Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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MESSINA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

QUELLO CHE NON SI DICE

 

TUTTO SU MESSINA

I MESSINESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?!

 

  

Quello che i Messinesi non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Messinesi non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

 

TUTTO SU MESSINA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I MESSINESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

 

Quello che i Messinesi non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Messinesi non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE. "PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.

SCATENATI CONTRO CATENO...

M COME ....

CHI HA FALLITO PAGHI.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

IL MISTERO DEI ROGHI SPONTANEI.

D'IMPROVVISO SI SCOPRONO SEVERI. LA MOSCA BIANCA.

MESSINESI BRAVI SOLO A SALIRE SULLA BICI DEL VINCITORE.

L'AFFAIRE FRANCANTONIO GENOVESE. IL PARADOSSO DEI COMUNISTI DI ESSERE DIVERSI.

CHE FINE FANNO LE NOSTRE DENUNCE: IL CASO DI PROVVIDENZA GRASSI.

UNIVERSITOPOLI. UNIVERSITA’ TRUCCATA.

LA MAFIA E L’UNIVERSITA’

QUALE MAFIA? CONCORSI TRUCCATI A MESSINA SOTT'ACCUSA ANCHE DUE MAGISTRATI.

QUALE MAFIA? PARENTOPOLI ALL'UNIVERSITA'.

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI CHE DELINQUONO.

QUANDO I BUONI SONO CATTIVI.

MASSONERIA, MAFIA E POTERI OCCULTI.

ADOLFO PARMALIANA: UN EROE EMARGINATO O UN MITOMANE CALUNNIATORE ?!?

 

 

 

  

 

 

INTRODUZIONE. "PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.

QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.

Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.

Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”.  Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.

Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.

Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.

Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.

Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.

Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.

Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.

E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.

Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.

Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.

Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.

VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.

Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino. Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale, scrive Raphael Zanotti il 18/09/2010 su “La Stampa”. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.  

TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE L’EXPO - PER GIUSTIFICARE IL SILURAMENTO DI ROBLEDO DAL POOL ANTITANGENTI, BRUTI LIBERATI HA SEGNALATO AL CSM CHE LA NOVELLA MOGLIE DEL PM LAVORA ALL’UFFICIO LEGALE DI EXPO: “C’ERA INCOMPATIBILITÀ”. Per Robledo la storia della moglie sarebbe solo un “pretesto” di Bruti Liberati per dare legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come “esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”…, scrive Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 6 novembre 2014. L’ex capo del pool antitangenti Alfredo Robledo, che indagava sugli appalti collegati a Expo 2015, ha la moglie avvocato amministrativista che lavora all’ufficio legale di Expo 2015: è quanto il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha segnalato ieri al Csm e al Consiglio Giudiziario, alla vigilia dell’odierna assemblea dei pm da lui convocata per «voltare pagina» e «rilanciare l’orgoglio di appartenere alla Procura». Lo fa inviando anche una lettera di risposta richiesta al commissario di Expo 2015 Giuseppe Sala, e aggiungendo che la potenziale incompatibilità nel pool antitangenti tra il pm e la coniuge non esiste invece ora nel nuovo pool («esecuzione delle pene») al quale il procuratore rivendica di aver trasferito Robledo il 3 ottobre. Ma questi ribatte che la storia della moglie sarebbe solo un «pretesto» di Bruti per dare una rinfrescata di legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come «esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto»: ad avviso di Robledo, infatti, non c’è mai stata alcuna possibile incompatibilità neppure quando la moglie faceva l’amministrativista perché — spiega — operava in una nicchia estranea alle indagini, e comunque ora proprio per evitare «pretesti» si è cancellata dall’Ordine degli Avvocati.  L’ordinamento giudiziario, per prevenire incompatibilità nel lavoro, impone ai magistrati di segnalare entro 60 giorni (e ai capi di vigilare) relazioni sentimentali con altri magistrati o avvocati del distretto. Robledo non lo fa nei 60 giorni dopo le nozze il 10 luglio 2014 con l’avvocato amministrativista Corinna Di Marino. A Bruti che ne chiede conto, risponde che non ravvisa alcuna incompatibilità. Bruti chiede allora il 23 ottobre «dettagli» sul tipo di lavoro della moglie, e il 31 ottobre Robledo, pur «ribadendo l’insussistenza di incompatibilità», aggiunge che la moglie, avvocato dal 2009, ha svolto la professione forense «esclusivamente nel campo del diritto amministrativo sino a giugno 2013», quando ha smesso e ha chiuso in luglio la partita Iva. Ma «al solo di fine di non lasciare spazio a qualsiasi ulteriore incertezza o pretesto, si è anche cancellata dall’Albo degli Avvocati il 27 ottobre 2014». Intanto Bruti ha interpellato il commissario di Expo, Sala, che il 3 novembre spiega che l’avvocato «nel settembre 2013» rispose a un bando online di Expo «per una posizione di specialista legale amministrativa», fece la preselezione con altri candidati, la superò, svolse i colloqui e infine ebbe il punteggio più alto. Mentre in Expo raccontano che è una professionista stimata e chi l’ha selezionata non sapeva fosse legata a un pm, la lettera di Sala prosegue indicando in 60.000 euro lordi l’anno lo stipendio della moglie di Robledo con contratto co.co.pro. sino a fine 2015 per la stipula dei «contratti commerciali» del Padiglione Italia in Expo. In linea con quanto Robledo scrive sul fatto che la moglie, «in seguito al superamento di concorso pubblico nel settembre 2013, svolge attività di mera consulenza legale interna presso Expo 2015 nella materia specifica della valorizzazione ed esposizione di prodotti tipici d’eccellenza nella filiera agroalimentare ed enogastronomica italiana». 

Procuratore Napoli, il figlio legale ostacolo per Cafiero de Raho, scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 Il Mattino. Il suo curriculum è eccellente, così come le sue doti professionali sono riconosciute al Csm da tutti. Ma sulla via che potrebbe portare il capo della procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho alla nomina a procuratore di Napoli c'è un ostacolo che non si sa ancora se possa essere aggirato: un figlio che fa l'avvocato penalista proprio nel capoluogo campano. Una situazione che potrebbe determinare - se effettivamente De Raho venisse preferito al suo diretto concorrente, l'ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo - quella che tecnicamente viene chiamata «incompatibilità parentale», e che è causa di trasferimento ad altra sede per i magistrati. Per questo al Csm c'è chi chiede di affrontare subito questo nodo, prima ancora che, la prossima settimana, la Commissione Direttivi entri nel vivo della discussione sul candidato da proporre al plenum. Anche per Melillo - che con De Raho si contende pure la nomina a procuratore nazionale antimafia - la strada non è in discesa: su di lui restano i dubbi di una parte dei consiglieri di Area (gruppo di riferimento dello stesso magistrato e ago della bilancia in questa difficile partita), che giudicano poco opportuno affidare la guida della procura di Napoli, alle prese con inchieste delicate con implicazioni politiche, come quella su Consip, a chi sino a poco tempo fa ha ricoperto un ruolo di diretta collaborazione con il ministro Orlando. Per quanto riguarda De Raho, il problema del figlio avvocato, Francesco, si era già posto in passato, quando il magistrato era procuratore aggiunto a Napoli. E nel 2009, dopo una lunga istruttoria, il Csm aveva escluso che vi fosse un'incompatibilità ambientale e funzionale. Non c'è «il pericolo di interferenze», stabilirono allora i consiglieri, accertato che Francesco non aveva mai trattato la materia specialistica del padre (all'epoca alla guida della sezione sulle misure di prevenzione della Dda), non aveva con lui nessun rapporto di natura professionale, e che, esercitando a Napoli, non avrebbe potuto occuparsi nemmeno in futuro di criminalità casertana, materia di competenza del genitore. Allora però De Raho era un procuratore aggiunto e dunque coordinava un settore limitato. Per questo il ragionamento seguito all'epoca non potrebbe essere riproposto ora per il ruolo di capo dell'ufficio. E il fatto che tra il magistrato e il figlio non ci siano più rapporti dal 1997, ribadito dal capo della procura di Reggio nell'audizione di dieci giorni fa al Csm, potrebbe non essere decisivo. Anzi, nel 2009, i consiglieri ritennero questo elemento «privo di rilevanza» perché «l'intensità della frequentazione tra i congiunti non è presa in considerazione dalla legge e può mutare nel tempo in maniera del tutto imprevista». La più facile soluzione del rebus sarebbe destinare De Raho al vertice della procura nazionale antimafia e Melillo alla guida di quella campana. Ma un piano del genere richiederebbe l'unità di Area, che ancora non c'è.

Lo strano intreccio di magistrati e la professione dei figli avvocati, scrive il 14 Maggio 2014 "Libero Quotidiano”. Nei tribunali non si applica la legge dei codici (salvo eccezioni), mentre si applica la tecnica delle “raccomandazioni” e non si può escludere “a pagamento”. Oggi vige anche una giustizia “casareccia”, ovvero trovare l’avvocato figlio del magistrato. E’ il caso dell’imprenditore/avvocato Dario D’Isa, figlio del magistrato di cassazione Claudio D’Isa, l’avvocato cura gli interessi Gabriele Terenzio e figlio Luigi, accusati di associazione per delinquere di stampo camorristico, gli inquisiti hanno un ricorso per cassazione e lo stesso avvocato Dario D’Isa fa incontrare gli inquisiti con suo padre, il giudice di Cassazione Claudio D’Isa, evidentemente per trovare una soluzione ottimale agli inquisiti. Inutile stupirsi la giustizia viene amministrata con questi “sistemi.”. Mi sono trovato nelle medesima situazione: un semplicissimo procedimento civile durato 17 anni solo il primo grado, dopo il decimo anno uno dei magistrati che per oltre cinque anni ha tenuto udienze “farsa”, con la sua signora parla con un mio famigliare (ignari del procedimento in atto) e raccontano che il tal avvocato (patrocinante il convenuto nel procedimento lungo 17 anni) era un loro amico e procurava lavoro legale al loro figliolo – avvocato in Roma-, da una piccola indagine accertavo che molti legali del foro iniziale di appartenenza del magistrato, per i ricorsi da presentare in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti di 2° grado, Tar Lazio, ecc. si avvalevano dell’avvocato figlio del magistrato, di conseguenza gli stessi avvocati avevano una corsia preferenziale presso l’ufficio del magistrato per allungare i processi e le parcelle, e comunque per fare pasttette giudiziarie a danno di una delle parti in causa, ipoteticamente lautamente compensate, non si può escludere che il magistrato influenzasse altri colleghi per favorire clienti di avvocati “AMICI”. Inoltre, lo stesso Avv. Dario D’Isa è un imprenditore – come riferisce il Vostro quotidiano Libero- e se così fosse sarebbe incompatibile l’esercizio della professione legale. Ed il consiglio forense dovrebbe prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dell’Avv. Dario D’Isa. Spesso le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza!!!!!!

Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso. 

Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese, scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”.  Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto.  Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.

Cosa c’è di strano direte voi.

E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?

Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A Voi..., il giudizio.”

Egregio signore, apprendo in data odierna da telefonate di amici che una citazione riferentesi a me è apparsa nel contesto di un articolo intitolato " IO SON IO E TU NON SEI UN C........quando il dna giudicante è questione di famiglia". Il riferimento concerne un presunto rapporto di coniugio tra me e il sostituto procuratore generale di Messina, Dr. Scaramuzza oggi in pensione, e un rapporto filiale tra me e tale Viviana. Mi sorprende come circostanze di semplice verifica siano attestate senza il minimo controllo: la informo che mio marito non è il dr. Scaramuzza, è persona estranea all'ordine giudiziario ed io ho tre figli tutti maschi, nessuno dei quali ha intrapreso la carriera di magistrato. Il primo anzi, e per fortuna, ha pensato bene di andarsene all'estero dove si è guadagnato un dottorato con borsa, è un libero pensatore, studioso dei movimenti e attivista lui stesso per tentare di scardinare questo sistema che - sembrerebbe- ella cerchi di mettere alla gogna. L'accostamento del mio nome ad altre vicende che non conosco e non giudico non fa giustizia del mio ultratrentennale impegno professionale e personale: per mia formazione ho in odio chiunque cerchi scorciatoie e agevolazioni, fosse anche il saltare una fila o segnalare per un esame all'università il proprio figlio (nell'ultimo anno uno di essi è stato bocciato per ben 3 volte ad un esame, senza che questo abbia creato turbamenti o sensazione di lesa maestà). Per questo il suo articolo mi ha fatto sorridere, ma mi ha anche lasciato l'amaro in bocca. Spero in una pronta rettifica, ma ove questa non intervenisse, me ne farò una ragione. F.to D.ssa Maria Pina LAZZARA.

Dr.ssa Lazzara mi spiace per il qui pro quo e per il turbamento creato, a cui porrò immediato rimedio con la doverosa rettifica. Ha fatto bene ad avvisarmi. Io sono un saggista. Ho riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti e di cui io mi sono fidato. Questo comunque non mi esime dal chiederle scusa e ringraziarla nell’essersi comportata da perfetta gentil donna.  Alle sentite scuse, seguirà pronta rettifica.

Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti.

Dopo il tono conciliante e nonostante la pronta rettifica segue messaggio di minaccia.

Buonasera, sono la d.ssa Maria Pina LAZZARA, Presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè della sezione Minori. Con riferimento all'articolo pubblicato in data 4/2/2018 dal titolo IO SON IO E TU NON SEI UN C.....QUANDO IL DNA GIUDICANTE E' QUESTIONE DI FAMIGLIA, vi segnalo - sempre che la verità abbia per voi rilevanza- che : a) sono coniugata con BARTOLO Umberto fin dal 1985 e non con il dr Salvatore Scaramuzza, sostituto procuratore generale oggi in pensione; mio marito , in quiescenza dal 2017, ha svolto le sue funzioni sempre al di fuori dell'ambito giudiziarioi b) non ho alcuna figlia femmina a nome Viviana , ma tre figli maschi , ancora studenti. La collocazione della citata falsa notizia in un contesto di evidente denigrazione dei magistrati, indicati come soggetti adusi ad operare al di fuori delle regole, è quanto di più estraneo alla mia formazione personale e professionale: ho sempre odiato le prevaricazioni da chiunque esse provengano ( ho sempre rispettato la fila, ho sempre prenotato le visite mediche con il numero verde delle prenotazioni , ho assistito rigorosa ed impassibile alle numerose bocciature ad alcuni esami universitari di qualcuno dei miei figli, che sono cresciuti con la consegna del silenzio sulla identità della madre e di tutto ciò vado orgogliosa). Proprio in ragione di quanto sopra, mi ha particolarmente turbato l'accostamento della mia persona alle altre vicende trattate nel corpo dell'articolo e mi riservo di valutare le opportune iniziative da assumere a tutela della mia dignità. F.to D.ssa Maria Pina LAZZARA

«Cari giornalisti dovete sentire le due campane», scrive Giulia Merlo l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Un giornale scrive il falso, ma il diritto di stampa prevale su quello alla reputazione e dunque il cittadino non ha diritto a veder ristabilita in via immediata (e dunque con un ricorso cautelare) la verità, ma solo dopo un processo di cognizione piena. A contraddire almeno parzialmente questo principio, stabilito da due sentenze delle Sezioni Unite di Cassazione penali del 2015 (29 gennaio 2015 n. 31022e civili del 2016 (18 novembre 2016 n. 23469), è intervenuto il Tribunale civile di Milano. Il caso è quello di due avvocati, indicati da un articolo apparso sul sito de L’Espresso come titolari di conti correnti off shore e come amministratori di società off shore, sulla base del contenuto dei cosiddetti “Paradise Papers” (un fascicolo riservato composto da 13,5 milioni di documenti confidenziali presso la Appleby, uno studio legale che fornisce consulenze internazionali in campo societario e fiscale). I due, dimostrando di non avere conti off shore e di non essere amministratori di società, hanno chiesto in via d’urgenza al tribunale di ordinare la rimozione dei loro nomi dal sito del settimanale. L’ordinanza di primo grado ha dichiarato la richiesta inammissibile proprio sulla base delle sentenze delle Sezioni Unite ma, in sede di reclamo, il tribunale ha parzialmente riformato la decisione. «La vicenda presenta un problema di giustizia sostanziale molto chiaro», ha spiegato l’avvocato Iuri Maria Prado, difensore dei due diffamati, «Se una testata online pubblica una notizia palesemente e provatamente falsa, seguendo l’orientamento della Cassazione il cittadino non ha diritto ad avere una tutela d’urgenza con la rimozione della notizia, ma deve attendere i tempi di un processo ordinario per diffamazione: e questo perché il diritto alla reputazione è considerato da quella giurisprudenza ‘ recessivo’ ( cioè vale meno) rispetto al diritto alla libera manifestazione del pensiero attraverso la stampa». Il Tribunale, dunque, ha stabilito che non è possibile privare la vittima di qualunque tutela di urgenza, anche se questa tutela in via cautelare non può tradursi nè nel sequestro della pubblicazione, nè nell’inibizione alla sua ulteriore diffusione, ma «sono ammissibili rimedi di tipo integrativo e correttivo» o «un “aggiornamento” della notizia». Si tratta di «un piccolo spiraglio aperto dal tribunale di Milano, che scalfisce almeno in parte il poco condivisibile orientamento delle Sezioni Unite», ha riconosciuto l’avvocato Prado. Tuttavia, a fronte di questa apertura sul piano del riconoscimento generale di un diritto, nel caso di specie il Tribunale ha rigettato la richiesta di far pubblicare sul sito de L’Espresso il provvedimento del giudice, Secondo il collegio, infatti, «nel caso di specie sarebbe superfluo, perchè nel corpo dell’articolo è stato inserito il link contenente le lettere di precisazioni e spiegazioni inviate per email alla redazione dai reclamanti». In questo modo, secondo i giudici, «è stato garantito il diritto degli stessi di far conoscere la “loro verità”, informando il lettore dell’esistenza di elementi ulteriori e contrastanti rispetto a quelli contenuti nell’articolo». Proprio in questo, secondo l’avvocato Prado, sta l’elemento di non condivisibilità: «Il fatto che non siano titolari di conti off shore non è la “loro verità” ma “la” verità oggettiva e non controvertibile. Nel caso dei due avvocati la diffamazione non sta nell’espressione di un giudizio, ma nell’attribuzione di un fatto specifico falso». In sostanza, aggiungere ad un articolo online la rettifica dei diretti interessati non ha certo la stessa portata di pubblicare un provvedimento che attesta la verità stabilita da un giudice, sia pure in via d’urgenza. Eppure, anche se l’ordinanza non riconosce pieno diritto alla richiesta di vedere ristabilita la verità da parte delle vittime, riconosce un elemento importante: «il carattere pervasivo e diffusivo» di una notizia pubblicata online «è idoneo a causare danni potenzialmente irreparabili». Per questo, il cittadino non deve attendere il corso di un giudizio a cognizione piena, ma ha diritto ad ottenere una qualche forma di tutela immediata. Un piccolo passo nella direzione di riconoscere che il diritto all’onore e alla reputazione del cittadino non possa essere considerato figlio di un Dio minore rispetto al diritto di stampa. Allargando l’orizzonte della vicenda, infatti, si potrebbe arrivare al paradosso che «per diffondere fake news contando sul fatto che esse possano essere eliminate dalla rete solo al termine di un lungo processo per diffamazione, basterebbe che un ricco magnate apra una testata online e la registri in tribunale indicando un direttore responsabile», ha spiegato Prado. Se contiene notizie false, infatti, un sito ordinario può essere sequestrato, una testata giornalistica online invece no. Dunque, incuneandosi tra le maglie della giurisprudenza, basterebbe un adempimento burocratico per riparare sotto l’ombrello dei diritti costituzionalmente riconosciuti un abuso dei mezzi di informazione.

Scrive Filippo Pansera il 9 marzo 2018 sulla sua Pagina Facebook: "Molte settimane fa, scrivevo di una giudice altolocata (perchè con incarichi direttivi di vertice a Palazzo Piacentini - Messina), che essa avesse una figlia magistrato ed un marito giudice..., in realtà sono stato tratto in inganno da una dei miei avvocati e da un secondo amico mio avvocato. Successivamente, ho scoperto come stanno effettivamente le cose. La dottoressa non ha figli giudici o avvocati, bensì è cognata di una avvocatessa con Studio legale in Messina presso altro collega... arrestato nel 2017... e con trascorsi politici di centro-destra. Dunque, la signora, è incompatibile ex articolo 18 dell'Ordinamento Giudiziario".

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.

LE PARENTELE PERICOLOSE

Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.

Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.

Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.

Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.

Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.

Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.

Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.

Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.

La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.

La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.

La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.

GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE

Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.

Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.

Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.

Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.

La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.

Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.

Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.

Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.

Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.

La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.

Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.

CHE COSA SIGNIFICA

Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.

Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.

Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.

I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?

A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).

L'INCHIESTA DI M. SCHINELLA SULLA PARENTOPOLI DI MESSINA: LE CATTEDRE DI FAMIGLIA. TUTTI I NOMI DI TUTTE LE FACOLTA'! Scrive il 18 novembre 2008 "Stampalibera.it". Identico cognome. Identico luogo di nascita. Il 50% dei 1500 docenti dell’Ateneo di Messina, uno ogni 20 iscritti, ha almeno un omonimo. Ed è accomunato ai colleghi dallo stesso luogo di nascita, la città di Messina. Il dato statistico, rapportato alla esigua popolazione della città, è l’indizio che la parentopoli nell’Università peloritana non teme confronti neanche con gli altri Atenei siciliani. Un indizio che diventa prova non appena si va oltre le omonimie. Altro che Palermo. Del “dovere morale di sistemare mio figlio”, come dice Battesimo Macrì, ordinario e preside di Medicina Veterinaria impegnato a fine 2006 a far vincere a tutti i costi un posto di associato al figlio Francesco, che benchè già ricercatore è considerato dalla commissione “carente di preparazione di base, in possesso di superficiale conoscenza della materia, di scarsa capacità espositiva e sensibilità didattica”, all’Università di Messina nel reclutamento dei docenti ma anche degli amministrativi, si è fatto un larghissimo uso. L’Ateneo da luogo del sapere si è trasformato in azienda in cui sistemare i familiari. E se molti hanno scalato i gradini accademici con sacrifici e dopo anni di gavetta, i numeri sono impietosi: sono legati da parentela 27 dei 75 docenti di Giurisprudenza. A Palermo sono 21 su 132. A Medicina e Chirurgia i rapporti di parentela diretta uniscono 90 dei 531. A Palermo, per rimanere al confronto, 58 su 440. A Medicina Veterinaria, dei 63 docenti 23 sono legati da un rapporto che non va oltre a quello che intercorre tra nonno e nipote. Gruppi familiari si sono impadroniti di intere facoltà. E quando i rampolli da piazzare sono stati troppi o i posti pochi sono stati dirottati su altre. Chi a Messina ha fatto carriera universitaria ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta: Navarra, Carini, Vermiglio, Saitta, Galletti, Tommasini, Falzea, Dugo, Tigano, Teti, Resta, Guarnieri, Basile, Trimarchi, Germanà. O ha avuto un padre ordinario: decine sono i cattedratici che non sono riusciti ad insediare l’intera famiglia ma prima di abbandonare si sono assicurati un erede. Un risultato frutto di valutazioni comparative che di comparativo hanno avuto poco: tra la fine del 2006 e l’inizio 2007, l’Università ha bandito74 concorsi per ricercatore. Nel 60% di questi la valutazione ha avuto un solo candidato, il vincitore. Gli altri si sono ritirati anzitempo. «Che il fenomeno fosse imponente lo sospettavo. Ma il problema più grosso è che i figli di qualcuno hanno comunque, anche se i concorsi fossero regolari, molte più opportunità dei figli di nessuno», dice Andrea Romano, preside di Scienze politiche, una delle facoltà meno colpita. Adesso l’Università ha pronto un codice etico: lo ha preparato Antonio Ruggeri, docente di Diritto costituzionale e prorettore. Prevede che il figlio del cattedratico, se vuole seguire le orme del padre nella stessa disciplina debba emigrare in altri atenei. Ironia della sorte, la chiamata nello stesso dipartimento, alla cattedra di procedura penale, del figlio trentenne di Ruggeri, Stefano, associato (l’idoneità l’aveva conseguita all’Università privata Kore di Enna), la cui madre, Carmela Russo, è ordinario nella stessa facolta di Istituzione di diritto romano, determinò nel corso del Consiglio di facoltà del 21 dicembre 2007, una mezza sollevazione. Il segno che in una delle Facoltà più prestigiose dell’Ateneo il livello di guardia fosse stato superato, lo sintetizzò Sara Domianello, ordinario di diritto Ecclesiastico: «Da questo momento mi rifiuterò di esprimere un giudizio su conferimenti di incarichi a persone legate a colleghi da vincoli di parentela od affinità fino al quarto grado», affermò nello stupore generale la docente. Centonove, è andato a caccia dei vincoli di parentela. 

GIURISPRUDENZA – La Domianello, allieva del preside, Salvatore Berlingò, ha presieduto la commissione che ha attribuito l’idoneità di associato a Marta Tigano, figlia di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo. Che si ritrova come collaboratrice la figlia di Berlingò, Vittoria, ricercatrice di diritto amministrativo. E nel corpo docente vanta 2 nipoti, Francesco Martines, e Valeria Tigano, entrambi ricercatori. Nello stesso dipartimento gomito a gomito lavorano Giuseppe Giuffrida, ordinario di diritto agrario, e la figlia Marianna, ordinario anch’ella, della stessa disciplina del padre. All’Istituto di diritto privato impera Raffaele Tommasini, ordinario di Lavoro e Civile, un numero di incarichi compendiato in un elenco che riempirebbe un’intera pagina, che si avvale nel proprio dipartimento della figlia Alessandra. E del genero, Antonino Astone, associato. L’altra figlia Maria, è associato, sempre della stessa disciplina, alla facoltà di Economia. L’altro genero, Orazio Pellegrino, è ricercatore a Ingegneria. Nello stesso settore, diritto privato, in cui opera anche Francesca Panuccio, associata figlia di Vincenzo, una vita da ordinario, muove i primi passi da cattedratico, Francesco Rende, figlio di Ciraolo Clorinda, associato nella stessa disciplina, e di Mario Rende, assistente ad Economia. Vincenzo Michele Trimarchi, era stato anche giudice della Corte costituzionale, il figlio Mario, è ordinario di privato, (la moglie di questi, Renata Altavilla, è associato nello stesso dipartimento), il nipote Francesco è ordinario a Medicina. 

MEDICINA E CHIRURGIA – Trecentoventi dei 540 docenti della Facoltà, secondo il Ministero dell’Università, sono di troppo ma l’Ateneo di Messina fa finta di nulla e continua a bandire concorsi (7 nell’ultima tornata) per ricercatori, associati e ordinari. Che vanno quasi sempre ai soliti figli di cattedratico. Come quello del 2005 per ricercatore di Chirurgia, andato a Giuseppinella Melita, figlia di Paolo, ordinario. O a Rocco Caminiti, figlio di un ordinario in pensione. La dinastia dei Galletti regna all’Otorinolaringoiatria: Cosimo Galletti è stato il capostipite, il figlio Franco, ordinario, e Bruno, associato, i suoi eredi. L’ultimo figlio Claudio si è spostato ad Anestesiologia, dove è ricercatore. Massimo, invece, è divenuto associato di diritto privato a Giurisprudenza. Al defunto chirurgo Salvatore Navarra, è succeduto in sala operatoria uno dei 3 figli, Giuseppe, diventato ordinario giovanissimo. Pietro, è ordinario ad Economia (e prorettore). Michele è associato a Scienze. La Dermatologia porta il nome di Guarnieri: Biagio è ordinario, i figli Claudio e Fabrizio, ricercatori. Diana Teti, patologo, e Giuseppe Teti, microbiologo, entrambi ordinari, hanno raccolto lʼeredità del padre, Mario, ordinario di microbiologia in pensione. Diana si è sposata con Matteo Venza, ordinario a Scienze. Un’unione che ha dato a Medicina altri due ricercatori: Mario e Isabella Venza. L’oculista Giuseppe Ferreri, ordinario, lavora fianco a fianco della figlia Felicia, ricercatrice. Cosi come Gaetano Barresi, ordinario, con la figlia, Valeria, ricercatrice. Ci lavoravano fino alla scorsa settimana Giuseppe Romeo, ordinario di Chirurgia pediatrica, e il figlio Carmelo, ordinario delle stessa disciplina. Corrado Messina, ordinario di Neurologia ha una figlia Maria Francesca, ricercatrice in altro settore. Maurizio Monaco, ordinario, figlio dell’ex Prefetto di Messina, ha il figlio Francesco ricercatore. Hanno avuto un padre o la madre, ordinario o associato nella stessa o in disciplina affine, solo per fare degli esempi, Eugenio Cucinotta, Antonio D’Aquino, Marcello Longo, Massimo Marullo, Filippo De Luca, Antonino Germanò, Ignazio Barberi, Giorgio Ascenti, Michele Colonna, Impallomeni Carlo, Giuseppe Santoro, Antonella Terranova. 

MEDICINA VETERINARIA – Giovanni Germanà, ordinario di Fisiologia, ha lasciato il segno. Nello stesso settore è associato il figlio Antonino e la nipote Germana. Un’altra nipote, Maria Beatrice Levanti, è ricercatrice, sempre nello stesso settore. Luigi Chiofalo era ordinario di Zootecnia, Vincenzo, il figlio, attuale preside di Facoltà ne ha preso il posto, Biagina, l’altra figlia è ricercatrice, così come il marito, Luigi Liotta: tutti nello stesso settore. Ma a Veterinaria nello stesso settore, Sanità pubblica, operano Antonio Pugliese, ordinario e la figlia Michela che si è aggiudicata un posto di ricercatrice in un concorso in cui era unica candidata, per le pressioni, secondo la Procura di Messina, del padre su concorrenti più titolati. E Battesimo Macrì, e il figlio ricercatore, Francesco, la cui ascesa è stata interrotta dalla magistratura. Sono figli di cattedratici ormai in pensione una schiera di docenti: Anna Maria Passantino, associato, figlia di Michele; Bianca Orlandella, ricercatrice, figlia di Vittorio; Antonio Panebianco, diventato ordinario senza salire per gli scalini intermedi; Antonio Ajello e Adriana Ferlazzo, (moglie di Alberto Calatroni, ordinario a Medicina) sorelle entrambe ordinario, figlie di Aldo, ordinario, invece, di Pediatria. Pippo Cucinotta, ordinario di Chirurgia, infacoltà non ha parenti, ma da Claudia Interlandi, associato dello stessa disciplina ha avuto 2 figli. 

SCIENZEMATEMATICHE E FISICHE – La fisica e la matematica a Messina parla Carini. Giovanni, il capostipite, era ordinario di Fisica Matematica. E ha sdoppiato i geni scientifici: il figlio Giuseppe, è ordinario di Fisica; la figlia Luisa, associato di Matematica è moglie di Giuseppe Magazzù, ordinario a Medicina. Il primo ha 2 figli, Manuela, già ricercatrice di Matematica all’Università della Calabria. L’altro figlio Giovanni è assegnista di ricerca. I fratelli Dugo, Giacomo e Giovanni, sono entrambi ordinari. Giovanni, nello stesso Dipartimento a Farmacia ha una figlia, Paola, associato, moglie di Luigi Mondello, ordinario nello stesso dipartimento del suocero. Laura, figlia di Giovanni, ha già ottenuto un dottorato di ricerca e si prepara a seguire le orme del padre. Come Giuseppe Gattuso, ricercatore di chimica, figlio di Mario, ordinario della stessa disciplina, di Marisa Ziino, ordinario a Scienze. E Armando Ciancio, figlio di Vincenzo, ordinario di Matematica e delegato del rettore, che si è aggiudicato un recente concorso di ricercatore dello stesso settore del padre, bandito, però, dalla Facoltà di Medicina. Ed è in attesa di chiamata. Nella facoltà di Scienze operano come associati, Enza Marilena Crupi, il padre era ordinario nella stessa facoltà. Cosi come lo era il padre dell’ordinario Viviana Bruni, Augusto, docente per decenni di Microbiologia. E il padre di Ulderico Wanderling, associato, figlio di Franco, ordinario. Di cui è nipote Rita Giordano, associato sempre di Fisica. La figlia di Rita De Pasquale, ordinario a Farmacia e prorettore, Chiara Costa, figlia anche di Giovanni, ordinario di farmacologia, si è aggiudicata un posto da ricercatrice a Medicina. Carlo Caccamo, ordinario, ha potenziato il corredo genetico sposandosi con Maria Caltabiano, ordinario a Lettere: la figlia Daniela è ricercatrice di biologia a Medicina. 

