'Appello e il procuratore generale, anche venti altri componenti: 14 magistrati, di cui 10 giudici e 4 pubblici ministeri; e 6 componenti non togati, di cui due professori universitari in materie giuridiche e 4 avvocati con almeno dieci anni di effettivo esercizio della professione - non si limiterà ad analizzare le lamentele degli avvocati. Perché negli ultimi mesi, nella stanza dei bottoni della Corte d'Appello di Milano hanno fatto discutere non poche vicende legate all'attività dei magistrati al lavoro in piazza Cacciatori delle Alpi. Qualche esempio? C'è l'imbarazzo della scelta. Basti pensare allo scalpore suscitato sia dall'arresto del coordinatore dei giudici di pace di Varese Luciano Soma, finito in manette per abuso d'ufficio e molestie sessuali, sia dal procedimento Uva, divenuto un caso nazionale, il cui fascicolo è stato alla fine sottratto ai due pm titolari, Agostino Abate e Sara Arduini. E che cosa dire della parziale distruzione e della misteriosa sparizione di alcuni dei reperti più importanti legati all'inchiesta che cerca di fare luce sulla morte di Lidia Macchi, fascicolo avocato un anno fa dalla Procura Generale di Milano (25 anni dopo la sua formale apertura) su richiesta della famiglia della sfortunata studentessa di Casbeno? Chissà poi che non si finisca anche per parlare di alcune segnalazioni provenienti dalla Procura Generale di Milano. Tanto per dirne una, al termine della sua "travagliata" esperienza in qualità di procuratore facente funzioni di Varese (prima cioè dell'arrivo della collega Daniela Borgonovo), il sostituto procuratore generale di Milano Felice Isnardi avrebbe fatto recapitare una lettera al vetriolo al procuratore generale Minale con il chiaro intento di censurare le anomalie all'interno della Procura varesina.
Uva, Macchi e altri casi. Il tribunale è sotto esame, scrive Andrea Gianni su “La Provincia di Varese”. Presidente e procuratore convocati dalla Corte d’Appello. Al vaglio anche la gestione del personale denunciata dai penalisti. La gestione dell’inchiesta sulla morte di Giuseppe Uva e sull’omicidio di Lidia Macchi, l’arresto del coordinatore dei giudici di pace di Varese, Luciano Soma, finito ai domiciliari con l’accusa di abuso d’ufficio e molestie sessuali, e altre “situazioni critiche” che si sono verificate nell’ultimo periodo. Sono alcuni dei casi, dall’iter travagliato, che hanno spinto il consiglio giudiziario di Milano, ossia il “parlamentino” delle toghe milanesi che ha un compito di vigilanza anche sull’attività dei tribunali del distretto della Corte d’Appello, a convocare nel capoluogo lombardo per martedì 16 dicembre i vertici del Tribunale e della Procura di Varese. Una decisione che potrebbe avere grosse ripercussioni, in quanto il consiglio giudiziario ha la facoltà di inviare atti al Consiglio superiore della magistratura. Per ora il “parlamentino” delle toghe, con a capo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, ha intenzione di fare chiarezza su una serie di disfunzioni che si sono create sia per quanto riguarda il settore civile che per quello penale, ascoltando il presidente del Tribunale di Varese Vito Piglionica e il procuratore capo Daniela Borgonovo. Disfuzioni segnalate anche da alcuni avvocati, sfociate nello sciopero di quattro giorni, dal 14 al 17 ottobre scorso, indetto dalla camera penale di Varese. E in una delibera infuocata emessa nel giugno scorso del direttivo presieduto da Patrizia Esposito. Al centro della protesta degli avvocati la gestione di cancellerie e segreterie in quanto, si legge nella delibera, “gli uffici che interessano il settore penale soffrono di una preoccupante carenza”. Poi le problematiche legate all’ufficio del giudice di pace in cui “la mancanza di una oggettiva visione del programma di udienza comporta un inevitabile ingolfamento con tempi d’attesa lunghissimi per gli avvocati”. A questo si aggiungono alcune inchieste che hanno scosso il Palazzo di giustizia di piazza Cacciatori delle Alpi. Il pm Agostino Abate, che era titolare dell’inchiesta sulla morte di Giuseppe Uva deceduto all’ospedale di Circolo nel giugno 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri di Varese che lo avevano fermato ubriaco per strada, è stato sostituito nel corso dell’inchiesta, dopo molte polemiche sulla gestione delle indagini. Inoltre, nei mesi scorsi la Procura generale di Milano è intervenuta per avocare l’inchiesta sull’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa varesina trovata cadavere nel 1987 a Cittiglio, disponendo nuove indagini che hanno portato alla riapertura del “cold case”. Lo scorso 16 ottobre, infine, è stato arrestato il coordinatore dei giudici di pace di Varese, Luciano Soma. Casi critici sui quali il consiglio giudiziario ora intende fare luce.
Tribunale, denuncia e controdenuncia. Caso dei presunti dipendenti "abusivi": il presidente querela due Rsu e la Cgil presenta un esposto nei confronti del Ministero della Giustizia per condotta antisindacale e persecutoria, scrive Paolo Grosso su “La Prealpina”. Il Tribunale di Varese ancora sott'inchiesta. L’esposto presentato da due componenti della Rsu del Tribunale di Varese alla fine di ottobre aveva fatto molto rumore, dato che in questo modo si chiedeva alla magistratura inquirente di chiarire se davvero negli uffici ci siano lavoratori "abusivi", ovvero dipendenti di società esterne, incaricati di pubblicizzare le aste giudiziarie, anche con funzioni di cancelliere e con chiavi di accesso al sistema informatico dello stesso Tribunale. Si era trattato però solo del primo atto di una vicenda che nelle settimane seguenti - si scopre ora - è diventata ancora più "rovente". E questo perché il presidente del Tribunale Vito Piglionica ha denunciato le due componenti della Rsu per peculato e "accesso abusivo a un sistema informatico o telematico", proprio in relazione alla raccolta degli elementi utilizzati per l’esposto. E poi la Funzione Pubblica Cgil ha presentato a sua volta un esposto al giudice del lavoro contro il ministero della Giustizia per condotta antisindacale. Le azioni del presidente Piglionica, secondo il sindacato, avrebbero avuto "carattere ritorsivo" e sarebbero state "finalizzate a scoraggiare e a contrastare il sereno esplicarsi dell’azione sindacale, alla luce della loro portata punitiva e intimidatoria nei confronti della Rsu", scrivono nell’esposto i legali della Funzione Pubblica Cgil, gli avvocati Paolo Perucco, Ferdinando Perone e Andrea Bordone. Le presunte condotte antisindacali sarebbero iniziate, secondo la Cgil e i suoi avvocati, nel momento in cui il presidente, nel corso di un’assemblea convocata per tutt’altro motivo, diede lettura integrale dell’esposto della Rsu, che gli era stato trasmesso dalla Procura della Repubblica. In quell’occasione gli altri lavoratori avrebbero reagito piuttosto male alla denuncia, anche perché alcuni dei presunti "abusivi" sarebbero parenti di cancellieri regolari: di qui una "situazione di grave tumulto" al momento e poi una situazione di tensione, negli uffici e nei corridoi, che avrebbe messo "in una condizione di sostanziale isolamento personale" una delle due firmatarie dell’esposto, in servizio nel palazzo di giustizia. Quanto poi alla denuncia penale a carico della Rsu, accompagnata da un’azione disciplinare, i legali della Cgil rilevano che il Tribunale non ha mai risposto alle richieste di chiarimenti del sindacato sulla presenza attiva nelle cancellerie di "soggetti estranei all’amministrazione". E che questa presenza "è fatto notorio", motivo per cui non sarebbe necessario accedere ad alcun sistema informatico a scopo di verifica. Senza dimenticare che la documentazione allegata all’esposto dalla Rsu sarebbe stata estratta da un altro funzionario e non dalle due denunciate. Conclusione: cessino le condotte antisindacali e siano annullate le contestazioni disciplinari. A decidere sarà il giudice del lavoro dello stesso Tribunale di Varese. Sul resto procede invece la Procura della Repubblica di Brescia.
VARESE E LA MAFIA.
La mafia esiste, altroché, anche a Varese, scrive Stefania Radman su “Varese News”. E chi la combatte deve vedersela tutti i giorni contro chi è convinto che qui non esista, o che sia solo "una questione di traffico di droga" incapace di toccare la "parte sana" della società varesina. Le cose, però non stanno così: e la criminalità organizzata è entrata a pieno titolo nella società varesina: come raccontano i recenti arresti nella zona di Busto Arsizio, o le esecuzioni di stampo mafioso a Induno. Una storia che è tragica attualità, raccontata agli studenti di Giurisprudenza da due protagonisti delle indagini: il procuratore della repubblica Maurizio Grigo e il capo della squadra mobile Sebastiano Bartolotta. L'incontro, che è avvenuto nelle sale Morselli di via Ottorino Rossi a Varese, è stato organizzato dall'associazione Varese Studenti - rappresentata dal presidente Giuseppe D'Acquaro - nell'ambito di una serie di incontri all'università dell'Insubria che ha visto protagonista anche la vedova Scopelliti. L'argomento trattato oggi era la presenza della criminalità organizzata nei nostri territori. Una criminalità che arriva «Dalla Calabria e da Gela, quindi è 'Ndrangheta e Mafia» come precisa Bartolotta. E che si alimenta «di corruzione, fenomeno nel nostro paese tragicamente molto presente» come sottolinea Maurizio Grigo. La fonte di reddito della criminalità è passata dalla droga alle estorsioni - come ha raccontato agli inquirenti varesini Rosario Vizzini, esponente in loco della mafia Gelese ora collaboratore di giustizia sotto protezione, che proprio di questo si occupava nelle nostre zone - una "attività" più conveniente per la criminalità ma molto più pericolosa per le "persone normali". «Si comincia col pagare il 3% di pizzo, che per un imprenditore non è nemmeno un grande esborso, e si finisce per entrare in un sistema: che prevede prima regalie ai criminali e poi magari l'utilizzo di quegli stessi estorsori per fare il "recupero crediti" con altri fornitori. Con il risultato di passare da vittime a complici» ha spiegato il capo della squadra mobile. Un sistema che funziona anche "grazie" a un impianto di norme «Varate in emergenza, o superficialmente, o secondo "il vento che gira" - sottolinea Grigo - Norme così è meglio che non siano nemmeno varate, perchè peggiorano solo la situazione». Il risultato è che la criminalità organizzata attecchisce, benissimo, anche da noi: «Anche se quando sono arrivato qui, qualcuno mi ha detto: “Procuratore, qui è un'isola felice. Qua la piaga sono i furti nelle ville"- racconta il Procuratore della Repubblica - Non era proprio così». Non era decisamente così, se adesso il varesotto può "vantare" anche uno dei primi morti di lupara bianca nel nord: Salvatore da Leo, seppellito nelle campagne vicino a Malpensa, ai bordi del ticino dove i varesini fanno il pic nic nel fine settimana, in modo da non essere più ritrovato.
A Varese, ho imparato diverse cose, grazie alla presentazione del libro “Mafia a Milano” – con la presenza degli autori Mario Portanova e Gianfranco Rossi -, organizzata da Prossima fermata Varese, scrive “On the Nord”. Uno dei passaggi più interessanti è stato affrontato da Agostino Abate, Sostituto Procuratore di Varese. La domanda a cui tentava di rispondere era: perché proprio a Varese? Già, perché il libro si intitola “Mafia a Milano”, ma potrebbe benissimo intitolarsi “Mafia a Varese”. E’ in un paese della provincia di Varese, Buguggiate, che si stabilisce il primo capobastone della ‘ndrangheta emigrato dal sud, Giacomo Zagari, proveniente da Gioia Tauro. Franco Coco Trovato passerà per casa Zagari, a Buguggiate, per poi spostare il proprio raggio d’azione nel lecchese, dove nel 1990 scoppierà la “guerra con i Batti”, che avrà conseguenze fino a Tradate. A Tradate, infatti, viene ucciso Roberto Cutolo, figlio del boss Raffaele Cutolo. Roberto era stato allontanato dall’autorità giudiziaria dalla Campania e dalle regioni confinanti: “ma ci sono tante altre regioni, tra il Lazio e la Lombardia – osserva Abate -, e ci sono tanti altri posti, in Lombardia, oltre Tradate. E’ evidente che a Tradate poteva essere offerta protezione al figlio di Raffaele Cutolo”. Poi c’è l’operazione “Bad Boys” a Lonate Pozzolo, comune ai margini di Malpensa, che, secondo il racconto degli autori del libro, è indistinguibile da un paese della Calabria. Quando si entra nei bar di Lonate si respira la stessa aria tesa. E c’è Cavaria, dove nel 2009 è stato ucciso un imprenditore dei trasporti. E Varese, la città giardino, con i bar sigillati. E poi, infine, c’è la Svizzera, l’operazione “Dirty money”: due finanziarie di Zurigo che falliscono e pare siano state gestite da membri della ‘ndrangheta. C’è il nucleo specializzato della Polizia svizzera che scrive che le organizzazioni criminali italiane usano la Svizzera – e quindi il sistema finanziario internazionale – per riciclare denaro: l’appoggio di esperti del settore economico-finanziario è diventato, nel frattempo, cruciale. La domanda, dicevamo, è: perché proprio qui, tra la provincia di Varese e quella di Lecco? Abate individua due motivazioni, di diverso ordine. La prima riguarda gli interessi economici che fanno dell’Insubria una zona unica: periferia di Milano, periferia del Piemonte, periferia della Svizzera e, quindi, del mondo. “Con le dovute proporzioni – dice Abate – controllare questa regione è come controllare l’Afghanistan: crocevia, passaggio obbligatorio”. Se questo motivo risponde al perché la criminalità organizzata abbia scelto questa zona, ora rimane da rispondere al quesito più cupo: perché la criminalità organizzata è riuscita ad attecchire proprio qui? Ecco, la risposta di Abate è preoccupante: “a Varese c’è un humus favorevole. Di cosa ha vissuto storicamente un’ampia fascia, quella più a nord, della provincia di Varese se non – anche – di contrabbando? E’ sufficiente studiare la posizione topografica di alcune case per rendersene conto. Lo stesso Zagari riuscì facilmente a inserirsi in questi traffici, esportando bergamotto in Svizzera e importando ben altre sostanze. Il contrabbando è un’attività che crea meccanismi da anti-Stato”. Il parallelismo, piuttosto facile, è tra nord e sud Italia, da una parte, e provincia di Varese e Canton Ticino dall’altra.