ECONOMIA – Lavorano nella stessa Facoltà, ma in dipartimenti diversi, Antonino Accordino, ordinario, e la figlia Patrizia, ricercatrice. E’ figlia d’arte anche Maria Teresa Calapso, ordinario di Matematica: il padre Pasquale Calapso, era ordinario di matematica seppure a Scienze. Così come Paolo Cubiotti, ordinario di analisi matematica, cui ha trasferito i geni scientifici il padre Gaetano, ex ordinario di Fisica. E Filippo Grasso, associato, figlio dell’ordinario a Fisica, Vincenzo. 

LETTERE – L’attuale preside, Vincenzo Fera, ha una figlia Maria Teresa, che ha intrapreso la carriera medica ed è associato. L’ex preside Gianvito Resta ha passato il testimone alla figlia Caterina, ordinario nella facoltà del padre. L’altra figlia, Maria Letizia è associato a Medicina. L’ordinario Angelo Sindoni, prorettore, ha una figlia, Maria Grazia, uscita di recente vincitrice di un concorso per ricercatrice. Lavora, invece, a Scienze politiche, nello stesso dipartimento del padre, Mario Centorrino, ordinario ed ex prorettore, Marco, benchè il posto di ricercatore lo avesse bandito la facoltà di Lettere.

TRAVERSALITA’ – Francesco Basile, ordinario, è stato preside di Scienze. Non si può dire che i suoi figli nel mondo accademico non abbiano fatto strada: Maurizio, ordinario a Medicina, Massimo, ordinario di diritto a Scienze politiche, Fabio, ordinario a Ingegneria. La figlia di quest’ultimo, Rosa, ha appena vinto un concorso di ricercatrice in diritto costituzionale a Giurisprudenza. Dopo il ritiro degli altri candidati è rimasta da sola. A presiedere la commissione Antonio Saitta, ordinario, ex sindaco di Messina, appartenente ad una delle famiglie che all’Ateneo ha dato molto. E’ figlio di Emilio, che fu ordinario a Medicina. E nipote di Nazzareno, ordinario a Giurisprudenza, il cui figlio Fabio è docente a Catanzaro, e di Gaetano, ordinario a Ingegneria. Sono solo cugini tra di loro ma i Vermiglio si sono fatto valere: uno, Mario Vermiglio, è vincitore di un concorso di ordinario a Medicina, sempre a Medicina c’è Giuseppe, associato di Fisica, la moglie Maria Giulia Tripepi, è associato dello stesso settore. Franco è invece ordinario ad Economia. L’eredità di Diego Cuzzocrea, ordinario di Chirurgia, ed ex rettore dell’Università, l’hanno raccolta, Salvatore, associato a Medicina e Francesca, ricercatrice a Scienze della Formazione. Del precedente rettore Guglielmo Stagno D’alcontres, ordinario di Chimica, sono nipoti Francesco, deputato nazionale, ordinario di Chirurgia plastica a Messina e Alberto, ordinario di diritto commerciale a Palermo. MICHELE SCHINELLA – CENTONOVE 07-11-08

Se il rettore non può firmare. I casi in cui il Magnifico deve ricorrere al vicario. Da Gaetano Silvestri a Franco Tomasello. Il concorso ad un posto di ricercatore in diritto amministrativo si è celebrato nel giugno del 2008. Francesco Martines, figlio di Maria Chiara Aversa, ordinario alla facoltà di Scienze, delegato del rettore per la ricerca, nipote di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo, e genero del rettore Franco Tomasello, di cui ha sposato la figlia, si è aggiudicato il posto. Ed è rimasto in attesa della chiamata della facoltà di Scienze politiche. A firmare il decreto di approvazione degli atti del concorso non è stato il suocero, come succede in tutti gli altri casi: per prassi consolidata, infatti, lo fa il rettore vicario. Non è la prima volta che il rettore vicario debba intervenire per firmare gli atti di un concorso vinto da un parente stretto di Tomasello. Lo fece già per il figlio Dario, vincitore nel 2005, del concorso di associato alla Facoltà di Lettere. E non è il primo rettore vicario dell’Università di Messina. Toccò anche al predecessore. Durante il rettorato di Gaetano Silvestri, la moglie di quest’ultimo, Marcella Fortino, divenne docente ordinario. Insegna a Scienze politiche. (M.S.)

Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata...», scrive Nino Luca il 18 novembre 2008 su "Il Corriere della Sera".  «Non ci dormivo la notte. I finanziamenti "ad hoc " sono la prassi accettata da tutti». Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore». Sommersi dalle email. Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici? La storia che abbiamo raccontato venerdì, del concorso da ricercatore a Messina, «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore», ha scatenato il web. Dalle centinaia e centinaia di e-mail ricevute è chiaro che si tratta di un fenomeno che colpisce tutti gli atenei italiani, da nord a sud. Molte di queste email contengono delle vere e proprie notizie di reato e innumerevoli casi di disonestà che scatta in maniera meccanica laddove la legge lascia margini di discrezionalità all'individuo. E quindi «taroccare» diventa quasi una prassi. Molti, impauriti da possibili ritorsioni, ci chiedono di non pubblicare i loro nomi ma fanno nomi, precisando anche i fatti e circostanziandoli. E sono tantissimi anche gli italiani, fuggiti all'estero, che ci hanno scritto. Quindi, dopo le opportune verifiche, organizzeremo meglio questo «urlo di denuncia» e magari lo faremo attraverso una pubblicazione. Ma adesso non troviamo di meglio che pubblicare un'autodenuncia che è anche un augurio. Perché, come in tanti ci hanno scritto, la «parola "cultura" dovrebbe necessariamente essere associata ad un vivere corretto e civile».

LA LETTERA - Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall'università di ... che fu finanziata dall'ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all'università; non sono né figlia né nipote di, ma ero l'assistente di... In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangiò» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano».

I DUBBI - «Io invece - prosegue Lucia - mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l'assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti. Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono brava, o sono brava perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata - letteralmente - da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l'aver creato l'occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla né della commissione né dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi: "Una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l'università italiana".

IL RISCATTO - Di lì a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro. Mi «licenziai» dall'Università di... con una lettera congiunta a tutto il dipartimento in cui spiegavo le mie ragioni ed il mio grande senso di autostima ritrovato. Nessuno dei dottorandi, mi rispose; dal mio professore e dal preside fui presa, verbalmente, ma letteralmente, a calci, e fui accusata di aver tradito la loro fiducia e di aver osato non presentare prima le mie rimostranze di fronte a quel che io definii «il sistema». Ma questa è un'altra storia, che riguarda me e la mia coscienza, e di cui sono alla fine, tutto sommato, orgogliosa.

IL CAMBIAMENTO - Sono passati tanti anni e quel che vorrei dirle in sostanza è questo: il cambiamento vero partirà dalla volontà e dal senso di dignità dei singoli di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza. Essere un buon ricercatore significa avere gli standard per lavorare non in quell'ateneo o quel dipartimento, ma nel mondo. La conoscenza appartiene al mondo; e quindi, a cosa serve avere il posticino messo in palio da papà, senza poi il rispetto della comunità scientifica internazionale, che è l'unico vero giudice dell'operato di un ricercatore? Mi rendo conto che è molto banale quanto le scrivo. Ma è tutto quel di cui mi sento di far da tramite e testimone, nel mio immensamente piccolo. Cordialmente, Lucia».

Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.

Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte sul luogo del delitto. 

Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?

Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario".  Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.

Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.

Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.

Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo complesso".

Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V 10/01/2007, n. 8429).

In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione.  Per la Cassazione per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato".

Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.

Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere. Gaetano Maria Amato, 57 anni, era in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria. Il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare. Nel 2009 aveva subito una sanzione dal Csm per i ritardi nella pubblicazione delle sentenze, scrive il 2 ottobre 2017 "La Repubblica". Un giudice in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Gli investigatori non forniscono particolari, a tutela delle vittime. Gaetano Maria Amato, 57 anni, nato a Messina, ha iniziato la sua carriera giudiziaria come pretore a Naso. Si era poi spostato a Messina, prima al tribunale civile e poi a quello fallimentare. Infine, nel 2009, il trasferimento alla corte d'Appello di Reggio Calabria. È padre di tre figli. Il giudice Amato nel 2009, quando era in servizio a Messina, subì un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per presunti ritardi nel deposito degli atti. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppe sentenze del magistrato depositate oltre i termini. Per questi ritardi il Csm lo aveva dichiarato colpevole e sanzionato con l'ammonizione. Il reato di pedopornografia configura vari tipi di comportamento, dalla sola detenzione di materiale pornografico alla cessione e diffusione, fino alla produzione di immagini con lo sfruttamento di minori. Il reato prevede, in caso di condanna, la reclusione fino a 12 anni. Pornografia minorile, tre foto a un unico “amico” della rete. Ecco nel dettaglio l’accusa al giudice Gaetano Maria Amato: qualche settimana prima degli arresti aveva ammesso le chat e l’invio di immagini. Sequestrati personal computer e cellulare, gli inquirenti a caccia di nuove prove e di (eventuali) altri “appassionati” di bambini.

Tre foto di due persone minorenni seminude (due) e nude (una), tutte carpite all’insaputa delle vittime e inviate tra il 2014 e il 2015 a un solo utente della rete con dei commenti a corredo, scrive il 5 ottobre 2017 Michele Schinella.  Sono questi i fatti per cui il giudice della Corte d’appello di Reggio Calabria Gaetano Maria Amato, su richiesta della Procura di Messina accolta dal Giudice per le indagini preliminari Maria Vermiglio, è stato arrestato e condotto nel carcere di Gazzi il 3 ottobre scorso. L’accusa per il cinquantottenne è di Pornografia minorile, reato per cui è prevista una pena da 6 a 12 anni di reclusione. Tuttavia, le indagini sul magistrato sono tutt’altro che chiuse. Da quanto si è riuscito a sapere da ambienti vicini agli inquirenti, pochi giorni prima che scattassero gli arresti, a casa del giudice residente a Messina si sono presentati gli agenti della polizia con in mano un provvedimento di perquisizione e di sequestro di supporti telematici e informatici. Nell’occasione della perquisizione, lo stesso giudice ha fatto dichiarazioni spontanee, minimizzando i fatti e ammettendo che in passato aveva intrattenuto delle chat con un pedofilo a cui aveva inviato tre o 4 foto: in sostanza, ciò che gli inquirenti sapevano già e che gli è stato contestato al momento dell’esecuzione della misura cautelare. Gli inquirenti al termine della perquisizione hanno sequestrato e portato via personal computer e telefoni cellulari. La perizia sui supporti informatici permetterà di stabilire se il magistrato ha raccontato la verità e, quindi lo scambio di materiale pedo pornografico è stato occasionale e limitato a quello già accertato, oppure le foto prodotte e inviate sono molto di più e l’interlocutore del giudice non è stato uno solo ma diversi. In quest’ultimo caso, altri interlocutori con la “passione” per le immagine pedo pornografiche potrebbero finire nel mirino della Procura.

Nella rete…della perizia informatica. E’ con lo strumento della consulenza tecnica su strumentazione informatica che – secondo quanto si è riuscito a sapere dagli inquirenti della squadra mobile della polizia di Stato di Bolzano – ci è si imbattuti nel giudice di Messina. Le indagini infatti erano concentrate su un pedofilo che, a tempo pieno, usando diversi account e nick name, navigava sulla rete alla ricerca di materiale pedo pornografico. E’ stata l’accertamento tecnico sul materiale sequestrato a quest’ultimo che ha consentito di individuare tra la miriade di chat e scambio di materiale scottante, le comunicazioni e, soprattutto, le foto che il giudice gli ha inviato. Le carte sono state così trasmesse per competenza territoriale alla Procura di Messina.

La partita giuridica. La normativa che il legislatore ha dettato dal 1998 in poi contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minore, prevede diverse fattispecie di reato, di gravità diversa e quindi punite con pena diversa, i cui confini sono stati oggetto di interpretazioni non sempre univoche da parte della giurisprudenza. Al magistrato Amato, in attesa degli esiti degli ulteriori accertamenti tecnici sul pc e sul cellulare, è contestata la fattispecie più grave (art. 600 ter, primo comma): quella che incrimina chi “utilizzando minori di anni 18, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico”.

Per quanto le foto inviate dal giudice sono state realizzate all’insaputa delle vittime (e, ovviamente, senza la loro minima collaborazione), e sono state inviate a un solo utente, i fatti accertati sembrano rispondere appieno alla interpretazione che la Cassazione (a Sezioni unite) ha offerto della norma. La cassazione nel 2000 (numero 13) ha, infatti, stabilito che la norma “offre una tutela penale anticipata volta a reprimere quelle condotte prodromiche che mettono a repentaglio il libero sviluppo personale del minore, mercificando il suo corpo e immettendolo nel circuito perverso della pedofilia. Per conseguenza il reato è integrato quando la condotta dell’agente che sfrutta il minore per fini pornografici abbia una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto”. Non sarà semplice, ma ciò dipenderà anche dal tipo e dalla natura delle chat, per il giudice Amato difendersi sostenendo che l’aver trasmesso le foto a uno sconosciuto (che quindi non dava alcuna garanzia di riservatezza) non abbia determinato il concreto pericolo di diffusione delle stesse e quindi il rischio di pregiudicare il libero sviluppo personale dei minori raffigurati.

Primi provvedimenti. In applicazione della legge, che sul punto non ammette deroghe e riguarda tutti i pubblici funzionari senza che via la necessità di alcuna richiesta specifica di alcuno, il magistrato in conseguenza degli arresti e sin dal giorno successivo è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Allo stesso modo, è stato avviato nei suoi confronti procedimento disciplinare: si tratta, allo stato delle cose, di un grave illecito disciplinare, rientrante nella categoria degli “Illeciti conseguenti a reato” (e dunque diverso da quello compiuto nell’esercizio delle funzioni o fuori dalle stesse, ma sempre facendo pesare il ruolo di magistrato). Questo tipo di illeciti possono portare alla sanzione (anche della rimozione dalla magistratura) solo dopo la condanna irrevocabile.

I viaggi, il teatro e i chihuahua: chi è il giudice arrestato per pedopornografia. Gaetano Maria Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986. Adesso rischia da sei a dodici anni di carcere per pornografia minorile, scrive il 03/10/2017 "Tribupress.it". Viaggi, teatro, mostre d’arte. Abbondanti foto di due chihuahua di nome Dino e Minou. Sono gli elementi principali del profilo Facebook di Gaetano Maria Amato, il giudice della Corte d’Appello di Reggio Calabria arrestato nelle scorse ore per pornografia minorile. Un’accusa pesantissima, quella avanzata nei suoi confronti dal Procuratore di Messina Maurizio De Lucia e dall’Aggiunto Giovannella Scaminaci, che ha fatto in breve tempo il giro d’Italia. L’ipotesi di reato è quella prevista dall’articolo 600 ter del Codice Penale, che punisce con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa fino a 240.000 euro chiunque produca materiale pornografico o realizzi esibizioni o spettacoli pornografici con protagonisti minorenni. Sulla vicenda gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo a tutela delle vittime. Le indagini sarebbero state svolte dalla Polizia Postale di Catania e riguarderebbero fatti avvenuti a Messina. Nato a Messina cinquantasette anni fa, Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986, con l’incarico di Pretore a Naso, piccolo centro dei Nebrodi. Poi il trasferimento nel capoluogo e gli scatti di carriera, dalla sezione Civile a quella Fallimentare alla Penale. Qui aveva partecipato ai Collegi di Corte di Assise e alla Sezione Misure di prevenzione. Una carriera regolare, quella del magistrato messinese, che adesso oltre al procedimento penale rischia di essere sospeso e messo fuori organico dal Consiglio Superiore della Magistratura. Non sarebbe la prima volta che la toga passa al vaglio del Csm. Già nel 2009, a seguito di un’ispezione avvenuta durante il suo servizio a Messina nell’inverno del 2005, Amato subì un procedimento per ritardi nel deposito degli atti. Troppe sentenze depositate oltre i termini, secondo l’organo di autogoverno della magistratura, che sanzionò il giudice con un’ammonizione. Nel 2016 aveva difeso con altri giudici l’operato di una collega accusata della stessa inadempienza. Fin qui il profilo professionale. Ma l’accusa per la quale Amato è finito in manette attiene alla sfera privata. A dire qualcosa in più del magistrato finito nella bufera resta soltanto il profilo social. Popolato appunto da una grande quantità di foto di viaggi, di pièce teatrali, di cani per i quali mostra grande tenerezza. Foto di Lipari, Istanbul, delle Bahamas raggiunte a coronamento di un lungo viaggio negli States, iniziato a New York con la visita alla collezione Guggenheim. Poi foto in famiglia, qualche considerazione estemporanea sulla società e le sue brutture. E sempre i cagnolini fotografati in tutte le salse, anche sulle carte che il giudice si portava a casa dal lavoro. “Io ho tre vite, la mia, quella che si inventano gli altri e quelli che gli altri pensano che sia la mia vita”, fa dire a Snoopy in una foto condivisa nel gennaio 2015. Quale di queste sia oggetto delle valutazioni degli inquirenti che hanno portato all’arresto sarà compito della giustizia chiarirlo. 

SCATENATI CONTRO CATENO...

"Scateno", antenato degli impresentabili fra strip e processi, scrive il 09/11/2017 Mario Barresi su "La Sicilia". Dai domiciliari si difende su Facebook «Vittima dei massoni, il caso fa ridere» Poi ai fan sotto casa cita Luther King e giura: «Avanti senza se e senza ma». Un «delinquente». Ma anche «un benefattore». E poi «il miglior sindaco della storia», anche perché ha portato a mille anime «200 milioni di opere pubbliche» compreso «un centro benessere». Ma anche uno «che se noi sei con lui ti mette nella lista dei nemici e sei finito per sempre». Mentre i messinesi, nel 1674, si rivoltavano contro i dominatori spagnoli, Fiumedinisi fu uno dei pochi comuni a restare fedele alla Corona ispanica. E così, corsi e ricorsi, è oggi per «u’ sinnucu». Criticato sottovoce e difeso a testa alta. Cateno Roberto De Luca, qui in carica dal 2003 al 2011, ma anche sindaco di Santa Teresa di Riva (dove ha lasciato il suo delfino Danilo Lo Giudice) e aspirante primo cittadino di Messina con campagna elettorale già avviata con pecora al seguito. Quarantacinque anni, in politica da quand’era quindicenne, candidato a tutto. Anche a presidente della Regione, nel 2012, quando lanciò la sua corsa solitaria con una kermesse scintillante e uno slogan chiarissimo: «Io rivoluziono la Sicilia. Scateno De Luca». Prese l’1,2%, ma da lì in poi diventò “Scateno”. Per tutti. Impresentabile prima che esistessero gli impresentabili, De Luca ha un curriculum pieno di guai giudiziari, proteste clamorose e citazioni indelebili. Cinque anni fa, dopo essere stato deputato regionale del Mpa, si ribella al suo mentore: «Lombardo agisce con metodi politico-mafiosi. Se ne vada affanculo una volta per tutte, lui e i suoi compagni di merende». All’Ars i commessi lo ricordano atterriti quando, per protestare per la mancata nomina in commissione Bilancio, restò in mutande, con una bibbia, un Pinocchio e la bandiera della Trinacria ad avvolgere le nudità. Rieletto all’Ars nel 2008, dopo un fugace ritorno con Lombardo, inizia un breve flirt politico con Gianfranco Micciché. Dura poco. Perché lui, “Scateno”, è un individualista. Da leader di Sicilia Vera chiede e ottiene ospitalità nella lista dell’Udc per le ultime Regionali: è il più votato, eletto con 5.418 preferenze. Alle quali bisogna aggiungere i 4.298 del suo seguace, Lo Giudice. Rieletto nonostante la lettera scarlatta di “impresentabile” cucitagli addosso dai grillini. «Pupi nelle mani del puparo di Genova», secondo De Luca, condannato dalla corte dei conti a 13mila euro per le “spese pazze” dei gruppi all’Ars. Ma soprattutto sotto processo per il “sacco di Fiumedinisi”, il quindicesimo dei «14 procedimenti penali chiusi a mio favore». Arrestato per abuso d’ufficio e concussione, il pm ha chiesto per lui 5 anni di pena. Ma “Scateno” si difende sempre contrattaccando. In tarda mattinata si diffonde la notizia dei suoi domiciliari. E sotto casa sua c’è chi è già certo: «Anche stavolta ne combinerà una delle sue». Infatti, violando le restrizioni degli arresti domiciliari, imposta la sua autodifesa su Facebook. Prima con un post, corredato dalla foto del «caffè del galeotto», in cui chiede: «Pregate per me e per la mia famiglia e per gli altri indagati che nulla c'entrano in questa storia». Molto più esplicito, poco dopo, in un video-selfie in pigiama. «La vicenda fa ridere», esordisce. Quindi racconta: «Io sono sereno perché già venerdì sera a piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana e anche ritengo della massoneria nonché un parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: “Lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto”. Questo stesso personaggio lunedì - prosegue - ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore dicendogli che era inutile l’elezione di Cateno perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti, Danilo Lo Giudice. Sapevo di scontrarmi definitivamente con i poteri forti di Messina, massoneria e altri ambienti che non vogliono che io faccia il sindaco». E chissà cosa avrebbe detto ancora, se il suo avvocato Tommaso Micalizzi non l’avesse bloccato: «Basta social, sei ai domiciliari». E se a mezzogiorno sceglie una frase del Vangelo, la sera vira su Martin Luther King. «Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Lui, Cateno, di porta ha aperto quella del suo balcone e ha trovato un centinaio di fan capeggiati da Lo Giudice, amministratori e “fenapini”, che si sono radunati sotto casa sua. Alle nove della sera. Doveva essere una fiaccolata, diventa un semplice tributo di De Luca. Legge compiaciuto lo striscione (“Cateno siamo con te senza se e senza ma”) e appare come un pontefice dopo la fumata bianca. Un breve saluto. Poi l’irrinunciabile post su Facebook. «Grazie di cuore per la splendida manifestazione di solidarietà, mi avete veramente commosso. Si va avanti senza se e senza ma». Silenzio surreale, si riflette. «Non ci sono i presupposti perché stia agli arresti» mormora qualcuno all’avvocato Micalizzi. Che studierà come tirarlo fuori dai guai. Per la sedicesima volta.

Sicilia, dall’allevamento di conigli all’arresto: chi è Cateno De Luca, il Masaniello che si spogliava all’Ars. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domiciliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Prima, invece, aveva fatto parlare di sé perché si era denudato a Palazzo dei Normanni. O perché era riuscito a controllare il sindaco, la maggioranza ma anche l'opposizione nel suo piccolo comune, scrive Giuseppe Pipitone l'8 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Quando lo esclusero dalla commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana ci rimase davvero male. Talmente tanto che mise in scena la più ridicola delle proteste: si presentò in mutande nella sala stampa del Parlamento regionale. Per poi coprirsi soltanto con la Trinacria. Un chiodo fisso quello di Cateno De Luca per la bandiera della Sicilia, ricamata persino sulla cravatta d’ordinanza fornita agli esponenti di Sicilia Vera, il movimento da lui fondato dopo un incessante pellegrinare da partito in partito. “Il colore che ho scelto è rosso-aranciato, quello della bandiera della Sicilia. Il rosso mi piace molti sostengono che io sia uno di sinistra che fa politiche di destra, forse un po’ è vero”, si autoincensava il deputato regionale, che con quel movimento si è pure candidato a governatore nel 2012. Sissignore: in Sicilia succede anche questo. Che un consigliere regionale noto per essersi denudato in pubblico, dopo aver conosciuto persino la galera, decida non di ritirarsi a vita privata ma di rilanciare: “Il presidente lo faccio io”. Prese l’1,2%, ma non si diede per vinto. E cinque anni dopo ci ha riprovato. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domiciliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Caf e sacchi edilizi – Per i giudici De Luca è “il dominus di una serie di società ed enti”, utilizzati per sottrarre al fisco 1,7 milioni di euro. Sono i vari Caf di un ente che si chiama Fenapi, acronimo di Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, di cui risulta essere il “direttore generale nazionale”. Il presidente, invece, è tale Carmelo Satta, arrestato con lui stamattina. E con lui coinvolto nell’inchiesta sul “sacco di Fiumedinisi”, il minuscolo paesino in provincia di Messina di cui De Luca era sindaco. E in cui, per i pm, avrebbe voluto realizzare una gigantesca speculazione edilizia con l’immancabile mega albergo dotato di centro benessere. Purtroppo lo arrestarono prima con l’accusa di tentata concussione e abuso d’ufficio, insieme al fratello Tindaro: in famiglia evidentemente non piacciono i soliti Giuseppe e Francesco. La Cassazione definì “ingiusta” la sua detenzione, ma il processo è andato avanti: e sul capo del politico messinese pende ancora una richiesta di condanna a 5 anni di carcere. Il caffè del galeotto del Masaniello di provincia – Nel frattempo si è ricandidato: a questo giro ha scelto l’Udc e Nello Musumeci. Ha preso 5mila voti ed è stato rieletto nonostante i problemi giudiziari, che in campagna elettorale lo avevano fatto finire di diritto tra i candidati impresentabili. “Ho avuto 15 procedimenti, 14 si sono conclusi con l’archiviazione”, sosteneva lui, promettendo querele e chiedendo un immotivato confronto pubblico col direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Lo stesso stile con cui ha commentato l’ultimo arresto. Ristretto ai domiciliari, ha accesso il computer senza neanche togliersi il pigiama: “Vi offro il caffè del galeotto”, ha scritto su facebook. Poi, non contento, ha pubblicato un video per spiegare di avere saputo in anteprima dell’arresto. “Me l’ha detto un parente di magistrati e di massoni”, è la sua versione. “Dedico questa ulteriore battaglia ai perseguitati dell’ingiustizia”, è invece il modo in cui dipinge la sua situazione giudiziaria. Sì perché questo piccolo ras delle preferenze di provincia crede davvero di essere un Masaniello del duemila. O almeno è quello che vuole fare credere ai suoi elettori.

Dai conigli all’Ars – Sul suo personalissimo sito racconta gli albori della sua carriera. “Da adolescente ho allevato conigli e raccoglievo origano, noci e castagne che poi vendevo alle putie (letterale, cioè negozi ndr) di Fiumedinisi sotto la severa vigilanza della mia mamma; quando frequentavo la scuola media durante le estati facevo il muratore con mio padre; mentre frequentavo il liceo passavo le mie estati a lavorare nei bar ed in inverno frequentavo uno studio legale messinese che si occupava di diritto previdenziale e sindacale”, scrive nella sua biografia. Chissà dove trovava il tempo per studiare, verrebbe da chiedersi. Di sicuro è col diritto previdenziale amministrato nei Caf della Fenapo che De Luca comincia a coltivare quel reticolo di rapporti sociali, poi trasformati in voti ad ogni tornata elettorale. Esordisce adolescente come attacchino della Dc, poi comincia la scalata: consigliere comunale, presidente del consiglio, sindaco della sua piccola città. Incarico che lascia dopo l’arresto nel 2011. E che non può più ottenere l’anno dopo, perché nel frattempo si è fatto eleggere sindaco nel vicino comune di Santa Teresa Riva. Sindaco e opposizione sono roba sua – È a quel punto che il Masaniello peloritano si trasforma in Archimede Pitagorico della politica locale: candida due aspiranti primi cittadini, entrambi sostenuti dalle sue liste. Poi manda una lettera agli elettori, chiedendo di votare uno dei due candidati sindaco, ma optando per i consiglieri comunali del suo avversario: in pratica istituzionalizza il voto disgiunto. “È un chiaro e forte gesto di ribellione”, dice, ma non si capisce verso che cosa si dovrebbero ribellare i cittadini visto che nei precedenti due mandati il sindaco era sempre lui. Gli elettori, però, non ci fanno caso e votano in massa come dice De Luca: che quindi è riuscito nell’impresa di controllare il sindaco, la maggioranza, ma anche l’opposizione. “Con questi metodi da Repubblica delle banane si vuole fare del comune, invece che una casa di vetro, il cortile della propria abitazione”, si lamentava all’epoca il deputato Pd Filippo Panarello. Opinione minoritaria, evidentemente, visto che nella zona De Luca lo hanno sempre votato in massa: il vassallo delle preferenze, inscalfibile neanche dopo indagini e arresti. “Demoliamo la Regione” – All’Ars entra per la prima volta con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. Poi passa con Grande Sud, la formazione autonomista di Gianfranco Micciché. Quindi opta per la Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi, fino al 2011, anno in cui cambia per sei volte gruppo parlamentare: in quello del Pdl arriva a “sostare” per tre ore e mezza, giusto il tempo di far saltare gli equilibri in una delicata conferenza dei capigruppo. Qualche anno prima, invece, riesce a riunire 12 deputati di destra, sinistra e centro e crea un bellicoso gruppo bipartisan che chiede di indire un referendum: la carica di parlamentare con quella di sindaco- sostengono – devono essere incompatibili. E peccato che in quel momento De Luca fosse nello stesso momento sindaco di Fiumedinisi e deputato regionale. “Sono un battitore libero”, ripete spesso di se stesso. Durante una delle lussuose kermesse del suo movimento, invece, si è presentato sotto il simbolo di un enorme piccone e lo slogan: “Demoliamo la Regione siciliana”. Non si capiva se fosse una promessa o una minaccia. In ogni caso, per il momento, dovrà posticiparla.

Cateno De Luca annuncia querela contro Il Fatto Quotidiano. In un articolo del giornale diretto da Marco Travaglio, il candidato alle regionali è indicato come condannato a 5 anni per concussione ed abuso d'ufficio: "ciò è ovviamente falso, ennesimo attacco alla mia onorabilità", spiega l'ex sindaco di Santa Teresa, scrive "Letteraemme" l'8 ottobre, 2017. “Ho appreso con stupore dall’articolo apparso sul giornale Il Fatto Quotidiano che io sarei stato condannato a 5 anni per concussione ed abuso d’ufficio unitamente a mio fratello Tindaro, e ciò è ovviamente falso, e rappresenta l’ennesimo attacco alla mia onorabilità ed al mio modo di fare politica radicalmente contro il vecchio sistema e le solite logiche politiche parassitarie e farabutte”. Lo afferma Cateno De Luca, leader di Sicilia Vera e capolista nel collegio di Messina della lista Udc- Sicilia Vera. “Preciso – aggiunge De Luca – che ho avuto 15 procedimenti penali di cui 14 già chiusi a mio favore con assoluzioni perché il fatto non sussiste ed archiviazioni per al’ inconsistenza delle accuse. Per quanto riguarda l’ultimo processo ancora pendente, è stata richiesta dal pubblico ministero la condanna a cinque anni per tentata concussione (e non concussione) ed abuso d’ufficio, ed ancora questo processo è pendente perché la procura generale della Suprema Corte di Cassazione ha aperto un procedimento nei confronti di un componente del collegio giudicante per presunta violazione dell’obbligo di astensione causando, con molta probabilità, l’annullamento di tutte le attività dibattimentali (in essere da oltre 6 anni) e l’avvio di un nuovo processo con un collegio diverso”. “Solo per onore di verità – aggiunge De Luca – è corretta la notizia in merito ad una condanna di circa 13 mila euro che ho avuto dalla corte dei conti per le spese effettuate nella qualità di capogruppo al parlamento siciliano ma sono stato assolto in sede penale a differenza della stragrande maggioranza dei parlamentari siciliani ed ho già pagato queste 13 mila euro (altri parlamentari non lo hanno ancora fatto) pur avendo fatto ricorso alla suprema corte di cassazione per violazione di legge perché non è logica l’assoluzione in sede penale e la condanna in sede contabile per la medesima fattispecie di reato”.

Sicilia, De Luca posta un video dai domiciliari: “Parente di magistrati sapeva dell’arresto e mi aveva avvisato”, scrive "Il Fatto Quotidiano". Un video sulla sua pagina Facebook, girato in pigiama davanti a una libreria con i simboli di Sicilia vera.  Lo ha pubblicato il neodeputato Cateno De Luca, finito agli arresti domiciliari due giorni dopo l’elezione per evasione fiscale. Nel video il politico racconta quelli che, a suo parere, sono i retroscena della vicenda. De Luca ribadisce in parte quanto scritto sempre su Facebook poche ore fa, ossia che già nei giorni scorsi era a conoscenza del suo possibile arresto. “Sono sereno, già venerdì sera in piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana, e anche ritengo della massoneria nonché parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: ‘lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto’. Questo stesso personaggio, il lunedì, ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore e gli ha detto, che era inutile l’elezione di Cateno (parla di sé in terza persona ndr) perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti Danilo Lo Giudice“. E poi prosegue, soffermandosi sull’accusa di evasione fiscale. Per gli inquirenti, De Luca insieme agli altri indagati aveva organizzato un sistema di false fatture. “La vicenda che riguarda il mio arresto fa ridere vengo accusato di essere il regista di un’evasione fiscale di un ente collettivo, il Caf Fenav, che non è mio. Originariamente questo era uno dei 15 procedimenti penali aperti a mio carico: per 14 sono stato assolto o archiviato. Questo prevedeva peculato, appropriazione indebita e evasione fiscale”.

Messina, il Grande Oriente d’Italia contro Accorinti e De Luca. Il gran maestro dell'obbedienza massonica si scaglia contro le dichiarazioni del sindaco ("estrema debolezza di un politico che cianfrusaglia solo per darsi un tono") e del deputato regionale finito ieri ai domiciliari. E avverte: "Attenti alla pericolosità sociale delle dichiarazioni", scrive il 9 novembre, 2017 "Letteraemme". Nuova puntata dell’ormai quinquennale battaglia tra il sindaco di Messina Renato Accorinti ed il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica dello stivale. Oggetto delle rimostranze del gran maestro Stefano Bisi, un’altra volta, sono le dichiarazioni di Accorinti dopo le regionali, in cui paventava scenari di influenza massonica. “A Messina a quanto pare va sempre più di moda attaccare la massoneria per deresponsabilizzarsi da politiche fallimentari e da gravi situazioni giudiziarie personali – attacca Bisi –  Il sindaco di Messina, non nuovo a dichiarazioni generiche e stucchevoli sulla Libera Muratoria, la vede ad ogni angolo della città – che non è più il gioiello di un tempo e mostra evidenti crepe che  tutti i cittadini possono constatare – anzi probabilmente la sogna pure di notte e la utilizza forse per allontanare da se’ tutte le problematiche non risolte dalla sua amministrazione. Le recenti sue comparse post elezioni regionali – continua il gran maestro del Goi – sono, a nostro avviso, solo il segno di estrema debolezza di un politico che cianfrusaglia di Massoneria solo per darsi un tono e sparare nel mucchio. Non è sparandola grossa e addossando le colpe a un’Istituzione antica e ricca di valori e principi per l’elevazione dell’Uomo e dell’Umanità che si fa il bene della collettività.  Il primo cittadino dovrebbe stare anche molto attento alla pericolosità sociale di certe sue dichiarazioni che possono scatenare gesti inconsulti – avverte ancora Bisi – Appena qualche giorno fa a Roma, a Palazzo Giustiniani, abbiamo ricordato la figura di Achille Ballori, Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico Ed Accettato e futuro Gran Maestro, il quale venne ucciso a colpi di pistola nel 1917 da un folle che credeva che tutti i suoi mali provenissero dalla massoneria. Credo che ciò dovrebbe fare riflettere il sindaco sulla pesantezza di certe parole”. Non è solo Renato Accorinti il destinatario degli strali del numero uno dei grembiulini italiani: c’è anche Cateno De Luca, che dopo l’arresto di ieri, dai domiciliari di Fiumedinisi ha diffuso un video in cui sosteneva di aver ricevuto “avvertimento” sull’arresto imminente da un importante esponente della politica e della massoneria isolana. “Ci hanno lasciati esterrefatti le dichiarazioni affidate a un videomessaggio del deputato messinese neoeletto all’Ars e finito a urne chiuse al centro di un’inchiesta  giudiziaria che ha fatto scattare nei suoi confronti la detenzione ai domiciliari – dichiara Bisi – Anche quest’ultimo, genericamente, ha utilizzato il termine “massoneria” e fatto riferimento a un “noto personaggio della politica siciliana, probabilmente facente parte della massoneria” che lo avrebbe preavvertito di quanto gli sarebbe accaduto dopo l’elezione. Affermazioni proseguite con il solito ritornello dei poteri forti – massoneria ovviamente in testa – che non avrebbero gradito la sua eventuale candidatura a sindaco di Messina. Dichiarazioni roboanti da indirizzare all’opinione pubblica e rese da un soggetto privato della libertà – affonda il gran maestro – Noi auguriamo a questo politico di dimostrare la sua estraneità ai fatti contestatigli ma lo Invitiamo a non lasciarsi andare a manifestazioni di pensiero arbitrarie se non supportate da fatti che andrebbero comunque denunciati agli organi competenti. Voglio rivolgermi ai cittadini messinesi – conclude Stefano Bisi – per ribadire che la libera muratoria del Grande Oriente d’Italia non si occupa di politica e non vuole essere strumentalizzata in vicende che non la riguardano. Siamo tolleranti per principio ma adesso basta col parlare a sproposito di massoneria”.

Potere, affari, massoneria. Viaggio nell'immutabile Messina, scrive Salvo Toscano Mercoledì 4 Ottobre 2017 su "Live Sicilia”. Raccontano che quando l'ingegnere palermitano Antonio Zanca realizzò il celebre Palazzo che porta il suo nome e ospita il municipio di Messina, incontrò grosse difficoltà a farsi pagare. E questo malgrado le ripetute rassicurazioni. Fu così che l'estroso progettista decise di abbellire la facciata con i pesci dalla bocca larga, che sullo Stretto si chiamano “buddaci”, raccontando con quella trovata una caratteristica della città dove non sempre i fatti seguono alle parole. Basti pensare, per farsene un'idea, alla chimera del Ponte. Il nostro giro della Sicilia sulle tracce del potere comincia lì dove comincia l'Isola. A Messina, città archetipo di quell'immutabilità siciliana che resiste come una condanna senza appello. Un luogo in cui, almeno apparentemente, ogni cosa resta o cerca di restare com'è. Malgrado tutto. Uno scossone agli assetti parve assestarla quattro anni fa la sorprendente elezione di Renato Accorinti. Il sindaco in t-shirt e sandali scardinò alle urne i blocchi di potere che saldamente tenevano in mano la città, proponendosi come antagonista dei poteri forti. Da allora, tra gli alti e i bassi della sua sindacatura, i poteri forti però sembrano rimasti ben saldi. Le cronache di questi giorni, con la sfida delle Regionali dietro l'angolo, hanno riportato la città dello Stretto all'attenzione dei giornali. Merito, se di merito si tratta, della candidatura di Luigi Genovese, giovanissimo figlio di Francantonio, già sindaco, già parlamentare, già segretario del Pd, socio della famiglia Franza nel grande business dei traghetti, ma anche colosso della formazione professionale, dettaglio quest'ultimo che gli è costato in primo grado una condanna a undici anni per una serie di reati legati proprio ai “corsi d'oro”. Un processo che ha riservato dispiaceri anche alla consorte di Genovese, alla sorella di lei e al marito di quest'ultima, il deputato regionale uscente Franco Rinaldi. Tutti condannati, condanna non definitiva è bene ricordare, a vario titolo. Ora tocca al giovane Luigi, la cui segreteria politica in centro città in questi giorni è sempre affollatissima, come affollata è stata la convention per il lancio della sua candidatura in Forza Italia benedetta dal commissario Gianfranco Miccichè. Una prova di forza per riaffermare un'esistenza in vita, dicono da queste parti.Dove ci si attende un grande risultato dal rampollo della potente famiglia che già prima del Luigi ventunenne ebbe un altro Luigi, il padre di Francantonio, parlamentare e una punta di diamante come lo zio di Francantonio, Nino Gullotti, sei volte ministro e signore delle tessere Dc. La famiglia è una cosa importante, da queste parti più che altrove. In una città che non ha più industrie da un pezzo, il potere si concentra in pochi, pochissimi luoghi, ed è per l'appunto spesso un affare di famiglia. O di fratellanza, ma questa è un'altra storia. Sì, perché oltre ai grandi centri di potere, che poi sono quelli del business dei traghetti, dell'editoria e della sanità, e infine dell'università, c'è poi sempre lo stesso fantasma, che si agita in tutti i racconti, con un alone di leggenda. E cioè la massoneria, che qui a Messina ha una lunghissima tradizione. Quanto contano ancora le logge? Nessuno sa dirlo con certezza, ma tutti ne parlano. Di massoni illustri la storia di Messina è ricca. Anche oggi qualcuno ha avuto i suoi momenti di gloria. Come Carlo Vermiglio, avvocato e assessore regionale uscente ai Beni culturali, massone in sonno. In giunta lo piazzarono gli alfaniani, per la precisione Nino Germanà, che in zona Cesarini è tornato in Forza Italia a sostegno di Nello Musumeci, insieme a una ricca compagnia di convertiti dell'ultima ora. Il suo comitato elettorale è giusto di fronte a quello di Beppe Picciolo, uscente di Sicilia Futura. Tentano di restare all'Ars come gli altri uscenti, da Giovanni Ardizzone, presidente dell'Ars, a Santi Formica. Ma i riflettori in questa campagna sono tutti per Genovese jr. Il figlio di “Franzantonio”, come da queste parti chiamano ancora il padre, gode del sostegno di ben undici consiglieri comunali di Forza Italia. Tra loro Emilia Barrile, presidente del consiglio comunale: “C'è un grande consenso di persone che gli vogliono bene. Stiamo chiedendo il consenso per Luigi, non per il figlio di Francantonio”, dice lei. I traghetti del socio Pietro Franza, oggi meno forte di ieri dopo il salasso del Messina calcio, i corsi di formazione e la politica di famiglia sono stati gli ingredienti del potere di Genovese. Un forziere elettorale per la famiglia. Che adesso vuole dimostrare che quel forziere non si è svuotato. La sfida è aperta con tutti i candidati in corsa nelle diverse liste all'opera per contendersi i voti nei quartieri popolari (e popolosi), come Giostra e Mangialupi. Le stanze del potere stanno altrove. Un bel pezzo si concentra da sempre all'Università, luogo dalla storia tormentata. Nelle stanze dei baroni si è tornato ad annusare l'odore dello scandalo con l'inchiesta fiorentina che ha coinvolto i docenti di diritto tributario e che ha lambito anche Messina. Poca cosa, certo, rispetto ai tempi andati. L'ateneo messinese ha una lunga “tradizione” di scandali alle spalle, dalla clamorosa parentopoli alle inchieste sugli esami truccati, con tanto dell'ombra della 'ndrangheta, i cui rampolli hanno spesso frequentato le aule dell'università messinese. Quella stessa università che diciannove anni fa fu sconvolta dall'omicidio di Matteo Bottari, professore e genero dell'ex rettore ucciso in un agguato rimasto impunito. Erano gli anni rimasti alla storia come quelli del “verminaio” Messina. Oggi l'ateneo messinese è retto da Pietro Navarra, che non era ancora nato quando lo zio Michele, boss di Corleone, fu assassinato. La sua è tutt'altra storia, che lo ha portato a diventare il più giovane Magnifico d'Italia con un brillante curriculum accademico. Navarra è ritenuto vicino a Matteo Renzi e in queste elezioni l'ateneo è mobilitato a sostegno della candidatura di Franco De Domenico, direttore generale dell'Università, candidato del Pd. L'ateneo, in una città dall'economia asfittica, rimane un baluardo di potere. Per il resto a Messina, al netto di traghetti (dove accanto al gruppo Caronte dei Matacena e a Tourist della famiglia Franza, ormai uniti, da qualche tempo si sono inseriti anche gli aliscafi del gruppo Morace), editoria e sanità, resta poco o nulla. “La provincia è ancora vivace, ci sono importanti realtà di manifatturiero soprattutto sui Nebrodi, c'è Milazzo con le sue industrie. La città no – racconta Ivo Blandina, presidente della Camera di commercio -. Una quarantina di anni fa in città ci fu lo spostamento del capitale dall'investimento alla rendita”. Ne è seguita una decadenza che ha visto col tempo privare Messina anche di altri fiori all'occhiello, dal Comando marittimo della Sicilia all'Autorità portuale, con la città dello Stretto che finirà ora sotto l'orbita di Gioia Tauro. Cosa resta in città? C'è la sanità, che qui come altrove rappresenta anche un importante bacino elettorale. L'Asp è commissariata (come la ex Provincia, oggi Città metropolitana), con al timone Gaetano Sirna. Accanto a gruppi privati di un certo peso, spicca il Centro Neurolesi Bonino Pulejo, struttura ad alta specializzazione che ha visto approdare ai vertici Angelo Aliquò, già direttore della Seus. Ma il centro, che lega la sua storia già nel nome a quello della famiglia della Gazzetta del Sud, ha come faro indiscusso il professor Placido Bramanti, direttore scientifico con due pagine di cariche nel curriculum, una delle figure di maggior rilievo della città. Di poche settimane fa è la notizia di uno stanziamento ministeriale da 91 milioni di euro in favore del centro messinese, una cifra che già da sola basta a inquadrarne il peso negli equilibri di potere cittadini. E poi c'è appunto la Gazzetta del Sud. Edita dalla Ses, in mano alla Fondazione Bonino Pulejo. Il giornale-ponte, che ha unito la Sicilia e la Calabria conquistando lettori soprattutto al di là dello Stretto. Ma anche il “giornale del Ponte” ai tempi di Nino Calarco, quando in città c'era persino un centro informazioni sull'infrastruttura che non vide mai la luce. Oggi al timone c'è il manager Lino Morgante, protagonista dell'operazione che ha portato nell'orbita messinese il Giornale di Sicilia, rilevato dalla famiglia Ardizzone. Un'operazione che rafforza ulteriormente il peso della testata messinese, tradizionalmente filo-governativa, che ha un altro punto di forza nella sua rotativa. Altra voce dell'editoria cittadina è quella piccola ma agguerrita di Centonove, settimanale lontano dal Palazzo, diretto da Enzo Basso. Che di recente ha fatto le pulci all'affare Giornale di Sicilia con una succulenta inchiesta ricca di retroscena. Qualcosa si muove, insomma, sullo Stretto. Ma gli attori restano sempre gli stessi. Anche nell'era dell'anti-sistema Accorinti. La pensano così dalle parti di Rifondazione comunista, che prima sostenne l'ascesa del sindaco pacifista, salvo poi prenderne le distanze. “Per me non c'è stata assolutamente rottura col passato – commenta Antonio Mazzeo, giornalista e attivista comunista -. Prova ne sono il piano di riequilibrio del bilancio, che ha giovato ai grandi creditori del Comune, o le operazioni immobiliari sempre con gli stessi personaggi. La borghesia imprenditrice esce impunita dagli errori del passato”. Non sono piaciute a sinistra ad esempio le sponsorizzazioni del gruppo Franza a eventi organizzati dall'amministrazione, ma soprattutto il piano che nel nome dell'ambientalismo si propone di spostare le cubature dalle colline alla zona Sud, un'operazione che, secondo l'inchiesta “Beta” della Dda messinese avrebbe solleticato gli appetiti anche di organizzazioni criminali interessate a speculazioni edilizie. Già, la mafia. Che a Messina non ha una storia militare ma piuttosto di infiltrazione negli affari. Con incroci pericolosi di Cosa nostra palermitana, mafia catanese, il clan Santapaola in particolare, e 'ndranghetisti. Ma il tema in questi giorni di campagna elettorale latita, proprio come quei latitanti eccellenti che da queste parti trovarono rifugio negli anni d'oro di Cosa nostra. In una città dove il Palazzo di Giustizia è stato per lunghi anni un luogo di ombre e veleni, in quella che veniva chiamata “provincia babba”. Oggi la procura, che negli ultimi anni ha dato segnali di vitalità, è passata nelle mani di un magistrato esperto come Maurizio De Lucia, grande conoscitore del fenomeno mafioso con trascorsi alla Dna. Il suo biglietto da visita la settimana scorsa con l'indagine che ha portato a un maxi-sequestro ai Cuzzocrea, imprenditori della sanità, fratelli dell'ex rettore dell'università messinese sulla base di accuse che la difesa degli indagati respinge con forza. Questo il quadro di una città che si prepara a una raffica di elezioni. Le Regionali alle porte, con un buon vento nelle vele di Nello Musumeci, poi le Politiche e infine le amministrative. Dove Accorinti secondo diversi osservatori potrebbe strappare un secondo mandato perché a pochi mesi dal voto non si profila ancora un'alternativa. Sarà la volta buona per tentare la strada del cambiamento o alla fine la maledizione dei “buddaci” di Zanca avrà la meglio sull'immutabile città?

De Luca: "L'arresto? Lo sapevo. Vi offro il caffè del galeotto", scrive Accursio Sabella l'8 novembre 2017 su "Live Sicilia". "Non mi vogliono come sindaco di Messina, un parente di un magistrato sapeva del mio arresto". "Sapevo che mi avrebbero arrestato, perché già certi ambienti mi avevano avvertito". Cateno De Luca parla attraverso il suo profilo di Facebook e lo fa in calce a una foto che lo immortala mentre sorseggia un caffè: "Il caffè del galeotto", scherza rivolgendosi ai suoi elettori. "Oggi più di ieri - continua De Luca - vi dico che anche questo procedimento finirà come gli altri quattordici: archiviati o con sentenza di assoluzione. Nei prossimi giorni saprete il perché non vogliono che io faccia il sindaco di Messina. Ringrazio i militari che stamattina alle ore 7:25 hanno suonato alla mia porta per arrestarmi in quanto sono stati un esempio di professionalità, gentilezza e riservatezza". E De Luca fa intendere che l'arresto era ampiamente previsto: "Io - dice infatti - li aspettavo da qualche giorno. Io sto bene, ora sono agli arresti domiciliari a Fiumedinisi e penso solo a preservare mia moglie, i miei figli, la mia famiglia dall'ulteriore calvario giudiziario che li attende". Poi un pensiero a chi ha votato per lui il 5 novembre, consentendogli di conquistare l'elezione a Sala d'Ercole: "Chiedo scusa ai miei sostenitori ed elettori per ciò che subiranno nei prossimi giorni - dice De Luca -  Posso solo dirvi - prosegue - che i fatti contestati risalgono al periodo 2007 - 2012 per i quali risulta pendente presso la commissione tributaria regionale un procedimento: mi contestano che io avrei agevolato il Caf Fenapi ad evadere il fisco e quindi non sarei io l'evasione ma il Caf Fenapi di proprietà della Fenapi che ha oltre 300 mila soci". Insomma, De Luca non fa fatica a definirsi un perseguitato: "Dedico questa ulteriore battaglia - scrive infatti - ai perseguitati dell'ingiustizia che non hanno avuto la forza ed i mezzi per ottenere giustizia. State sereni io non mollo. Preservate il nostro meritatissimo ed onestissimo successo elettorale dagli attacchi dei medesimi ambienti che già sapevano del mio arresto. Tale richiesta - prosegue - risale al 10 gennaio 2017 ed il Gip per motivi a noi non troppo ignoti ha firmato l'ordinanza di arresto il 3 novembre 2017". E il motivo, fa intendere De Luca, sarebbe legato a questioni di natura politica. "Io - prosegue infatti - avevo annunciato la mia candidatura a sindaco di Messina nel comizio del primo gennaio 2017 in Piazza Municipio a Santa Teresa di Riva. A dicembre 2016 avevamo depositato l'ennesima denunzia nei confronti di una parte della magistratura di Messina ed alcuni organi inquirenti che avevano commesso troppi "errori" nei procedimenti penali aperti a carico di Cateno De Luca: ben 15 procedimenti penali di cui già chiusi 14 con sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste e varie archiviazioni per l'inconsistenza delle accuse. Pregate per me - conclude - e per la mia famiglia e per gli altri indagati che nulla c'entrano in questa storia". C'è spazio anche per una citazione evangelica: "'Beati i perseguitati a causa della giustizia - dice - perché di essi è il regno dei cieli'". Conclude poi con un appello agli elettori: "Condividete se potete il presente post. Vi saluto offrendovi virtualmente il caffè del galeotto". "Sono sereno, già venerdì sera in piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana, e anche ritengo della massoneria nonché parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: 'lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto. Questo stesso personaggio, il lunedì, ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore e gli ha detto, che era inutile l'elezione di Cateno perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti Danilo Lo Giudice". Così in un video su Fb, il deputato regionale appena eletto Cateno De Luca, da stamani ai domiciliari con l'accusa di evasione fiscale.

“Riabilitiamo Messina” torna dopo l’assoluzione di De Luca. Il fondatore, Antonio Briguglio, aveva chiuso il gruppo Facebook mercoledi, dopo l'arresto del deputato regionale, e lo ha riaperto oggi, dopo la sua assoluzione nel processo per i fatti di Fiumedinisi. De Luca lo ha indicato come assessore designato qualora diventasse sindaco, scrive il 10 novembre 2017 "Letteraemme". Da “Il gruppo è stato archiviato” a “Antonio Briguglio ha annullato l’archiviazione del gruppo”. Il suo creatore ha chiuso il gruppo Facebook Riabilitiamo Messina mercoledì e lo ha riaperto venerdì: quarantotto ore di oblio, coincise con la carcerazione ai domiciliari di Cateno De Luca come misura cautelare nell’inchiesta per evasione fiscale nella galassia Fenapi di due giorni fa, e l’assoluzione per due reati su tre (in uno è intervenuta la prescrizione) nel processo su opere di urbanizzazione realizzate a Fiumedinisi. Il motivo del ritorno lo ha spiegato lo stesso Briguglio, in un post in cui annuncia la riapertura del gruppo che conta diecimila iscritti e si presenta come “un’ottica apolitica per sensibilizzare le amministrazioni e i cittadini tutti alla cura ed al senso civico nei confronti della nostra città, Messina!”. “Ho chiuso il gruppo per qualche giorno per evitare che gente ignobile, gretta e meschina potesse macellare una persona e una famiglia”. Non lo nomina direttamente, ma il riferimento è a Cateno De Luca. Perchè Antonio Briguglio da De Luca è stato indicato come assessore designato della sua giunta qualora riuscisse a diventare sindaco di Messina, il prossimo giugno. Briguglio è stato presentato alla platea lo scorso 21 ottobre quando, sul palco con lui De Luca c’era anche Carlo Taormina, il legale che ha difeso l’ex sindaco di Fiumedinisi dalle accuse nel processo, facendolo assolvere. “Da buon cristiano penso che solo Dio può giudicare sulle nostre scelte, dispiace che molta gente aspetta gli errori di altri per distruggerne la dignità – continua Briguglio nel post in cui annuncia la riapertura – Facebook, come alcuni giornali e giornalisti politicizzati sono il cancro della nostra società. Riapro Riabilitiamo Messina con l’augurio che non diventi più una macelleria social, che nessuno si permetta più di inveire contro le disgrazie altrui in questo gruppo”, ha concluso Briguglio.

Felice Cavallaro per il Corriere della Sera del 10 novembre 2017. Ribalta l'accusa Cateno De Luca, il deputato regionale di Messina eletto a arrestato a tempo di record. Ma lo fa nel primo processo sul quale pende la richiesta di condanna a 5 anni. Non nell' ultima inchiesta per evasione fiscale. Ribalta il sospetto di avere pilotato appalti nel suo paesino, Fiumedinisi. Sostenendo di essere vittima di una estorsione. Questa la verità del vulcanico leader del partitino fatto in casa, «Sicilia Vera». Tesi declamata ai giudici che emetteranno il verdetto oggi e ai quali si è presentato da detenuto perché ai «domiciliari» per l'altro procedimento, il quattordicesimo, legato ai pasticci della Fenami, una federazione di imprenditori costruita a sua misura, seppur benedetta lo scorso aprile dal «cappellano di Sua Santità e direttore Ufficio per la Pastorale universitaria», monsignor Lorenzo Leuzzi, chiamato a parlare di «etica del lavoro». È loquace su Facebook, certo di non commettere reato, nonostante la detenzione e i consigli dei legali. E lascia trapelare cosa accadrà domani, quando il gip che lo ha fatto arrestare lo interrogherà, come ha fatto sapere ai fedelissimi: «Sapevo della cattura e rivelerò il nome di chi me l'ha detto, il parente di un magistrato». L' attesa del possibile annuncio già inquieta Messina dove De Luca indossa i panni della vittima di un presunto complotto descritto come una faida interna al centrodestra. Un riferimento emerso fra le pieghe del processo di ieri quando i carabinieri l'hanno scortato da casa al tribunale. Il «sacco» di Fiumedinisi apparirebbe così legato al clamoroso spogliarello inscenato a Palazzo dei Normanni contro l'allora governatore Raffaele Lombardo e contro Gianfranco Miccichè quando lui era alla guida di un consorzio per la metanizzazione dei paesini della costa ionica. «Volevano un altro». Per scalzarlo i suoi avversari avrebbero fatto scattare «una manovra politica e giudiziaria». Cauto il suo avvocato, Carlo Taormina, su una tesi che oggi potrebbe essere negata dal verdetto. Ma è difficoltoso placare l'esuberanza di questo imputato eccellente che deborda via Internet, sorprendendo il procuratore della Repubblica Maurizio De Lucia, convinto che «non dovrebbe essere possibile», ma che forse occorrono prescrizioni esplicite per una materia nuova. E, incurante, l'imputato irrompe sui social piazzando video e foto di un centinaio di simpatizzanti che lo incoraggiano a non mollare e cita Martin Luther King: «Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». C' è anche la foto dei genitori caricata lunedì con didascalia: «Mamma e papà mi hanno detto di stare sereno». E le foto in chiesa, lui di spalle, la Madonna in primo piano: «Maria Santissima Annunziata proteggici Tu». Ma è sua madre che lo accarezza: «Mi ha visto sciupato e mi ha sbucciato le castagne». Diverso il tono di domenica mattina con gli avversari che cercavano di fare votare altri: «A calci in culo i lacchè davanti ai seggi! Abbiamo fatto intervenire la polizia». Ignaro degli sviluppi. Ancorato ad un accostamento per tanti sacrilego perché il giorno prima delle elezioni «postava» una foto di Falcone e Borsellino con una citazione di quest' ultimo: «Il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale...».

Cateno De Luca assolto 15 volte, ma resta dentro, scrive il 10 novembre 2017 l'Adnkronos e il Dubbio. Il neo deputato Udc arrestato per una presunta evasione fiscale da 1,7 milioni di euro. Ora aspetta il 16esimo processo: «Anche stavolta dimostrerò la mia innocenza». Cateno De Luca, il neo deputato Udc arrestato due giorni fa per una evasione fiscale da 1,7 milioni di euro è stato assolto poco fa dal Tribunale di Messina dall’accusa di tentata concussione e falso in atto pubblico. I reati contestati, per cui il parlamentare finì anche in cella, sono relativi a un periodo compreso tra il 2004 e il 2010, quando De Luca era sindaco di Fiumedinisi. Secondo l’inchiesta della Procura messinese, l’ex sindaco avrebbe stravolto il programma per favorire imprese edilizie della sua famiglia. Cateno De Luca è stato assolto perché il fatto non sussiste. Alla lettura della sentenza hanno assistito decine di persone, alcune delle quali al momento dell’assoluzione hanno a lungo applaudito. Il procedimento per cui era sotto processo De Luca cominciò per presunti reati commessi tra il 2004 e il 2010 all’interno di un programma di opere di riqualificazione urbanistica e incentivazione dell’occupazione a Fiumedinisi (Me), Comune di cui era sindaco. De Luca venne arrestato nel giugno 2011. Intanto si terrà domani mattina l’interrogatorio di De Luca per l’arresto per evasione fiscale. Sospiro di sollievo per De Luca: “Ringrazio il collegio che ha avuto il coraggio, nonostante le pressioni, di assolvermi sulla maggior parte dei casi. Su alcuni è stata sollevata la prescrizione e questo mi dispiace molto. Devo decidere cosa fare perché non escludo di rinunciare alla prescrizione di alcuni capi d’imputazione e di andare avanti fino in fondo facendo appello”. “In questi sette anni – aggiunge – ho subito 15 procedimenti penali e sono stato assolto sempre. Tante accuse sono state archiviate per l’inconsistenza delle stesse e io voglio giustizia ed essere assolto”.

Cateno De Luca: "Ferite che rimarranno, non cerco vendetta ma giustizia". Visibilmente provato, Cateno De Luca dopo la sentenza che lo ha visto assolto ha affidato il suo sfogo ancora una volta a un video messaggio su Facebook, scrive Venerdì 10 Novembre 2017 "Tempo stretto". "In questi sette anni ho subito quindici procedimenti penali, sono stato assolto sempre. Molte accuse sono state archiviate per l'inconsistenza, per altre è stata chiesta la prescrizione ma adesso voglio valutare se rinunciare. Io desidero la giustizia giusta e voglio essere assolto. Non accetto di essere indicato dagli improvvisati grillini come impresentabile, di essere tacciato da quell'ignorante di Salvini che è venuto anche ai nostri convegni della Fenapi e voleva lui che io entrassi nella Lega. Sfido tutti al confronto sulla buona politica, se sono all'altezza. Io non sono un politico, sono un amministratore, voglio che ci sia giustizia. Oggi è un giorno importante per me, per la mia famiglia e per chi ha creduto in me. Andiamo avanti, sono ancora in uno stato di detenzione ma mi difenderò anche da questa ignobile accusa. Mi auguro che la politica prevalga sull'infamia della calunnia e soprattutto che chi fa politica si misuri e si confronti sui temi politici e la smetta di appioppare patenti di moralità soltanto per nascondere la propria imbecillità politica".