VARESE E LA MASSONERIA.
Dal momento che si definiscono «muratori», è quasi normale che finiscano a litigare per una questione edilizia, scrive Claudio Del Frate su “Il Corriere della Sera”. Due associazioni sono finite davanti al giudice perché si contendono il possesso di alcuni locali: sembra una comunissima lite di condominio ma il discorso cambia perché i contendenti sono due logge massoniche. Abituata alla segretezza, la Massoneria rompe una sua tradizione e rende pubblica, seppur in tribunale, una sua diatriba interna che ha già investito anche il Grande Oriente d' Italia, il più importante organismo rappresentativo dei «fratelli muratori». Al tribunale civile di Varese il fascicolo della causa è costituito solo dall' atto di citazione depositato dai responsabili di una delle due logge, la «Carlo Cattaneo 700». Una decina d' anni fa i componenti di quest'ultima, assieme ai «fratelli» della loggia «Aleph 59» decisero di acquistare in comune la sede di via Cesare da Sesto e di adibirla a tempio massonico. Fu così costruita la società Asstra, estranea al Grande Oriente, al solo scopo di amministrare la sede. Nel frattempo, però, i rapporti tra le due logge si erano incrinati: il documento depositato dalla «Cattaneo» in tribunale dice che tra il '99 e il 2000 i suoi rappresentanti sono stati estromessi dalla Asstra e che la sede, contrariamente a quanto prevede lo statuto, viene concessa ad associazioni estranee alla Massoneria. Una lite culminata, sempre stando alla versione dei ricorrenti, con il più spiacevole degli episodi: i responsabili della Aleph hanno fatto cambiare le serrature della sede. Il Grande Oriente ha stabilito l'espulsione dalla Massoneria dei componenti della Aleph. Al tribunale di Varese, invece, viene chiesto di annullare tutte le delibera della società Asstra con la quali sono stati esautorati i «fratelli» della loggia Cattaneo e di restituire a quest' ultima l' uso del tempio di Varese. Non resta che attendere, a questo punto, le repliche della controparte chiamata in causa. Claudio Del Frate
Varese, Lega Cl e massoneria: i vertici in equilibrio del nuovo potere, articolo di Claudio Del Frate da “Il Corriere della Sera”. La città che detesta Roma ma vive sempre più di politica. In 46 anni di Prima Repubblica, Varese ha espresso un solo ministro, «mister terremoto» Giuseppe Zamberletti, primo responsabile in Italia della Protezione civile. Nei 17 di Seconda Repubblica, la città ha invece dato alla Nazione 3 ministri, due direttori di rete Rai, un presidente di Alitalia, uno dell’Inps, consiglieri di amministrazione di Enel, Finmeccanica, ancora della Rai più altri enti minori. «Grazie alla Lega Varese è diventata quello che era Avellino ai tempi di De Mita»: il copyright della battuta viene attribuito al deputato del pd Daniele Marantelli ma in ogni caso fotografa in poche parole la mutazione avvenuta nella mappa del potere cittadino nel giro di pochissimi anni: l’asse - al contrario di quanto avvenuto quasi ovunque -, si è spostato dalle imprese alla politica e Varese si è abituata a dipendere assai di più dall’economia di relazioni, quella fatta nei palazzi, che non dalle idee vincenti. Bizzarro, nella città dove è nato lo slogan «Roma ladrona». Per un’alchimia del destino (ma è poi tutto così casuale?) mentre Varese diventava uno dei punti focali della politica nazionale, le maggiori imprese della zona sfuggivano dimano ai capitani d’industria locali, per decenni i veri padroni della città: oggi la Whirlpool (l’ex Ignis di Giovanni Borghi) è americana, la B-Ticino francese, l’Aermacchi è nella galassia di Finmeccanica, banche locali non ne esistono più. Verrebbe da dire che il potere di Varese non abita a Varese e questo è in larga misura figlio della parabola della Lega Nord: qui il partito di Bossi è nato ma non ha mai raggiunto il record dei consensi in Italia (26% mentre a Bergamo, Brescia o Treviso sfonda il muro del 30) però qui ha prodotto gran parte della sua classe dirigente. È una Lega, quella varesina, molto più di governo che di lotta, avendo come uomini di peso Roberto Maroni o manager come Antonio Marano (Rai), Giuseppe Bonomi (Alitalia e Sea) o lo stesso sindaco Attilio Fontana, un professionista che non ha mai firmato ordinanze tacciabile di xenofobia. E’ insomma l’indotto generato dall’aver raggiunto posizioni chiave grazie alla politica a condizionare la vita della città. Ma identificare il potere di Varese con la Lega sarebbe riduttivo; numeri alla mano, al Carroccio di governo si contrappone l’altra vera presenza strutturata della città, Comunione e Liberazione. Cl alle ultime regionali è riuscita a far confluire 14.556 preferenze sul suo candidato Raffaele Cattaneo, e anche alle comunali, fin dagli anni 70 i candidati più votati (nella Dc, in Forza Italia, nel Pdl) sono sempre ciellini. Un peso confermato da un fatto: la chiesa intitolata a Massimiliano Kolbe, quartier generale del movimento, periferia della città, ha assunto negli ultimi anni una centralità che contrasta con la basilica di san Vittore o il santuario del Sacro Monte, tradizionali cuori religiosi di Varese. «Che ci sia stato un trasferimento di potere dall’economia alla politica è fuori discussione - commenta Riccardo Broggini, già "pezzo da 90" della Dc, oggi assorbito dalla sua professione di commercialista - anche se di questo la città non sembra trarne grande beneficio: forse perché i protagonisti di questa stagione sembrano più attenti a compiacere i loro referenti superiori». Ma la mappa del potere di Varese non sarebbe completa senza parlare di un terzo elemento, oltre a Lega e Cl, una sorta di «convitato di pietra» di cui spesso si sussurra: la massoneria. È proprio Broggini a far cadere il velo: «Quando fui candidato sindaco, e persi, durante la campagna elettorale notai una certa resistenza nei miei confronti da parte di alcuni ambienti della città, facenti riferimento alla massoneria. Quali? Ad esempio quelli legati all’università dell’Insubria». L’università è una realtà autonoma a Varese dal 1998, guidata da allora dal rettore Renzo Dionigi; periodicamente l’ambiente accademico si scontra con quello di Cl per la nomina dei primari all’ospedale cittadino, considerato un centro di eccellenza e le diatribe finiscono regolarmente raccontate sui media locali. Ma davvero il Grande Oriente è in grado di condizionare la vita di Varese? Giuseppe Armocida, storico della città e docente proprio all’Insubria (ma anche assessore esterno in una giunta monocolore leghista), getta acqua sul fuoco: «Se si conoscessero gli elenchi degli iscritti alla massoneria varesina si scoprirebbe che il loro peso è relativo. L’università come centro di potere massonico? Mah, se così fosse l’ateneo cittadino avrebbe attratto molto più risorse e non avrebbe la sede malandata in cui oggi deve operare».
Varese, Lega, affari e massoneria. La Velina Verde scatena un terremoto, scrive “La Provincia di Varese”. Lotte per il potere, presunti legami alla massoneria, affari e consulenze. A pochi giorni dall'inizio della stagione congressuale varesina, nasce un "misterioso" blog che "svela" gli affari segreti, o presunti tali, del Carroccio di Varese. Arrivando persino a ipotizzare infiltrazioni massoniche in consiglio comunale e giunta di Varese. Si chiama la Velina Verde, si richiama alla famosa Velina rossa che spiattellò i problemi del centrosinistra. Non ha autori ufficiali e il dominio sembra essere stato registrato in Islanda o alle Bahamas. Andando al contenuto, appare chiaro che l'intento è quello di screditare la corrente del ministro dell'Interno Roberto Maroni, che si contrappone al cerchio magico, il nucleo di esponenti vicinissimo a Bossi capitanato dalla moglie Manuela Marrone e con Marco Reguzzoni e Rosi Mauro come referenti.
Parla l’avvocato pro Maroni: “Macché massone, io sputtanato”, scrive Daniele Riosa su “Affari Italiani”. "Sono tutte le amenità che il famoso cerchio magico riferiva a Bossi per cercare di ‘sputtanare’ il sottoscritto che notoriamente è stato un loro nemico: per i cerchisti eravamo fascisti, affaristi, massoni e quant'altro. Infatti la famosa “velina verde” che è stata poi querelata, ha fatto il sunto di questo delirio. Probabilmente il signor Belsito deve aver raccolto queste notizie molto confuse e mi ha inserito tra i suoi persecutori viste la considerazioni di "bestia nera" di cui godo tra i fedelissimi del Senatùr". Andrea Mascetti, maroniano doc, con un passato da militante nel Fronte della gioventù, con un'intervista ad Affaritaliani.it, spiega perché il tesoriere della Lega lo abbia citato nelle sue conversazioni telefoniche con Bonet facendolo passare come referente di un ben non specificato complotto massonico ai suoi danni. Mascetti vuole poi sottolineare una cosa: "Sono solo contento se Belsito mi considera un suo nemico".
Dalle intercettazioni Belsito la tira in mezzo circa un ben non specificato complotto massonico organizzato ai suoi danni...
"Intanto sono felicissimo che il signor Belsito, che non ho nessun piacere di conoscere, mi consideri un suon nemico".
Andando nello specifico?
"Belsito sostiene confusamente che sono il fondatore della Banca Aletti ma la banca, con cui non ho mai avuto nessun rapporto, è stata fondata prima che io nascessi”.
Si dice che lei sia un uomo di estrema destra legato alla massoneria...
"E' noto che da ragazzino sono stato un militante del Fronte della Gioventù e frequentavo la nuova destra. In questi anni ho imparato che lo stato italiano non mi piaceva molto e per questo sono passato alla Lega. Sulla questione massoneria dico solo che sono sempre stato antimassonico".
Dunque perché circolano queste voci sul suo conto?
"Sono tutte le amenità che il famoso cerchio magico riferiva a Bossi per cercare di “sputtanare” il sottoscritto che notoriamente è stato un loro nemico: per i cerchisti eravamo fascisti, affaristi, massoni e quant'altro. Infatti la famosa, “Velina verde” che è stata poi querelata, ha fatto il sunto di questo delirio. Probabilmente il signor Belsito deve aver raccolto queste notizie molto confuse e mi ha inserito tra i suoi persecutori viste la considerazioni di "bestia nera" di cui godo tra i fedelissimi del Senatùr. Purtroppo non ho avuto un grande ruolo ma sarei stato felice di averlo avuto".
La Velina Verde, nell'agosto scorso, scriveva di un patto d'acciaio tra lei e Maroni. Nel testo si dice che lei garantisce i voti e il radicamento territoriale a Maroni nel Varesotto…
"Maroni non ha un uomo. L'ex ministro frequenta i militanti perbene, preparati e seri: io sono uno dei centomila. Queste sono cose che funzionano nella testa di Belsito. La verità è che io e altri militanti siamo stati sempre contrari al cerchio magico e siccome quella è gente che utilizza la menzogna come strumento di lotta politica si spiega perché io sia stato tirato in ballo”.
Il Fatto Quotidiano, intervista ad Andrea Mascetti (13-04-2012). Io ombra nera di Bobo? Neanche fossi Gelli. Ariani, massoni, fascisti, trafficanti: a Varese terrei tutti insieme nella mia associazione? Neanche Licio Gelli ci riuscirebbe”. Andrea Mascetti ci ride, nello spirito dell’omonimo conte di Amici Miei, ma di essere finito nelle carte della Dia citato da Francesco Belsito come “massone, fascista, molto legato a Ordine Nuovo” non è entusiasta. Lui è indicato come “l’eminenza grigia del sistema di potere che si contrappone al cosiddetto cerchio magico”, quindi l’uomo forte di Maroni. “Ma per carità, con Roberto siamo solo amici”, taglia corto. “L’unica cosa vera che hanno scritto in quelle pagine è il nome dell’associazione che ho fondato: Terra insubre”. Il resto? “Tutte assurdità, c’è scritto che sarei tra il fondatore della Banca Aletti, ma è dell’800… sarò mica highlander?”.
E i suoi rapporti con Ordine Nuovo?
La Dia dice che io conosco il figlio del fondatore, certo, è vero: ha un ristorante a Varese dove si mangia anche bene; lo conoscono tutti. Ma cosa c’entra ordine nuovo? Siamo seri.
Però Belsito parla di lei e da come la descrive sembra conoscerla.
Mi ritengo fortunato a non averlo mai incontrato e se mi ritiene un suo nemico ne sono ben felice e decisamente orgoglioso. Avrà sicuramente respirato l’aria del clan a Gemonio, il Cerchio magico lì e quindi tira dentro un po’ tutti i nemici di quelli lì. Ne vado fiero, ripeto.
Non le sta simpatico, però conosce anche la sua associazione e la definisce come un covo di massoni e fascisti.
Due entità da sempre inconciliabili tra loro. Ripeto: siamo seri. Terra Insubre ha 2500 iscritti, sulla nostra rivista scrivono magistrati, professori di destra, di sinistra, storici… noi siamo belli, colti e simpatici ma c’è chi, a quanto pare, non apprezza il nostro umorismo. O meglio ci invidia, è l’invidia del mal riuscito.
A chi si riferisce? Chi sono i mal riusciti?
Ma sono storie vecchie, Varese è una piccola città e siamo cresciuti negli stessi anni, Maroni e io, Reguzzoni e tanti altri. Credo che alla base di tutto ci siano cose adolescenziali, qualche ragazza rubata, cose così.
Scusi ma qui ci sono tre procure che indagano, milioni di euro di rimborsi elettorali finiti non si sa bene in quali università per comprare lauree, pagare multe ai figli di Bossi…
E io che c’entro? A me Bossi mi cacciò poveretto. Lo costrinsero a farlo quelli del suo cerchietto lì, perché lui fece anche confusione con i veneti. Io nel partito non ho mai avuto incarichi, figurarsi. Sono un avvocato, un lavoro vero ce l’ho. Molti invece nella Lega hanno trovato un impiego e a quanto pare non si sono neanche accontentati di quella fortuna, adesso che andranno a fare? Sono curioso. Si riferisce a Mauro? Non faccio nomi, difendo solo i ragazzi della mia associazione dagli attacchi idioti. Lei però sostiene Maroni? Siamo amici, un rapporto di stima reciproca, ci conosciamo da molti ma mi creda lui non ha bisogno di me. E comunque sì: spero che prenda la Lega perché altrimenti rischia di morire.
Scandalo Lega, la massoneria e quell’intercettazione scomparsa, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Su un blog vicino alla massoneria del Grande Oriente Democratico si scrive che tra le carte dell’inchiesta, vi sia una intercettazione. I giorni che vanno dall’8 al 12 gennaio del 2012 passeranno alla storia della Lega Nord. Sono cinque giornate che hanno segnato lo spartiacque tra la vecchia gestione «cerchista» di Umberto Bossi e il nuovo corso di Roberto Maroni. È un passaggio di testimone che si sta consumando in questa piovosa primavera lombarda, tra l’espulsione di Rosi Mauro dal Carroccio e le dimissioni del Trota Renzo Bossi dal consiglio regionale, dopo le indagini che hanno travolto l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito e tutta la famiglia Bossi di stanza a Gemonio. È un'inchiesta su cui stanno lavorando ben sei procure, da Reggio Calabria a Milano fino a Napoli. E dove s'intreccerebbero pure gli interessi della 'ndrangheta e di altre associazioni criminali con quelli della politica italiana. Dove compaiono e scompaiono uomini della malavita organizzata che sarebbero stati in affari con le grandi aziende statali che lavorano nell'Africa subsahariana, come Finmeccanica o Agusta Westland. Secondo il blog di Sergio Cori di Modigliani “Libero Pensiero” – vicino al God la massoneria del Grande Oriente Democratico – tra le maglie della maxi inchiesta su Belsito ci sarebbe «un’intercettazione» esplosiva registrata dalle forze dell’ordine proprio lunedì 9 gennaio. Si tratterebbe di un colloquio registrato che «la magistratura ha secretato e di cui non esiste alcuna trascrizione a disposizione della stampa» e che vedrebbe tra i suoi protagonisti «la vicepresidente del Senato» e l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «Perché si sa che quella intercettazione c’è. È quella il clou della tragedia», si legge sul sito. Le giornate che dovranno essere sottolineate con la matita rossa sui libri della Lega, quindi, sono appunto quelle che partono da domenica 8 gennaio. Quando tra i banchi della Camera dei deputati (e non solo), si discuteva su come votare per l’arresto di Nicola Cosentino, il deputato del Popolo della Libertà indagato dalla procura di Napoli per concorso esterno in associazione camorristica. In quell’occasione la Lega di Bossi (il capogruppo era ancora l’esponente del cerchio magico Marco Reguzzoni), si comportò in un modo martedì nella giunta per le autorizzazioni, votando a favore, e in maniera opposta due giorni dopo a Montecitorio, quando il voto segreto salvò Nick 'o 'mericano dal carcere. Secondo la maggior parte degli analisti politici, quella giornata, il 12 gennaio, fu il funerale politico di Maroni. Cosa che in realtà, osservando quello che sta accadendo in questi giorni, si è rivelata una premonizione sbagliata. Certo, Bobo prese un duro colpo quel giorno e lo comunicò pure via Facebook ai militanti. («Non smetto di credere e di lavorare per la Lega che ho contribuito a costruire in oltre 25 anni di attività politica»). Eppure, anche dopo la fatwa successiva con cui Bossi (?) impose a Maroni il silenzio, per l’ex ministro dell’Interno è iniziata una strada in discesa. Il 20 gennaio Reguzzoni perde la poltrona di capogruppo e i barbari sognanti incominciano a prendere sempre più potere dentro il movimento, a partire dalla serata «maroniana» di Varese il 18 gennaio. Ma torniamo alle giornate in cui nella Lega si discute sull’arresto di Cosentino. E qui bisogna fare una piccola premessa, prima di raccontare quei giorni infuocati dentro via Bellerio. Il caso Belsito per i fondi in Tanzania è già scoppiato l’8 gennaio. Il Secolo XIX ha già pubblicato quell’inchiesta molto dettagliata a riguardo e in Lega iniziano i problemi. A raccontarlo sono le intercettazioni contenute nelle carte della procura di Napoli che in questi giorni compaiono sui quotidiani, con Roberto Castelli e Roberto Calderoli che chiedono conto della finanza creativa al leghista genovese. Forse lo coprono. Forse no. I magistrati stanno indagando. Rimane che il Carroccio è nel putiferio. Il 9 gennaio è un lunedì. E la segreteria politica si riunisce per fare il punto della situazione. Quel giorno in Bellerio si deve parlare oltre che di Tanzania soprattutto della posizione che avrà il Carroccio su Cosentino. Maroni detta la linea e oltre a spiegare di non sapere niente dei fondi «africani» annuncia pubblicamente la sua presa di posizione di votare sì all’arresto. Il giorno dopo sui quotidiani l’ex direttore della Padania Gianluigi Paragone scrive su Libero: «Ma su Cosentino vince Maroni», mettendo in relazione gli investimenti in Tanzania del tesoriere del cerchio magico Belsito e la posizione dell’ex ministro dell’Interno sul deputato pidiellini. Tutto fila liscio alla giunta per le autorizzazioni alla Camera martedì 10 gennaio, ma in meno di 24 ore Bossi cambia idea. E il Senatùr lo dice pure pubblicamente poco prima del voto alla camera il 12 gennaio: «Libertà di coscienza. Nelle carte non c’è nulla». La cosa creerà una bagarre infinita, tanto che i leghisti arriveranno perfino alle mani nel corso della riunione di gruppo, con Maroni saldo nel dire: «Da ministro dell’Interno uscente vi dico che voterò a favore dell’arresto di Cosentino». Non è chiaro chi ha votato sì o no all’arresto, nel segreto dell'urna. I barbari sognanti sono uniti nel dire che votarono a favore. E tra le maglie dell’opposizione c’è la certezza che a votare contro furono gli esponenti del cerchio magico. Ma cosa accadde tra il 10 e l’11 gennaio? Cosa fece cambiare idea a Bossi? Secondo le cronache dell’epoca, il Senatùr vide mercoledì sera Silvio Berlusconi a palazzo Grazioli. Ma su blog di cui abbiamo parlato all'inizio dell'articolo, spesso citato dal God, si dà conto di uno spiffero che non è ancora stato smentito da nessuno dei protagonisti, né dalla magistratura, né dai parlamentari interessati. Il pezzo è uscito il 6 aprile scorso e parla delle indagini sul Carroccio. Scrive Di Cori Modigliani, che intreccia la questione Belsito con quella di Cosentino, raccontando appunto di quelle giornate. «Mi riferisco qui alla sera del giorno (9 gennaio, ndr) in cui si è svolta la riunione della direzione della Lega Nord a via Bellerio, nel corso della quale l’ex ministro degli Interni, Roberto Maroni, si assunse la responsabilità di sostenere l’assoluta necessità di votare alla Camera per l’arresto del deputato pidiellino Nicola Cosentino e di lì a un’ora comunicò la scelta del partito alla stampa». Cosa accadde quella sera secondo Di Cori Modigliani ? Il titolare del sito “Libero Pensiero” parla di un telefono di Rosy Mauro infuocato. «Ma alle ore 20, Rosy Mauro riceve una telefonata da Cicchitto che chiede conferma. E venti minuti dopo c’è la telefonata del sultano di Arcore alla vice-presidente del senato, durata quasi un’ora. Due ore dopo, Bossi chiama Maroni e gli dice che si vota a favore di Cosentino. Come, regolarmente, avviene il giorno dopo». Esiste davvero questa intercettazione? Cosa si sono detti la Mauro, Cicchitto e il Cavaliere. C'è un filo che unisce le indagini della procura di Napoli con quelle di Reggio Calabria? Arrivando persino a quelle su Cosentino. «L’intercettazione è legale» si legge ancora nel pezzo. «Doppiamente legale. Perché i furboni, pensando di poter aggirare il lavoro delle forze dell’ordine, usano cellulari protetti e a nome di terzi sconosciuti. Si dà il caso, però, che questi terzi sconosciuti fossero già da tempo nel mirino degli inquirenti. E così il destino regala questa chicca che dà origine a tutto. Non sappiamo che cosa si siano detti. Ma 60 minuti sono lunghi, molto lunghi. Evidentemente di carne al fuoco ce ne doveva essere parecchia e denota i contorni di un copione italiano».
AMMINISTRATOPOLI
L’ex sindaco di Varese, Aldo Fumagalli, è stato condannato a 4 anni di carcere dal tribunale, con le accuse di peculato e «induzione indebita a dare o promettere utilità», scrive Roberto Rotondo su “Il Corriere della Sera”. Il politico della Lega Nord fu sindaco della città dal 1997 al 2005, e si dimise quando la procura gli inviò gli avvisi di garanzia, accusandolo di aver effettuato dei viaggi in auto blu per trasportare delle giovani ragazze romene e russe. Il tribunale lo ha riconosciuto colpevole di peculato proprio per l’utilizzo delle auto pubbliche in viaggi non di servizio (in un caso si fece portare a Monza per incontrare una ragazza oppure fece portare una delle giovani amiche a Varese dall’autista comunale). I giudici lo hanno assolto per una seconda accusa di peculato (aver occupato la casa dei poveri del comune per darla a un’amica), ma ne hanno stabilito la colpevolezza per due capi di imputazione più complessi: «induzione indebita a dare o promettere utilità», una forma di concussione attenuata che però nasconde le pressioni esercitate verso una titolare di cooperativa, Augusta Lena (allora fidanzata con il fratello di Umberto Bossi) affinché mettesse a disposizione un appartamento per le giovani amiche di Fumagalli. La donna ha testimoniato che dovette sottostare alla richiesta per paura di perdere l’appalto delle pulizie in comune. L’ex sindaco è stato altresì condannato all'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Farà ricorso in appello, ma anche il pm Agostino Abate farà ricorso, dato che aveva chiesto 6 anni di carcere e una formulazione più pesante della concussione. L’ex sindaco ha commentato dopo la sentenza: «Questo pm mi perseguita da anni, sono tutti fatti non veritieri».
A PROPOSITO DI EVASIONE FISCALE.
A Varese lo scontrino è un optional, un negoziante su due non lo rilascia. Questo scrive “La Repubblica”. Controlli della guardia di finanza su 113 esercizi commerciali in città: 58 non erano in regola con l'emissione delle ricevute. Oltre 913 irregolarità analoghe scoperte dall'inizio di quest'anno. In provincia di Varese un commerciante su due non emette lo scontrino fiscale. E' quanto è riscontrato dopo una serie di controlli condotti dalla guardia di finanza, che ha riscontrato irregolarità in 58 esercizi commerciali su un totale di 113. Oltre la metà dei negozi controllati, quindi, ha commesso violazioni alle leggi. In tutto sono 913 le irregolarità in materia di ricevute e scontrini fiscali già individuate dalle Fiamme gialle nei primi otto mesi del 2012. Durante i controlli sono stati sequestrati anche 5mila oggetti con il marchio Ce contraffatto, in possesso di un commerciante marocchino.
Ma anche "Il Fatto Quotidiano" scrive: Varese, blitz a sorpresa della Finanza. Un negoziante su due non rilascia scontrini. Su 113 controlli compiuti dalla Guardia di Finanza nella provincia della città lombarda sono emerse infatti 58 violazioni che vanno ad aggiungersi alle 913 già individuate nei primi otto mesi dell'anno. Sequestrati anche cinquemila pezzi con falso marchio “Ce”. Lo scontrino questo sconosciuto. Un esercente su due, in provincia di Varese, dimentica di rilasciarlo. Su 113 controlli compiuti dalla Guardia di Finanza nel Varesotto sono emerse infatti 58 violazioni che vanno ad aggiungersi alle 913 già individuate nei primi otto mesi dell’anno. Tutto il mondo è paese in materia di evasione. E così anche nella provincia culla della Lega e di proteste contro il Meridione d’Italia. Per quanto riguarda il contrasto all’abusivismo commerciale e alla vendita di prodotto pericolosi le Fiamme Gialle hanno sequestrato poi oltre cinquemila articoli con marchio ‘CE’ contraffatto. Segnalato alla Camera di Commercio di Varese, il marocchino che li vendeva. Risultati che vanno ad aggiungersi ai sequestri di prodotti contraffatti (17.500), e alla denuncia di 94 soggetti, già effettuati dalle Fiamme Gialle nei primi otto mesi del 2012 sul territorio dell’intera provincia. Come accaduto nei mesi scorsi in altre importanti città turistiche italiane, anche in questo caso il blitz a sorpresa dei finanzieri si inquadra “in consolidate metodologie d’azione, sistematicamente attuate anche nella specifica prospettiva di utilizzare i dati ‘caldi’ acquisiti sul campo per integrare e attualizzare le attività di monitoraggio ed analisi del tessuto economico-finanziario”.
OMICIDI DI STATO.