Cateno De Luca dopo l’assoluzione: «Sono più forte, le lobby non mi fermeranno», scrive "Normanno" l'11 novembre 2017. Dopo essere stato assolto da tutti i capiti di imputazione di cui era accusato per il processo conosciuto come “Sacco Fiumedinisi”, il collegio di difesa di Cateno De Luca composto dal prof. Carlo Taormina e dall’avvocato Tommaso Micalizzi, scrive una lettera in cui parla di una vera e propria persecuzione ai danni del neo deputato all’ARS. “La sentenza di oggi mette fine ad un’odissea giudiziaria che aveva come unico obiettivo quello di mettere fuori gioco dalla politica l’on. Cateno De Luca. Chi pensava di raggiungere tale scopo, gettando discredito sull’operato di De Luca e avanzando pseudo ipotesi delittuose – spiega il collegio di difesa – si dovrà ora ricredere. Sono quindici i processi nei quali ha ottenuto un’assoluzione o un’archiviazione ed è ormai chiaro a tutti che si è trattata di una persecuzione per fermare un personaggio scomodo, non controllabile, e che non scende a compromessi.  Tuttavia, questi anni di processi sono serviti ad alcuni detrattori come alibi per alimentare voci in modo tendenzioso e per fomentare odio nei confronti dell’ex sindaco di Fiumedinisi, descritto come un mostro senza cuore e senza valori. Riteniamo che questi anni abbiano costretto l’on De Luca a rallentare il suo percorso politico danneggiandolo oltremodo, ma queste accuse infondate, non sono riuscite ad intaccare la dignità, la serietà e la forza di De Luca che ha lottato in prima linea per far emergere la verità. Riteniamo che anche quest’ultima vicenda relativa all’arresto di qualche giorno fa per evasione fiscale, avvenuta con una tempistica alquanto inusuale, abbia contorni poco chiari che cercheremo di evidenziare, dimostrando anche in questo caso la totale estraneità di De Luca ai fatti contestati. Sembrerebbe, da una prima analisi dei fatti, che ci siano regie occulte e sempre pronte ad agire anche in questo caso solo con lo scopo di danneggiare l’uomo politico nei momenti cruciali.  Uno stato di diritto prevede che sia la giustizia a decidere su queste vicende, ma sin da ora annunciamo che non permetteremo altre speculazioni sulla questione”. Cateno De Luca, che si trova ai domiciliari, ha autorizzato i suoi legali a diffondere queste sue dichiarazioni: «I giustizialisti a tempo, gli ipocriti a comando, gli avvoltoi sempre vicini alla stanza dei bottoni e i leoni da tastiera saranno rimasti delusi anche da questa sentenza, la quindicesima a mio favore. Speravano fossi condannato per poter gridare allo scandalo, ma ora non avranno nemmeno la decenza di chiedere scusa per le tante nefandezze scritte o dette.  Io ho sempre agito per il bene comune, non ho mai pensato di sopraffare nessuno, e volevo solo realizzare delle opere pubbliche utili per il mio territorio. Da parte mia c’è sempre e solo stato il desiderio di servire la mia comunità e di agire per lo sviluppo della mia terra.  Penso che i giudici abbiano compreso le mie vere intenzioni, ed io ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ritengo che questo processo, insieme agli altri nei quali sono stato assolto, siano un esempio per tutti i perseguitati dell’ingiustizia. Bisogna sempre credere che la verità trionferà. E’ stato un periodo difficile per me, per la mia famiglia e per tutti i miei familiari e sostenitori, ma è stata una prova che mi ha ritemprato rendendomi più forte e determinato nella mia lotta contro la cattiva politica, i ladroni autorizzati, gli scansafatiche senza meriti e gli improvvisati da strapazzo. Le lobby e le consorterie non mi fermeranno, come non ci sono riuscite fino ad ora. Sono ottimista anche relativamente a quest’ultima azione giudiziaria avvenuta nei miei confronti, e sono certo che presto tornerò libero e dimostrerò la mia innocenza. Durante questa azione mediatico giudiziaria che mi ha messo al centro dell’attenzione nazionale, ho sentito delle incredibili dichiarazioni false e molto lesive della mia onorabilità e ho dato già mandato ai miei legali di agire di conseguenza querelando chi le ha proferite. Non permetterò che i burattini del teatrino della politica gettino ulteriormente fango su di me, solo per mere opportunità politiche. Mi fa sorridere vedere alcuni personaggi venuti dal Nord che si sono sempre dimenticati del Mezzogiorno, ergersi ora a paladini del Sud e a difensori dell’etica. Prima di parlare di me pensino al loro partito più volte al centro di scandali vergognosi. Così, come non permetterò a qualche trombato dell’ultima ora di sfogare il suo piccolo ego lanciando anatemi contro di me, solo per trovare una giustificazione al motivo per il quale gli elettori hanno pensato bene di non dargli più fiducia dopo che la sua azione politica è stato un fallimento. Sono pronto a sfidare tutti in dibattiti pubblici dove dimostrerò la pochezza delle loro idee e l’assenza della loro moralità che vanno sbandierando ai quattro venti. Tornerò in parlamento portando sempre avanti le mie battaglie contro gli sprechi, contro la corruzione e contro chi ha ridotto la Sicilia in un letamaio. La gente è con me e mi chiede di andare avanti e io non mi fermerò».

Carlo Taormina (legale di De Luca) ai giornalisti: «Poi non vi lamentate delle testate», scrive l'11/11/2017 "La Sicilia”. La frase del difensore del deputato regionale arrestato per evasione fiscale. L'Ordine dei giornalisti di Sicilia: «Frase infelice e fuori luogo». E’ polemica a Messina per alcune frasi dette ai cronisti dall’avvocato Carlo Taormina dopo l'interrogatorio di garanzia di Cateno De Luca oggi al tribunale di Messina. Taormina prima di andarsene, rispondendo alle domande dei cronisti sull'operato della Procura nei confronti di De Luca, ha infatti detto: «Giudicate voi se è normale il comportamento della Procura nei confronti di De Luca, valutate voi se è da paese civile. Poi vi lamentate se vi danno le testate. Cercate di operare nell’interesse dei cittadini». «Una frase infelice e fuori luogo quella dell’avvocato Taormina, - replica il presidente dell’ordine dei giornalisti di Sicilia Giulio Francese - che non si capisce perché tiri in ballo l’episodio della testata inferta a un giornalista a Ostia. Bisognerebbe avere più rispetto per i cronisti e non alimentare con certe dichiarazioni un clima d’odio che poi rischia di degenerare in episodi violenti come è successo a Ostia. Per tornare a un clima più sereno ognuno deve fare il proprio lavoro nel rispetto di tutti. Basta allusioni e accuse gratuite».

Morta l'antimafia se ne fa un'altra. Arrivano i santissimi sputtanatori, scrive Giuseppe Sottile Giovedì 9 Novembre 2017 su "Live Sicilia". Il mascariamento non finisce mai. Lo dimostra la campagna d'odio sugli "impresentabili", targata M5S. (Dal Foglio). Diciamolo pure con un certo sconforto, ma diciamolo: l'antimafia, quella che un tempo spaccava le ossa e garantiva trionfi e carriere, non tira più. E per averne conferma basta guardare tra le pieghe delle elezioni siciliane. Rosario Crocetta, che cinque anni fa era diventato governatore grazie alle sue furbesche intemerate contro gli invisibili spettri di criminalità e malaffare, è finito nella polvere con tutto l'armamentario delle imposture spacciate come verità nel teatrino di Massimo Giletti. Leoluca Orlando, altro campione dell'antimafia chiodata, ha tentano il salto dal comune di Palermo alla Regione, ma le sue liste non hanno superato la soglia di sbarramento e sono miseramente naufragate, come quelle di Angelino Alfano, nel grande mare dell'irrilevanza. Stesso destino per Claudio Fava, che pure è testimone di un impegno serio e rispettabile: la sua fatica con quel che resta della sinistra non è andata oltre il 6 per cento dei voti e ha conquistato appena un seggio a Sala d'Ercole. La disfatta, com'era prevedibile, ha travolto anche le comparse del vecchio cinema antimafia, con tutti i loro attrezzi di scena. Valeria Grasso – un'improbabile eroina del cerchio magico di Crocetta, elevata dal ministero dell'Interno al ruolo di testimone di giustizia – ha creduto che fosse finalmente arrivato il momento di salire sul palcoscenico elettorale per riscuotere gli applausi. E per meglio commuovere gli spettatori ha raccontato la storiellina, ovviamente “misteriosa e inquietante”, di un furto in casa. Un furto “strano”, va da sé. Un'esperienza “traumatica e brutale”, naturalmente, proprio perchè i ladri si sarebbero limitati, guarda un po', a rubare la foto di Valeria ritratta con i figli. E nulla più. La storiellina, finita sui giornali a pochi giorni dal voto, avrebbe dovuto quantomeno suscitare consensi e solidarietà, trepidi abbracci e infiocchettati attestati di stima. Ma le masse, chiamiamole ancora così, non hanno risposto all'appello e Valeria Grasso ha raccolto nelle urne appena 501 voti. Gli elettori hanno mostrato verso la sua antimafia la più assoluta e sincera indifferenza. Si è schiantato contro un muro di gomma anche la sublime architettura messa in piedi per condizionare il voto dalla cosiddetta Confraternita della Trattativa, una sorta di setta conventicolare secondo la quale nessun magistrato, tranne Nino Di Matteo, riuscirà mai a scoprire le trame oscure e i mandanti occulti che lo Stato-mafia (col trattino piccolo piccolo) puntualmente nasconde tra le pieghe di ogni processo. La Confraternita, alla quale aderiscono santoni e tromboni con tutte le stimmate delle loro immacolate esistenze, ha tentato il colpo grosso. Da cinque mesi vagavano – tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta – i mille e mille discorsi fatti durante l'ora d'aria da Giuseppe Graviano, un boss stragista rinchiuso da 23 anni nel carcere duro di Ascoli Piceno. Graviano, che pure aveva sgamato di avere tutto intorno le cimici sistemate dagli agenti lungo il cortile per intercettare le sue parole, parla a ruota libera e, con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, lascia andare alcune frasi smozzicate che comunque tirano in ballo il bersaglio di sempre: Silvio Berlusconi. Una manna dal cielo per la Confraternita della Trattativa, e per i pochi cronisti che ancora si ostinano a seguire il processo in Corte d'Assise che si celebra nell'aula bunker dell'Ucciardone. E anche se il boss, chiamato dalla Corte a testimoniare, spegne subito gli entusiasmi, avvalendosi della facoltà di non rispondere, la Confraternita che affianca dall'esterno Di Matteo (candidato da Grillo a diventare il ministro di legge e ordine in un futuro governo a cinque stelle) non si arrende e spara il colpo di riserva: l'annuncio che Berlusconi, con Graviano, è stato iscritto a Firenze nel registro degli indagati. La notizia, anche se vecchia e usurata, doveva restare segreta. Ma la Confraternita ha i suoi incappucciati sparsi un po' in tutti i sottoscala delle procure. E la notizia è stata opportunamente veicolata, si dice così, sui due principali quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. Teoricamente, avrebbe dovuto fare sfracelli. Ma le elezioni siciliane hanno ratificato anche il fallimento di quella particolare specie di antimafia che, giocando di sponda con i magistrati politicamente più sensibili e più disponibili, si è trasformata da tempo in una autonoma forza sbirresca. L'elettorato, messo di fronte all'ennesima scempiaggine, non ha abboccato. La criminalizzazione di Berlusconi non ha funzionato. Anzi, a giudicare di come sono andate le cose, c'è da pensare che la manovra degli incappucciati abbia portato al centrodestra più consensi che dissensi, più simpatie che antipatie. Ciò non significa tuttavia che il tracollo dei professionisti dell'antimafia abbia restituito alla politica, soprattutto a quella siciliana, la cultura della libertà e dello stato di diritto. No. Perché morta un'antimafia se ne fa un'altra. E per rendersene conto basta guardare alla scomposta – forsennata, si stava per dire – campagna condotta dal Movimento cinque stelle contro i cosiddetti “impresentabili”: una categoria molto vaga di impuri sui quali si sono scatenati in quest'ultimo mese i puri e duri di Beppe Grillo. Giancarlo Cancelleri, che nella corsa alla presidenza della Regione ha raccolto oltre il 34 per cento dei voti, non ha accettato la vittoria di Nello Musumeci e ha platealmente respinto l'invito a stringergli la mano: “La sua elezione si deve agli impresentabili di cui erano piene le liste di centrodestra”, ha sentenziato. E mascariando e sputtanando, ha cominciato a criminalizzare non solo il figlio di Francantonio Genovese, che fu ras a Messina prima del Pd e poi di Forza Italia e che ha sulle spalle un condanna in primo grado a 11 anni di carcere per avere abbondantemente lucrato sui corsi di formazione della Regione; ma anche i candidati che malauguratamente si ritrovano un indagato tra gli ascendenti o i discendenti, tra i nonni o gli zii, tra i parenti vicini o i parenti lontani. Certo, uno scheletro negli armadi può capitare a chiunque: ieri, a ventiquattr'ore dall'elezione, è finito agli arresti domiciliari per evasione fiscale Cateno De Luca, un guitto della politica reclutato dall'Udc di Lorenzo Cesa ma la scuola grillina pretende che l'impresentabile appartenga sempre e comunque alla sponda opposta. Perché se finisce sotto indagine un esponente del Movimento, come è successo al sindaco di Bagheria o ai deputati rinviati a giudizio per le firme false, la macchia giudiziaria diventa un semplice incidente di percorso al quale ovviare, se proprio se ne avverte il bisogno, con una semplice autosospensione. La questione degli impresentabili è diventata dunque non solo la nuova bandiera di moralisti e moralizzatori. Ma anche e soprattutto il nuovo strumento di lotta politica che il M5s impugna o per delegittimare l'avversario, esattamente come avveniva con l'antimafia, o per sfuggire al dibattito in particolar modo quando il dibattito pone la necessità di approntare risposte concrete a domande che non si possono più eludere o rinviare. Sarà pure un caso, ma la scatola con dentro il giochino dell'impresentabilità è stata regalata ai grillini proprio dalla Commissione parlamentare antimafia che, non avendo più alte indagini da fare per mantenersi a galla, promette a ogni vigilia elettorale di rivelare urbi et orbi chi sono gli impresentabili veri o presunti nascosti dentro le liste. Poi puntualmente non ci riesce e l'operetta immorale diventa automaticamente patrimonio esclusivo di chiunque voglia fare politica con gli insulti, di chiunque pensi di annientare il nemico con uno sfregio e con una diffamazione, di chiunque voglia tenere ancora viva in questo paese la devastante cultura del sospetto. “Il sospetto è l'anticamera della verità”, teorizzava trenta e passa anni fa Leoluca Orlando, ancora sindaco di Palermo, quando spadroneggiava tra i circoli antimafia con una arroganza che lo spingeva a insultare un giudice come Giovanni Falcone o uno scrittore come Leonardo Sciascia. Oggi la sua stella si è appannata e la sua antimafia non brilla più. S'avanzano i nuovi odiatori: da Cancelleri a Gigino Di Maio, da Alessandro Di Battista al poco conosciuto Angelo Parisi che, appena designato da Cancelleri tra gli assessori dell'immaginario governo grillino, si è guadagnato gli onori, si fa per dire, della cronaca lanciando la nobile proposta di mandare al rogo Ettore Rosato, il capogruppo del Pd colpevole di avere proposto la legge elettorale poi approvata dai due rami del Parlamento. Ebbene, diciamolo pure con un pizzico di cinismo, ma diciamolo: meglio che la Sicilia sia finita nelle mani dell'onesto Nello Musumeci, anche se eletto con i voti di Cateno De Luca e di altri tre o quattro candidati impresentabili, che non in quelle di Cancelleri e dei suoi professionisti del rancore. Abbiamo visto i guai e le nefandezze dell'antimafia forcaiola, che Dio ci liberi dai guai e dalle nefandezze dei santissimi sputtanatori.

Il caso De Luca e la categoria pre-giuridica dell'“impresentabilità”. Appena eletto all’Assemblea Regionale Siciliana il deputato dell'Udc è stato arrestato e posto ai domiciliari. Ma la novità risiede nel riconoscimento preventivo e, de facto, dell’indegnità di una persona, scrive Fabio Cammalleri l'8 Novembre 2017 su "Il Foglio". Cateno De Luca, appena eletto per il centro-destra, con l’UDC, all’Assemblea Regionale Siciliana, è stato sottoposto a custodia cautelare nel domicilio, su richiesta della Procura della Repubblica di Messina. A suo modo, è vicenda di perfetta esemplarità. Chiarisce il nuovo statuto delle libertà politiche e civili in Italia; e il valore fondativo della categoria che ne è alla base: “impresentabilità”. Eletto con poco più di cinquemila voti, era stato incluso nell’omonima “lista degli impresentabili”, sciorinata, nel corso della campagna elettorale, dal candidato del M5S, Cancelleri. Ma il nuovo conio integra ormai la “grammatica politica” comune. Poche le eccezioni. Lo stesso Musumeci, a chi gli contestava, mediante le liste di coalizione, il sostegno di “impresentabili” (come De Luca), ha risposto, semplicemente, che “gli impresentabili” non hanno votato per lui. Ma il lessico obliquo non è stato discusso. Si procede anche nei confronti di altre otto persone, per associazione per delinquere ed evasione fiscale. De Luca avrebbe conseguito, attraverso la sua società CAF ENAPI S.r.l., illegittimi “risparmi d’imposta per circa 1.750.00 Euro”. Dove si discuta di flussi finanziari, il sostrato probatorio è, per definizione, documentale, ed è stato già acquisito. Anche per questa ragione, le misure cautelari personali non sono molto frequenti per titoli di questa specie. Nel giugno del 2011, lo stesso De Luca era stato ristretto per la prima volta: allora finendo addirittura in carcere, accusato di tentata concussione e abuso d’ufficio. La corte di Cassazione aveva ritenuto illegittima la misura cautelare, perchè non c’erano esigenze cautelari. Per quella prima vicenda, alla fine del dibattimento in primo grado, il PM ha chiesto al Tribunale una condanna a cinque anni di reclusione. Per novembre è attesa la sentenza. De Luca, di recente, aveva precisato di essere già stato sottoposto ad indagine o a processo quindici volte. A parte il processo che si deciderà a novembre (e il sedicesimo, di oggi), ricevendo finora quattordici, fra assoluzioni o archiviazioni. La Procura ha osservato di non voler commentare in alcun modo: se non per far rilevare che non si può parlare di arresto ad orologeria. Vediamo. Il punto è la selezione delle classi dirigenti elettive, e il suo intersecarsi con una valutazione, di estrazione ma non di competenza giudiziaria: che tende a determinare l’esautoramento, quasi formale, dell’elezione stessa. Come? Con l’introduzione di quella nuova categoria: “impresentabili”; indefinita, nebulosa e, soprattutto pre-giuridica: tratta dal discorso comune e dalla sua allusività morale. Il caso della “impresentabilità”, però, è diverso dalla ormai “classica” anticipazione impropria del giudizio; quella, per intenderci, che, con “l’avviso di garanzia”, “bruciava” l’accertamento definitivo di non-colpevolezza/colpevolezza: ma il “contenuto giudiziario” non agiva sulle libertà politiche (chi vota e chi è votato), se non indirettamente. Per trarre “le conseguenze politiche”, come le potrebbe qualificare un Borrelli d’Antàn, erano necessari atti ulteriori, di varia specie (dimissioni o rinunce, più o meno spontanee, e, a rincalzo, connesse “sollecitazioni” del Servizio Propaganda). Né si tratta di “incandidabilità” o di “decadenza”: che, rispettivamente, incidono sull’elettorato passivo, prima del suo concretarsi o dopo, ma derivando da una valutazione formale. No. Qui lo scopo (e la novità) risiede nel riconoscimento preventivo e, de facto, dell’indegnità di una persona che, secondo le leggi vigenti, gode ancora della sua libertà politica. Ma venendo, al contempo, “istituzionalmente indotta”, per effetto di quella aleggiante qualificazione, di estrazione ma non di competenza giudiziaria, alla “opportunità” di rinunciarvi. Per questo, la faccenda della tempestività di un provvedimento giudiziario, rispetto al piano politico-elettivo, oggi si pone in termini inediti. Ad un’osservazione smagata, sembrerebbe che il “dispositivo”, essendo abbastanza nuovo, debba ancora affermarsi: la mera “opportunità”, rischiava perciò di essere inefficace. Occorreva provvederla di una più vivida credibilità. Mutando “l’opportunità” in temibilità. Riguardato in questo modo l’insieme, da un arresto maturato a 48 ore dalle elezioni, scocca allora una tempestività, magari “riflessa”, ma certo di rimarchevole incisività. Non si interviene sulla formazione del voto, durante la sua espressione; ma, “prima” che si esprima, viene “indotto” nella comunità una sorta di orientamento autorevole, e non ancora autoritario: vale a dire, che il voto possa esprimersi solo su destinatari selezionati secondo certi criteri. Criteri, la cui posizione dipende, esclusivamente, da due Autorità: ciascuna, in astratto, indipendente dall’altra: Autorità Giudiziaria e Commissione Antimafia. Ma dal loro agire combinato, che si compone di, rispettive, “mezze competenze” (l’autorità giudiziaria non pronuncia dichiarazioni di voto, la commissione d’inchiesta non si occupa di reati), finisce col prendere corpo una sorta di terza entità: “la Commissione commissaria”. Se, rispetto al processo penale strettamente inteso, nell’Anno XXV dell’Era Mani Pulite, si era già conclamato il “non esistono presunti innocenti”, da oggi, per “trarre le conseguenze politiche”, direttamente dai materiali giudiziari ancora in formazione, si è costruita questa categoria nuova, “l’impresentabilità”: la “terra promessa” paranormativa dei primi, timidi, auspici del dottor Borrelli. L’onorevole Bindi ha dichiarato: “è un fatto gravissimo”. Ma non si riferiva all’accusa penale in sè: “così si droga il risultato elettorale”, ha proseguito, (De Luca) era “segnalato dalla Procura e dalla Prefettura”. Si riferiva alla concatenazione: l’avevamo detto, è mancata l’obbedienza; e si deve sapere che “gravissimo” è il disobbedire al “si induce”, non meno che al “si comanda”. Sicilia, insula feracissima.

Ardizzone: "Arresto De Luca non mi sorprende. La mafia è tornata all'Ars". Per il presidente uscente dell'Assemblea regionale siciliana, che non è stato rieletto, i partiti avevano il dovere di dire no agli impresentabili e Musumeci deve avere il coraggio di tenere la mafia fuori dal palazzo, scrive Mercoledì 8 Novembre 2017 "Tempo Stretto". "La notizia dell'arresto del primo deputato eletto non mi meraviglia, purtroppo avevo chiesto, inutilmente, che i partiti verificassero gli impresentabili, gente nota all'opinione pubblica che non risparmia nessun partito. I partiti avevano questo dovere, ma i candidati presidenti dovevano avere la forza e il coraggio di imporre ciò nella formazione delle liste". E' quanto denuncia all'Adnkronos Giovanni Ardizzone, Presidente uscente dell'Assemblea regionale siciliana, commentando l'arresto di Cateno De Luca. "In questi anni, ho tenuto lontana dal palazzo la mafia, che c'è e resiste e, purtroppo, è tornata. Perchè la corruzione è mafia. Mi auguro che Musumeci, che ne ha le qualità, sappia resistere alle sollecitazioni che gli impresentabili sicuramente gli faranno. Se, per necessità, Musumeci si è fatto carico in queste elezioni del loro voto, una volta eletto, dovrà avere il coraggio, che non gli manca, di tenerli fuori", ha aggiunto.

Sicilia, impresentabili e liste specchiate: arrestato anche un grillino, scacco matto al giustizialismo a cinque stelle. Con oggi ogni schieramento all’Ars ha il suo impresentabile, segno che il terremoto giudiziario e politico che si sta abbattendo in Sicilia non risparmia nessuno degli eletti e dei candidati a Palazzo d’Orleans, scrive il 14 novembre 2017 Serena Guzzone su "Stetto Web". “Il M5s mi chiede di scusarmi per la vicenda che ha coinvolto il neo deputato Cateno De Luca? Loro farebbero bene a guardare all’interno delle loro liste”. Così giorni fa Musumeci replicava alle accuse mosse dai Cinquestelle dopo l’arresto del neo deputato De Luca e mai parole furono più vere, dal momento che con oggi viene a galla che anche le liste del M5s in Sicilia non erano poi così specchiate. Sale a tre il numero degli arresti “eccellenti” della compagine politica siciliana e stavolta nel mirino ci è finito un grillino. La macchina della giustizia non fa sconti, neanche nei confronti di chi, come i pentastellati, hanno giocato tutta la campagna elettorale a colpi bassi, ergendosi a paladini della legalità, additando gli impresentabili delle altre liste. Stamane La Squadra mobile di Agrigento ha infatti tratto in arresto con l’accusa di estorsione Fabrizio La Gaipa, imprenditore di 42 anni, primo dei non eletti della lista M5s nella provincia di Agrigento alle elezioni regionali siciliane.  Con oggi ogni schieramento all’Ars ha il suo impresentabile, segno che il terremoto giudiziario e politico che si sta abbattendo in Sicilia non risparmia nessuno degli eletti e dei candidati a Palazzo d’Orleans. Con La Gaipa sono quindi tre ad oggi gli impresentabili eletti o solo candidati all’Ars tratti in arresto, ecco di chi si tratta: 

Cateno De Luca, il leader di Sicilia Vera, ha sostenuto la campagna elettorale del neo presidente della Regione Nello Musumeci ed è stato arrestato a 48 ore dallo spoglio con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale, per un totale di circa un milione e 750mila euro di tasse evase. De Luca è stato rieletto dopo cinque anni con 5.400 voti.

Grane con la giustizia anche per Edy Tamajo, neo deputato di Sicilia futura indagato dai pm di Palermo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Il “mister preferenze” di Trapani è stato eletto nella coalizione di centro/sinistra e supportava la candidatura a governatore di Micari: è accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Il 41enne eletto all’Ars è il candidato che appoggiava Fabrizio Micari, all’interno della lista dell’ex ministro Cardinale. Ha totalizzato esattamente 13.984 preferenze, 8.038 delle quali a Palermo. Secondo l’accusa avrebbe comprato i voti del 5 novembre in Sicilia al prezzo di 25 euro a preferenza.

Il grillino La Gaipa sarebbe accusato da dipendenti dello stesso imprenditore che gestisce un albergo ad Agrigento. Con oltre quattromila voti il 5 novembre è stato il primo dei non eletti subito dopo Matteo Mangiacavallo (14 mila voti) e Giovanni Di Caro (5.900 voti).

“Musumeci stamattina in un’intervista ha detto che gli impresentabili sono un problema di tutti. Mente nuovamente!” diceva Cancelleri qualche giorno fa, aggiungendo che “sono un suo problema, visto che non solo li ha portati in Parlamento, ma uno glielo hanno pure già arrestato. I condannati ce li ha lui nella sua maggioranza. Uno glielo hanno arrestato e per gli altri è conto alla rovescia. A Musumeci dico che per porre fine agli impresentabili non servono codicicchi etici che puntualmente poi non rispettano, come quello scritto proprio da Musumeci quando era presidente della commissione antimafia e che neanche lui ha rispettato. Sia serio, se riesce a esserlo, e la finisca di mentire ai siciliani”.

Parlano gli avvocati Carlo Taormina e Tommaso Micalizzi: "L'obiettivo era metterlo fuori dalla politica". Cateno De Luca: "Contro di me le lobby, ma non mi arrendo", scrive Venerdì 10 Novembre 2017 "Tempo Stretto". “La sentenza di oggi mette fine ad un'odissea giudiziaria che aveva come unico obiettivo quello di mettere fuori gioco dalla politica un uomo di talento e di grande spessore umano come l'on. Cateno De Luca". A dirlo il collegio di difesa del neo deputato regionale dell'Udc-Sicilia Vera composto dal professor Carlo Taormina e dall'avvocato Tommaso Micalizzi, dopo la sentenza del tribunale di Messina che ha assolto De Luca nel processo nato su una presunta speculazione edilizia a Fiumedinisi. "Sono quindici i processi nei quali ha ottenuto un'assoluzione o un'archiviazione, ed è chiaro che si è trattata di una persecuzione per fermare un personaggio scomodo, non controllabile. Tuttavia, questi anni di processi sono serviti ad alcuni detrattori come alibi per fomentare odio nei confronti dell'ex sindaco di Fiumedinisi. Riteniamo che questi anni abbiano costretto l'on De Luca a rallentare il suo percorso politico danneggiandolo oltremodo, ma non sarà più permesso a nessuno di creare ad hoc altre infamie contro un amministratore capace, onesto e sempre al servizio della comunità. Anche l’ultima vicenda relativa all'arresto per evasione fiscale, avvenuta con una tempistica alquanto inusuale abbia contorni poco chiari che cercheremo di evidenziare, dimostrando anche in questo caso la totale estraneità ai fatti contestati di De Luca. Sembrerebbe che ci siano regie occulte anche in questo caso solo con lo scopo di danneggiare l'uomo politico nei momenti cruciali.  Uno stato di diritto prevede che sia la giustizia a decidere su queste vicende, ma sin da ora annunciamo che non permetteremo altre speculazioni sulla questione". Il neo deputato dell'Udc che si trova ai domiciliari, ha autorizzato i suoi legali a diffondere queste sue dichiarazioni: "I giustizialisti a tempo, gli ipocriti a comando, gli avvoltoi sempre vicini alla stanza dei bottoni e i leoni da tastiera saranno rimasti delusi anche da questa sentenza, la quindicesima a mio favore in cinque anni. Speravano fossi condannato per poter gridare allo scandalo, ma ora non avranno nemmeno la decenza di chiedere scusa per le tante nefandezze scritte o dette.  Io ho sempre agito per il bene comune e volevo solo realizzare delle opere pubbliche utili per il mio territorio. Da parte mia c'è sempre e solo stato il desiderio di servire la mia comunità e di agire per lo sviluppo della mia terra.  Penso che i giudici abbiano compreso le mie vere intenzioni, ed io ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ritengo che questo processo, insieme agli altri nei quali stato assolto, rappresenti un esempio per tutti i perseguitati dell'ingiustizia. E' stato un periodo difficile per me, per la mia famiglia e per i miei sostenitori ma le lobby, le consorterie non mi fermeranno, come non ci sono riuscite fino ad ora”. De Luca si è detto ottimista anche relativamente alla nuova vicenda giudiziaria che domani lo vedrà interrogato dal giudice e che definisce “arresto ad orologeria”. Annuncia inoltre di aver dato mandato ai legali per agire nei confronti di quanti “Durante questa azione mediatico giudiziaria che mi ha messo al centro dell'attenzione nazionale, hanno fatto dichiarazioni false e molto lesive della mia onorabilità. Non permetterò che i burattini del teatrino della politica gettino ulteriormente fango su di me. Mi fa sorridere vedere alcuni personaggi venuti dal Nord ergersi ora a paladini del Sud e a difensori dell'etica. Prima di parlare di me pensino al loro partito più volte al centro di scandali vergognosi. Così, come non permetterò a qualche trombato dell'ultima ora di sfogare il suo piccolo ego lanciando anatemi contro di me, solo per trovare una giustificazione al motivo per il quale gli elettori hanno pensato bene di non dargli più fiducia dopo che la sua azione politica è stata un fallimento”. Cateno De Luca conclude dicendosi pronto a “sfidare” chiunque in un dibattito pubblico sui temi dell’isola e si dichiara pronto a tornare all’Ars per continuare le sue battaglie contro gli sprechi avviate in questi anni.

Cateno De Luca dilaga su Facebook: e il gip lo censura, scrive il 14/11/2017 "Il Giornale D’Italia". Il deputato agli arresti domiciliari ha esultato “troppo” sul social network per l’assoluzione da un precedente provvedimento. Troppo smodato nei commenti. E la tagliola della magistratura si abbatte sul profilo Facebook dell’imputato eccellente. Con la variante del social network, quindi, un nuovo caso per far dividere gli italiani tra chi ritiene censurabile l’arroganza dei politici, chi lo strapotere dei magistrati e chi, forse la maggioranza, entrambi. Fatto sta che Cateno De Luca, ha esultato per l'assoluzione dal processo per concussione, abuso d'ufficio e falso in atto pubblico, per il cosiddetto "sacco di Fiumedinisi" (il Comune di cui era stato sindaco anni fa), non è passata inosservata. La procura non ha gradito e il gip, accogliendo l’istanza dei pm, ha inasprito la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei suoi confronti vietandogli ogni rapporto (anche telematico) con l’esterno. ll gip deve ancora pronunciarsi sulla richiesta di revoca della misura cautelare dei domiciliari, che sabato scorso i legali di De Luca hanno presentato. Intanto, però, un'altra tegola si è abbattuta sul deputato siciliano. Pare che i suoi avvocati gli avessero consigliato cautela, evitando di esporsi troppo. Ma De Luca non ha sentito ragioni e si è scatenato sui social, rivolgendosi pure direttamente al presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci: "La smetta di inseguire l’antimafia di facciata - afferma, non digerendo la presa di distanza del neo governatore - non invada anche lei il campo della magistratura con codici etici. Non sono diventato improvvisamente rognoso. Se lei oggi è presidente, lo deve anche al presentabile De Luca che a luglio scorso, mentre nel centrodestra la stavano scaricando, io l’ho pubblicamente sostenuta. Aspetto di confrontarmi con lei in parlamento sulle questioni vere". De Luca ha già fatto il nome del suo assessore per la giunta Musumeci: "Ho chiesto a Lorenzo Cesa di avanzare il nome del messinese Giuseppe Lombardo". De Luca, come si ricorderà, si trova agli arresti domiciliari per associazione a delinquere finalizzata all'evasione fiscale: il provvedimento è scattato poche ore dopo le elezioni regionali.

Accusato di evasione fiscale Sicilia, revocati domiciliari per neo eletto Cateno De Luca, scrive Rai news il 20 novembre 2017. Lui su Facebook: "Ora denuncio tutti" Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari Tweet Cateno De Luca assolto da falso e abuso d'ufficio. Prescritta la tentata concussione Sicilia, bufera politica dopo l'arresto di De Luca Evasione fiscale, arrestato neo deputato regione Sicilia De Luca. Lui: verrò assolto o archivieranno 20 novembre 2017 Il gip di Messina ha disposto la revoca degli arresti domiciliari per il neo deputato regionale Cateno de Luca, accusato di evasione fiscale sostituendo la misura con quella interdittiva del divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta.  Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza di De Luca ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari. La settimana scorsa, dopo le continue esternazioni sui social del deputato il gip aveva disposto il divieto di comunicazione con l'esterno. De luca su Facebook: e ora denuncio tutti" "Libero !". Così sbotta su Facebook il neo deputato regionale Udc Cateno De Luca, dopo la decisione del Gip di Messina di revocare gli arresti domiciliari cui era sottoposto dal 7 novembre. Peraltro gli era stato interdetto l'uso dei social dopo il suo massiccio utilizzo sin dall'applicazione della misura cautelare. "E vaff...  a tutte le forme di mafia compresa quella giudiziaria. Stiamo - avverte - denunziano tutti!".

Cateno De Luca libero: “Adesso denuncio tutti”, scrive il 20 novembre 2017 "Articolo tre". "Sono un uomo libero. State tranquilli. Il gip ha revocato l'arresto, il sequestro, ha sconfessato tutte le porcherie che noi abbiamo subito in questi giorni". Così il neo deputato regionale Cateno De Luca, con un video pubblicato sul suo profilo Facebook, annuncia la decisione di revoca degli arresti domiciliari. Il Gip del Tribunale di Messina ha revocato i domiciliari per il deputato Udc e Carmelo Satta, arrestati due settimane fa per associazione per delinquere finalizzata all'evasione fiscale. Il gip ha applicato nei loro confronti la misura interdittiva del divieto di esercizio di uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. In merito al sequestro, sono stati liberati dal vincolo i beni personali degli indagati. In sostanza, il Giudice ritiene che non sussistano ragioni cautelari tali da far permanere i due in vinculis, poiché entrambi - allo stato - non ricoprono cariche sociali negli enti Fenapi e i reati fine sono cristallizzati in atto, non vi è dunque pericolo d'inquinamento probatorio. L'esigenza di applicare il divieto di esercizio degli uffici direttivi nasce per "limitare la probabilità che possano ricostituire una nuova associazione". "Ho bisogno di due tre giorni per completare le denunce che stiamo presentando perché - afferma De Luca su FB - stiamo depositando tutto, per falso in atti giudiziari, per infedele patrocinio, per calunnia. Ce n'è per tutti. Ho bisogno di stare concentrato con i miei avvocati per un paio di giorni, poi faremo una bella conferenza stampa e ricominciamo la nostra attività politica". "Abbiamo un conto aperto - sottolinea - con alcuni personaggi nel tribunale di Messina e noi non stiamo assolutamente col capo chino: denunciamo qualunque tipo di mafia, anche quella giudiziaria. Andrò avanti con forza. Vi ringrazio, siete stati grandiosi, non mi è mancato il vostro calore".

Messina: revocati i domiciliari a Cateno De Luca, lui attacca i giudici su Fb. Per il deputato resta il divieto a ricoprire ruoli apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta per evasione fiscale, scrive Manuela Modica il 20 novembre 2017 su "La Repubblica". "Guardate che sono un uomo libero", annuncia così la revoca dei domiciliari, su Facebook, Cateno De Luca, il deputato Udc arrestato lo scorso 8 novembre per evasione fiscale. Il gip Carmine De Rose ha accolto la richiesta di revoca avanzata dal difensore di De Luca, Carlo Taormina, durante l’interrogatorio di garanzia. Il gip ha però riconosciuto la fondatezza delle accuse disponendo la misura interdittiva a ricoprire ruoli apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta per evasione fiscale. Le esigenze cautelari erano venute meno da quando Carmelo Satta, arrestato anche lui nell'inchiesta, si era dimesso dalla Fenapi, l'ente principale dell'inchiesta. E De Luca torna a sfogarsi sul social network dopo che martedì, 14 novembre, il gip aveva ristretto i limiti della misura cautelare dell’ex sindaco di Fiumedinisi impedendo la comunicazione con l’esterno e l’utilizzo dei social network. "Due giorni, datemi due giorni", chiede De Luca nel video sul suo profilo, per raccogliere documenti e preparare denunce, avverte, mentre non risparmia ancora una volta la magistratura di Messina, che definisce addirittura "mafiosa": "Un conto aperto con alcuni personaggi della magistratura di Messina - ha detto esattamente De Luca -, noi denunceremo qualunque tipo di mafia anche quella giudiziaria". Anche dopo l’arresto De Luca aveva lanciato messaggi di fuoco contro massoneria e giudici tramite il suo profilo Facebook, aveva postato video e immagini, alcuni ritraevano anche la manifestazione in suo supporto dei fedelissimi sotto la sua abitazione a Fiumedinisi. A proposito delle dichiarazioni del neodeputato dell’Ars si è espressa in una nota Magistratura indipendente: «Esprimiamo solidarietà e vicinanza a tutti i magistrati del distretto di Corte d’Appello di Messina di recente destinatari di attacchi violenti volti a mettere in discussione l’onestà di tutta la categoria tacciata come corrotta», così esordisce la nota. «In particolare - prosegue la nota del gruppo di magistrati guidato da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano - è inaccettabile che un neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane, in costanza di detenzione domiciliare, ponga in essere, sia a mezzo social network sia all’interno di un Tribunale al termine di un processo a suo carico, condotte fortemente delegittimanti nei confronti della magistratura messinese definita "verminaio" e massonica». «Chiediamo che la Giunta esecutiva centrale dell’Anm intervenga e prenda posizione a tutela della magistratura messinese in luogo della Giunta esecutiva sezionale, il cui intervento potrebbe prestare il fianco a strumentalizzazioni e soprattutto potrebbe pregiudicare l’immagine di terzietà di coloro che sono e potrebbero essere chiamati a pronunziarsi sulla condotta contestata al deputato», conclude la nota di Mi.

De Luca torna in libertà e si scatena: "Ora denuncio la mafia giudiziaria". L'attacco del deputato Udc: «Certi magistrati infangano la toga», scrive Mariateresa Conti, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale".  «Scateno De Luca», diceva un suo manifesto elettorale di qualche anno fa, giocando sul suo nome. E si è scatenato davvero, ieri, su Facebook, Cateno De Luca, il deputato regionale siciliano arrestato per evasione fiscale appena chiuse le urne che il 5 novembre scorso lo avevano rieletto, nelle file dell'Udc, con una valanga di preferenze. Eh sì, perché ieri il Gip di Messina, accogliendo le richieste della difesa, ha revocato il suo arresto rimettendolo immediatamente in libertà al termine dell'interrogatorio di garanzia. Una vittoria che arriva a pochi giorni da un'altra importante sentenza, quella che ha assolto lo stesso De Luca in primo grado dall'accusa di abuso d'ufficio per il sacco edilizio di Fiumedinisi, il comune del Messinese di cui è stato sindaco. Di qui il suo grido liberatorio, su Facebook: «Libero!... E aff... tutte le forme di mafia compreso quella giudiziaria!». Un post accompagnato da un video in cui annuncia che nel giro di pochi giorni denuncerà investigatori e magistrati messinesi, gli artefici, a suo dire, della persecuzione giudiziaria nei suoi confronti: «Giudicate voi, in 7 anni 15 procedimenti penali tutto archiviato, assoluzioni, per le prescrizioni faremo appello». Un attacco durissimo, quello di De Luca, che sin dall'inizio, sino a quando i giudici non gliene hanno inibito l'uso durante la detenzione, si è difeso sui social protestando la sua assoluta innocenza. «Le mafie dei palazzi - si è sfogato uscendo dal Palazzo di giustizia - non si possono accettare supinamente. Io presenterò il terzo esposto nei confronti di determinati personaggi che continuano a sporcare questo palazzo. Faremo nomi e cognomi, si tratta di magistrati, qualche pubblico ministero, organi inquirenti che hanno infangato, falsificato in atti giudiziari tante cose. Stiamo completando le denunce». Sulle accuse ai magistrati è intervenuta con una nota Magistratura indipendente, che ha espresso solidarietà ai colleghi chiedendo l'intervento della giunta esecutiva centrale del sindacato delle toghe: «È inaccettabile che un neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane ponga in essere, sia a mezzo social network sia all'interno di un Tribunale al termine di un processo a suo carico, condotte fortemente delegittimanti nei confronti della magistratura messinese definita verminaio e massonica». In attesa delle ulteriori denunce, caduti gli arresti domiciliari, De Luca potrà insediarsi all'Assemblea regionale siciliana alla prima seduta utile. E intanto va anche oltre, visto che ha manifestato l'intenzione di candidarsi a sindaco di Messina, dove si voterà nel 2018. A De Luca era stato contestato di avere sottratto al fisco circa 1 milione e 750mila euro. Il difensore del deputato, l'avvocato Carlo Taormina, ha chiesto l'incidente probatorio.

Sicilia, scarcerato Cateno De Luca: «Ora denuncio la mafia giudiziaria». Il gip del tribunale di Messina ha deciso di revocare gli arresti domiciliari al deputato siciliano che fuori dal palazzo di giustizia attacca al magistratura: «Noi denunciamo qualsiasi tipo di mafia anche quella giudiziaria», scrive il 20 novembre 2017 "Lettera 43". Cateno De Luca si è scatenato, dopo che il gip gli ha revocato i domiciliari a 12 giorni dall'arresto per evasione fiscale e a 10 giorni dall'assoluzione in primo grado per il sacco di Fiumedinisi, davanti alle colonne del tribunale messinese ha accusato «un sistema in cui ai magistrati non si può dire che hanno fatto una minchiata» e quei pm che «infangano e falsificano la giustizia». «Abbiamo un conto aperto con alcuni personaggi del tribunale di Messina», ha detto ancora il deputato regionale del Centrodestra, «Noi non stiamo col capo chino, noi denunciamo qualsiasi tipo di mafia anche quella giudiziaria. Il Gip ha sconfessato porcherie che abbiamo subito».

PER IL GIP GLI INDIZZI DI COLPEVOLEZZA RESTANO GRAVI. Il giudice Carmine De Rose ha annullato i domiciliari e imposto la misura interdittiva del divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta sull'evasione fiscale, di cui De Luca è direttore generale. Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari. De Luca si è poi scagliato contro «i geometri improvvisati che non hanno mai versato un contributo Inps e stilano liste di impresentabili». «Faccio la politica del 'fare', non mi piacciono i fannulloni che prendono lo stipendio e si ricandidano». Il deputato siciliano ha annunciato l'intenzione di andare avanti nel progetto per la sindacatura a Messina: «Se la città mi vuole io ci sono. È il simbolo della battaglia politica». «Ho fatto due esposti e il 21 ne farò un terzo: falso in atti giudiziari, calunnia, infedele patrocinio», ha spiegato, «Denuncio chi sporca il Palazzo di giustizia, chi si vendica perchè gli si dice che ha sbagliato. Chiedetelo al pm Vincenzo Barbaro, l'abbiamo denunciato. Domani mi arrestano di nuovo? Ci siamo abituati, la valigia per la cella è già pronta». «È possibile», ha continuato, «che mi hanno abbiano fatto sei indagini e quattro verifiche in sette anni sulle carte finanziarie?» si è chiesto il deputato regionale che ora potrà sedere all'Assemblea regionale siciliana non appena verrà convocata dal presidente della Regione Nello Musumeci.

DOMICILIARI REVOCATI ANCHE A SATTA. De Luca dopo la notizia della revoca dei domiciliari, disposta anche per Carmelo Satta, ex presidente della Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, su cui ruota l'inchiesta per evasione fiscale, ha partecipato all'udienza del tribunale della libertà cui è stato chiesto di togliere anche la misura interdittiva e di dissequestrare i beni immobili della Fenapi: il gip ha già dissequestrato i conti correnti della federazione e di De Luca. L'avvocato Carlo Taormina, uno dei legali del politico ha detto: «Noi non siamo ancora soddisfatti perché l'ordinanza del giudice è un pochino confusa ed evidentemente preoccupata di raggiungere quello che era il suo obiettivo cioè scagionare totalmente De Luca e quindi ci sono incertezze che vogliamo fare eliminare». Rivolgendosi ai giornalisti Taormina ha anche detto: «Sono sorpreso che una stampa attenta non capisca cosa è accaduto. Se sei anni fa De Luca è stato arrestato riciclando un processo nel quale era stato tutto archiviato e ora dopo sei anni viene fatta la stessa operazione rispetto a processi di carattere fiscale nei quale c'era già stata la sentenza di non doversi procedere del gup di Messina, tutto ciò non vi lascia perplessi?».

TAORMINA: «OPERAZIONE GUIDATA DA QUALCUNO». «Se poi l'arresto dopo le elezioni non vi dice ancora nulla», ha concluso, «dubito del vostro equilibro. È chiaro che nei confronti di De Luca c'è un'operazione guidata da qualcuno che abbiamo già individuato. Vi rendete conto che rispetto al sacco di Fiumedinisi è stato deciso che il fatto non sussiste e un gip dopo un interrogatorio di garanzia giunge alla conclusione di revocare i domiciliari? Contro di lui c'e' killeraggio».

De Luca libero attacca i Pm. Il parlamentare finito ai domiciliari per «evasione fi scale» è stato scarcerato dal Gip. «Se la città mi vuole mi candido a sindaco, andrò all’Ars per insediarmi», scrive Nuccio Anselmo il 21/11/2017 su "Gazzetta del Sud". Niente più arresti domiciliari nella sua casa di Fiumedinisi per l’on. Cateno De Luca, che da ieri mattina è tornato libero perché «... il quadro indiziario pur non risultando del tutto caducato nella sua complessiva gravità e consistenza... appare meno schiacciante e più sfumato». A tredici giorni dal suo clamoroso arresto per evasione scale della “galassia Fenapi”, il 7 novembre scorso, appena due giorni dopo essere stato eletto all’Ars, il parlamentare regionale è tornato in libertà su decisione del gip Carmine De Rose, che ieri mattina ha depositato su questa vicenda un lungo provvedimento di tredici pagine per spiegare i motivi delle sue decisione. Il gip ha sostituito i domiciliari con una misura meno afflittiva, il “divieto di esercizio di uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese”, ovvero una misura interdittiva. Identica sorte giudiziaria il gip ha deciso per l’altro indagato dell’inchiesta che era finito ai domiciliari il 7 novembre scorso come presidente della Fenapi nazionale ed ex sindaco di Alì, Carmelo Satta, che nel frattempo si è dimesso dalla carica. Anche per lui quindi, fine dei domiciliari e misura interdittiva. Un altro aspetto importante del provvedimento è legato al cosiddetto “sequestro per equivalente” disposto contestualmente all’arresto dei due, per oltre un milione e 700 mila euro, la somma cioè che si presume sia stata evasa al fisco dalla “galassia Fenapi”. Il gip De Rose ha accolto le richieste dei legali di De Luca e Satta, formulate in sede di interrogatorio di garanzia, ed ha in pratica “spostato” il sequestro, indirizzandolo non più sui beni personali e sui conti correnti dei due indagati e sui beni economici del “Caf  Fenapi srl”, come era stato deciso in un primo momento, ma sugli strumenti finanziari in attivo e soprattutto sul patrimonio immobiliare dello stesso “Caf Fenapi srl”, «... già stimato per un valore di oltre due milioni di euro...». Nelle sue tredici pagine il gip De Rose passa in rassegna tutta la vicenda, a cominciare dalle ipotesi d’accusa formulate dal sostituto procuratore Antonio Carchietti, e le struttura in cinque punti: l’illecito risparmio d’imposta; l’associazione a delinquere; le tre società di servizi come “complici” dell’evasione scale (Dioniso srl, Sviluppo Sociale srl, Delnisi srl); l’emissione “a supporto” dell’evasione di fatture per operazioni inesistenti; il presunto “ostacolo” alle indagini con atti «... inconferenti e avulsi». Rispetto all’associazione a delinquere ipotizzata, premettendo che De Luca è innegabile che «... abbia sempre rappresentato il referente apicale...», spiega poi che a suo avviso «... l’apporto degli ipotizzati singoli associati ai fini perseguiti ed ancor prima alle dinamiche illecite associative, deve considerarsi blando e sfumato... ai limiti del concorso»; in relazione poi alla «attualità del vincolo associativo» afferma che «... è ad oggi poco apprezzabile». Il “nocciolo” del provvedimento è legato poi ai reati fiscali contestati. Il gip scrive infatti che «... anche in termini di esiti di vaglio tecnico ad opera di terzi Organi Giudiziari Tributari... ci si trova di fronte ad un compendio indiziario che si reputa non del tutto granitico, dirimente ed indiscutibile». Il riferimento è alla produzione difensiva «... segnatamente da parte della difesa del Satta», sul ricorso che pende alla Commissione tributaria su questi fatti, organo che ha emesso «... un provvedimento di sospensione dell’esecutività degli avvisi di accertamento». Un fatto che «... è indubbio» produca un effetto «... se non altro, riconducibile ad una plausibilità di fondatezza del ricorso».

"98zero" intervista l’Avvocato Taormina: “De Luca deve fare il presidente della Commissione Antimafia Regionale”, scrive Enzo Cartaregia il 22 novembre 2017. Le rabbiose urla di Cateno De Luca squarciano le prime pagine della stampa nazionale. Sulla soglia del tribunale di Messina, il deputato regionale eletto ed arrestato nel giro di poche ore non perde tempo ad aprire una nuova fase del proprio conflitto con le toghe. Ed appena rimesso in libertà, De Luca rompe le attese: parla en tranchant di “mafia giudiziaria”, incassato in appena dodici giorni il dietrofront sugli arresti domiciliari legati all’inchiesta Fenapi. E’ tutto un record, nella storia di De Luca: assolto quattordici volte in altrettanti processi, l’onorevole eletto nelle liste dell’UDC riverserà oggi negli uffici della procura di Reggio Calabria una valanga di documenti e denunce all’indirizzo di alcuni magistrati messinesi. E la sua vicenda è già un caso nazionale, se a confermarlo corrono anche le parole del capo del suo collegio difensivo, il prof. Carlo Taormina. Il celebre penalista, ai microfoni di 98zero.com, ha delineato i tratti del braccio di ferro tra la magistratura ed il proprio assistito, soffermandosi sul rilievo dell’inchiesta anche a livello nazionale e sul futuro in politica di Cateno De Luca.

Professor Taormina, ha definiti quelli di De Luca degli “arresti da Uganda”. Il GIP fa retromarcia perché si configura un abuso della custodia cautelare?

“E’ la dinamica dei fatti a dimostrare che ciò è stato. Abbiamo subito stigmatizzato il comportamento dell’autorità giudiziaria. Meno male che ci sono dei meccanismi correttivi all’interno della sua stessa struttura. Nello stesso interrogatorio di garanzia non potevamo dire molto di nuovo: sta però di fatto che un giudice ha ritenuto che il suo collega avesse commesso un errore. Aldilà di questo, suscitano forti perplessità le circostanze in cui l’arresto è stato fatto”.

Cosa non la convince, aldilà del merito dell’inchiesta?

“Credo sia la prima volta nella storia della Repubblica che un cittadino che viene eletto deputato, seppure regionale, venga arrestato dopo due giorni. Anzi, fossi nell’autorità giudiziaria io lo arresterei prima. Non sarebbe molto più logico, per impedire che venga eletto?”.

La legislatura non è ancora cominciata. E se non fosse stata disposta la scarcerazione?

“Così facendo è stata messa a rischio la costituzione della stessa Assemblea Regionale. La legge dice che sono settanta, i deputati e che entrano in Sala d’Ercole tutti insieme. L’arresto di De Luca non avrebbe comportato lo scorrimento al primo dei non eletti, ma la semplice impossibilità del parlamento di insediarsi. E’ gravissimo”.

Quattordici processi, nessuna condanna. Eppure nell’ordinanza di custodia cautelare è scritto che De Luca possiede “spregiudicatezza e pervicacia criminale”. Motivazioni e casellario giudiziario collidono?

“Queste parole dimostrano la pervicacia dell’autorità giudiziaria. Il suo operato è stato chiaramente smentito ed è questo l’unico punto fermo di questa vicenda. Per di più inserire nelle carte delle valutazioni di questo genere dimostra come ci sia una sorta di risentimento, fino all’iniziativa persecutoria nei confronti di una persona della quale nulla era possibile dire, come i fatti hanno dimostrato”.

De Luca ha urlato che smonterete l’impianto accusatorio pezzo per pezzo. In altri processi valutate la rinuncia alla prescrizione.

“La precedente inchiesta ha visto – salvo alcuni particolari su cui lavoreremo in appello – la totale assoluzione dell’on. De Luca. Per i fatti contestati in questi giorni è evidente che la scarcerazione disposta dal GIP passa addirittura dall’esclusione dell’esistenza degli indizi di colpevolezza. Se non è questo fumus persecutionis, non ci sarebbe possibilità di trovarne altro esempio…”

L’ennesimo capitolo del conflitto tra eletti e procure. Ma teme che la rilevanza mediatica assunta dal caso possa forzare gli equilibri nelle aule del palazzo di giustizia?

“Mi auguro che De Luca sia fermo nell’iniziativa che ha intrapreso e nella volontà che ha manifestato. L’onorevole vuole partire dalla sua vicenda per dimostrare il marciume della giustizia italiana. Come dal punto di vista politico la Sicilia vorrebbe essere, dopo queste elezioni, la fonte della rinascita per il nostro paese, così tutto quello che sta accadendo attorno alla persona di Cateno De Luca si vorrebbe che fosse l’inizio di un percorso che abbatta questa giustizia politicizzata, fatta di rancori, di iniziative personali, di magistrati che si sovrappongono ad altri magistrati e li obbligano ad assumere certi azioni”.

Le regionali in Sicilia hanno inaugurato, nel linguaggio politico, la stagione degli “impresentabili”. Da insigne espero del diritto non crede che, nei termini di legge, sia un dibattito sgrammaticato? 

“Giuridicamente l’unico impresentabile è quello che, per legge, non può essere nemmeno candidato. Servono sentenze passate in giudicato per definire un cittadino così, o al massimo situazioni come quelle previste dalla legge Severino. Una legge, tra l’altro, che è certamente incostituzionale. Si è quindi trattato di un linguaggio inaugurato dalla Commissione Antimafia, che naturalmente ha preso il sopravvento in un mondo politico vuoto di potere, vuoto di autorevolezza. Quest’organismo parlamentare è diventato uno strumento di battaglia politica per escludere chi non è gradito, o comunque è un pericoloso avversario”.

E De Luca lo è?

“E’ certamente un uomo pericoloso. Non dimentichiamo che il 5 novembre ha portato circa 10.000 voti alla coalizione di quel presidente Musumeci che oggi lo schiaffeggia. Quegli stessi voti che probabilmente sono stati determinanti per la sua vittoria. Ha dimostrato nella sua storia di saper mettere in crisi la regione siciliana, avendo tallonato prima Cuffaro e poi Lombardo, riducendoli alla necessità di abbandonare il terreno”.

Più che la regione, però, al suo assistito interessa la città di Messina.

“Ed è infatti quella stessa persona che ha fatto battaglie antimafia a non finire nella città di Messina ed oltre, schierandosi contro i poteri forti ad iniziare la massoneria. Pare naturale che nel momento in cui ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco della città dello Stretto ha scatenato il caos all’interno di questi corpi”.

Come spiega la ripresa della vicenda giudiziaria riguardante la Fenapi?

“Dobbiamo essere consapevoli che proprio la magistratura si è fatta braccio esecutivo, nell’attacco dei poteri forti. Credo non a caso che quel Palazzo di Giustizia abbia bisogno di essere ben visitato, perché i tanti magistrati onesti e competenti che lo abitano vengono sporcati da alcuni che perseguono invece obiettivi diversi”.

Cateno De Luca continua quindi la corsa a Palazzo Zanca?

“La carriera politica di De Luca ha ormai bisogno un respiro ben più ampio. Personalmente gli ho sempre consigliato di iniziare a pensare ad una collocazione nel parlamento nazionale, invece che di passare da Messina. Lui fa dell’amministrazione la politica, seppure si faccia sempre l’inverso. E’ questo il suo tratto distintivo e naturalmente i territori sono il luogo privilegiato della sua azione. Credo allora che non riuscirò a sottrarlo all’iniziativa di correre per la poltrona di sindaco di Messina. Mi auguro che ci riesca”.

Con dicembre parte la nuova legislatura in regione. E Musumeci lavora alla giunta. De Luca si insedia, ma come gli ha consigliato di muoversi?

“Intanto gli ho raccomandato di rifuggire dall’assunzione di responsabilità di governo. Seppure queste gli spettano, per il consenso popolare che ha totalizzato, l’ho consigliato di non farlo né di indicare persone di fiducia al suo posto. Ciò che deve fare Cateno De Luca è un’altra cosa”.

Ovvero?

“L’onorevole De Luca deve andare a fare il presidente della Commissione Antimafia di Palazzo dei Normanni. E’ quello il suo posto. Da lì potrà dimostrare come si comporta un cittadino onesto che ha deciso di dare le sue forze alla politica”.

Cateno De Luca si difende: "La sentenza mi dà ragione". Scrive "Live Sicilia" martedì 21 novembre 2017. "Mi è arrivata in questo momento la sentenza della commissione tributaria provinciale che attendevamo da tempo: ha stabilito che non c'è evasione né raggiri né “tracchigi” come aveva ipotizzato il pubblico ministero che mi ha fatto arrestare. L'altra cosa importante è che oltre il 50% dei costi la commissione provinciale tributaria provinciale li ha riconosciuti inerenti cioè legittimi". Lo dice in un video su Facebook il deputato regionale dell'Udc Cateno De Luca, indagato con l'accusa di evasione fiscale. Ieri il Gip di Messina ha disposto la revoca dei domiciliari sostituendoli col divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta. "Aspettiamo un'altra sentenza - prosegue-, però ci tenevo a dirvi che l'organo tecnico, deputato a fare queste valutazioni, è la commissione tributaria e ieri ha depositato questa sentenza; il che significa che più di qualcuno dovrebbe essere ricoverato in qualche manicomio psichiatrico". (ANSA). Con una sentenza depositata lo scorso 16 novembre, la Commissione tributaria di Messina ha accolto parzialmente il ricorso presentato dalla Fenapi il 15 gennaio 2016, contro l'Agenzia delle entrate e riguardante alcuni avvisi di accertamento per l'attività dell'ente di formazione Fenapi (di cui il deputato regionale Cateno De Luca, uscito ieri dagli arresti domiciliari, era presidente) negli anni che vanno dal 2007 al 2010. Secondo gli accertamenti compiuti dalla Guardia di finanza, la Fenapi non avrebbe potuto operare la deducibilità fiscale di alcuni costi. Gli imponibili, nei quattro anni, ammontano a oltre 1,7 milioni di euro. La Commissione, nell'accogliere in parte il ricorso, ha stabilito il ricalcolo degli importi soggetti a tassazione. (ANSA).

Giustizia a orologeria “ma non mi farò macinare dal fango”, scrive mercoledì 15 novembre 2017 Adriano Todaro su "Giro di vite". Cateno? Ma che nome è Cateno? Come si fa uno a chiamarsi Cateno? Non era meglio Alfio o Filippo? Oppure Giovanni, oppure Ignazio? Eh no, troppo semplice. Così ho fatto delle ricerche e ho appreso che Cateno è un bel nome, di sapore antico, che ha una storia che risale, nientemeno, al terzo secolo prima di Cristo. Erano definiti così gli schiavi che stavano in cima e in fondo alla fila degli incatenati. E così i siciliani, che sono esperti, ogni tanto, come buon auspicio, chiamano così il figlio nato alla fine o all’inizio dell’anno. Allora ricapitoliamo: Cateno De Luca, detto confidenzialmente Scateno, è nato il 18 marzo del 1972. Mese sbarazzino e ventoso, terzo mese dell’anno e ha, quindi, tutto il diritto di chiamarsi Cateno. Fin qua ci siamo. Bisogna poi dire che tutti noi quando nasciamo, abbiamo già una strada tracciata e un carattere che si forma già dopo i primi mesi di vita. Cateno, così ha deciso il fato, in tutta la vita dovrà sempre svolgere il ruolo di cireneo, quello che ha aiutato Cristo a portare la croce. Fin dalle elementari che frequentava in via Roma, a Fiumedinisi in provincia di Messina, si era fatto notare per la precoce intelligenza e per la bontà insita nel suo animo. I compagni, però, ne approfittavano di questa sua mitezza e si facevano fare da lui i compiti. Cateno assolveva questa incombenza con spirito di missione, di sacrificio così come ha fatto, anni dopo, come sindaco proprio di Fiumedinisi e consigliere regionale. Diventato adulto, dopo essersi laureato in Giurisprudenza, ha cominciato a interessarsi di politica. Quando però sei cireneo, cireneo rimani e così ha portato al fascista gentile, Musumeci, ben 93 mila e 232 voti. Invece di essere ringraziato, Cateno si è trovato con le catene ai polsi. E questo non è giusto. Altro che giustizia a orologeria; in questo caso l’orologio si è fermato al 1992 quando si arrestavano i politici. Un secolo fa. Ora siamo in una fase nuova, siamo moderni e ottimisti anche nel rubare. E poi, dai, arrestare un politico all’indomani di una vittoria elettorale non è neppure fine. E perché l’hanno arrestato? E’ accusato, figuriamoci, di essere tra i promotori di un’associazione per delinquere finalizzata a una rilevante evasione fiscale, quantificata in circa 1.750.000 euro. Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere. Chi non evade in Italia? Lo faccio anch’io quando posso e do anche un aiutino. Ad esempio quando non chiedo lo scontrino al mio panettiere. Cateno ha anche un’altra particolarità: è uomo di pensieri profondi, di elaborazione scientifica, una vera testa in lega leggera. E così ha capito perché è stato mazzolato. In un video se la prende con i Pm, i poteri forti e la massoneria, e avverte parlando in terza persona: "Cateno De Luca non si farà macinare dal fango. Fino a quando avrà l’ultimo respiro, si difenderà in tutti i luoghi". Fa bene anche perché lui parla chiaro. Il suo slogan, infatti, era: “Su di me parlano i fatti”. Appunto. Uomo di profonde letture, nella sua pagina Facebook ci sono alcune massime cui lui ama. Una così recita: “Senza soddi non si canta a missa”. E così ha chiarito a tutti del perché dell’evasione. L’ha fatto per poter cantare "a missa". Lui, che proviene dalla Dc, sa bene che la messa importante è quella cantata e per questo ci voglio i “soddi”. Uno dei film più amati di Cateno è “Uccelli di rovo”. Padre Ralph è un ribelle ambizioso prete irlandese. Ribelle e ambizioso come Cateno perché, oltre a tutti gli incarichi che ha, voleva diventare anche sindaco di Messina, dopo aver costruito cinque piani di un Centro benessere, 16 villette e la realizzazione di un muro di contenimento del torrente Fiumedinisi, tutte opere che, secondo l’accusa, avrebbero favorito la società dell’allora sindaco Cateno. Tutto questo lo aveva fatto a fin di bene. Come padre Ralph. E, poi, pochi giorni fa, per questa speculazione, è stato assolto dall’abuso d’ufficio e prescritto per falso in atto pubblico e tentata concussione. Per fortuna il suo partito, l’Udc (che non è l’acronimo di Unione dei carcerati) lo difende dall’ultima accusa di evasione fiscale perché “convinti che De Luca sarà in grado di chiarire i fatti e di dimostrare la sua innocenza…”. Ne siamo convinti anche noi perché sarebbe un peccato non avere più nel Parlamento siciliano uno come Cateno che un giorno ha slegato non la catena ma la cravatta, si è tolta la giacca, la camicia, i pantaloni, per protestare contro l’allora presidente dell’Ars Gianfranco Micciché, rimanendo in mutande, per poi coprirsi con la bandiera della Sicilia, la Trinacria. Mizzeca che ciriveddru! (Sarebbe il cervello siciliano-Ndr). Uno così non lo trovate più, cari siciliani. Non fatevelo scappare. Manifestate per la sua libertà. Un màsculu unico nella sua specie. A proposito: il suo movimento si chiama “Sicilia Vera”. Pensate un po’. Se questa è la Sicilia vera, figuriamoci quella falsa.