Varese, Lucia Uva come Ilaria Cucchi: su Fb la foto del poliziotto coinvolto nell'inchiesta. La foto pubblicata da Lucia Uva sul suo profilo, scrive il 4 gennaio 2016 “la Repubblica”. Lucia Uva come Ilaria Cucchi. Anche la sorella di Giuseppe - l'uomo morto il 14 giugno 2008 all'ospedale di Circolo di Varese dopo essere stato fermato ubriaco per strada e portato in caserma - ha deciso di pubblicare sul suo profilo Facebook la foto di uno degli uomini delle forze dell'ordine coinvolti nell'inchiesta sulla morte del fratello. Cucchi lo ha fatto nelle scorse ore ed è stata denunciata dal carabiniere in questione. Uva ha deciso di imitare l'azione perché, spiega su Fb, "noi vittime dello Stato vogliamo solo la verità e non ci fermeremo fin quando i colpevoli non verranno tutti fuori". "Questo - scrive allora Uva sotto la foto dell'uomo, un autoscatto fatto a torso nudo in palestra - era il poliziotto che la notte del 14/6/2008 era presente nella caserma quando hanno preso Giuseppe". Poi, continua il post: "Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello. Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...". L'uomo nella foto è uno dei poliziotti che, insieme ad alcuni colleghi e a un carabiniere, condusse l'intervento e che sono stati rinviati a giudizio nel corso di una lunga e complicatissima vicenda giudiziaria. Di nuovo seguendo lo schema di Ilaria Cucchi, Lucia Uva invita le persone che visitano la sua pagina a non lasciarsi andare a "offese come loro hanno fatto coi nostri cari, niente guerra. Solo i vostri commenti di quello che pensate.... noi vogliamo solo la verità e giustizia per tutti, nessuno escluso. Noi siamo e saremo una famiglia e saremo sempre uniti!!!".
Di seguito le contrapposizioni di chi sta dalla parte dei carnefici e di chi sta dalla parte delle vittime.
Il coraggio di «assolvere» gli agenti, scrive Paolo Granzotto Martedì 10/06/2014 su "Il Giornale". Difficilmente la richiesta del procuratore Felice Isnardi - che ha chiesto il proscioglimento del carabiniere e dei sei poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale e altri reati ai danni di Giuseppe Uva - sarà giudicata «esemplare» dalla stampa e società civile in assetto di vigilanza democratica. Per loro «esemplare» è, quasi per luogo comune, ogni atto giudiziario o sentenza che punisca l'operato delle forze dell'ordine. Così come il martellante «fare chiarezza» o «volere giustizia», in simili circostanze equivale, matematicamente, a chiedere la condanna degli agenti in divisa. Una forma di emiplegia giustizialista non sorda all'eco di quel «dàgli allo sbirro» che ritmò gli anni Sessanta e Settanta, gli stessi (...)(...) definiti formidabili da Capanna e così tuttora sentiti dai vigilanti dei quali abbiamo detto. Per costoro non sarà dunque esemplare, la richiesta di Isnardi. Però dell'esemplarità ha il sigillo. Fu lo stesso procuratore, infatti, che dopo il rifiuto del Gip di archiviare, come avevano chiesto i pm Abati e Arduini, la pratica dei carabinieri e gli agenti implicati nel caso Uva, avocò a sé il fascicolo. Nessun dubbio, quindi, che il procuratore intendesse «fare chiarezza». Nessun dubbio che intendesse «fare giustizia». E l'ha fatta, sorprendendo e scandalizzando coloro i quali sia la chiarezza sia la giustizia l'intendono - quando ci sono di mezzo polizia e carabinieri - a senso unico: prima in manette e poi in galera. Un buon punto non a favore della giustizia, che ovviamente non comporta punteggi se non per gli aedi della vigilanza democratica, ma per le forze dell'ordine. Alle quali stringiamo la mano.
Il gip assunto dal deputato che lo sosteneva. Il giudice che non voleva chiudere il caso Uva è diventato consulente dell'onorevole Pd Bratti, scrive Stefano Zurlo Lunedì 21/12/2015 su “Il Giornale”. Sinergie. Affinità culturali. Politica giudiziaria. Due nomi eccellenti che s'intrecciano su un caso delicato, quello di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 a Varese dopo essere stato fermato dalle forze dell'ordine. Alessandro Bratti e Giuseppe Battarino, storia di un'intesa costruita sul palcoscenico di un difficile procedimento giudiziario: Bratti è deputato del Pd ed è in prima linea nel tenere vivo un caso per cui la Procura di Varese aveva chiesto e richiesto l'archiviazione. Battarino è il coordinatore dei gip nella stessa città e si trova ad affrontare la spinosa vicenda, seguita con grande clamore dall'opinione pubblica: decide dunque di non mandare in soffitta l'inchiesta e anzi ordina nuovi accertamenti. Ora, dopo aver seguito, da punti di vista diversi, lo stesso dramma i due si ritrovano insieme: Bratti è il presidente della Commissione ecomafie, Battarino ne è diventato consulente a tempo pieno, lasciando la Lombardia per Roma. Succede tutto con la sincronia di un metronomo: per il pm Agostino Abate poliziotti e carabinieri non hanno alcuna responsabilità nella morte di Uva e vorrebbe chiudere il caso.Ma molti la pensano diversamente: il nome di Uva, con quelli di Cucchi e Aldrovandi, diventa sinonimo dell'abuso della forza da parte dello Stato. No, l'indagine non può finire così, su un binario morto. E così, fra appelli, mobilitazioni e articoli dei grandi giornali, la tragedia diventa una sorta di battaglia per la civiltà. Il 28 maggio 2013 Bratti e il suo collega di partito Walter Verini presentano un'interrogazione al ministro Anna Maria Cancellieri chiedendo «quali provvedimenti intenda adottare al fine di evitare che la prossima scadenze dei termini di prescrizione impedisca di accertare le cause e gli autori della morte di Giuseppe Uva». La pratica finisce sul tavolo di Battarino: il pm è convinto che il lavoro di scavo non abbia portato da nessuna parte, ma il gip tiene vivo il fascicolo e dispone altri accertamenti. Alla fine, un altro giudice spedisce a processo gli agenti, capovolgendo ancora una volta la linea dell'accusa che non vedeva la possibilità di andare avanti. E ora il dibattimento è in pieno svolgimento fra le perplessità degli avvocati: «Mi chiedo - spiega al Giornale Pietro Porciani, difensore di due poliziotti - come si possano discutere capi d'imputazione così deboli». Di fatto Battarino dà impulso ad un'inchiesta agonizzante e Bratti porta il nome di Uva fin dentro il Palazzo, calamitando energie per fare saltare il tappo delle presunte omissioni, reticenze e silenzi. I due evidentemente si stimano e dall'incontro sulla controversa vicenda sboccia un vero amore: a settembre dell'anno scorso Bratti diventa il presidente della Commissione ecomafie, pochi giorni dopo Battarino diventa suo consulente - uno dei tre nominati - e lascia Varese per Roma. La politica e la giustizia vanno a braccetto. Ciascuno, sia chiaro, fa la sua parte, ma quando più soggetti, da sponde diverse, giocano per lo stesso risultato il successo alla fine arriva. Su quel confine sottile, a volte evanescente, fra l'aula del tribunale e la piazza che chiede giustizia. E carriere diverse, apparentemente lontane, si ricongiungono.
Abbiamo un problema con i Carabinieri? Si chiede Luigi Manconi. Luigi Manconi chiede al ministro Roberta Pinotti di richiamare l'arma al rispetto dei diritti delle persone fermate, dopo i casi Cucchi, Uva e Magherini, "Cara senatrice Roberta Pinotti, mi rivolgo a te in quanto, per il tuo ruolo di ministro della Difesa, sei titolare della responsabilità politica per l’attività dell’Arma dei Carabinieri. Poche ore fa, con riferimento alla vicenda della morte di Stefano Cucchi, il comandante generale della stessa Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato: “È inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti”. E ancora: “Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri”. Il generale Del Sette ha ragione: e posso aggiungere che la responsabilità penale è personale. Un principio fondamentale quest’ultimo al quale sento il dovere di attenermi sempre. Dunque – come suggerisce il comandante generale – non si deve fare di tutta l’erba un fascio. In altre parole, il corpo dei Carabinieri è in gran parte sano e le colpe sono da attribuirsi a “poche mele marce”. Ma è sulle implicazioni di tutto ciò che devo esprimere un profondo dissenso. Temo infatti che il ragionamento di Del Sette si risolva in una conclusione fallace e consolatoria. Sia perché, per rimanere nell’universo linguistico dell’ortofrutta, “le poche mele marce” se raccolte in un cestino sono capaci in men che non si dica di contagiare le altre; sia perché i rari elementi infetti possono rivelare una patologia assai più diffusa. Insomma, quanto venuto alla luce in questi giorni a proposito della morte di Stefano Cucchi può inquietare particolarmente chi, come me, a quella e altre vicende simili dedica attenzione da molti anni. E allora è certo che si tratta di una perversa coincidenza, e che ciascun episodio fa storia a sé e si è verificato in luoghi e con protagonisti differenti, ma è altrettanto innegabile che – come si vedrà – vi compaiano sempre militari dell’Arma dei Carabinieri. Non solo: queste storie diverse e distanti – ecco l’insidiosa combinazione – si dipanano e si avviluppano nell’arco di alcuni giorni. Venerdì scorso, le confessioni relative al “violentissimo pestaggio subito da Cucchi” (parole del capo della Procura, Giuseppe Pignatone, al quale si deve essere tutti grati); ieri, lunedì 14 dicembre, sono cadute in prescrizione – grazie alla scellerata gestione da parte del procuratore Agostino Abate, infine sanzionato dal Csm – gran parte delle accuse perla morte di Giuseppe Uva, trattenuto illegalmente per ore nella caserma dei carabinieri di Varese; e sempre ieri si è tenuta un’udienza per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta a Firenze il 3 marzo del 2014 nel corso di un fermo a opera di quattro carabinieri. Nel corso dell’udienza un testimone ha così dichiarato: “Uno dei carabinieri colpì Riccardo Magherini con dei calci all’addome, almeno cinque o sei volte”, poi “vidi due calci alla testa. Cioè vidi un paio di calci all’altezza della testa, non saprei dire dove colpirono”. Ripeto, so bene che parliamo di tre vicende diverse avvenute in tempi diversi e in luoghi diversi. Ma è forte la sensazione che qualcosa li tenga insieme. E che l’accertamento dell’accaduto, l’individuazione dei responsabili e la loro sanzione, nel caso di provata colpevolezza, costituisca un’impresa davvero ardua. Per molte, comprensibili quanto ingiustificabili ragioni, il conseguimento della verità sulle cause di morte di persone custodite sotto la responsabilità delle forze dell’ordine e di istituzioni dello Stato è sempre complicato. Ma, tra queste, spiccano le inchieste che vedono coinvolte l’Arma dei Carabinieri, sue articolazioni territoriali, suoi singoli esponenti. E così ci sono voluti ben sei anni per trovare riscontri all’ipotesi che la tragedia di Stefano Cucchi si fosse consumata nella stazione dei Carabinieri “Appia” di Roma. E analoghe deficienze investigative si sono verificate, come detto, nel caso della morte di Giuseppe Uva a Varese. E mi auguro di cuore che nulla del genere possa ripetersi a Firenze. In proposito, va ricordato che nel gennaio del 2014 il comando generale dei carabinieri inviò a tutte le caserme d’Italia una circolare nella quale si raccomandava di non ricorrere più proprio a quella modalità di fermo che, due mesi dopo, avrebbe provocato la morte di Magherini. La tecnica è la seguente: si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con le manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche tre-quattro, gravano sulla sua schiena per impedire qualsiasi movimento. Si determina qualcosa definibile come “compressione toracica” e che può portare all’infarto o all’asfissia. Quella circolare, che metteva in guardia contro una simile metodica, viene affissa in tutte le bacheche di tutte le caserme: e, dunque, anche in quella da cui parte la gazzella che incrocerà Magherini. Certo, quella direttiva è stata impartita con decenni di ritardo e tuttavia, se fosse stata letta e conosciuta e messa in pratica da quei quattro carabinieri, un giovane uomo probabilmente si sarebbe salvato. Cara senatrice Pinotti, come ho già detto, le responsabilità penali sono personali e quelle politiche non valgono certo per il pregresso, ma se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti. Sapendo che, per come ti conosco, condividi queste mie considerazioni, attendo una tua presa di posizione su avvenimenti che colpiscono profondamente l’opinione pubblica. Luigi Manconi è senatore del PD, sociologo e attivista per i diritti umani.