Fascismi giudiziari e aggravanti televisive, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Assistiamo da anni a una aggressione giudiziaria, di stampo fascista. Penso agli insensati scioglimenti di Comuni per mafia, all'arresto plateale (seguito dall'incongrua liberazione) di Cateno De Luca, ai processi illegittimi come quello a Contrada, alle condanne arbitrarie di Dell'Utri e di Cuffaro, alle indagini su Berlusconi, e alla farsa degli alimenti a Veronica, conclusa con un risarcimento di lei a lui (in un impressionante squilibrio dei collegi giudicanti), al processo infondato per Mafia capitale, all'arbitrario arresto, fino a farlo morire, dell'innocente sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, all'inverosimile metodo Woodcock, all'abuso di Cantone su Carla Raineri. Una lunga serie di veri e propri errori, per ignoranza o malafede. Fino all'arresto di Spada, per «testata» con l'aggravante di mafia, in un carcere di massima sicurezza. «Ha sbagliato, ma non ci scordiamo che Sgarbi schiaffeggiò la Mussolini in diretta televisiva», ricorda il cugino di Spada. Ricorda male. Fu lei a farmi cadere gli occhiali, e io le dissi semplicemente: «Fascista». Vero invece, e più pertinente al caso Spada, che io spaccai il tapiro in testa a Staffelli. Certo un cattivo esempio. Il cugino osserva: «Ma dove sta questa mafia? La mafia ve la state inventando voi». Ha evidentemente ragione. Roberto Spada, nella sua aggressione era solo, e la mafia prevede una associazione. La sola aggravante è quella televisiva.

Brizzi, De Luca, Tavecchio: i tre volti della gogna, scrive Piero Sansonetti il 21 Novembre 2017, su "Il Dubbio". Il regista, il politico, il capo del calcio italiano, tre vicende diverse, ma il linciaggio mediatico è sempre lo stesso. Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica. Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente. Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi. Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto. Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella. Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: «Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano». E di seguito al twitt don Enzo – che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso – ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattrodicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate. Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa. Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno. L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa inconsiderazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

Gli abitanti di Corleone ora attaccano Saviano: "Diffama il nostro paese". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia", scrive Luca Romano, Giovedì 09/11/2017, su "Il Giornale". "Per l'ennesima volta, vergognosamente, l'immagine di Corleone e dei suoi cittadini onesti viene diffamata e additata". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia". "Il risveglio di stamattina ci lascia un po' l'amaro in bocca. Ci dispiace constatare che la nomea di Corleone città della mafia non riguarda solo persone andate avanti a pane e Padrino ma anche Roberto Saviano che da anni "combatte" contro la camorra e incontra quotidianamente persone che a causa della camorra hanno perso parenti, sorrisi e speranza - dicono i ragazzi del Museo sulla mafia di Corleone - L' avevamo invitato a venire: se solo avesse accolto l'invito, si sarebbe reso conto che Corleone sì, ha da raccontare storie di lupare e dolore, ma oggi può raccontare storie di grandi lotte e di riscatto". "Grazie Roberto Saviano per l'ennesima spinta indietro che ci costringi a fare - dicono - Noi barcolliamo un po', ma non perdiamo l'equilibrio e andiamo avanti camminando sulle idee dei giudici Falcone e Borsellino. La legalità ci ha insegnato e ci insegna ancora a splendere di luce propria...non riflessa "caro Saviano". Buona giornata da chi ogni giorno lotta per sentire il fresco profumo di libertà che non ha colore politico". Anche sui social c'è stata una rivolta contro le parole di Saviano. "Che delusione - scrive Patrizia Gariffo su Facebook - Dare un giudizio così netto e senza appelli, senza neanche essere venuto a Corleone. Prima di parlare, è bene pensare un po’, mentre lo storico Pasquale Hamel bolla Saviano come "un presuntuoso che ha speculato per creare il proprio personaggio". Dino Paternostro, storico attivista per i diritti di Corleone invita lo scrittore in città: "Roberto Saviano, vieni a visitare Corleone. Sarai mio ospite. Poi, solo poi, potrai dare un giudizio fondato sulla nostra città".

M COME ....

M COME MESSINA. Messana Nobilis et Siciliae Caput, scrive "Torrese". Mi accingo a … raccontare Messina, solo alcuni tratti della Sua storia gloriosa ed eroica che non ha eguali per le vicende straordinarie che nel corso dei secoli si sono succedute e per gli eventi naturali tragici che, purtroppo, l'hanno contraddistinta. Le origini della città peloritana sono molto remote, risalgono infatti al 750 a.C. quando coloni greci provenienti da Calcide (l’isola Eubea) la fondarono col nome di Zancle, dal greco "falce" per la forma arcuata del suo Porto: la penisoletta San Ranieri terminante nel bastione del San Salvatore che, appunto, lo racchiude. Secondo Diodoro il nome è dovuto alla sua fondazione da parte di Zancleo re dei Siculi. Zancle, favorita dalla sua strategica posizione geografica, al centro del Mediterraneo, ben presto si sviluppò fondando a sua volta altre colonie (Mylae e Hymera tra l’VIII e il VII secolo a.C.). Anassila, tiranno di Reggio, volendo estendere il suo dominio su entrambe le sponde dello Stretto, si impadronì della città e al posto dei Sami e dei Milesi vi insediò esuli Messeni. Zancle assunse così il nome di Messenion o Messene in onore della Messenia patria di Anassila. Le due dizioni sono presenti entrambe per qualche tempo nelle monete coniate a partire dal 493 a.C. Nel 427 a.C. Messenion fu alleata di Siracusa contro le mire conquistatrici dei cartaginesi i quali con Imilcone (396 a.C.) distrussero in parte la città che venne liberata e ricostruita quasi subito da Dionigi il Vecchio, poi fu soggetta a Dione e, successivamente a Ippone, Timoleonte e Agatocle. Dopo la morte di Agatocle, i Mamertini, soldati mercenari provenienti dall’Italia meridionale, col tradimento, si impadronirono della città nel 288 a.C.. Sconfitti da Gerone II di Siracusa nel 265, i Mamertini chiesero aiuto ai Cartaginesi prima e, quindi, ai Romani che liberarono Messana dall’assedio postole da Gerone II e dai Cartaginesi. Tale conflitto fu il primo atto delle tre Guerre Puniche (264 – 146 a.C.) e che porteranno i Romani alla conquista della Sicilia. Messana fu proclamata libera e alleata di Roma "civitas foederata", esente da tributi di guerra e di granaglie e Cicerone la definì città grandissima e ricchissima. Durante le guerre servili, solidale con Roma per la ribellione degli schiavi, fu in parte risparmiata dalle ruberie dei pretori e propretori in particolare da quelle tristemente famose di Verre, uomo politico, partigiano di Mario prima e di Silla poi, si rese responsabile di ladronerie e soprusi di ogni tipo. In seguito prosperò ancora divenendo un importante e fiorente centro commerciale e politicamente di primissimo piano. Dopo i fasti e gli splendori dell’età romana continuò ad avere grande importanza prima con gli Ostrogoti e poi con i Bizantini che la resero bella di monumenti e Messina godette di libertà amministrativa. L’imperatore bizantino Arcadio, nel 407 d.C., le dava un nuovo stemma in sostituzione dell’antico gonfalone con le tre torri, il manto imperiale traversato dalla croce d’oro e la nominava protometropoli della Magna Grecia e della Sicilia. Le mire conquistatrici del mondo musulmano prevalsero, Messina fu conquistata dai Saraceni e questo comportò una lenta ma progressiva decadenza; molte chiese e monasteri basiliani cristiani di rito ortodosso, costruiti dai Bizantini, vennero saccheggiati e distrutti, alcune chiese come l’Annunziata dei Catalani vennero trasformate in moschee. Con la dominazione Araba della Sicilia, la città venne fortificata per poter essere meglio protetta da altre invasioni, le opere difensive furono così imponenti che, dalle cartografie del tempo, Messina apparirà come una città- fortezza oltre che città-porto. In questo periodo la politica economica fu illuminata e meno esosa, i commerci aumentarono sempre grazie alla posizione geografica visto che il vasto mondo economico degli arabi si estendeva dalla Spagna alla Siria compresa tutta l’area del nord Africa gravitante nel Mediterraneo. Furono introdotte innovazioni in agricoltura, nella pesca, nell’estrazione mineraria e, soprattutto, nella tessitura e manifattura della seta. Con la conquista dei Normanni, Messina fu occupata nel 1061 da Ruggero II, tutta la Sicilia prosperò tantissimo in tutti i campi e in modo particolare in quello economico commerciale e artistico. Città libera, Messina è, in quel periodo, tra le più ricche e belle della Sicilia. La posizione geografica dello Stretto fu maggiormente valorizzata, la città Porta della Sicilia, per la sua floridezza economica, richiamò mercanti provenienti da ogni parte d’Italia che vi si stabilirono. Furono fondati fuori le mura conventi e monasteri basiliani e luoghi ospitalieri che dettero rifugio durante le lotte politiche, ospitarono membri delle famiglie regnanti e promossero la colonizzazione agricola dei territori e la pratica per attività economiche quali l’allevamento dei bachi, la tessitura della lana e della seta. Tra i monasteri famosi quello di Santa Maria della Valle comunemente denominato "Badiazza" in località S. Rizzo sui Monti Peloritani. Fu ricostruita e riportata alla cristianità la bellissima Annunziata dei Catalani. Al suo Porto fecero scalo e si dipartirono le navi dei Crociati diretti in Terra Santa; con l’editto di Ruggero II Messina ebbe il titolo di "Caput Regni", il Consolato del Mare che dirime le controversie di commerci e navigazione, la sua Zecca batte moneta per tutto il Regno con l’orgoglioso motto M.N.S.C. "MESSANA NOBILIS SICILIAE CAPUT" (la Zecca operò a Messina fino al 1678!). In quel periodo, sotto il profilo urbanistico, essa occupa il bacino arcuato che racchiude il bellissimo Porto e l’area prospiciente è dominata dal Palazzo Reale, caratterizzata dal Duomo, dall’Arsenale, dal Palazzo Arcivescovile e da mura turrite che includono fortezze. Dopo la morte di Guglielmo II il Buono finisce la dominazione dei Normanni in Sicilia. Che dire? Bellissima la Sicilia normanna, lo vediamo oggi con la magnifica rappresentazione di splendidi monumenti. Nel periodo Svevo, con Enrico VI, la città ottenne il privilegio di Porto franco ed incrementò i suoi traffici commerciali; si arricchì di nuove chiese e fra queste Santa Maria Alemanna la cui mirabile purezza delle linee architettoniche rappresenta oggi la più alta espressione dell’arte gotica nell’area del Mediterraneo, quella di San Francesco d’Assisi nel 1254 le cui caratteristiche absidi gotiche saranno immortalate in un dipinto di Antonello da Messina: la Pietà con tre Angeli. Con l'affermarsi della Scuola Siciliana, prima espressione poetica italiana, alla corte di Federico II ci fu un rifiorire della letteratura con i poeti messinesi Guido e Oddo delle Colonne, Mazzeo di Rico, Stefano di Proto. L’eroica resistenza di Messina nella guerra del Vespro (1282), assieme alle altre città siciliane con in testa Palermo, consentì, dopo la battaglia del Colle della Caperrina, la liberazione dell’Isola dagli Angioini che, in un primo tempo, erano stati accolti favorevolmente dalla popolazione. Carlo D’Angiò furiosamente la assediò e la bombardò incessantemente ma alla fine, il 26 dicembre 1282, dovette ripassare lo Stretto e ritirarsi. Durante i Vespri Siciliani anche le donne combatterono strenuamente e valorosamente, tra queste le messinesi Dina e Clarenza (le due figure sul Campanile del Duomo battono i quarti e le ore) che si distinsero per il loro eroismo. Per intercessione della SS. Vergine (cosi vuole l’immaginazione popolare), un Vascelluzzo "u vascidduzzu" carico di grano, approdò nel Porto di Messina sfamando la popolazione stremata e sul colle sorse, dopo il volo in cerchio di una colomba, il Santuario di Montalto. Pietro d’Aragona, si vide spianata la strada e, dopo la liberazione dell’Isola dagli Angioini, cinse la corona di Sicilia. La dominazione aragonese di fatto sancita con la pace di Caltabellotta del 1302 ben presto fu invischiata nelle lotte feudali che porteranno allo strapotere dei baroni e che influenzeranno negativamente tutta la storia politica, sociale ed economica della Sicilia. All’inizio del XV secolo Messina è città vitalissima, in questo periodo è tanto prospera da battere moneta propria con la sua zecca, è un pullulare di banchieri; il suo arsenale è così attrezzato da potere accogliere la commissione di costruire una flotta contro l’offensiva dei tunisini; l’industria tipografica esprime nomi di rilievo nell’arte della stampa. Fu in questo clima di prosperità che la città espresse il suo largo respiro sociale, economico e, soprattutto, culturale, attraverso l’opera e la figura di ANTONELLO. La città, così come l’entroterra costituito dai Peloritani, toccò il vertice della potenza economica nel XVI secolo; l’industria serica assurge a tali dimensioni che, su richiesta di setaioli di varia provenienza soprattutto toscani e veneti, viene concessa l’istituzione di un "Consolato della Seta" che conferisce alla Fiera di mezz’agosto un raggio di gravitazione europea e mediterranea. Messina assume un ruolo di primo piano anche nel campo culturale: viene fondata la prima Università degli Studi Siciliani, la quale era stata preceduta dalla istituzione di una scuola di greco illuminata dall’insegnante Costantino Lascaris. La prosperità economica portò ad una ristrutturazione dell’impianto urbanistico: all’imbocco del Porto venne costruito il forte di San Salvatore, un nuovo arsenale, la costruzione e l’ampliamento di opere murarie di fortificazione. Tali fortificazioni, di particolare rilievo durante la dominazione di Carlo V, cingeranno i colli immediatamente incombenti sulla città; ancora oggi, sulle alture, domina la cinquecentesca Fortezza dei Gonzaga. Nel 1571 nel Porto di Messina si concentrò l’armata cristiana che, al comando di Don Giovanni d’Austria, principe spagnolo (in Piazza Catalani è posta la statua bronzea), prescelto da Pio V come comandante della flotta navale della Lega Santa, sconfisse a Lepanto i Turchi. La città attraversa un periodo di grande prosperità legata al commercio di vari prodotti che transitano nel suo porto, ma soprattutto alla esportazione della seta autentico fiore all’occhiello del commercio messinese. Lungo tutto il fronte del porto viene costruita la "Palazzata" costituita da una lunghissima ed ininterrotta serie di palazzi che chiudono il porto con grande effetto scenografico. La città passò poi sotto la dominazione spagnola e le ampie libertà municipali di cui godette non furono gradite agli spagnoli che le considerarono una minaccia per la stessa corona e, quindi, tentarono di sopprimerle. Questo provocò una sommossa popolare contro di essi e nel 1674 il Senato messinese decise di ribellarsi al viceré Bajona chiedendo aiuto alla Francia; i messinesi, aiutati dal re Luigi XIV, che inviò una flotta sotto il comando di Duquesne ammiraglio francese, resistettero per quattro anni ma dovettero capitolare nel 1678 anche perché, il Re Sole, pago ormai delle vittorie nel Nord Europa e la conseguente pace di Nimega con la Spagna, abbandonò Messina al suo destino. La vendetta spagnola sarà inesorabile; di una violenza inaudita le feroci repressioni che il vicerè Benavides ordina e molti nomi illustri (tra questi Filippo Juvara) sono costretti ad abbandonare la città per l’esilio. Sarà attuata la soppressione a tappeto di tutti i privilegi di cui Messina godeva a cominciare dal Porto franco, viene chiusa l’Università e la Zecca ed abbattuto il Palazzo Senatoriale. Tutte le fortificazioni saranno ampliate con il concorso del tedesco Nuremberg (1679-81), sarà costruita la "cittadella" sulle rovine di magnifici palazzi e monumenti bellissimi che furono il vanto e lo splendore della città. Privata della sua autonomia politica e amministrativa Messina per molti anni vide scemare la sua importanza, poi lentamente si riprese, ma fu colpita da varie calamità che ne minarono seriamente la stessa sopravvivenza: nel 1743 la peste bubbonica uccise oltre 40.000 persone, nel 1783 un terremoto (1200 vittime) la danneggiò gravemente (fu distrutta quasi per intero la bellissima Palazzata). Ma ancora una volta l’inesauribile forza di volontà dei messinesi compie il miracolo di una graduale ripresa riparando e ricostruendo monumenti e opere architettoniche. Messina fu duramente oppressa dal governo dei Borboni che ne fecero un centro militare; partecipò attivamente ai moti insurrezionali del 1820 e del 1847-48. Nel settembre del 1848 la città fu occupata dalle truppe borboniche al comando del Filangieri dopo un pesante bombardamento che era stato ordinato da re Ferdinando II. Tra i patrioti messinesi che maggiormente si distinsero per la libertà della Patria vi fu Giuseppe La Farina uomo politico e storico italiano che partecipò al moto insurrezionale antiborbonico del 1837. Dopo lo scoppio della rivoluzione del 12 gennaio 1848 Giuseppe La Farina fu eletto deputato alla Camera, andò in missione diplomatica al campo di Carlo Alberto a Valeggio sul Mincio, fu ministro dell’istruzione e dei lavori pubblici, poi ministro della guerra e della marina e del Governo Siciliano. Esule, dopo la repressione della rivoluzione siciliana, a Marsiglia ed a Parigi, lavorò alla storia d’Italia dal 1815 al 1850. Città di Messina conferimento in data 22 maggio 1898 della Medaglia alle Città Benemerite del Risorgimento Nazionale con la seguente motivazione: "Per commemorare le azioni eroiche della cittadinanza nei gloriosi fatti del 1848 che iniziarono il risorgimento nazionale e la conquista dell'Unità. Messina partecipò a tutti i moti rivoluzionari siciliani, da quelli del '20-'21 a quelli del 22 marzo 1821 e 1 settembre 1847. Nel 1848, unitasi a Palermo nell'azione rivoluzionaria antiborbonica, la città fu terribilmente bombardata per otto mesi facendo meritare a Ferdinando II l'appellativo di Re Bomba". Nel 1860 Giuseppe La Farina appoggiò la spedizione di Garibaldi nel Mezzogiorno recandosi poi in Sicilia con l’incarico da parte del Cavour di cercare di spingere la Sicilia all’annessione al Piemonte. Nel luglio 1860 la città fu liberata dalle forze garibaldine guidate dal generale Giacomo Medici ad esclusione della Cittadella che resistette fino al marzo 1861. I piemontesi si rivelarono ben presto peggiori dei predecessori, l’erario molto esoso rimpinguava le casse sabaude impoverendo una popolazione allo stremo delle forze, ogni tentativo di protesta veniva soffocato barbaramente, divenne insostenibile anche poter sopravvivere, la povertà e la miseria ormai attanagliavano la Sicilia e l’emigrazione era divenuta ormai l’unica ancora di salvezza per condizioni di vita più decorose, consone ad un popolo che per millenni aveva conosciuto e fatto sue le civiltà più progredite. Dopo essere stata gravemente danneggiata da un altro terremoto nel 1894, fu completamente rasa al suolo da quello più terribile del 1908 con un contemporaneo maremoto dalla violenza distruttiva; si contarono oltre 70.000 morti. Fu una delle peggiori sciagure della storia e costò, per quei tempi, più vite umane di una guerra. I primi a venire in soccorso dopo il disastro furono gli equipaggi della Flotta della marina imperiale russa che si trovavano in esercitazione al largo di Augusta e con le navi Makaroff, Guilak. Korietz, Bogatir, Slava e Cesaretivc, al comando dell'ammiraglio Ponomarev, portarono aiuto ai messinesi salvando molti sotto le macerie ancora vivi, recuperando in mare moltissimi morti. Lo zar partecipò con un aiuto di 50.000 franchi, in Russia si istituì un comitato di aiuto chiamato Pietroburgo-Messina. Nell'occasione, lo scrittore russo Maxim Gorkij scrisse un libro e tutti gli utili derivanti dalla vendita furono dati a Messina per la ricostruzione. Questo fu un segno tangibile di amicizia fraterna ed eterna tra il popolo russo e quello messinese che, riconoscente, pose sulla facciata del Comune di Messina una lastra marmorea in ricordo perenne degli aiuti ricevuti. Il terremoto ebbe conseguenze anche sul piano politico e sociale: lo Stato italiano, messo alla prova, rivelò tutte le sue debolezze. L’opinione pubblica dovette accorgersi che esisteva un problema del Mezzogiorno che, dopo l’Unità, anziché risolversi si acuiva per le forti differenze di sviluppo economico tra nord e sud. Il terremoto provocò ripercussioni d'ogni genere: con l’affannarsi al soccorso, nell’angoscia del momento, si aprì un dibattito politico, prolungatosi poi nel tempo, che investì le istituzioni, diede concretezza per la prima volta alla "Questione Meridionale", mise in causa l’efficienza dello Stato, fece incontrare e scontrare su un terreno di realtà drammatica le due Italie, quella del Sud e quella del Nord e quella della Destra e della Sinistra. La sciagura fu la prima grande prova dello Stato Italiano nato dal Risorgimento. Alla Città di Messina viene conferita la Medaglia d'Oro al valor civile in data 3 ottobre 1959 con la seguente motivazione: "Nobile e antica città della Sicilia duramente provata da calamità naturali e da eventi bellici, con impavida tenacia e sublime abnegazione da parte di tutta la sua popolazione, due volte risorgeva dalle macerie, mantenendo fiero ed intatto il suo amore di Patria". La città peloritana, ricostruita sullo stesso posto con grande spirito di sacrificio e abnegazione del popolo messinese, subì gravi danni nel corso della seconda guerra mondiale in seguito ai pesantissimi bombardamenti aerei e terrestri ad opera degli americani. Ancora una volta Messina si è distinta per la difesa della libertà partecipando attivamente alla cacciata dei tedeschi dal territorio nazionale con il contributo delle forze partigiane messinesi. Alla Città di Messina il conferimento della Medaglia d'Oro al valore militare in data 31 gennaio 1978 con la seguente motivazione: "Già duramente provata dall'immane disastro tellurico del 1908, è stata, durante la guerra 1940-43, dapprima obiettivo d'incessanti bombardamenti aerei, poscia, nel periodo dell'invasione dell'Isola, campo d'aspra e lunga lotta che la martoriò e la distrusse. La sua popolazione, affamata, stremata, dolorante, sopportò stoicamente la più dura tragedia ben meritando dalla Patria". Le truppe alleate entrarono a Messina il 17 agosto 1943, la Sicilia era stata liberata, l’Italia ancora rimaneva sotto la barbarie fascista e nazista, ancora giorni sanguinosi e di lutti dovevano venire. Il 1946 vede un nuovo Stato Repubblicano nato dalle macerie di una guerra che nel Paese lascia segni profondi difficili da cancellare e sanare. Messina è certamente una delle città italiane maggiormente colpita, la ripresa seppure lenta, è costante. Durante la Conferenza di Messina del giugno 1955 i ministri della CECA proposero l’istituzione di un Mercato Comune Europeo e la regolamentazione delle risorse energetiche nell’area europea. Fu il primo passo verso l’Europa Unita; i Paesi europei infatti cominciavano a risentire dello strapotere politico-economico delle due superpotenze USA e URSS, con la Conferenza di Messina furono gettate le basi verso quella cooperazione politica ed economica che doveva portare al Parlamento Europeo. Oggi l’Unione Europea è una realtà ormai consolidata e il 1999 l'anno che vede la moneta unica (l’EURO) per i Paesi dell’Unione. Il 16 gennaio 1975 una forte scossa tellurica, seguite da altre di assestamento, fa tremare la mia città, i sismografi calcolano l’intensità intorno all’8° grado della scala Mercalli, fortunatamente, anche grazie a sistemi di costruzioni antisismiche, la città resiste e solo lievi danni si calcolano alle cose. Messina rinasce splendida con le sue strade larghe e rettilinee e le ampie piazze e i suoi giardini e i suoi monumenti restaurati con le sue chiese antiche a testimoniarne la grandezza e i suoi nuovi palazzi realizzati da architetti di grande fama. Andiamo ad elencare le opere più importanti di questo periodo: Il Palazzo di Giustizia, in stile neoclassico dalle forme doriche, dell’architetto Marcello Piacentini con sul fastigio una quadriglia in bronzo e alluminio dell’architetto Ercole Drei, sopra il portale del vestibolo la statua bronzea della "Giustizia" di Arturo Dazzi. Il Palazzo dell’Università degli Studi, neoclassico arricchito da decorazioni di stile liberty, viene realizzato su progetto dell’architetto Botto, nel dopoguerra viene ingrandito con le aggiunte operate dall’architetto Francesco Basile. Il Palazzo della Prefettura, di gusto post-floreale con elementi rinascimentali viene costruito nel 1920 su progetto dell’architetto G. Bazzani che è progettista anche della Chiesa di Santa Caterina Valverde. Il Palazzo Municipale, realizzato nel 1924 su disegno dell’architetto Antonio Zanca, il busto bronzeo di Antonello da Messina che domina la grande scala del vestibolo è opera di Antonio Bonfiglio che insieme al Sutera eseguì le sculture del fastigio. In Piazza Municipio è posto il Monumento ai Caduti della Grande Guerra con l’arengario di G. Nicolini. Nel 1914 viene costruito il Palazzo della Provincia dell’architetto Alessandro Giunta sull’area dell’antica chiesa di Sant’Agostino della quale rimangono nell’atrio modesti avanzi. La Chiesa di San Giuliano in stile moresco costruita nel 1927 dal Sac. Ing. Carmelo Umberto Angiolini autore pure della chiesa di San Pietro e Paolo della chiesa di San Luca di gusto romanico e della chiesa di S. Francesco di Paola. Distrutta dal terremoto del 1908, viene costruita nello stesso posto la Chiesa Annunziata dei Teatini, progettata dall’ing. Francesco Barbaro in stile neoclassico. Il Santuario di Cristo Re dalla sobria linea barocca, voluto dall’Arcivescovo Paino, costruito nel 1937, sorge sull’area dell’antico castello di Roccaguelfonia del quale rimane ancora la Torre ottagonale che nel 1284 fu la prigione di Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo e sul cui terrazzo poggia una campana che è tra le più grandi d’Italia. E’ stato costruito, sull’area dell’antica costruzione del 1295, il Santuario della Madonna di Montalto. Vengono costruiti, inoltre, il Palazzo delle Poste di V. Mariani, il Palazzo della Dogana di G. Lo Cascio, la Chiesa dello Spirito Santo ricostruita sulla planimetria del sec. XIII, la Banca d’Italia di Cobolli Gigli, la Banca Commerciale Italiana di P. Interdonato, il Palazzo della Camera di Commercio di Camillo Puglisi Allegra che costruì anche la Galleria Vittorio Emanuele III, con volta in ferro e vetro, l’Intendenza di Finanza di M. Cannizzaro, il Palazzo della Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele di Basile e Mallandrino, il Palazzo Arcivescovile di Fleres, la Chiesa del Carmine di Cesare Bazzani, il Santuario di Maria SS. di Pompei di Filippo Rovigo, la Chiesa di S. Antonio di Padova di Letterio Savoia, la Capitaneria di Porto, il Palazzo dell’INA, quello dell’INPS, il Palazzo del Banco di Sicilia di V. Vinci, il Palazzo della Libertà di Viola e Samonà, nel 1939 la Stazione Ferroviaria opera dell’architetto Mazzoni. Dopo pochi decenni, ancora una volta, Messina deve subire durante la guerra una offesa gravissima al suo patrimonio artistico e monumentale perché martellata furiosamente ed incessantemente dai bombardamenti degli statunitensi ed è pressoché rasa al suolo. La medaglia d’oro al valore militare conferitaLe dal Capo dello Stato orna il Suo gonfalone ma non lenisce le profonde ferite. Messina, città eroica. E’ vero! Se non lo fosse stata…lo splendore dei suoi monumenti sarebbe salvo e l’oblio non l’avrebbe cancellata per sempre dalle città che oggi si definiscono "d’arte".

“M” COME MESSINA, “M” COME MASSONERIA, scrive il 16 gennaio 2013 Ilaria Raffaele su "Sud press". Il sovrintendente dell'Ear, l'ente che controlla il teatro Vittorio Emanuele di Messina, ha fatto una confessione ai ragazzi del Teatro Pinelli occupato: «Che nessuno si illuda che uno è messo lì (per meriti), io non ho fatto un concorso, c'era qualcuno che mi tutelava». Paolo Magaudda, nel suo inspiegabile momento di confidenza, ha anche spiegato che il “qualcuno” che lo ha portato al vertice dell'Ear ha un nome e un cognome, ed è una delle personalità di spicco della politica italiana: Antonio Martino. Messinese, ex ministro dell'Interno e degli Esteri, Martino è l'ultimo di una genìa che ha dedicato tre generazioni alla politica: il nonno Antonino fu più volte sindaco di Messina e il padre Gaetano fu ministro dell'Istruzione pubblica e degli Affari esteri negli anni Cinquanta. La storia della famiglia Martino è strettamente legata a quella di Messina. Ma lo è anche con quella della massoneria, come spiega Antonio Mazzeo, giornalista e autore nel 1992 del libro “Massoni”.

Le dichiarazioni del sovrintendente Magaudda lasciano intendere che i posti di rilievo nella città non vengano decisi sulla base del merito ma sulle raccomandazioni delle logge. Messina è una città in mano alla massoneria?

«Storicamente l'influenza della massoneria sulla città ha radici molto profonde, che risalgono all'Ottocento e forse addirittura al Settecento. Per parlare di fatti a noi più vicini, la massoneria ha avuto un ruolo determinante nel dopoguerra, quando ha intrattenuto rapporti con gli Stati Uniti per la ricostruzione.»

Che ruolo ha avuto Gaetano Martino in quelle vicende?

«Fu imposto Rettore dell'Università di Messina dall'establishment economico-militare statunitense, che era legato alla massoneria. E proprio grazie all'Ateneo costruì l'aristocrazia messinese. L'università ebbe così un ruolo di formazione e riproduzione del sistema massone. Infatti la percentuale di fratelli nelle facoltà messinesi è superiore rispetto a quella delle altre strutture italiane».

La massoneria gestiva posti di prestigio nell'università?

«Soprattutto nella facoltà di Medicina, che è quella più importante sotto il profilo della gestione finanziaria, c'era una grossa quantità di affiliati che avevano ruoli di rilievo. È impressionante anche la forte presenza di massoni nelle strutture economiche della città. Quando ho scritto “Massoni” ho potuto appurare che molti fratelli erano bancari o militari.»

Perché l'élite messinese entrava nella massoneria?

«Negli anni Cinquanta molti si affiliavano per far carriera, come ad esempio i militari, altri erano attratti dal principio del reciproco aiuto fra fratelli. Ma la massoneria oggi è anche un sistema che determina alleanze e gestisce le dinamiche di potere. Si passa da utilità di piccolo calibro, come ottenere un mutuo anche quando a un cittadino comune non sarebbe concesso perché il direttore della banca è confratello, al controllo dell'azione di governo del territorio.»

Il Sovrintendente Magaudda ha paragonato la massoneria a un Rotary Club. C'è un legame fra i club e le logge?