Il caso Uva squassa ancora la magistratura, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. L’11 marzo 2014 era già sembrato un colpo di scena che il giudice Giuseppe Battarino, nel respingere la richiesta di archiviazione di due carabinieri e sei agenti di polizia proposta dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, li avesse obbligati invece a chiedere il processo ai rappresentanti delle forze dell’ordine per la morte nel giugno 2008 del 43enne Giuseppe Uva in ospedale dopo una parte della notte trascorsa nella caserma dei carabinieri. E il 20 marzo 2014 i pm, come in questi casi impone la legge, avevano ovviamente ottemperato all’obbligo, formalizzando l’incriminazione di carabinieri e poliziotti richiesta dal gip Battarino per le ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità e abbandono di minore. Solo che - si scopre adesso - ad avviso del loro procuratore capo facente funzioni Felice Isnardi (inviato 20 giorni fa dalla Procura generale di Milano a reggere la scoperta Procura di Varese), i due pm l’avrebbero sì fatto, ma in un modo tale da costruire imputazioni deboli per illogicità e contraddittorietà, con il risultato di rischiare di minare in partenza un processo nel quale non credono e al quale solo il gip li ha obbligati. Per questo - con una decisione clamorosa perché arriva dopo sei precedenti «no» della Procura generale milanese ad altrettante richieste avocazioni, e ancor più perché viene adottata proprio ora che l’imputazione coatta sembrava aver per adesso chiuso la fase più travagliata dell’inchiesta - il procuratore reggente Isnardi ha tolto il fascicolo ai pm Abate e Arduini, e se lo è autoassegnato per la prosecuzione dell’udienza. Nel provvedimento datato 21 marzo 2014, il procuratore reggente di Varese esprime infatti la convinzione che il capo d’imputazione formulato dai pm Abate e Arduini «non abbia rispettato le prescrizioni imposte dall’ordinanza del gip» e che «manifesti profili di illogicità e contraddittorietà rispetto al titolo dei reati ipotizzati». Per Isnardi non è solo un problema di forma: la debolezza delle modalità di imputazione farebbe diventare «elevata» la «probabilità che il giudice della futura udienza preliminare solleciti il pm» a integrare l’accusa e, «in mancanza, possa disporre la restituzione degli atti, con l’ovvia conseguenza della regressione del procedimento». Per scongiurare questa eventualità, che allungherebbe ancora i tempi, il procuratore reggente inviato a Varese dalla Procura Generale milanese decide di revocare ai pm Abate e Arduini l’assegnazione del fascicolo, e di individuare in se stesso «il diverso pm» designato «per l’esercizio sia dell’attività di udienza, sia di tutte quelle altre attività che potranno eventualmente rendersi necessarie». Nell’assenza di commenti da parte dei diretti interessati, si può solo attendere il termine previsto dalla legge per eventuali controdeduzioni che i due pm potrebbero inviare al Csm nel caso in cui volessero contestare i presupposti del provvedimento che ha tolto loro l’inchiesta. Nel frattempo il legale degli indagati, Luca Marsico, chiede alla Cassazione di annullare l’ordinanza del gip Battarino perché questi vi avrebbe aggiunto un reato (l’omicidio preterintenzionale) non prospettato quando aveva ordinato ai pm un supplemento di indagini. Il gup dell’udienza preliminare dovrà decidere se disporre o no quel processo a carico di carabinieri e poliziotti invocato dai familiari di Uva: con gli avvocati Fabio Anselmo e Fabio Ambrosetti, i parenti da sempre sostengono che Uva, fermato ubriaco per strada insieme a un amico, avrebbe subito violenze in caserma prima di essere ricoverato in ospedale con trattamento sanitario obbligatorio.
Uva, il giorno più lungo della procura. I pm sono andati per la loro strada e non hanno voluto recepire in toto le conclusioni del gip, ma ora si pone un altro problema: c'è un altro processo che nasce dal caso Uva, chi lo condurrà? Si chiede Roberto Rotondo su “Varese News”. L’aria che tira a Varese è quella di una procura spaccata. Da una parte ci sono i pm Agostino Abate e Sara Arduini, che si sono visti togliere il fascicolo del caso Uva e dall’altra c’è il procuratore Felice Isnardi, un capo provvisorio, facente funzione, distaccato dalla procura generale di Milano, che a maggio tornerà nei suoi uffici quando il csm nominerà il nuovo procuratore di Varese. Fino a quando la procura è stata retta dal magistrato Maurizio Grigo, oggi procuratore generale a Campobasso, il ruolo di questi pm non era mai stato messa in discussione. Abate e Arduini, ora, possono fare delle osservazioni al csm contro la decisione di Isnardi, ma l’organo superiore della magistratura non può revocare il provvedimento del capo dell’ufficio che tuttavia deve essere motivato. Ci saranno probabilmente degli strascichi ma tutti interni alla magistratura. Isnardi terrà il fascicolo fino all’udienza preliminare, ma dopo nessuno sa con precisione che cosa accadrà. Potrebbe essere assegnato a un nuovo pm o in linea teorica anche restare allo stesso Isnardi. Qualcosa è cambiato. La procura generale aveva respinto per 6 volte le richieste di avocazione contro Abate e Arduini e anche i due procedimenti disciplinari contro i pm finiti al CSM, non sono per ora avanzati. Il fascicolo invece è stato tolto ai due pm perché avrebbero scritto un documento illogico: i due magistrati hanno obbedito alle richieste del gip ma senza rinnegare quanto avevano precedentemente affermato nelle loro conclusioni all’inchiesta, quando avevano disposto la richiesta di archiviazione. Secondo alcuni si può persino concludere che i pm abbiano in fondo sostenuto una loro coerenza fino in fondo: non credendo a quanto prospettato dal gip, hanno cioè riscritto gli stessi elementi della loro inchiesta. Ma va ricordato che i principali avversari di questi pm sono Lucia Uva, gli avvocati di parte civile Fabio Ambrosetti e Fabio Anselmo e il senatore del Pd Luigi Manconi, quest'ultimo alfiere di una campagna per la riapertura del caso che ha coinvolto stampa e tv nazionali. E’ un paradosso, in fondo, ma di cose strane in questa vicenda non ne mancano. Ad esempio, vi sarà anche un secondo processo derivante da questa indagine, e vedrà Lucia Uva e altri imputati per diffamazione contro i carabinieri, per aver sostenuto in tv che Giuseppe Uva era stato violentato. I pm di questo processo dovrebbero essere proprio Abate e Arduini: sarà loro revocato anche questo? Le parti civili delle sorelle Uva hanno sempre tifato per le indagini contro i carabinieri e hanno festeggiato quando furono assolti i medici che pure avevano avuto 4 avvisi di garanzia per la morte del fratello perchè somministrarono sedativi e calmanti a un soggetto ubriaco e debilitato tre ore dopo il passaggio in caserma. Infine, l’ordinanza del gip Battarino ha prospettato un reato, omicidio preterintenzionale, che in precedenza non era stato suggerito alla procura e per questo Luca Marsico, avvocato degli 8 indagati, ha fatto ricorso in cassazione. Comunque sia, la vicenda processuale non è affatto decisa. Un episodio simile a quello del caso Uva è accaduto a febbraio con gli stessi protagonisti. Il pm Abate ha indagato per 3 anni sulla vicenda di un uomo che, uscito dal dentista, ha avuto un incidente stradale ed è morto. Il gip Battarino ha chiesto l'imputazione coatta del dentista perchè gli avrebbe somministrato un farmaco che induce sonnolenza senza avvisare il paziente. In quel caso, il pm ha obbedito ma il gup Giorgetti alla fine ha archiviato.
L’intervista esclusiva di Andrea Spinelli su Crimeblog: caso Giuseppe Uva, intervista a Lucia Uva, "Ora via la toga". Lucia Uva, battagliera sorella di Giuseppe, da sei lunghi anni dedica la propria esistenza per fare luce sull’omicidio del fratello, avvenuto per mano di uomini in divisa: una battaglia in solitaria, almeno così è stato fino ad oggi nelle stanze della procura di Varese, che oggi sembra prendere la direzione di verità e giustizia tanto agognata. Lucia Uva ci dice di non essersi mai arresa, nemmeno di fronte alle continue violazioni della sua dignità, di quella della sua famiglia e, sopratutto, della continua lesione della memoria del fratello Giuseppe. Un’esperienza drammatica che tuttavia ha permesso a Lucia di sentire accanto a se un mondo di solidarietà e vicinanza che non si sarebbe aspettata mai. La storia di Giuseppe Uva ha dell’incredibile: tradotto in caserma in via Saffi a Varese perchè “molesto”, assieme all’amico Alberto Biggiogero nella notte del 14 giugno 2008 (i due avevano bevuto ed erano intenti a spostare alcune transenne nel centro di Varese), Giuseppe muore in ospedale poco dopo l’alba. La colpa ricade, come spesso avviene, sui medici (è così anche nel caso Cucchi), ma la verità è un’altra: incrociando le telefonate al 118 (la prima dello stesso Biggiogero, che non ha assistito direttamente, ma ha ascoltato il pestaggio mortale all’amico, avvenuto in caserma), le intercettazioni agli aguzzini di Uva, le evidenze probatorie, il quadro drammatico che sembra inequivocabile è quello di un morto ammazzato da uomini in divisa. Un dramma inconfessabile per le stesse divise, che trovano una sponda amica nella procura di Varese, che avvia le indagini ma si concentra su altre responsabilità: il Tso, i medici, l’ospedale. Poi, lentamente, si incrina il muro di omertà e prima si indaga “contro ignoti” della caserma e poi, ancor più lentamente, escono i nomi. Ma i pm Abete e Arduini costruiscono imputazioni deboli per “illogicità e contraddittorietà” a carico dei responsabili in divisa, scrive il procuratore capo di Varese Isnardi, con il rischio che il processo finisca tutto in una bolla di sapone per le tempistiche bibiliche della giustizia italiana. E, nel frattempo, i video che ritraggono gli interrogatori del pm Abete mostrano non quella terzietà che ad un magistrato è dovuta, anzi evidenti pregiudiziali sui fatti del 14 giugno 2008.
Come ha preso la decisione del procuratore Isnardi?
“Sono un po’ felice e un po’ amareggiata, un po’ di tutto. E’ una buona notizia, si potrebbe anche dire una vittoria, però è anche una sconfitta: in questi sei anni questo pm mi ha proprio torturata, come ha torturato Giuseppe; è stata una battaglia lottata.”
Che cosa vi aspettate succeda adesso?
“Ci aspettiamo che adesso parta il vero processo perchè Giuseppe è come se lo avessero ucciso ieri ed oggi si cominciano le ricerche sul perchè sia morto. Questa è la verità. Noi chiediamo che venga fatta luce e i reati che resteranno in piedi vengano pagati tutti per intero (per via del rischio prescrizione, nda).”
Oltre al dolore per la perdita di Giuseppe, cosa altro ha vissuto in questi ultimi sei anni?
“Io personalmente ho dovuto mettere completamente da parte la mia vita, la mia famiglia; i miei figli, il mio lavoro, tutto accantonato per rincorrere dietro ad una verità per la quale bastava solo che il pm facesse il suo lavoro, che non ha fatto. Ho perduto tanto: ho perduto sei anni della mia vita.”
Come mai Abate, secondo lei, si è comportato in questo modo? Quale tesi voleva fermamente sostenere?
“Io non so interpretare il suo comportamento, non lo so. Mi vengono in mente però delle parole dette da un avvocato ieri davanti al tribunale, un avvocato dei medici al centro di una mia battaglia di sei anni affinchè venissero prosciolti dall’accusa di essere loro i responsabili della morte di mio fratello. Mi ha detto: vede signora, con Abate è dura farcela perchè lei sta cercando la verità mentre Abate vuole nasconderla perchè è amico dei Carabinieri. […] Per me lui ha nascosto la verità, io non so il perchè.”
E ora che farete?
“Abate si deve togliere la toga. A lui chiederò anche un risarcimento per questi sei anni di processo vuoto, ne ho già parlato con i miei legali.”
Ha sentito la vicinanza dello Stato, in questi sei anni?
“Non posso proprio dire di essere stata abbandonata: sono stata ricevuta dal ministro Cancellieri e da altre componenti dello Stato; la procura generale di Roma, il procuratore di Milano, tutti mi dicevano la stessa cosa: Aspettiamo perchè dobbiamo fare verifiche. Insomma, non mi sono sentita abbandonata. Forse però mi sono sentita tale da parte delle forze dell’ordine, che dovevano tutelare mio fratello e non l’hanno tutelato, e da questo pm che doveva fare le nostre indagini e non ha mai voluto farlo. Sinceramente, mi sono un po’ sentita sola all’inizio, quando tutti pensavano che io fossi una pazza ma io volevo solo la verità.”
Lucia ci tiene poi a ringraziare in particolare alcune persone che l’hanno sostenuta in questi anni, facendole sentire la vicinanza di un mondo che sarebbe potuto sembrare sordo, all’inizio, ma che poi ha fatto suo il dramma della morte di Giuseppe Uva, fino a mutarlo in una grande lotta per la verità e la giustizia e contro gli abusi in divisa.
“Io devo ringraziare il professor Manconi (Luigi Manconi, senatore del PD, nda) e il mio avvocato Fabio Anselmo (penalista ferrarese che segue anche altri casi di abusi in divisa, nda): ho lottato con loro al mio fianco, anche con l’associazione A Buon Diritto del professor Manconi.”
Oltre a “Via la divisa”, il motto che unisce tutte le vittime degli abusi di polizia in Italia, recentemente lanciato da Ilaria Cucchi, Patrizia Aldrovandi, Domenica Ferrulli e da Lucia Uva, la stessa Lucia chiede di aggiungere anche un “via la toga”, riferendosi al pm Abate che negli ultimi sei anni, a quanto scrive il procuratore di Varese (suo capo) ha prodotto atti lacunosi, illogici e contraddittori, atti che rischiavano di far saltare tutto il processo. La registrazione degli interrogatori avvenuti in procura, con il trattamento riservato all’unico testimone civile del massacro a Uva, il suo amico Alberto Biggiogero, sono un altro elemento che provocano scarsa indulgenza verso il pm Abate. Che, fino a prova contraria, non ha agito nell’interesse della verità.
24 marzo 2014. I pm di Varese hanno depositato la richiesta di fissazione dell'udienza preliminare per 2 carabinieri e 6 poliziotti, accusati di aver maltrattato Giuseppe Uva, 43 anni, nella caserma dei carabinieri di Varese, la notte del 14 giugno 2008, scrive “Il Corriere della Sera”. Entro due giorni sarà fissata la data dell'udienza stessa che, secondo indiscrezioni, potrebbe essere presieduta dal presidente del tribunale di Varese, il giudice Vito Piglionica. Esce di scena invece il gip Giuseppe Battarino che ha già firmato l'ordinanza che ha riaperto di fatto il caso ed è quindi incompatibile. I pm che hanno depositato la richiesta sono gli stessi che, da 6 anni, gestiscono il caso, Agostino Abate e Sara Arduini. I sostituti varesini sono stati molto contestati dalla sorella della vittima, perché hanno indagato in prima battuta su 4 medici dell'ospedale cittadino che somministrarono a Uva dei sedativi (tutti assolti) e solo successivamente, nella seconda inchiesta, hanno investigato sulle forze dell'ordine, salvo chiederne per ben due volte l'archiviazione. Nella loro richiesta di archiviazione «innocentista», i pm hanno concluso che i carabinieri fermarono Uva perché li insultava e si ostinava a voler compiere dei vandalismi in strada, a Varese; inoltre lo portarono in caserma solo per formalizzare gli atti della denuncia, circostanza che gli provocò uno scatto d'ira poiché era ubriaco e temeva di perdere la sessione di esame per riacquistare la patente, prevista nei giorni successivi. Il gip Battarino invece ha ribaltato questa ricostruzione e ha concluso che i carabinieri e i poliziotti fermarono illegalmente Giuseppe Uva, e che sono credibili le affermazioni del testimone Alberto Biggiogero: l'amico di Uva era presente in caserma e ha affermato di aver sentito le urla del pestaggio provenire da una stanza attigua del comando provinciale. Come assicurato nei giorni scorsi dal procuratore Felice Isnardi, i reati indicati dai pm sono gli stessi citati dal gip, ovvero omicidio preterintenzionale, violenza privata, abbandono di incapace, arresto illegale. Il legale degli imputati ha presentato ricorso in Cassazione contro l'imputazione coatta.
A quasi sei anni dall'episodio, gli agenti di polizia e i carabinieri che il 14 giugno 2008 fermarono Giuseppe Uva, morto in ospedale dopo aver trascorso parte della notte in caserma a Varese, dovranno rispondere davanti al gup delle accuse di omicidio preterintenzionale e arresto illegale, scrive “La Repubblica”. I pm Agostino Abate e Sara Arduini hanno depositato la richiesta di fissazione dell'udienza preliminare e di rinvio a giudizio per due carabinieri e sei poliziotti che intervennero a supporto dei colleghi. "Sono anni che chiediamo giustizia - fa sapere la sorella di Giuseppe Uva, Lucia - Finalmente ora potrà aprirsi un processo per fare chiarezza sulla morte di mio fratello e sulle responsabilità delle forze dell'ordine". Il passaggio segue l'ordinanza del gip Giuseppe Battarino, che lo scorso 11 marzo 2014 aveva respinto la richiesta di archiviazione del pm disponendo l'imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e altri reati dei carabinieri che portarono in caserma l'operaio 43enne Giuseppe Uva e l'amico Alberto Biggiogero, dopo averli fermati ubriachi per strada, e per gli agenti di polizia, tutti ancora in servizio. Nei prossimi giorni verrà fissata la data dell'udienza preliminare. Secondo i familiari, assistiti dagli avvocati Fabio Anselmo e Fabio Ambrosetti, Uva avrebbe subito violenze in caserma prima di essere ricoverato in ospedale con trattamento sanitario obbligatorio. Un'ipotesi esclusa dagli accertamenti condotti dal pm Agostino Abate, il quale aveva chiesto l'archiviazione per carabinieri e poliziotti indagati per lesioni colpose sostenendo che le ferite furono provocate da atti di autolesionismo. Il gip, nell'ordinanza che ha respinto la richiesta di archiviazione disponendo l'imputazione coatta, rimarca invece che "Giuseppe Uva è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali". Ordinanza contro la quale il legale di carabinieri e poliziotti, Luca Marsico, ha presentato ricorso in Cassazione. L'iter processuale sulla vicenda, con il proscioglimento dei tre medici dell'ospedale di Circolo di Varese accusati di omicidio colposo, ha portato per ora a un unico punto fermo: Uva non morì a causa di un errore del personale sanitario nel somministrargli i farmaci dopo il ricovero.
L’avvocato Luca Marsico, difensore dei due carabinieri e dei sei poliziotti coinvolti nel caso Uva, ha presentato un ricorso alla Corte di Cassazione con il quale chiede l’annullamento dell’ordinanza del gip Giuseppe Battarino dello scorso 11 marzo, ordinanza con cui il giudice ha ordinato alla Procura di chiedere il rinvio a giudizio degli agenti in relazione alla morte del quarantatreenne Giuseppe Uva, avvenuta nel giugno del 2008 in ospedale dopo un "passaggio" notturno nella caserma dell’Arma, scrive “La Prealpina”. ll legale ritiene l’ordinanza "affetta da abnormità", in particolare là dove disegna il "perimetro" delle accuse da muovere a poliziotti e carabinieri inserendo anche l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale. Semplificando un po’, l’avvocato Marsico rileva che in una precedente ordinanza Battarino all’omicidio preterintenzionale non aveva fatto cenno e su questa possibilità la Procura non ha svolto quindi indagini suppletive, anche interrogando gli agenti (con "lesione" delle loro garanzie difensive). Per quanto riguarda l’omicidio preterintenzionale, nella seconda ordinanza si è passati, secondo il legale, da una morte come conseguenza di arresto illegale o di abbandono d'incapace a una morte come "conseguenza di atti diretti a volontariamente ledere o percuotere". E questo avrebbe richiesto una nuova iscrizione degli indagati che non c’è stata. Per ora il ricorso non avrà effetti e forse sarà sottoposto al gup, in attesa che la Suprema Corte si pronunci: l’accoglimento sarebbe un terremoto. L'ennesimo.
Caso Uva, gli avvocati in procura: "Sostituite i pm". Fabio Ambrosetti si è recato dal procuratore reggente Isnardi e ha avuto assicurazione che il capo dell'ufficio sta valutando tutte le ipotesi. L'Avvocato Anselmo: "C'è anche il rischio prescrizione", scrive “Varese News”. «Bisogna normalizzare questa vicenda processuale, e l’unico modo per farlo è sostituire i pm». E’ con questa frase, lapidaria, che gli avvocati Fabio Ambrosetti di Varese, e Fabio Anselmo di Ferrara (foto), chiosano e mettono un punto esclamativo sulla loro conferenza stampa. Il team legale che sostiene il caso Uva (gli avvocati patrocinano le sorelle di Giuseppe, morto il 14 giugno del 2008 dopo un fermo in caserma) ha chiesto oggi al procuratore capo reggente Felice Isnardi la rimozione dei pm Agostino Abate e Sara Arduini dalle indagini. Il capo dell’ufficio, per legge, è il dominus dell’azione penale, e in qualunque momento può togliere un fascicolo a un suo sostituto ed affidarlo a un altro, ma certo ci devono essere delle motivazioni. Per gli avvocati, una di queste motivazioni starebbe nella eccessiva personalizzazione che il pm Abate avrebbe dato alle indagini, «mentre l’azione penale deve essere impersonata in maniera impersonale dell’ufficio competente» osserva l’avvocato Anselmo. E’ stato l’avvocato Ambrosetti a recarsi nell’ufficio del procuratore capo: «Mi ha assicurato che il provvedimento di esercizio dell’azione penale sarà fatto nei tempi di legge e per tutti i reati indicati dal gip. Mi ha dato espressa assicurazione che sarà così, indipendentemente da chi lo firmerà. Il procuratore ha anche detto – continua Ambrosetti – che insieme alla Procura generale di Milano stanno valutando l’ipotesi della sostituzione dei pubblici ministeri». Secondo Fabio Anselmo, tra questi pm e i giudici che finora hanno esaminato il caso «c’è un conflitto anomalo». Ma c’è un altro problema. «Per tutti i reati ipotizzati dal gip tranne l’omicidio preterintenzionale, a giugno, scatterà l’archiviazione. Quindi occorre fare in fretta».
Caso Uva, l'appello di Manconi: "Non può essere quel pm a sostenere l'accusa in aula". Il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani dopo l'imputazione coatta decisa dal gip di Varese a conclusione dell'inchiesta sul decesso del giovane. Trattenuto in caserma per stato di ubriachezza la notte del 14 giugno 2008, morì in ospedale qualche ora dopo, scrive “La Repubblica”. "Si deve evitare che il fascicolo resti ancora nelle mani del pubblico ministero Agostino Abate che per sei anni non ha voluto condurre un'inchiesta". All'indomani della decisione del Gip di Varese Giuseppe Battarino di ordinare l'imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto carabinieri e agenti di polizia indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani, il senatore del Pd Luigi Manconi, esprime tutta la sua preoccupazione per il proseguo del processo chiamato ad accertare le cause della morte del giovane trattenuto per circa due ore la notte del 14 giugno 2008 nella caserma dei carabinieri di Varese. Il giudice Battarino nel corso dell'udienza ha respinto la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate, ma se il fascicolo non viene assegnato ad un altro sostituto o se la Procura generale di Milano negasse ancora una volta (la sesta) la domanda di avocazione (presentata questa volta dallo stesso Manconi), il rischio è che a rappresentare l'accusa in occasione dell'udienza preliminare sia comunque un pubblico ministero già al centro di diversi episodi controversi e più volte censurato dagli organismi disciplinari della magistratura. Agostino Abate, si legge ad esempio nell'atto di azione disciplinare del Procuratore capo della Corte di Cassazione nei confronti del pm, "è venuto meno agli obblighi generali di imparzialità, di correttezza e di diligenza" e "ha pregiudizialmente eluso una puntuale disposizione del Tribunale e ha violato le norme del procedimento che impongono al pubblico ministero di svolgere le indagini necessarie per l'accertamento dei fatti (...) in particolare in caso di morte di una persona". "Obblighi procedurali - ricorda ancora il documento - che nella interpretazione che ne è data dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, sono rafforzati ed impongono alle autorità nazionali che le indagini siano effettive, tempestive e diligenti (...) in tutti i casi in cui la morte di una persona possa essere correlata all'intervento o all'uso della forza da parte di agenti delle forze dell'ordine". Manconi ricorda poi che "analoghe accuse, dette incolpazioni sono state mosse nei confronti di Abate da una parallela e autonoma inchiesta disciplinare condotta dal ministero della Giustizia. E ancor prima, nel corso degli anni, ben tre giudici, in altrettante sentenze, hanno intimato ad Abate di svolgere indagini complete e accurate sul trattenimento di Uva in caserma sotto la custodia dei due carabinieri e dei sei poliziotti. Ma niente è successo, fino alla imputazione coatta dei giorni scorsi". Come detto, oltre alla possibile scelta da parte del sostituto temporaneo del procuratore capo di Varese Felice Isnardi di affidare il fascicolo ad un collega, esiste secondo il presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani un'ulteriore possibilità. "Sarebbe - spiega Manconi - il potere di avocazione in capo alla Procura generale di Milano". La quale, però, ha già per cinque volte rigettato le istanze di avocazione presentate dalla famiglia e non si è ancora pronunciata in merito all'ultima istanza di avocazione, presentata il 4 marzo scorso dallo stesso senatore del Pd. "Possiamo davvero consentire - conclude Manconi - che l'unica opportunità rimasta ai congiunti di Giuseppe Uva di conoscere la verità sulla sua morte sia nuovamente demandata a chi, per sei lunghi anni, ha ostinatamente e incredibilmente fatto tutto il contrario di quello che avrebbe dovuto fare?"
Caso Uva, i giudici che cercano la verità. E quelli che la nascondono. Così scrive Susanna Marietti su “Il Fatto Quotidiano”. Un pubblico ministero è votato alla ricerca della verità. Rappresenta lo Stato, non qualcuna delle parti in causa nel processo. Non è un avvocato al soldo di qualcuno. Sembra incredibile doverlo ricordare. Ad Agostino Abate, pm nel procedimento per la morte di Giuseppe Uva, della verità non sembrava importare molto. Giuseppe Uva, morto a Varese nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in una caserma del carabinieri assieme all’amico Alberto Biggiogero che dalla stanza accanto lo sentiva gridare e lamentarsi, l’unica giustizia che aveva ottenuto era quella di un magistrato che non troppo aveva voluto indagare sulle colpe dei sei poliziotti e dei due carabinieri presenti quella sera nella caserma. Biggiogero, senza dubbi il principale testimone, era stato interrogato con incredibili anni di ritardo. L’interrogatorio era stato condotto come se fosse stato lui l’accusato, anteponendo all’ascolto la spavalderia e l’intimidazione. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, per aver detto che il fratello era stato percosso dai carabinieri è stata indagata per diffamazione. Oggi a dirlo è il giudice per le indagini preliminari di Varese, Giuseppe Battarino. Giuseppe Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. Vorranno indagare per diffamazione anche lui? Meno male che c’è un giudice a Berlino… Già l’ex ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pm Abate, così come aveva fatto la Procura generale presso la Cassazione. Oggi il dottor Battarino respinge la richiesta di archiviazione che Abate ha presentato in relazione alla morte di un uomo in custodia delle forze dell’ordine che urlava e chiedeva aiuto mentre all’amico veniva sequestrato il telefono con il quale – da solo – aveva chiamato il 118. Lucia Uva, che in questi anni ha portato avanti una battaglia che dovrebbe essere di tutti i cittadini, è stata trattata come fosse lei la colpevole. E la stessa cosa è accaduta a Ilaria Cucchi e a Patrizia Moretti. Se la saranno cercata, è il pensiero che si sente volare in quelle aule di giustizia. Se sono finiti in caserma, o sono stati fermati dalla polizia lungo un marciapiede, e se sono stati massacrati, un motivo ci sarà pure. Come per quelle donne che vengono violentate perché non stavano chiuse in casa invece di farsi vedere in giro. Meno di un mese fa a Bari un altro giudice per le indagini preliminari, Giovanni Anglana, ha respinto un’altra richiesta di archiviazione per un’altra morte in carcere. Carlo Saturno, 23 anni al momento del presunto suicidio nel marzo 2011, era stato pestato da ragazzino nel carcere minorile di Lecce. Come quasi mai accade a chi è in detenzione e dunque in mano altrui, aveva denunciato i fatti. Si attendeva la sua deposizione quando è stato trovato impiccato, dopo una lite con alcuni poliziotti, ormai nel carcere per adulti a Bari. Antigone ha chiesto tante volte al Ministero se gli agenti coinvolti nel processo fossero stati adeguatamente allontanati da lui, ma non ha mai avuto risposta. La scorsa settimana il Senato ha finalmente votato il testo di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano, in questo tragicamente carente. Si sbrighi adesso la Camera. E, una volta approvata la legge, ci pensino i giudici a utilizzarla. Il dottor Anglana impone al pm indagini che non ha effettuato su Carlo Saturno. Il dottor Battarino fa lo stesso per Giuseppe Uva. C’è più di un giudice a Berlino.