«C'è una linea di continuità fra le due strutture. Entrambe hanno in comune il principio del sostegno reciproco fra gli iscritti, quindi credo che quella di Magaudda sia un'interpretazione corretta. Il problema della massoneria è che il confine tra il bene e il male è molto labile. Basti pensare che Antonio Martino negli anni Settanta chiese di essere iscritto alla P2 di Licio Gelli, che in seguito è stata dichiarata illegale. È un'enorme area grigia, una rete potentissima capace di controllare e indirizzare le grandi scelte. Credo che anche il governo dei tecnici di Monti abbia molto da ringraziare a questa rete di potere.»

M COME MONOPOLIO. Di Battista e lo stretto di Messina. "Stop al monopolio di Caronte", scrive Martedì 29 Agosto 2017 "Live Sicilia". La replica dell'azienda: "Non riceviamo soldi pubblici". "La Caronte (macchina più due persone) 37 euro!!! E praticamente ha il monopolio. Altra vergogna da cambiare quando saremo al Governo". Lo annota su Fb il deputato M5s Alessandro Di Battista dove posta una sua foto sul traghetto che attraversa lo stretto di Messina di ritorno dal tour elettorale siciliano. "Lascio la Sicilia. Ho dato il massimo. Mi mancherà questa terra e mi mancheranno i siciliani" il suo saluto. E tra i commenti in tanti protestano per il costo del traghetto, altri scherzano con Di Battista che ha coniato l'hashtag #giovanottospostati, il "tormentone" del tour siciliano che allude alla battuta di un pescivendolo del mercato di Catania immortalato in un video di Di Battista e che non riconoscendo il deputato lo aveva gentilmente invitato a spostarsi. Non si è fatta attendere la risposta del gruppo Caronte & Tourist al deputato del movimento cinque stelle. "Siamo certi che sarà al corrente - replicano dalla Caronte a Di Battista - del fatto che sullo Stretto operiamo senza alcun contributo pubblico, su infrastrutture realizzate interamente a nostre spese e senza alcuna particolare agevolazione fiscale o contributiva". "Abbiamo un altissimo rispetto della sua figura di rappresentante dei cittadini nelle istituzioni - prosegue la nota - e altrettanto ne abbiamo verso le centinaia di donne e uomini che costituiscono la spina dorsale del nostro Gruppo, quasi 1500 lavoratrici e lavoratori che quotidianamente esprimono il massimo del proprio impegno per poter offrire un servizio di standard europeo". "Sarebbe dunque un onore - conclude la Compagnia - poterci confrontare con lei, sia sui temi da lei sollevati, a partire dalla congruenza delle tariffe, su cui ci offriamo di inviarle i contenuti di uno specifico studio, sia su quelli più generali di un trasporto sicuro, sostenibile, efficiente e all'altezza delle sfide che si pongono davanti al Mezzogiorno".

Stretto di Messina, traffico in tilt ma c’è chi ancora rifiuta il Ponte, scrive Fabio Bonasera il 12 agosto 2017 su "L’Eco del Sud". “A2 Autostrada del Mediterraneo, Anas: svincolo di Villa San Giovanni, in direzione Nord, chiuso in uscita per consentire lo smaltimento delle auto incolonnate agli imbarchi per la Sicilia. I tempi di attesa per imbarcarsi sono stimati in 120 minuti. I veicoli provenienti da Reggio Calabria e diretti a Villa San Giovanni potranno utilizzare lo svincolo di Santa Trada”. Questa, la comunicazione di servizio che da questa mattina campeggia sulla homepage del sito istituzionale dell’Anas. Quello che l’azienda non dice è che i 120 minuti, pari a due ore, sono spesi per compiere appena tre chilometri di distanza. Colmabili, con un ponte, nel giro di qualche minuto. Il comunicato dell’Anas fa sapere che “sull’A2 ‘Autostrada del Mediterraneo’, si è reso necessario procedere alla chiusura dello svincolo di Villa San Giovanni, in direzione Nord, per consentire lo smaltimento delle auto incolonnate agli imbarchi per la Sicilia, i cui tempi di attesa sono stimati in circa due ore. I veicoli provenienti da Reggio Calabria e diretti a Villa San Giovanni – si legge ancora – potranno proseguire verso nord fino allo svincolo di Santa Trada e reimmettersi in autostrada in direzione Sud”. Come dimostra la foto di copertina scattata questa mattina alle 9, code lunghissime sono in atto anche a Messina, agli imbarchi della Caronte&Tourist, nella rada San Francesco. Una situazione che si ripete da decenni, ogni qualvolta si prospetta un esodo massiccio, come quello di Ferragosto, e il relativo contro esodo, ma che le autorità continuano a vivere e propinare come un’emergenza. Eppure, la soluzione sarebbe a portata di mano. O lo sarebbe stata se Romano Prodi e Mario Monti non avessero affossato il progetto definitivo sul Ponte sullo Stretto. Opera che ancora oggi, Graziano Delrio, appartenente alla stessa lobby di potere di Prodi, boicotta in ogni modo, come testimonia l’allegato infrastrutture al Def 2017. A completare l’opera è un’intera classe politica, totalmente inadeguata e insensibile ai reali bisogni della popolazione, che non sa o non vuole rappresentare gli interessi collettivi. Né a livello nazionale, né a livello comunitario. Così, mentre l’Unione europea finanzia un ponte di due chilometri e 400 metri in Croazia, a favore degli 8.200 abitanti di Sabbioncello, in Sicilia, a Messina in particolare, prendono il sopravvento le teorie di chi ritiene inutile costruire un’infrastruttura del genere per “appena 5 milioni di abitanti”. E’ quanto sostenuto, per esempio, dal sindaco nopontista Renato Accorinti, lo scorso 26 ottobre a Messina può rinascere, trasmissione di approfondimento in onda su Tremedia. Il primo cittadino, noto per molte cose ma non certo per essere un economista, ritiene che il Ponte non avrebbe “alcuna motivazione macroeconomica, dovendo servire solo 5 milioni di persone”. Un’immagine riduttiva dei diritti dei propri amministrati, soprattutto quelli alla mobilità e alla continuità territoriale, messi spesso in discussione da situazioni come quella odierna, Una considerazione che non tiene nemmeno conto dei flussi di traffico in entrata. Che non tiene conto che Messina e la Sicilia, per rilanciarsi economicamente e socialmente, per rianimare i traffici commerciali e l’industria turistica, devono essere aperte al mondo. Devono essere facilmente raggiungibili. Al momento, si è al cospetto di un’isola di nome e di fatto. Una situazione che non giova a nessuno se non a chi, dalla mancanza di infrastrutture, può trarre vantaggio. Come chi, periodicamente, beneficia dei provvedimenti del Comune, vedendosi porgere il traffico automobilistico in transito sullo Stretto su un piatto d’argento.

Ponte sullo stretto di Messina. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il ponte sullo stretto di Messina identifica l'idea di una infrastruttura di tipo ponte per consentire l'attraversamento stabile stradale e ferroviario dello stretto di Messina, in grado, quindi, di mettere in collegamento l'isola di Sicilia con la Calabria e, più in generale, con il continente europeo. L'idea ha dato luogo a una serie di progetti di ingegneria civile, approntati in tempi diversi. Se si realizzasse un progetto di ponte come quello a campata unica di 3 300 m già dato in appalto nel 2005 e poi decaduto nel 2013, vedrebbe la luce il più grande ponte tra quelli sospesi, il cui primato mondiale di luce libera è detenuto, al 2017, dal ponte di Akashi Kaikyō in Giappone, in esercizio dal 5 aprile 1998, con 1 991 m di campata centrale. Dalla storia dell'opera emerge che la società concessionaria Stretto di Messina S.p.A. che aveva avuto dal 1981 al 2013, per la Legge 1158/71, il mandato per la progettazione, realizzazione e gestione dell'opera, dopo alcuni decenni dedicati alla progettazione e a seguito di una gara di appalto internazionale, aveva affidato l'appalto dell'opera al contraente generale Eurolink S.C.p.A.. Il 20 dicembre 2010 il contraente generale aveva consegnato (come previsto dal contratto di appalto) il progetto definitivo dell'opera, progetto elaborato da società di ingegneria specializzate estere e controllato da altre società di consulenza. Infine il progetto definitivo era stato approvato dalla stessa concessionaria il 29 luglio 2011. Però, per poter dare il via ai lavori mancava l'approvazione definitiva del CIPE con i relativi finanziamenti. Al fine di poter prorogare i termini per l'approvazione definitiva, il Parlamento italiano aveva approvato un decreto legge che prevedeva come conditio sine qua non, il requisito di un accordo aggiuntivo tra il contraente generale e la società concessionaria da ratificare entro il primo marzo 2013. Non essendo stato raggiunto l'accordo entro quella data, il contratto di appalto ha perso la sua efficacia, la società concessionaria è stata messa in liquidazione e, pertanto, l'iter dell'opera si è bloccato nuovamente. Alcuni lavori preliminari, riguardanti lo spostamento della sede ferroviaria a Cannitello per far spazio ai futuri cantieri, erano stati già appaltati in precedenza, ed erano iniziati il 23 dicembre 2009.

Storia. Gli albori. L'idea di collegare in modo stabile la Sicilia al continente ha origini molto antiche. I primi progetti risalgono all'epoca dei romani che avevano pensato, e probabilmente realizzato, un ponte di barche. Questa soluzione, quasi banale, avrebbe però impedito il transito delle navi nello stretto. Si racconta, infatti, che essi fossero riusciti a far transitare le truppe su un ponte di barche e botti. Il tentativo è narrato da Plinio il Vecchio che narra della costruzione, voluta dal console Lucio Cecilio Metello nel 251 a.C., di un ponte fatto di barche e botti per trasportare dalla Sicilia 140 elefanti da guerra catturati ai cartaginesi nella battaglia di Palermo durante la prima guerra punica. Nonostante i propositi di vari governanti nel corso dei secoli (tra gli altri anche Carlo Magno e Roberto il Guiscardo), le oggettive difficoltà dovute alle condizioni ambientali dello stretto, caratterizzate da fondali marini irregolari e molto profondi (oltre i 100 m), da tumultuose correnti marine e da forti venti in una zona a elevata sismicità, fecero sì che la costruzione di un ponte rimanesse sempre una sfida impossibile per l'ingegneria del tempo. Nel 1840 anche Ferdinando II di Borbone Re delle Due Sicilie pensò alla realizzazione del ponte incaricando un gruppo di architetti e ingegneri dell'epoca di fornirgli idee per la costruzione. Dopo averne constatata la fattibilità, preferì rinunciare per l'eccessivo costo dell'opera non ammortizzabile per le casse del Regno. Nel 1866 l'allora Ministro dei Lavori Pubblici Jacini aveva incaricato l'ingegnere Alfredo Cottrau, tecnico di fama internazionale, di studiare un progetto di ponte tra Calabria e Sicilia. Più tardi, nel 1870, era nata anche l'idea di allacciamento sottomarino di 22 km, proposta dall'ingegner Carlo Navone; il progetto, che si ispirava a quello di Napoleone di una galleria sotto la Manica, prevedeva di entrare in galleria a Contesse e, scendendo a 150 metri, sottopassare Messina e Ganzirri attraversando lo stretto fino a Punta Pezzo e risalendo a Torre Cavallo. Nel 1876 l'onorevole Giuseppe Zanardelli, convinto dell'opportunità di un'opera fissa tra le due coste, affermava: «Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente», facendosi portavoce di un'opinione corrente e di autorevoli studi. Un progetto di ponte sospeso, articolato in cinque campate fu studiato nel 1883 da un gruppo di ingegneri delle ferrovie, ma non se ne fece nulla. Il catastrofico terremoto di Messina del 1908, che segui dopo poco più di un secolo l'altrettanto se non maggiore terremoto della Calabria meridionale del 1783, ricordò a tutti che le condizioni sismiche della zona erano da valutare attentamente in previsione del progetto di un ponte in quella zona. Così nel 1909 fu pubblicato uno studio geologico della zona, ma si riparlò di galleria sottomarina solo nel 1921, quando l'ingegner Emerico Vismara, al Congresso geografico di Firenze, presentò uno studio di galleria sotto lo stretto di Messina. L'ultimo tentativo fu fatto nell'immediata vigilia dell'ultimo conflitto mondiale, ma le ricerche compiute troncarono ogni nuova speranza. Nel 1934 il generale del genio navale, Antonino Calabretta, presentò un progetto di ponte tra Punta Faro e Punta Pezzo; l'anno successivo il comandante Filippo Corridoni suggerì invece la posa di un enorme tubo d'acciaio sottomarino per il transito ferroviario e veicolare. Ma neanche questi progetti ebbero seguito.

Progetti del secondo dopoguerra. L'idea dell'opera fu rilanciata nel 1952 dall'iniziativa dell'associazione dei costruttori italiani in acciaio (ACAI), che incaricò l'ingegnere statunitense David B. Steinman, uno dei più qualificati e prestigiosi progettisti di ponti sospesi di redigere un progetto preliminare. Il progetto dello Steinmann avrebbe dovuto scavalcare lo stretto in tre balzi con due piloni, alti 220 metri sopra il livello dell'acqua e per 120 metri sotto il mare, con ascensori di controllo delle strutture dal basso sul fondo dello stretto fino alla sommità. Il progetto del ponte prevedeva altresì una luce centrale di 1 524 metri, e avrebbe superato il record mondiale di campata libera detenuto con i 1 275 metri del Golden Gate Bridge. Alto dal pelo dell'acqua 50 metri per consentire il passaggio di qualsiasi nave nello stretto, lungo 2 988 metri e a due piani — nell'inferiore il doppio binario ferroviario e in quello superiore una strada di 7 metri e 30 di larghezza e due piste laterali — il ponte avrebbe avuto cavi, tesi tra i piloni, di un metro di diametro. La costruzione avrebbe richiesto il lavoro di 12 000 operai e una spesa intorno ai 100 miliardi di lire. Si parlava di società americane disposte a finanziare l'opera e si offriva la garanzia del progettista, realizzatore del famoso ponte a San Francisco. Basandosi su questo progetto, nel 1955 la Regione Siciliana commissionò alla Fondazione Lerici del Politecnico di Milano (Luigi Solaini, Roberto Cassinis) uno studio geofisico allo scopo di verificare la natura delle formazioni tanto sulle sponde che sul fondo dello stretto. Il quesito posto era la determinazione dello spessore e delle caratteristiche meccaniche dei sedimenti e del basamento cristallino. La prospezione geofisica fu preceduta da un rilievo geologico effettuato dal Servizio geologico d'Italia (Enzo Beneo) che, malgrado le difficoltà rappresentate dalla complessa geologia e dalle fortissime correnti, e con i limiti delle tecnologie allora disponibili, concluse che le proprietà meccaniche dei sedimenti e della roccia cristallina risultano modeste fino a parecchie centinaia di metri sotto il piano di campagna e sotto il fondo dello stretto. Nel 1955 venne costituito da alcune tra le maggiori imprese di costruzioni nazionali (Finsider, Fiat, Italcementi, Pirelli, Italstrade) il Gruppo Ponte Messina S.p.A. per promuovere studi ingegneristici e ambientali finalizzati alla realizzazione di un collegamento stabile viario e ferroviario tra la Sicilia e il Continente. Il Gruppo Ponte Messina resterà attivo protagonista della vicenda "ponte di Messina" fino alla costituzione della società concessionaria Stretto di Messina S.p.A. nel 1981. Nel 1957 l'architetto Armando Brasini aveva proposto, senza alcun seguito, ancora un progetto di ponte a più campate sospese su piloni emergenti da isole artificiali.

Concorso internazionale di idee del 1969. Nel 1968, venne emanata la legge 384 che conferiva all'ANAS, alle Ferrovie dello Stato, e al CNR l'incarico di acquisire ulteriori elementi di giudizio circa la fattibilità dell'impresa. L'anno successivo il Ministero dei lavori pubblici con D.M. 134 bandì un "Concorso internazionale di idee" per un progetto di attraversamento stabile stradale e ferroviario dello stretto. Furono presentati 143 progetti dei quali 125 elaborati da gruppi composti da progettisti prevalentemente italiani, 8 progetti americani, 3 inglesi, 3 francesi, 1 tedesco, 1 svedese, 1 argentino e 1 somalo. Tra i concorrenti non mancavano i più qualificati Studi e Società di progettazione di ponti del mondo. Il bando prevedeva la necessità del transito di due binari ferroviari e sei corsie autostradali applicando le normative dell'epoca (circ. 384 del Min. LL.PP. e circ. delle FF.SS.). Per gli studi preliminari furono stanziati 3 miliardi e 200 milioni di lire. La Commissione giudicatrice fu nominata congiuntamente dal Ministero dei lavori pubblici e dal Ministero del tesoro. Essa fu presieduta dall'allora direttore generale dell'ANAS Ennio Chiatante, con il direttore generale delle Ferrovie dello Stato, Ruben Fienga e composta da 22 membri, tra cui tre esperti stranieri di fama internazionale. Questi i membri della Commissione giudicatrice: Luigi Miglietta, direttore del Servizio lavori e costruzioni delle Ferrovie dello Stato; Vincenzo di Gioia, presidente 6º sez. Consiglio superiore dei lavori pubblici; Bruno Accordi, esperto in tettonica, designato dal CNR; Enrico Medi, esperto in sismologia, designato da CNR; Carlo Morelli, esperto in oceanografia, designato dal CNR; Elio Giangreco, docente presso l'Università di Napoli; Vittorio Mongiardini, docente presso l'Università di Roma; Guido Oberti, docente presso il Politecnico di Torino; Bruno Bottau, docente presso l'Università di Bologna; Amedeo Balboni, geologo; Leo Ogniben, geotecnico; Riccardo Morandi, designato dall'Ordine degli ingegneri, Giuseppe Caronia, designato dall'Ordine degli architetti; M. Lucien Carpentier, esperto - Francia; Herbert Rothman, esperto - USA; Atsushi Hirai, esperto, Giappone; Agostino Chiofalo, presidente Sezione consiglio di Stato; Umberto Perinetti, direttore Servizio tecnico centrale ANAS; Luigi Piloni, direttore servizio amministrativo ANAS; Corrado Ciolli, ispettore generale tecnico ANAS, segretario. Furono assegnati 12 premi, 6 primi premi ex aequo di 15 milioni di lire e 6 secondi premi ex aequo di 3 milioni di lire. I vincitori dei 6 primi premi ex aequo furono (in ordine alfabetico):

Grant Alan and Partners, Covell and Partners, Inbucon international; (tunnel a mezz'acqua ancorato al fondo mediante cavi in acciaio). Questo progetto prenderà successivamente il nome di ponte di Archimede. Tale struttura verrebbe costruita completamente immersa nell'acqua, ad una ventina di metri dalla superficie e sostenuta per la maggior parte dalla spinta di Archimede (da cui il nome). In questo caso la struttura potrebbe essere più snella, visto che le sollecitazioni sismiche di un eventuale terremoto sarebbero smorzate o eliminate (a seconda del tipo d'onda) dalla presenza del liquido intorno. Anche eventuali onde di maremoto, in mare aperto, avrebbero altezze modeste e, quindi, non rappresenterebbero un problema. Discorso simile per le correnti: la loro intensità, per quanto elevata nello stretto, sarebbe alcuni ordini di grandezza inferiore alle sollecitazioni sopportabili dalla struttura;

Gruppo Lambertini, costituito da: Guido Lambertini (capogruppo), Giulio Ceradini, Fabrizio de Miranda, Carlo Lotti, Carlo Pandolfi, con le consulenze esterne di Enzo Beneo, Gianguido Borghese, Luigi Di Paola, Fritz Leonhardt, Pietro Caloi; (ponte strallato con tre grandi luci (540 m + 1300 m + 540 m) più alcune campate di riva: il progetto risulterebbe particolarmente idoneo al traffico ferroviario in quanto meno deformabile di un analogo ponte sospeso e più facilmente costruibile);

Gruppo Musmeci, costituito da: Sergio Musmeci; Giuseppe Barbaliscia; Salvatore Dierna; Francesco Paolo D'Orsi Villani; Gabriella Esposito; Livio Quaroni; Ludovico Quaroni; Antonio Quistelli; Alvaro Rinaldi; (ponte sospeso a luce unica di 3000 m con piloni alti 600 m e un originalissimo sistema spaziale di sospensione per irrigidire la struttura sia nel piano verticale, per consentire il traffico ferroviario, che in quello orizzontale per resistere alle spinte del vento ed evitare eccessive deformazioni con il rischio di deragliamento dei treni);

Gruppo Ponte Messina S.p.A.; (ponte sospeso di tipo classico a tre campate su progetto di una società americana);

Arch. Eugenio Montuori con la collaborazione degli ingegneri Calini e Lionel Pavlo; (ponte sospeso a quattro campate);

Technital S.p.A.; (ponte sospeso a cinque campate).

Il gruppo dei vincitori del secondo premio ex aequo era composto da:

Colleviastreme 384; (ponte sospeso a tre campate);

Costruzioni Umberto Girola S.p.A.; (galleria sotterranea);

Gruppo Samonà, costituito da: Giuseppe Samonà; Maria Angelini; Alessandro Orlandi; Alberto Samonà; Livia Toccafondi; Giulio Pizzetti; M. Alberto Chiorino; Luigi Masella; Rosalba Gentile; Giorgio Berriolo; Giorgio Spirito; (ponte sospeso a quattro campate);

Parson Brinckeroff, Quadre and Douglas; (tunnel incassato in diga sottomarina);

Studio Nervi, costituito da: Pier Luigi Nervi; Antonio Nervi; Mario Nervi; Vittorio Nervi; (il progetto prevedeva una soluzione a campata unica impostando le pile a ridosso delle sponde dello stretto su fondali molto bassi, riducendo così la luce a 2700 m. Inoltre il sistema di sospensione a elementi inclinati era disposto su piani inclinati conferendo così una maggiore resistenza e rigidezza nei confronti delle spinte del vento trasversale rispetto ai ponti sospesi di tipo tradizionale);

Zancle 80; (ponte sospeso a tre campate).

Anni settanta. Nonostante l'esito del concorso, si consolida attorno all'idea del collegamento stabile l'interesse di alcuni enti di ricerca: IRI, favorevole all'attraversamento aereo a campata unica (il ponte) e l'Eni favorevole al ponte di Archimede. Questa soluzione, che riprende l'idea di uno dei sei progetti vincitori del concorso del 1969 (Alan Grant), nel corso degli anni è stata più volte ripresentata come ipotesi molto più economica e di minore (praticamente nullo) impatto ambientale.

Il 17 dicembre del 1971 il governo Colombo approva la legge n. 1158 che autorizza la creazione di una società di diritto privato a capitale pubblico, concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione del collegamento stabile viario e ferroviario. Il 4-6 luglio 1978 viene presentato ad un Convegno di studi sul tema: "L'Attraversamento dello stretto di Messina e la sua fattibilità", organizzato dalla Accademia Nazionale dei Lincei, un progetto redatto dal Gruppo Ponte Messina S.p.A., che prevede una soluzione a campata unica di 3 300 m. A partire da questo progetto, successivamente acquisito dalla Stretto di Messina S.p.A., si svilupperanno gli studi teorici e sperimentali, portati avanti negli anni ottanta e novanta dalla società concessionaria, studi che approderanno nel 2003 al progetto preliminare che sarà successivamente messo in gara per l'appalto. Nel 1979 il capo del governo Francesco Cossiga dà la sua approvazione alla costituzione della società concessionaria Stretto di Messina S.p.A. che verrà quindi costituita nel 1981.

Anni ottanta. Nel 1981, dieci anni dopo la legge 1158/71, si concretizzò la costituzione della concessionaria Stretto di Messina S.p.A. a cui partecipavano finanziariamente l'Italstat e l'IRI con il 51% e Ferrovie dello Stato, ANAS, Regione Siciliana e Regione Calabria in percentuali uguali del 12,25% ciascuno. Da quel momento, la progettazione dell'opera, così come pure la sua futura realizzazione e l'esercizio, sono diventate di competenza esclusiva della Stretto di Messina S.p.A. e quindi tale società iniziò ad affidare a propri dipendenti e/o a professionisti di fiducia l'incarico della progettazione e delle diverse consulenze specialistiche strettamente connesse senza dover bandire un nuovo concorso esterno (come quello del 1969). Nel 1982 il Gruppo Lambertini, già vincitore ex aequo del concorso internazionale del 1969, presentò alla neonata società concessionaria, la Stretto di Messina S.p.A., il proprio progetto di ponte strallato aggiornato che prevedeva soltanto due pile nel mare (eliminando le campate di riva). Il progetto aggiornato veniva incontro all'esigenza di offrire un più ampio varco per la navigazione avendo portato le tre grandi luci rispettivamente a 600 m - 1800 m - 600 m. Nel 1982 il ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, Claudio Signorile, annuncia la realizzazione di «qualcosa» «in tempi brevi». Due anni più tardi si ripresenta agli italiani con una data precisa: «Il ponte si farà entro il '94». Nel 1985 il presidente del consiglio Bettino Craxi dichiara che il ponte sarà presto fatto. La Stretto di Messina S.p.A. il 27 dicembre 1985 definì una convenzione con ANAS e FS. Il 16 giugno 1986 viene presentato dalla Stretto di Messina S.p.A. un nuovo studio di fattibilità, con i progetti, i costi e l'affidabilità relativi a tre tipologie di soluzioni: in sotterraneo, in mare, in aria. Per quanto riguarda la tipologia ponte aereo furono studiate due soluzioni, una a luce unica di 3 300 m e a una due luci di 1 650 m. Non fu però analizzata la soluzione di ponte a tre campate. Limitatamente alle tre tipologie analizzate la soluzione aerea a luce unica era valutata come tecnicamente realizzabile ed economicamente conveniente. L'allora presidente dell'IRI Romano Prodi disse che il ponte era una priorità e che i lavori sarebbero stati ultimati nel 1996. Il Consiglio di Amministrazione delle FS il 19/2/1987 deliberò anch'esso in favore della soluzione del ponte sospeso a campata unica. Questo risultato generale sarà confermato poi da ulteriori pareri ottenuti entro la fine del decennio dalle FS, dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e dall'ANAS. In questo periodo tutti gli Enti competenti concordano che la soluzione dell'attraversamento dello stretto dovrà essere di tipo "aereo", ovvero di un ponte sospeso a campata unica di 3300 m.

Anni novanta. Nel 1990 il presidente del consiglio Giulio Andreotti nomina come successore del deputato Oscar Andò, Antonio Calarco, direttore della Gazzetta del Sud, che presiederà la società fino al 2002. Nel 1992 viene presentato il progetto preliminare definitivo, migliorato rispetto a quello del 1986, comprendente le relazioni tecniche, previsioni di spesa, tempi di esecuzione, e la valutazione d'impatto ambientale. Durante il primo governo Berlusconi il ministro dei trasporti Publio Fiori riprese nuovamente la questione del ponte che ottenne di nuovo il parere favorevole di ANAS e FS sul progetto approvato, di nuovo nel 1997, dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.

Anni duemila. Nel 2001 i due principali candidati alla guida del governo, Silvio Berlusconi e Francesco Rutelli, annunciarono durante la campagna elettorale per le elezioni legislative il loro sostegno politico alla proposta di costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Nel 2003 venne ulteriormente modificato il progetto preliminare, che in seguito sarà messo in gara per l'appalto, rappresentante l'esito finale di oltre vent'anni di studi e di ricerche specifiche portate avanti dalla Stretto di Messina S.p.A. Nell'ottobre 2005, durante il terzo governo Berlusconi, l'Associazione Temporanea di Imprese Eurolink S.C.p.A., capeggiata da Impregilo S.p.A. vinse la gara d'appalto come contraente generale per la costruzione del ponte con un'offerta di 3,88 miliardi di euro. Il 4 novembre dello stesso anno, la Direzione investigativa antimafia mise il Parlamento italiano a conoscenza dei tentativi di Cosa nostra di interferire sulla realizzazione del ponte, con conseguente avvio di un'inchiesta al riguardo. Il 27 marzo 2006, Impregilo S.p.A. firmò ufficialmente il contratto per la progettazione finale e la realizzazione dell'opera. Seguirono le firme delle altre ditte ma con l'insediamento del nuovo Governo Prodi, il 10 aprile successivo tutto l'iter si bloccò nuovamente. Nel 2007 il secondo Governo Prodi era in procinto di ritirare l'appalto e annullare il contratto con la Impregilo, pur esponendosi al pagamento di una penale di oltre 500 milioni di euro, ma l'allora Ministro dei trasporti Alessandro Bianchi e il Ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro, insieme all'opposizione di centrodestra, si opposero al proposito procedendo poi ad accorpare la Società Stretto di Messina all'ANAS, riducendo il numero dei suoi dipendenti. Spiegò il Ministro Di Pietro che la mossa aveva evitato il pagamento delle penali alle società appaltanti per la mancata esecuzione dei lavori; tali penali si sarebbero dovute pagare qualora la Società Stretto di Messina avesse chiuso prima della realizzazione del ponte. Venne inoltre evitata la perdita di decenni di studi e progetti e la risoluzione dei contratti d'appalto rimasti invece tuttora validi. Il quarto Governo Berlusconi, succeduto nel maggio del 2008 al Governo Prodi in seguito allo svolgimento delle elezioni politiche anticipate dello stesso anno, annunciò di volere riprendere nuovamente l'iter del progetto di costruzione del ponte. A gennaio 2009, il Governo riconfermava il suo impegno a realizzare l'opera i cui lavori avrebbero avuto inizio l'anno successivo, nel 2010, per concludersi nel 2016, (data ben lontana da quella già prevista del 1994), 4-5 anni prima del completamento dell'"Asse ferroviario 1" della Rete ferroviaria convenzionale trans-europea TEN-T(che dovrebbe avvenire dopo il 2020), in cui il ponte è fondamentale insieme al Tunnel del Brennero (i cui lavori sono iniziati) e alla rete AV-AC e AC italiana relativa della quale rimangono ancora da completare le linee Verona-Brennero nonché tutto l'asse ferroviario Salerno-Palermo (ancora privo di progettazione definitiva). Il 2 ottobre 2009 la Stretto di Messina S.p.A. impartiva al contraente generale l'ordine di inizio dell'attività di progettazione definitiva ed esecutiva. I primi cantieri, relativi ai lavori propedeutici, sono stati avviati il 23 dicembre 2009 e consistono nella deviazione dell'esistente tratta ferroviaria tirrenica in corrispondenza di Cannitello, poco a nord di Villa San Giovanni, onde evitare le interferenze con il futuro cantiere della torre del ponte con analoghi lavori propedeutici sulla costa siciliana intrapresi nei mesi successivi.