"Il vero processo comincia ora perché in questi sei anni nessuno ha mai voluto sapere come è morto Giuseppe" questa la prima reazione di Lucia Uva, sorella dell'operaio di Varese morto il 14 giugno 2008 dopo un fermo della polizia, scrive “Today”. Lunga e difficile è stata la vicenda giudiziaria per iniziare le indagini su carabinieri e poliziotti che la notte prima della morte di Giuseppe lo hanno portato nella caserma dove, come sostenuto da sua sorella e dai suoi avvocati, avrebbe subito diverse violenze prima di essere trasportato in ospedale. Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina. Il dottor Carlo Fraticelli, che aveva in cura Giuseppe, era stato indagato per omidicio ma anche scagionato da ogni accusa. Adesso rimane da ricostruire cosa è successo prima: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Domande scritte nel report redatto dal poliziotto in servizio nell'ospedale dove Giuseppe era stato trasportato e a cui cercherà di rispondere la nuova inchiesta. "La sentenza del gip è il vero processo, vanno a processo i veri responsabili. Abbiamo lottato e ora si è aperta una luce - continua a spiegarci Lucia - E' cominciato un momento nuovo e adesso ho fiducia e per me è una grande soddisfazione, anche se devo ammettere che ho avuto paura che arrivasse l'archiviazione". Agostino Abate, il primo pm a cui erano state affidate le indagini, che aveva anche accusato il medico dell'ospedale di omicidio, aveva chiesto l'archiviazione. Se fosse stata accolta la sua richiesta gli otto tra agenti e carabinieri non sarebbero andati a processo. Invece il gip Giuseppe Battarino ha accolto la richiesta di Lucia e del suo avvocato Fabio Alselmo. Come nel caso di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi anche Lucia vuole che chi ha ucciso suo fratello, se porta una divisa dovrà togliersela: "Nel caso venissero ritenuti colpevoli io continuerò la mia battaglia perché smettano di lavorare. Devono togliersi la divisa e così anche tutti gli altri che hanno ucciso. Non è giusto neppure nei confronti di chi questo lavoro lo fa onestamente. Nel mio caso poi Abate deve togliersi il fascicolo di Giuseppe. Lui non deve essere a processo con me in quell'aula. Adesso lo abbiamo smascherato ma allo stesso modo i magistrati che sbagliano non meritano di continuare e devono togliersi la toga. Lo Stato siamo noi e non possiamo essere sempre noi a pagare i loro errori" conclude Lucia.
Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.
Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”.
Caso Uva, pm Abate a processo, scrive “TGcom 24”, non indagò su pestaggio dell'operaio. Si era rifiutato di indagare sulla morte di Giuseppe Uva, giovane operaio gruista deceduto al pronto soccorso di Varese per le percosse probabilmente subite durante un pestaggio nella caserma dei carabinieri, subito dopo l'arresto per ubriachezza. Ora il pm Agostino Abate finirà sotto processo, dopo che il ministro della Giustizia Cancellieri ha avviato un’azione disciplinare nei suo confronto. Il Csm lo accusa di ignoranza e negligenza. Sul pm Abate pesa più di un'ombra, circa il modo con cui ha condotto le indagini. Non ha mai ascoltato Alberto Bigioggero, amico di Uva e presente in caserma, anche se in un'altra stanza, al momento del presunto fatale pestaggio. Non ha mai ascoltato le denunce della sorella della vittima, Lucia Uva, addirittura indagandola per diffamazione aggravata. E' accusato, dopo che il medico portato in giudizio era stato assolto (Abate ha sempre sostenuto che Giuseppe Uva fosse morto per negligenza del personale sanitario dell'ospedale), di non aver condotto ulteriori indagini per chiarire la dina,mica dei fatti, discolpando sempre le forze dell'ordine arrivando, secondo quanto riferito al Csm, a intimidire il collegio dei periti durante il processo a carico dei sanitari. Infine, il gip di Varese ha imposto nuove indagini ad Abate, rifiutando le sue richieste di archiviazione. Indagini ostinatamente mai condotte. Ora l'epilogo, con il processo al pm.
Caso Uva, alta tensione fra testimone e pm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare, Alberto Biggiogero. Questo video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere se stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione, come denuncia il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto'.
Caso Uva, il pm è sotto inchiesta: "Aggressivo con l'unico testimone", scrive “La Repubblica”. L'operaio di Varese morì in ospedale dopo essere stato trattenuto per ore in caserma. A più di cinque anni di distanza il magistrato sente l'unico testimone. E il senatore Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto' lo accusa: "Ha avuto un atteggiamento intimidatorio". Ora la vicenda è al vaglio del Csm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare: Alberto Biggiogero. Il video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste. Il confronto tra Abate e Biggiogero è durato più di quattro ore, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere sé stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione. La convocazione di Biggiogero in Procura, lo scorso 26 novembre 2013, arriva proprio dopo che i due autonomi procedimenti. Il tribunale di Varese, nella sentenza con cui aveva assolto il medico del pronto soccorso dall'accusa di omicidio colposo, aveva chiesto di indagare su quanto accaduto in caserma "perché - scriveva - tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri". Indagini che secondo la Procura generale della Cassazione non sono state mai compiute dal pm Abate, che nei giorni scorsi ha chiesto l'archiviazione per otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali in relazione alla morte di Uva. Ciò nonostante il gip varesino Giuseppe Battarino aveva configurato come sussistenti i reati di arresto abusivo e lesioni dolose in capo agli agenti, chiedendo al pm se c'erano anche altri reati. "Questo interrogatorio è stato fatto solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare", accusa il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto', anche lui convocato in Procura per rendere conto delle sue dichiarazioni sui media in cui accusava il pm di indagini lacunose e parziali. Adesso il Csm si occuperà nuovamente del caso Uva. L'assemblea dovrà pronunciarsi su un altro esposto nei confronti del pm Abate. La denuncia riguarda l'iniziativa del pm che ha messo sotto indagine l'avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, per "poter acquisire informazioni sull'attività difensiva di quest'ultimo in favore dei propri assistiti". A presentarla sono state Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara nel 2005 durante un controllo di polizia, e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, arrestato per droga e morto una settimana dopo in ospedale. La prima commissione del Csm aveva chiesto al plenum, come al solito, di archiviare l'esposto con la motivazione che non ci sono provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, visto che si tratta di "censure ad attività giurisdizionale". Ma grazie a un intervento di Giovanna Di Rosa, togata di Unicost, la proposta è stata stralciata e messa all'ordine del giorno del plenum.
Venerdì 12 aprile 2013 alle ore 23.00 su Italia 1, nuovo appuntamento in seconda serata con "Le Iene". Conducono Ilary Blasi, Teo Mammucari e la Gialappa's. Tra i servizi di questa puntata: nei giorni prima la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Per far luce sulla vicenda, Casciari intervista nuovamente Lucia Uva e ripercorre la storia del fratello, quarantenne morto in circostanze poco chiare il 14 giugno del 2008 a Varese. L'uomo, quella notte, viene portato con un amico in centrale per accertamenti da una pattuglia di Carabinieri. È proprio l'amico a raccontare di aver contattato il 118 mentre si trovava in sala d'attesa, sentendo dei lamenti di Uva provenire da un'altra stanza; richiesta fatta poi rientrare durante una chiamata di conferma del 118 alla caserma. Solo poche ore dopo, una guardia medica chiederà l'intervento di un'ambulanza per un Tso (trattamento sanitario obbligatorio); è sempre stato sostenuto, infatti, che Giuseppe Uva si sia reso protagonista di atti di autolesionismo. Ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Varese, l'uomo verrà dichiarato morto poco tempo dopo. Secondo quanto accertato inizialmente dalle indagini, sembra gli siano stati somministrati medicinali incompatibili con l'assunzione di alcool. Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decide per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata; da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta”; “a misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte". La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso. A quattro anni dalla morte dell'uomo, però, non si ha ancora un colpevole, per questo la sorella di Giuseppe Uva chiede che vengano fatte delle indagini per capire cosa sia successo nel lasso di tempo tra il fermo e il ricovero in ospedale. A questo punto il servizio parla della richiesta di avocazione delle indagini, per inerzia del Pubblico Ministero Abate, avanzata da Lucia Uva presso la procura Generale della Corte d’Appello di Milano, adducendo il fatto che nessuna indagine è stata fatta per trovare il responsabile della morte del fratello Giuseppe. L’istanza viene rigettata e sia Lucia Uva e sia Mauro Casciari spiegano che ha indurre al diniego è stata proprio la querela per diffamazione presentata contro di loro. Quindi, non è stata accolta la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere l'indagine al pm Abate. La Procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate l’indagine ed affidarla ad un altro magistrato. Lo si riferisce nella pagina ufficiale su Facebook dedicata al 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Cucchi e Aldrovandi. Già pochi giorni fa Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, aveva deciso di presentare una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva spiegato De Milato. La procura sulla morte di Uva ha indagato e mandato a processo per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio – e non i carabinieri, che, come sostiene la famiglia picchiarono Uva. Lucia Uva aveva chiesto di verificare l’ipotesi del pestaggio, ma quel fascicolo è stato chiuso dalla procura. Non è mancata la beffa: l’unica ad essere stata denunciata è stata la stessa Lucia Uva, per aver accusato in un’intervista con Le Iene i carabinieri e la polizia per l’omicidio del fratello. Non è mai stato ascoltato dai pm il testimone principale, Alberto Biggioggero, l’amico che aveva condiviso con Giuseppe quella che si rivelerà l’ultima notte della sua vita. Anche dentro il commissariato, dove erano stati portati perché ritenuti ubriachi. Allo stesso modo, non erano state messe agli atti le conversazioni telefoniche registrate tra carabinieri e il 118. La bocciatura della richiesta, per i familiari di Uva, è – come si legge su Fb - lo stop all’ultima speranza affinché si indagasse in caserma. Nonostante “l’abbia chiesto anche il giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado”, in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. “Adesso siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione, dato che non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado. E comunque Abate non cambierà idea certo ora”. Così sembra che non si saprà mai la verità su quello che accadde realmente la notte in cui morì Uva.
La stessa notizia con il titolo “Caso Uva: un altro passo indietro” è stata scritta da Elisabetta Reguitti l’11 aprile 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. La procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate di Varese l’indagine per affidarla ad un altro magistrato. All’indomani della richiesta presentata da Fabio Anselmo legale della famiglia, Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, ha però presentato anche una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva scritto la giovane donna nipote del 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto nella caserma dei carabinieri di Varese. La procura sulla morte di Uva fino ad oggi ha indagato per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Lucia Uva chiede però che venga sentito il testimone di quella notte e vengano messe a verbale alcune registrazioni telefoniche partite dalla caserma dei carabinieri verso il 118; tutto al fine di verificare l’ipotesi del pestaggio. Al momento l’unica denunciata è Lucia Uva per i suoi commenti scritti su Fb. Parole disperate dopo aver visto suo fratello morto all’obitorio il cui corpo presentava ferite sospette. Ora dopo la bocciatura della richiesta di trasferimento, il processo è a rischio di prescrizione. Sarà una corsa contro il tempo per riuscire a scoprire cosa sia davvero accaduto quella notte in cui è morto.
Omicidio Uva: il Csm indaga sul pm che non indaga, scrive Checchino Antonini su “Osservatorio Repressione”. Un'azione disciplinare pende sul magistrato che non vuole interrogare il teste di quella notte ed è ostile a familiari e legali. Un'azione disciplinare del Csm pende sul pm del caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ad Agostino Abate è contestato tra l'altro il comportamento ostile, in aula e fuori, nei confronti della sorella dell'uomo ucciso, Lucia, fatta allontanare durante un'udienza. La notizia proviene proprio dal Consiglio superiore della magistratura dove viene spiegato che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda e che dunque non c'è stata nessuna inerzia del Consiglio. Era stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e dunque compagna di sventura di Lucia Uva, a lamentare il silenzio del Csm sugli esposti presentati dalla sorella di Uva e da Luigi Manconi. Di qui la decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli di avviare una ricognizione sulla sorte di queste denunce, su richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm dura da tempo soprattutto per il fatto che Abate ha sempre voluto interpretare quella morte come un "banale" caso di malasanità senza mai voler interrogare l'amico di Uva, Alberto Biggioggero, arrestato con lui quella notte e testimone delle urla di Uva nella caserma della polizia in cui avrebbe trascorso alcune ore in balìa delle forze dell'ordine. Un giudice, assolvendo in primo grado il medico portato alla sbarra da Abate, aveva ordinato - invano - la riapertura dell'inchiesta con l'accusa da parte del pm di essere lui stesso succube del clima mediatico. Il contrasto era culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d'ufficio. Da parte sua Abate s'era scagliato più volte contro la sorella del ragazzo ucciso, contro il suo legale Fabio Anselmo (lo stesso dei casi Aldrovandi, Ferrulli e Cucchi) e contro i giornalisti che osavano riprendere la vicenda come un caso di malapolizia. I famigliari di Uva (Lucia è stata perfino accusata di aver manipolato il cadavere di suo fratello) contestano la chiusura dell'inchiesta: secondo il pm non ci sono responsabilità delle forze dell'ordine nella morte dell'uomo, mentre per i parenti Uva avrebbe subito percosse in caserma. La Procura Generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta di togliere a quel pm l'indagine ed affidarla ad un altro magistrato. «Era l'ultima speranza che si indagasse in caserma, e invece no - scrive Lucia - nonostante l'abbia chiesto anche il Giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. Quindi ora siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione. (Non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado, e comunque il pm Abate non cambierà idea certo ora). Non sapremo mai la verità su ciò che accadde quella notte. Mai».
Invece Vendemmiati su “Articolo 21” parla dell’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero del processo sul caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell’ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Nel procedimento al magistrato Agostino Abate è contestato tra l’altro il comportamento tenuto in aula nei confronti della sorella dell’uomo, Lucia, fatta allontanare durante un’udienza. La notizia si è appresa al Csm, dove spiegano che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda che chiedevano di trasferire ad altro magistrato l’indagine su quanto accaduto quella notte nella caserma dei carabinieri. La decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli è partita dalla richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm. dura da tempo ed è culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio. Ma c’è anche una sentenza che invita a far luce: il 28 giugno dell’anno scorso il giudice Orazio Muscato ha assolto un medico accusato di aver provocato la morte di Uva in seguito alla somministrazione di un farmaco e il tribunale, unitamente all’assoluzione del medico, ha inviato gli atti al pubblico ministero con particolare riferimento a quanto accaduto prima dell’ingresso di Giuseppe Uva in ospedale, ovvero a quanto successo nella caserma dei carabinieri. Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono perentorie e non lasciano adito ad equivoci: “Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva, conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale, siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio.” Dunque secondo il giudice Orazio Muscato se si vuole stabilire con precisione le cause o le concause della morte bisogna ricostruire quanto è successo nella caserma, “occorre disporre della fotografia delle condizioni nelle quali versava Uva al momento del suo ingresso in ospedale, mentre del tutto superflui ed irrilevanti sono gli accertamenti tesi a verificare le ragioni in base alle quali è giunto in Ospedale in quelle condizioni”. La vicenda: Alle 10.30 di mattina del 14 giugno 2008, all’ospedale Circolo di Varese, muore. Giuseppe Uva. Giuseppe Uva, prima di essere ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, è stato dalle 3 di notte alle 6 nella locale caserma dei carabinieri con i militari e con sei poliziotti, tutto l’equipaggio di pattugliamento notturno della cittadina. Giuseppe era stato fermato in compagnia dell’amico Alberto Biggiogero in stato di ebbrezza alcolica mentre spostava delle transenne al centro della strada. Nessun verbale di arresto viene compilato quella notte, proprio perché non hanno commesso alcun reato. Nonostante questo, i due rimangono in caserma per tre ore. Biggiogero viene liberato, mentre Uva nelle primissime ore della mattina viene trasferito in ospedale, dove muore poco dopo. Aveva il naso fratturato, le scarpe consumate e il cavallo dei pantaloni imbrattato di sangue. Da quel 14 giugno la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, chiede con tutte le sue forze che venga fatta chiarezza sulla morte del fratello. Sono passati quasi 5 anni, e a oggi l’unico processo celebrato è stato contro un medico, accusato di aver somministrato un farmaco sbagliato e di avere quindi causato la morte. Il medico è stato assolto e, perizia dopo perizia, si è arrivati a stabilire la correttezza di quella prescrizione. Se non sono stati i farmaci, a uccidere Giuseppe, cosa è stato? All’interno della procura di Varese esiste un fascicolo, il 5509, che dovrebbe contenere le indagini svolte per accertare responsabilità precedenti all’ingresso di Giuseppe in ospedale. Lucia Uva, che è stata recentemente querelata dai carabinieri per diffamazione, ha ritirato il fascicolo 5509, perché la sua querela è stata inserita in quegli atti. Al suo interno ci sono solo doppioni di atti già acquisiti nel processo contro i medici. Delle ore passate da suo fratello in caserma, neanche l’ombra di un’indagine o di avvisi di garanzia.
Giuseppe Uva, la giustizia rovesciata, scrive Paolo Favarin. Indagine bis su carabinieri e polizia senza risultati. La procura di Varese indaga la sorella Lucia e querela per diffamazione gli autori del documentario “Nei secoli fedele”. Per la procura la colpa è sempre dei medici: Giuseppe Uva morto per un caso di malasanità. Dopo l’assoluzione di Carlo Fraticelli, adesso altri due dottori rischiano il rinvio a giudizio, mentre l’indagine bis su carabinieri e polizia – che nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 trattennero Giuseppe e il suo amico Alberto Bigiogero per una notte intera – si è conclusa con un clamoroso nulla di fatto: nessun addebito agli uomini in divisa, tra le quattro mura della caserma di Varese non è successo nulla, le urla e il rumore delle botte non vogliono dire niente, assolutamente niente. Un mare di fango che schizza, con il pm Agostino Abate che ha iscritto nel registro degli indagati Lucia Uva e un giornalista delle Iene, Mauro Casciari, “colpevoli” di aver diffamato l’Arma e la polizia. Decisione presa in seguito a una denuncia sporta dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl. Ma non basta. Le indagini non sono finite e nel mirino adesso ci sono finiti pure gli autori del documentario “Nei secoli fedele”, che ricostruisce tutto il caso con interviste e materiale giudiziario: Adriano Chiarelli – scrittore, documentarista e collaboratore di Contropiano – e il regista Francesco Menghini.«La notizia non ci sorprende – dice adesso Chiarelli -, vista la piega che stanno prendendo gli eventi. A finire sul banco degli imputati, ancora una volta, saranno coloro che si battono in difesa della giustizia e della legalità, e non i diretti interessati. È accaduto con Patrizia Moretti, sta accadendo con Lucia Uva e di conseguenza con noi».La tremenda sensazione di giustizia mancata si somma ora al rammarico per un rovesciamento totale della vicenda: chi cercava la verità diventa colpevole e chi ha fatto di tutto per insabbiare la vicenda è una vittima. La colpa – se esiste – diventa dell’ospedale, che avrebbe sbagliato la somministrazione di alcuni medicinali a Giuseppe Uva, ma «io ho visto tanto sangue. Mille perizie dimostrano che i dottori non c’entrano», dice la sorella Lucia. A nulla è servita la sentenza del giudice Orazio Muscato, che chiedeva alla procura di indagare meglio sui fatti avvenuti in caserma. Per il pm Agostino Abate carabinieri e polizia hanno semplicemente fatto il proprio dovere. E allora è tutta colpa di Lucia e dei suoi “compari”, trattati malissimo e derisi dall’accusa per tutto il processo di primo grado a Fraticelli, tanto che nella sentenza di assoluzione, il giudice non può non sottolineare che «L’esame del pm è stato nel complesso effettivamente condotto con toni e modalità tali da indurre l’esaminato (nel caso, i periti) in stato di soggezione, con ripetuti interventi del Tribunale tesi a ricondurlo nell’alveo delle regole proprie della normale dialettica processuale, a fronte delle lamentazioni avanzate dagli stessi periti di venire sostanzialmente derisi dal pm».Una lotta senza quartiere ormai per arrivare a una verità che ormai sfugge solo alla procura di Varese. «Se i rappresentanti della giustizia intendono perseguire coloro che chiedono la verità – l’amarissima conclusione di Chiarelli -, facciano pure. Siamo disponibili fin da subito a essere interrogati e a mettere a disposizione tutto ciò di cui siamo venuti a conoscenza durante la permanenza a Varese».La polemica infinita e, a tratti, pretestuosa, portata avanti da chi dovrebbe lavorare per la giustizia rischia di far scivolare l’intera vicenda verso l’oblio della prescrizione: la vicenda si trascina da quasi cinque anni e, nei tribunali, il tempo ha il potere di spazzare via ogni cosa. Rimangono alcuni particolari: i vestiti di Giuseppe sporchi di sangue, le fotografie che mostrano un uomo massacrato, pieno di lividi. Torturato. E una telefonata, quella fatta da Bigiogero al 118, nella notte più lunga della sua vita, l’ultima del suo amico Pino.«118…» «Posso avere un’auto-lettiga qui alla caserma di via Saffi?…» «Sì, cosa succede?» «Praticamente stanno massacrando un ragazzo…» «In caserma?» «Eh, sì…» «Ho capito… Va bene… Adesso la mando».
Varese, il caso di Giuseppe Uva "Massacrato di botte in caserma".
L'uomo fu picchiato per ore da poliziotti e carabinieri e morì: la denuncia di Manconi. Era stato fermato ubriaco alle tre del mattino del 14 giugno 2008.
Un altro dramma inquietante dopo quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.
Un ragazzo che chiama il 118 per chiedere un'ambulanza mentre sente le urla del suo amico nella stanza accanto, all'interno della caserma dei carabinieri di Varese. "Lo stanno massacrando" dice a bassa voce. Una "anomala presenza di carabinieri e poliziotti in quella caserma di via Saffi, dove per tre ore il fermato subisce violenze sistematiche e ininterrotte". Gli indumenti sporchi di sangue, le ecchimosi sul volto e su altre parti del corpo, le macchie rosse tra pube e ano. Il ricovero in ospedale alle 5 del mattino con la "somministrazione di medicinali incompatibili con lo stato di ubriachezza dell'uomo".
Dopo aver reso pubblico il caso di Stefano Cucchi, la denuncia di Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto" ed ex sottosegretario alla Giustizia, tenta di far luce sulla storia di Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, a Varese. Lui e un suo amico, Alberto B., vengono portati in caserma. Qui Uva, ha ricostruito Manconi, "resta in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all'interno della caserma di via Saffi". Il suo amico, nella stanza accanto, sente due ore di urla incessanti, chiama il 118 per far arrivare un'ambulanza. "Stanno massacrando un ragazzo" sussurra all'operatore del 118, che chiama subito dopo in caserma e chiede se deve inviare davvero l'autoambulanza. "No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui - risponde un militare - ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi".
Ma è invece alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte.
"Un caso limpido di diritti violati nell'indifferenza più totale - denuncia ora Luigi Manconi - . Infatti, per quanto accaduto all'interno della caserma si sta procedendo ancora contro ignoti". "Al di là dei primi interrogatori nei giorni successivi di poliziotti e carabinieri, non è stato più sentito nessuno" denuncia l'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha squarciato il velo di omertà nelle istituzioni su altri casi di violenze di appartenenti alle forze dell'ordine, come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.
Anche nella storia di Giuseppe Uva e nella sua ultima notte di vita, c'è ancora molto da chiarire. Gli interrogativi dei suoi parenti sono ancora tanti: perché in una caserma si riuniscono carabinieri e poliziotti? Come si spiegano le ferite e i lividi sul volto, il sangue sui vestiti, la macchia rossa tra pube e regione anale? Perché l'autopsia non ha previsto esami radiologici per evidenziare eventuali fratture? "Sono passati quasi due anni e non abbiamo avuto ancora giustizia - dice in lacrime Lucia Uva, sorella di Giuseppe - . Non sappiamo ancora perché nostro fratello è morto: se per le botte o per i farmaci somministrati in ospedale. Aspettiamo che un giorno qualcuno dica la verità".
SESTO CALENDE. La storia di ordinaria follia.
Il racconto di Roberto Rotondo su “Il Corriere della Sera”. Il rogo dei libri non si può fare. Ma il sindaco leghista di Sesto Calende, paesino del Varesotto, ha comunque fatto ritirare dagli scaffali comunali un volume scomodo. La bibliotecaria aveva acquistato «L'idiota in politica. Antropologia della Lega Nord», saggio scritto da una studiosa, Lynda Dematteo, che traccia un profilo critico del Carroccio. Banalizzando un po', il libro descrive il partito di Umberto Bossi come un movimento che ha avuto successo nella politica italiana sparandole sempre più grosse, a partire dagli anni Ottanta. Il borgomastro Marco Colombo, 37 anni, quando ha saputo che la biblioteca lo aveva acquistato si è arrabbiato, e ha sgridato la funzionaria: «È vero, le ho urlato dietro - conferma il primo cittadino - esiste una commissione che sceglie i libri e non mi risulta che la scelta sia stata condivisa. E poi, diciamolo, la bibliotecaria è di sinistra». Insomma, la sua sarebbe stata una scelta politica. Il sindaco è scatenato: «I soldi dei cittadini del mio Comune si devono spendere meglio - sentenzia -. E se qualcuno proprio vuole leggere quel libro, lo può cercare nel sistema interbibliotecario provinciale, dove ce ne sono già due copie».
Inizialmente il borgomastro lumbard ha cercato un modo «alternativo» per farlo sparire dalla circolazione. Legalmente. Si è inventato una sorta di ritiro permanente. Che ora rivendica. Dice che funzionava così: ha ordinato all'assessore alla Cultura di prendere in prestito il volume. Detto fatto, la signora Silvia Fantino, leghista moderata, lo detiene a casa propria da tre mesi. E l'ha persino letto: «Io non avevo tempo ma lei è una professoressa e l'ha analizzato per bene - osserva il primo cittadino - mi ha detto che però non l'ha molto apprezzato, innanzitutto perché l'ha trovato fazioso». Ma non finisce qua: Colombo ha dato sfogo alla fantasia, e già immagina una sorta di «passalibro» di protesta: «L'assessore lo dovrà restituire, ma io non mi arrendo - continua - lo faremo prendere in prestito da un militante leghista ogni mese, a turno, così manifesteremo il nostro dissenso verso quell'acquisto». Più ne parla, Colombo, e più si vede che ha voglia di spararla grossa: «Alla fine lo farò ritirare - sbotta -. Naturalmente mi rendo conto che non posso vietare un libro, però posso chiedere alla biblioteca di prestare il consenso alla vendita definitiva, per toglierlo dagli scaffali». E chi lo acquisterà? Semplice: «La sezione della Lega di Sesto Calende». Insomma, il sindaco sembra pronto a tutto. Anche se in fondo, lui e il suo assessore sono contenti che questa storia venga divulgata. E il motivo è presto detto. Colombo si aspetta di diventare un eroe per la truppa leghista, in questi giorni un po' ammaccata per le guerre interne tra maroniani e cerchio magico, che in provincia di Varese sono state particolarmente accese. Anche Roberto Maroni qualche giorno fa aveva criticato il libro in questione. Dalla sua pagina di Facebook aveva definito Lynda Dematteo una sconosciuta che vuole solo attaccare la Lega. E Colombo è un maroniano di ferro, uno di quelli che dirigeva i cori contro il cerchio magico durante il «Maroni Day» della settimana scorsa al teatro di Varese.
Curiosamente, la Dematteo è stata invitata oggi a Varese, a un convegno sul Nord e la Lega organizzato dal Pd locale, dove parlerà proprio delle sue teorie sul ruolo da Gianburrasca che Bossi si è autoattribuito da un ventennio a questa parte. Giusto in tempo per commentare la singolare fatwa lanciata dai leghisti contro il suo libro.