Anni 2010. L'11 gennaio 2010 a Varapodio, in Calabria, è stato presentato al pubblico il progetto preliminare del ponte sullo Stretto di Messina; al convegno, organizzato dal Comune di Varapodio, hanno partecipato il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, il presidente dell'Anas e amministratore delegato della Società Stretto di Messina, Pietro Ciucci, il presidente della Società Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti. Durante il convegno, il ministro Matteoli, ha parlato della «peculiare valenza europea» del ponte sullo stretto, «essendo un importante tassello del Corridoio 1 Berlino-Palermo, già approvato dal Parlamento europeo nel 2004». La presentazione ufficiale si è tenuta il 12 febbraio seguente al Palacultura di Messina alla presenza del Ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli e al presidente della società Stretto di Messina e dell'ANAS Pietro Ciucci. La progettazione definitiva della parte sospesa dell'opera, ovvero il ponte vero e proprio, è stata avviata il successivo 1º aprile con consegna del progetto prevista entro il 30 settembre; ad esso doveva essere allegato il piano finanziario aggiornato da presentare al CIPE per l'approvazione finale. Il 29 settembre il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel corso di un dibattito alla Camera dei Deputati, ha però annunciato che il progetto del ponte sullo stretto sarebbe stato pronto entro dicembre. Il 20 dicembre la Società Stretto di Messina ha quindi ricevuto dal contraente generale Eurolink il progetto definitivo del ponte sullo stretto di Messina e degli oltre 40 chilometri di raccordi stradali e ferroviari. Si tratta di oltre ottomila elaborati progettuali che confermano tutte le impostazioni tecniche e i costi di costruzione del progetto preliminare redatto dalla Società Stretto di Messina e approvato nel 2003 dal CIPE. Il progetto definitivo comprende inoltre le opere deliberate dai Comuni interessati dalla costruzione del ponte, come a esempio il sistema di fermate ferroviarie intermedie tra Reggio e Messina. Il progetto definitivo accoglie anche, ai fini anche della sicurezza antisismica delle opere a terra, la nuova normativa del Testo unico delle costruzioni, intervenuta successivamente alla progettazione preliminare. L'architetto Daniel Libeskind viene incaricato dalla Società Stretto di Messina di progettare le principali strutture architettoniche connesse al ponte sullo stretto. Le opere, comprese nel progetto definitivo, riguardano l'area del centro direzionale, in località Piale presso Villa San Giovanni, la fascia dal blocco di ancoraggio alla torre del ponte a Cannitello e il lungomare di Villa San Giovanni. Il 1º febbraio 2011 il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Altero Matteoli ha annunciato, durante la 66º Assemblea Annuale della Confetra (organismo che raggruppa le categorie imprenditoriali operanti nei settori del trasporto, della spedizione e della logistica), la presentazione al pubblico del progetto definitivo del Ponte sullo stretto di Messina "nei prossimi giorni". Il 29 luglio 2011 sempre lo stesso Matteoli ha comunicato l'avvenuta approvazione del progetto definitivo da parte del Consiglio di Amministrazione della Società Stretto di Messina. Nell'ottobre 2011 l'Unione Europea non ha incluso il ponte sullo stretto tra le opere pubbliche destinate a ricevere finanziamenti comunitari. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, comunque aveva confermato la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina a prescindere dall'eventuale finanziamento della Ue, in quanto le risorse per il manufatto saranno reperite sul mercato, come previsto dal piano finanziario allegato al progetto definitivo. Il 27 ottobre l'Aula di Montecitorio ha approvato una mozione dell'Idv, che impegna il governo «alla soppressione dei finanziamenti per la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina». La mozione è stata approvata con 284 favorevoli, un solo contrario e con l'astensione della maggioranza PDL (anche se hanno votato a favore della soppressione: il sottosegretario responsabile Aurelio Misiti, rappresentante del governo di Berlusconi, il coordinatore del partito Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, i sottosegretari Laura Ravetto, Stefano Saglia e Guido Crosetto). Tuttavia già il giorno successivo la maggioranza tornò a sostenere che il ponte si farà, e alle prime dichiarazioni del presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo e del Ministro della Difesa Ignazio La Russa seguì una nota ufficiale del governo in carica in quei giorni a Palazzo Chigi, dove si legge anche che «l'opera è solo in parte finanziata dall'intervento pubblico. L'onere complessivo dell'infrastruttura prevede anche la partecipazione di capitale privato, l'utilizzo di Fondi strutturali e di altre fonti». Il 17 aprile 2012 è stata completata a Villa San Giovanni la prima opera propedeutica al ponte sullo Stretto di Messina, che consiste nella variante della linea ferroviaria Cannitello-Villa San Giovanni. Il 30 settembre seguente Corrado Clini, il ministro dell'Ambiente del governo Monti, ha dichiarato: “Non esiste l'intenzione di riaprire le procedure per il ponte sullo stretto di Messina, anzi al contrario, il governo vuole chiudere il prima possibile le procedure aperte anni fa dai precedenti governi, e per farlo deve seguire l'iter di legge” Il 10 ottobre il governo Monti, nella cosiddetta legge di stabilità, ha stanziato 300 milioni per il pagamento delle penali per la non realizzazione del progetto. Il 31 ottobre 2012 il governo Monti ha deliberato di prorogare, per un periodo complessivo di circa due anni, i termini per l'approvazione del progetto definitivo del ponte sullo stretto di Messina al fine di verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità. Antecedentemente era stata prevista, dalla Legge obiettivo, l'apertura della Conferenza dei servizi con l'approvazione entro febbraio 2012 del progetto definitivo da parte del CIPE e il contestuale avvio della gara per il reperimento dei finanziamenti, la stesura del progetto esecutivo e l'apertura dei cantieri principali preventivata a partire dalla metà del 2012. L'intento era quello di aprire l'opera al traffico nel 2019. Il 3 novembre successivo, la China Investment Corporation (Cic), fondo sovrano di Pechino, e la China communication and construction company (Cccc), si sono rese disponibili a finanziare l'opera. Con la Legge 221/12 - recante ulteriori disposizioni urgenti per la crescita del paese - viene disposto che Stretto di Messina S.p.A. e il general contractor Eurolink debbano stipulare un atto aggiuntivo al contratto vigente, alla luce della corrente situazione economico finanziaria italiana. Tale accordo, che avrebbe dovuto essere sottoscritto entro il 1º marzo 2013, pena la caducazione di tutti i rapporti di concessione, le convenzioni ed ogni altro rapporto contrattuale stipulato da SdM e la messa in liquidazione della società stessa non fu firmato. Conseguentemente alla mancata stipula dell'atto aggiuntivo, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, il 15 aprile 2013, Stretto di Messina S.p.A. viene posta in liquidazione con la nomina di un Commissario Liquidatore. Sempre per effetto della Legge 221/12, la Stretto di Messina S.p.A. sarà poi tenuta a indennizzare Eurolink tramite il pagamento delle prestazioni contrattualmente previste e già eseguite più una somma pari al 10% dell'importo di cui prima, il tutto stimato in 45 milioni di euro. Il 27 settembre 2016 il presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi rilancia l'idea della costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina per "togliere la Calabriadall'isolamento e far sì che la Sicilia sia più vicina"; secondo la visione di Renzi, il ponte potrebbe creare "100.000 posti di lavoro".

Localizzazione. Lo stretto di Messina è un braccio di mare a forma di imbuto che collega il mar Ionio a sud al Tirreno a nord. La larghezza dello stretto varia da un massimo di circa 16 km (all'altezza di Punta Pellaro in Calabria e Capo d'Alì in Sicilia) fino a un minimo di circa 3 km (tra Torre Cavallo in Calabria e Capo Peloro in Sicilia). Una distanza simile separa Cannitello da Ganzirri; in quel punto, lo stretto ha una profondità di 72 m (mentre in altri punti si toccano anche i 2000 m). Lo stretto è caratterizzato da forti correnti. Queste correnti fanno dello stretto un ecosistema molto peculiare, in cui trovano il proprio habitat specie animali e vegetali uniche per il Mediterraneo[senza fonte]. Altrettanto peculiare è il movimento di masse aeree al di sopra dello stretto, che rappresenta una rotta privilegiata seguita dalla maggior parte degli uccelli migratori.

Progetto della Stretto di Messina S.p.A.. La società Stretto di Messina S.p.A., costituita per legge nel 1981, iniziò la progettazione dell'opera acquisendo tutti gli studi precedenti resi disponibili, in particolare il progetto a campata unica di 3 300 m redatto dal Gruppo Ponte Messina S.p.A. Una costruzione di tale arditezza e complessità, senza precedenti al mondo, richiedeva necessariamente analisi specialistiche sulle varie componenti della struttura, prove in galleria del vento, prove su modelli, ecc. A tale scopo la Stretto di Messina S.p.A. incaricò oltre 100 professori universitari e ingegneri, 12 istituti scientifici e universitari nazionali ed esteri, 39 Società e associazioni nazionali ed estere. Questo enorme lavoro di ricerca teorica e sperimentale, nonché di progettazione, approdò nel 2002 all'attuale progetto preliminare che fu messo quindi in appalto. Esso porta la firma dell'ingegnere inglese William Brown, già progettista della Freeman Fox & Partners dal 1956 al 1985, e fondatore della Brown Beech & Associati, esperto di grandi ponti sospesi. Le analisi statiche, le ricerche teoriche e sperimentali, le progettazioni generali e di dettaglio, furono condotte dai seguenti professori italiani: Leo Finzi del Politecnico di Milano, Fabio Brancaleoni dell'Università di Roma, Stefano Caramelli dell'Università di Pisa e Piero D'Asdia dell'Università di Trieste. La dinamica della struttura per quanto riguarda le azioni del vento fu investigata da Giorgio Diana del Politecnico di Milano. Luca Sanpaolesi dell'Università di Pisa si occupò delle verifiche "a fatica" e relative sperimentazioni. Lo studio del tipo di calcestruzzo da impiegare nella costruzione fu compiuto di Mario Collepardi dell'Università di Ancona. Delle fondazioni del ponte si occuparono Michele Jamiolkowski del Politecnico di Torino ed Ezio Faccioli del Politecnico di Milano. Gli studi geologici furono affidati a Enzo Boschidell'Università di Bologna e a Icilio Finetti dell'Università di Trieste. Le analisi sismiche furono di competenza di Alberto Castellani e di Giuseppe Grandori, entrambi del Politecnico di Milano. Fu richiesto inoltre uno studio sulle probabilità di rischio e sull'affidabilità del progetto a Daniele Veneziano del Massachusetts Institute of Technology. Il progetto preliminare fu approvato da tutti gli Enti competenti (ANAS, Ferrovie dello Stato, Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, CIPE) anche con l'ausilio di Consulenti esteri. L'ultimo comitato tecnico-scientifico che approvò il progetto fu presieduto dal Prof. Remo Calzona dell'Università di Roma. Dopo l'aggiudicazione della gara di appalto al contraente generale Eurolink la responsabilità della progettazione definitiva ed esecutiva dell'opera è stata affidata ai seguenti soggetti dotati di notevole esperienza nel campo dei ponti sospesi:

Cowi A/S (Danimarca), progettazione strutture;

Dissing+Weitling (Danimarca), progettazione e design;

Buckland & Taylor Ltd. (Canada), progettazione strutture;

Sund & Bælt A/S (Danimarca).

L'attività di controllo, di verifica della progettazione definitiva, esecutiva e della realizzazione (Project Management Consultant) era stata affidata alla società Parsons Transportation Group (U.S.A.), anch'essa esperta nel campo dei ponti sospesi.

Appalto (decaduto nel 2013). Nell'ottobre 2005 l'Associazione Temporanea di Imprese Eurolink S.C.p.A. vinse l'appalto di contraente generale per la realizzazione dell'opera. L'Eurolink batté la cordata concorrente guidata dalla capogruppo Astaldi. L'offerta finale risultò essere pari a 3,88 miliardi di euro; prevedeva un tempo di realizzazione di 5 anni e 10 mesi. Il contratto di assegnazione fu firmato il 27 marzo 2006. Il contratto prevedeva il diritto di recesso senza penali da parte della Stretto di Messina S.p.A. nel caso in cui il progetto definitivo o quello esecutivo risultassero sostanzialmente differenti rispetto all'offerta presentata. Nel caso in cui il governo, una volta iniziati i lavori e aperti i cantieri avesse voluto recedere, questo avrebbe comportato il pagamento di una penale del 10% sulla parte non ancora realizzata dell'opera, non superiore ai i 4/5 del valore del contratto, di 3,9 miliardi di euro e pertanto non superiore ai 312 milioni di euro. Nel 2012, il governo Monti stanziò 300 milioni per il pagamento delle penali, e quindi la definitiva chiusura del progetto del ponte sullo stretto di Messina. In conformità alla Legge 221/12, il 1º marzo del 2013 il contratto di appalto è decaduto.

Caratteristiche del progetto della Stretto di Messina S.p.A. Il progetto preliminare elaborato dalla società concessionaria prevedeva il collegamento stabile tra Cannitello in Calabria e Ganzirri in Sicilia mediante la realizzazione di un ponte sospeso con due corsie stradali più una di emergenza per ogni senso di marcia e due binari di traffico ferroviario. Il progetto prevedeva una lunghezza totale dell'impalcato sospeso pari a 3 666 m[50] con una campata unica pari a 3 300 m. L'impalcato del ponte era previsto sospeso a quattro cavi d'acciaio del diametro di 1,24 metri e della lunghezza di 5 300 metri. I due piloni del ponte, alti 399 m (s.l.m.), posti sulle sponde, avrebbero superato il primato mondiale di altezza dei piloni detenuto attualmente dal Viadotto di Millau in Francia con 341 metri. Se fosse stato realizzato, il ponte avrebbe superato di gran lunga il primato di luce libera che attualmente spetta al ponte sospeso a tre luci giapponese di Akashi-Kaikyō (altezza dei piloni 283 m, lunghezza totale del ponte 3 911 m, campata centrale pari a 1 991 m). Il primato mondiale attuale della maggiore luce libera scavalcata per un ponte stradale e ferroviario spetta invece al Terzo ponte sul Bosforo; si tratta di un ponte strallato con la parte centrale dell'impalcato di tipologia ponte sospeso. La sua lunghezza complessiva è di 2.164 m con una luce di 1,408 metri[52]. È il più largo del mondo, nella sua categoria, con 59 m di larghezza. L'altezza delle torri è di 322 m. Vi passano 8 corsie autostradali, 4 per senso di marcia e due linee ferroviarie. Lo schema statico del progetto della Società concessionaria era quello classico dei ponti sospesi di tipo deformabile (senza travata irrigidente) con una catenaria fortemente ribassata (rapporto freccia-luce pari a 1/11). Un elemento di novità del progetto si poteva riscontrare nell'impalcato a tre cassoni (due per le carreggiate stradali e uno per i binari ferroviari), soluzione che offriva una ridotta superficie esposta al vento e un coefficiente di portanza molto basso minimizzando così, secondo alcuni solo in parte, i rischi di flutter (sventolio) e di galloping (galoppo). Secondo altri, invece, questa tipologia di impalcato avrebbe avuto comunque una rigidezza flessionale e torsionale pressoché nulla, rendendo l'impalcato troppo deformabile sotto l'azione dei carichi mobili (soprattutto per i treni ad alta velocità) e del vento. Infatti gli spostamenti massimi previsti dal calcolo, sia verticali che orizzontali, sono dell'ordine delle decine di metri. Le pendenze massime, longitudinali e trasversali, sono state calcolate rispettivamente pari a circa il 2% e il 10%, valori decisamente abnormi e difficilmente compatibili con la sicurezza. Il progetto era stato verificato per resistere ai terremoti fino a magnitudo 7,1 (pari a quello del terremoto di Messina del 1908) e per una stabilità teorica dell'impalcato con velocità del vento fino a 216 km/h. La capacità di smaltimento del traffico era stata calcolata in circa 6 000 – 9 000 automezzi all'ora e 200 treni al giorno. I lavori per la costruzione del ponte includevano, ovviamente, la realizzazione di collegamenti con le esistenti strutture viarie, ovvero l'autostrada Salerno-Reggio Calabria, la Messina-Catania, la Messina-Palermo e le ferrovie esistenti, la Tirrenica Meridionale e quelle per Palermo e per Catania.

Dibattito sul progetto.

Problemi ingegneristici. Il progetto di un ponte di tali dimensioni, senza alcun precedente al mondo, ha dato luogo ad un lungo e controverso confronto tecnico e scientifico, tra esperti, sulle diverse proposte presentate e sulla loro fattibilità. La lunghissima storia del progetto testimonia proprio questa intrinseca difficoltà dovuta alle eccezionali condizioni ambientali e alle prestazioni richieste al manufatto (fondali profondi, forti correnti marine, traffico marittimo intenso, zona altamente sismica, zona spesso ventosa, prestazioni di traffico stradale e ferroviario). Inoltre le normative di sicurezza, nazionali e internazionali, stradali e ferroviarie, risultano non adeguate a un'opera così fuori dall'ordinario. Dal punto di vista della fattibilità tecnica, nonostante i ripetuti pareri degli Enti competenti: ANAS, FS, Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, alcuni ingegneri continuano a nutrire delle perplessità sulla idoneità della soluzione a campata unica di 3 300 m andata in appalto e quindi ritenuta sicura.

In sintesi i principali problemi ingegneristici che pone una soluzione di tipo aereo (ponte sospeso) sono i seguenti:

Fondazioni in mare dei piloni. L'idea di realizzare due o più piloni nello stretto con relative fondazioni nelle acque profonde (> 100 m) è stata considerata, dalla società concessionaria (ma non dai progettisti che l'hanno proposta), di dubbia fattibilità. Questa presunta eccessiva difficoltà, unitamente all'innegabile vantaggio di non porre limiti alla navigabilità nello stretto offerto da una soluzione a luce unica, ha fatto propendere la scelta del concessionario su quest'ultima soluzione. Tuttavia, secondo alcuni, questa "soluzione" sarebbe stata il classico salto dalla padella alla brace, giacché realizzare una luce libera di 3.300 metri, con traffico ferroviario ad alta velocità, è un'impresa ancor più difficile.

Stabilità dell'impalcato sotto l'azione del vento. A ponte scarico l'impalcato deve risultare stabile nei confronti dei rischi di vibrazioni autoeccitate (flutter, distacco di schiere di vortici di von Karman, buffetting, ecc...) anche con venti molto forti. Per tali verifiche ci si avvale dei risultati dei test in galleria del vento.

Deformabilità laterale. In esercizio (a ponte carico), con venti moderati, l'impalcato deve essere sufficientemente rigido da poter consentire il traffico stradale e ferroviario, cioè le deformazioni laterali devono essere contenute entro limiti accettabili.

Deformabilità nel piano verticale. Le deformazioni dell'impalcato nel piano verticale, soprattutto per stese di carico non simmetriche, devono essere contenute entro i limiti adeguati per consentire il traffico ferroviario (generalmente si richiedono frecce massime inferiori a 1/500 - 1/1000 della luce).

Rigidezza torsionale. L'impalcato deve essere sufficientemente rigido a torsione per evitare eccessive pendenze trasversali incompatibili con l'esercizio stradale e ferroviario.

Costruibilità. Realizzare un'opera di dimensioni così colossali comporta problemi di costruibilità mai affrontati in precedenza con problematiche di sicurezza che devono essere garantite per ogni fase della costruzione.

Problemi sismici. Afferma Mario Tozzi: Reggio Calabria e Messina furono rase al suolo: è una buona idea quella di costruire proprio lì, il ponte a campata unica più lungo del mondo? Uno dei problemi che la costruzione pone è infatti quello sismico. Lo stretto di Messina è noto per essere una delle zone ad elevato rischio sismico del mondo: in esso ebbero epicentro i gravissimi terremoti del 1783, 1894 e 1908 che, accompagnati da violenti tsunami, ridussero Messina, Reggio Calabria e le città limitrofe ad un cumulo di macerie, causando imponenti cambiamenti idro-geologici alla regione. Il progetto del ponte, quindi, dovrà prevedere una struttura altamente resistente a scosse telluriche non inferiori all'ottavo grado della scala Richter, e costruita con possenti pilastri sistemati in zone esenti da rischio frana. Il "problema sismico" è uno dei principali problemi poiché secondo il progetto attualmente approvato, la resistenza sismica è assicurata per terremoti sino al settimo grado della scala richter. I ponti sospesi di grandissima luce sono per loro natura strutture antisismiche (e lo sono tanto più quanto più è grande la luce). Infatti sono strutture estremamente flessibili (con periodo di vibrazione dominante di decine di secondi) che non risentono, se non in misura minima e facilmente analizzabile in campo elastico, dei terremoti anche distruttivi. Esistono già molti ponti sospesi costruiti in aree ad altissimo rischio sismico (anche superiore a Messina): ad esempio, i tre ponti sospesi sul Bosforo, molti ponti cinesi e tutti quelli giapponesi. Quand'era ancora in costruzione, il Ponte di Akashi Kaikyō attuale ponte sospeso più lungo del mondo fu colpito dal terremoto di Kobe, di magnitudo 6,8 e che provocò oltre 6 000 vittime. Le due torri di sostegno, unica parte dell'opera a essere stata già costruita all'epoca, si spostarono di un metro l'una rispetto all'altra, e fu soltanto necessario riadattare in corso d'opera il progetto alla nuova lunghezza, ma non furono altrimenti danneggiate. Allo stesso tempo e a maggior ragione, bisogna tener conto del fatto che tali strutture presentano una campata massima notevolmente inferiore rispetto a quella allo stato proposta per il ponte sullo Stretto: il terzo ponte turco ha una luce di 1.408 metri, due terzi quella del ponte di Kobe.

Problemi ambientali. Come ogni grande opera dell'ingegno umano le grandi costruzioni creano un problema ambientale avvertibile già dall'inserimento dei cantieri; l'infrastruttura ultimata proprio perché grandiosa crea modificazioni sia ambientali che paesaggistiche. Nullo sarà l'impatto sulle correnti marine in virtù della campata unica, ma notevole sarà quello sulle correnti aeree data l'estensione in altezza dei piloni e di tutto l'impalcato del manufatto. I favorevoli all'opera sottolineano che la costruzione del Ponte diminuirebbe l'inquinamento marino e ambientale prodotto dal transito dei traghetti nello stretto. Il Ponte sarebbe poi un'opera maestosa, che darebbe prestigio all'Italia e sarebbe un'importante attrazione turistica. I suoi detrattori si rifanno a valutazioni di impatto ambientale o negano la fattibilità tecnica del ponte. I 65,41 metri di altezza del ponte risulterebbero insufficienti a consentire il transito nello stretto delle navi da crociera più imponenti, ostacolando il crocierismo che è una fonte importante di introiti per l'economia delle città dello Stretto; i 65,41 metri di altezza, tuttavia, sono riferiti al Franco minimo navigabile cioè la quota sul livello del mare dell'intradosso dell'impalcato inflesso (piegato) dovuto al carico massimo stradale sommato al massimo carico ferroviario. In condizioni normali, l'altezza dell'impalcato progettata è di 76 metri s.l.m.

Problemi dei trasporti. I favorevoli affermano che si tratterebbe di un'opera sociale, utile al rilancio del trasporto ferroviario tra la Sicilia e il continente, sia di merci che di viaggiatori, quasi del tutto svolto dai mezzi su strada. I fautori del progetto, che è parte importante dell'"Asse ferroviario 1" della Rete ferroviaria convenzionale trans-europea TEN-T, lo considerano un'importante infrastruttura in grado di promuovere il rilancio dell'economia delle regioni meridionali d'Italia e soprattutto della Sicilia, velocizzando innanzitutto il trasporto merci oggi affidato ad un gran numero di Tir (traghettati essenzialmente da navi private) che si instradano di massima sull'autostrada A3 (Salerno-Reggio Calabria) con aggravio di costi di trasporto, incidentalità ed inquinamento. L'utilizzo delle cosiddette autostrade del mare, navi che trasportano autocarri dalla Sicilia alla Liguria, presuppone anch'esso l'uso del trasporto su strada. Il ponte permetterebbe un risparmio di circa 2 ore nel trasporto ferroviario viaggiatori (il tempo mediamente impiegato per preparare un treno all'imbarco scomponendolo, traghettarlo e ricomporlo a destinazione). Il tempo relativo al traghettamento dei treni merci è variabile in quanto legato a differente logistica. Il Ponte, potenzialmente, rimuoverebbe l'ostacolo al proseguimento della rete ad alta velocità fino in Sicilia. L'attraversamento in auto permette di raggiungere l'altra riva in 20 minuti ai quali aggiungere l'eventuale attesa, che in alcuni periodi dell'anno può divenire consistente. Il costo è di circa 73 euro a/r per un'auto di piccola cilindrata (a meno di ritorno in meno di 3 giorni). I fautori del ponte sostengono che considerando le tariffe così alte, il ritorno dell'investimento del ponte sullo stretto sarebbe davvero veloce. Altre critiche mosse sono state la mancanza di un'adeguata rete stradale e autostradale di supporto in Sicilia.

Aspetti e problemi economici. Molti detrattori considerano l'opera inutile dal punto di vista economico, in particolare affermano che non si otterrebbero miglioramenti delle condizioni di trasporto merci e passeggeri da sud a nord in quanto le infrastrutture viarie della zona in atto sono estremamente carenti e recenti studi hanno indicato che il trasporto merci via mare verso i porti della Liguria risulta vantaggioso sotto molteplici aspetti. Molte critiche sono invece legate al costo di quest'opera. Viene fatto rilevare infatti che si potrebbe utilizzare questo denaro per modernizzare e rendere più efficienti le infrastrutture del sud Italia e che sarebbe inutile la realizzazione del Ponte dato che non sono presenti strutture all'altezza quali autostrade e ferrovie (a doppio binario) per poterlo raggiungere. I favorevoli controbattono il fatto che i fondi utilizzati per l'opera verrebbero per la maggior parte dall'ambito privato (il Ponte sarebbe infatti costruito con il metodo del Project financing il quale prevede che un privato costruisca un'infrastruttura con le proprie risorse, per poi poterne usufruire economicamente per un determinato periodo di tempo). La mancata realizzazione del Ponte dunque, libererebbe solamente le risorse stanziate dallo stato italiano, minoritarie rispetto ai finanziamenti comunitari, e ai fondi creati ad hoc dalla SPV (special purpose vehicle) da costituirsi all'uopo, da parte del soggetto vincitore dell'aggiudicazione dei lavori secondo la metodologia del "general contractor".

Contesto politico. Dopo l'annuncio, fatto da Bettino Craxi nel 1985, di prossima realizzazione del ponte, nei primi anni 2000 il ponte sullo stretto è entrato ufficialmente a far parte del programma, per le elezioni politiche del 2001, di entrambi i candidati alla carica di presidente del Consiglio, (Silvio Berlusconi e Francesco Rutelli); successivamente è stato inserito tra le grandi opere promesse dal governo Berlusconi II divenendo oggetto di rinnovate polemiche. Il progetto è stato accantonato dal governo Monti. Il 27 settembre 2016, nel corso dell'assemblea che celebrava i 110 anni del gruppo Salini-Impregilo, il presidente del consiglio, Matteo Renzi ha riproposto la realizzazione del Ponte affermando che porterebbe alla creazione di 100 mila posti di lavoro, data la portata dell’opera, con un impatto sulle economie regionali e locali assicurato, sia nella fase di cantiere che in quella successiva di gestione. Precedentemente anche Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti sotto il governo Berlusconi, aveva parlato di aumento occupazionale legato alla realizzazione del Ponte nella misura di 40.000 unità lavorative. Dello stesso parere l'ex presidente Anas, Pietro Ciucci, che considera l’opera strategica e di grande importanza per il Sud, visto che in 12-18 mesi potrebbe dare un grande contributo a investimenti e occupazione. Contro la tesi dell’aumento dei posti di lavoro si è scagliato il sindaco di Messina, Renato Accorinti. Secondo l'analisi del Centro studi per l'area dello Stretto di Messina “Fortunata Pellizzeri” e secondo Rete No Ponte, l'opera è inutile, provocherebbe una diminuzione dell'occupazione con la perdita di 1.100 posti di lavoro nel settore del traghettamento, a fronte delle 220 unità lavorative previste, secondo i dati raccolti, per la sua gestione continuativa.

Progetti diversi. Nel lungo corso della storia del progetto dell'opera furono proposte molte altre idee e progetti. Questi i più degni di nota:

La tesi dell'istmo. Nel 1957 si costituì a Palermo una Compagnia italiana per la congiunzione siculo-calabra (CO.SI.CA.), per lo studio di nuove soluzioni di allacciamento e presto presentava al presidente della Regione Siciliana il progetto di un istmo tra Ganzirri e Punta Pezzo. Il progetto si ispirava ad altre realizzazioni simili. Nel 1936 l'isola di Nordstrand era stata unita al continente mediante la costruzione di un istmo artificiale. Analogamente era stato fatto in California sullo stretto di Island e in Scozia per unire le isole Orkney e nell'allacciamento delle due sponde dello stretto di Canso, tra la Nuova Scozia e l'isola del Capo Bretone, inaugurato nell'agosto del 1955. L'originale progetto per lo stretto di Messina prevedeva la costruzione di un istmo lungo 3 400 metri costituito da un rilevato roccioso con le scarpate rivestite da elementi di grandi dimensioni, atti a resistere all'azione di onde e correnti. La diga, piramidale, sarebbe emersa di dieci metri sul livello del mare. In sommità, larga 30 metri, una linea ferroviaria a doppio binario, l'autostrada e una pista ciclabile. La congiungente Ganzirri-Punta Pezzo era stata scelta perché il fondale è una «sella» che separa i fondali marini della parte nord, che giungono fino a 285 metri, dai fondali della parte sud, la cui profondità massima è di 1 145 metri. Una «conca» navigabile, lunga mille metri circa e di larghezza e di profondità tali da essere navigabile con qualsiasi tipo di nave, con canali di accesso sulla sponda calabra, sarebbe stata scavata nel promontorio di Punta Pezzo. Gli oppositori del progetto affermarono che la proposta era irrealizzabile in quanto la chiusura murata dello stretto avrebbe intercettato l'imponente movimento d'acqua che si verifica periodicamente tra i due mari, con conseguenze imprevedibili e incalcolabili. E vi era chi faceva notare che non si può costringere l'intenso movimento di navi che percorrono lo stretto entro angusti limiti di passaggio;

Un tunnel a tubi sommersi e ancorati, che prevedeva di «mantenere costante il livello del tunnel contrastando la prevalenza della spinta idrostatica sul peso della struttura, sia a vuoto che a pieno carico, mediante cavi di acciaio in tensione ancorati sul fondo marino». (ing. Cristaldi);

Un ponte a sostegno idrostatico, costruito con travature e pile metalliche, scaricanti su puntoni galleggianti (ing. Saya);

Un tunnel realizzato con tubi sommersi e appoggiati su pile a scogliera alte circa 50 metri.(ing. Merlini);

Un progetto interessante dell'ing. Lombardi prevedeva "Un ponte a flessione sommersa e non emergente" che, non potendo né emergere, né affondare sarebbe libero dalle influenze dei moti sismici, della corrente e del vento. Si trattava di un ponte-tunnel lungo 3 300 metri, diviso in tre sezioni, di cui due di 1 500 metri ed una centrale di 300 metri posta in orizzontale a 25 metri sotto l'acqua. Il progetto è stato illustrato in un articolo apparso su La Sicilia il 1º maggio 1968. Il manufatto a sezione circolare con diametro di 32 metri prevedeva due gallerie inferiori parallele per la circolazione ferroviaria e due gallerie superiori per la circolazione veicolare;

Progetto più suggestivo, quello dell'ing. Massaro. Un tunnel sommerso a sagoma lenticolare idrodinamica, autoportante per il principio di Archimede, non legato al sottosuolo difficile e telluricamente pericoloso dello stretto, e ubicato dove il mare è più ampio e profondo e le correnti marine sono di minore intensità. Il ponte sommerso sarebbe stato retto in equilibrio da apposite isole galleggianti. Il tunnel sommerso avrebbe potuto essere costruito più a sud del porto di Messina, tra Fiumara di Gallico e Fiumara di Gazzi, distanti 8 100 metri e in una zona dove la profondità del mare è di 400 metri. Il progetto prospettava che la città di Reggio e la città di Messina sarebbero divenute una sola metropoli, nel cuore della quale il tunnel galleggiante sarebbe divenuto come il ponte che unisce due quartieri;

Un ponte-zattera del messinese Patané il cui progetto prevedeva un collegamento mediante un convoglio di bettoline pontate lunghe ciascuna un centinaio di metri e larghe cinquanta, capaci di sostenere su di una corsia di 10 metri i due binari ferroviari e in due da venti metri ciascuna le due corsie stradali. Il tutto attraccato a due piloni posti vicino alle due sponde e collegate a esse da due ponti girevoli in grado di consentire il traffico marittimo. Anche qui le stesse riserve di ambienti qualificati, circa le difficoltà di una navigazione di 30 000 navi all'anno vincolata in corsie direzionali e condizionata ai tempi utili dei ponti girevoli;

Negli anni ottanta fu presentato alla Società Stretto di Messina S.p.A. un progetto di notevole valore anch'esso di tipo sommerso redatto per conto della Metroroma, Società del gruppo Condotte d'Acqua - IRI – ITALSTAT da un gruppo di progettisti comprendenti Carlo Cestelli Guidi e Silvano Zorzi insieme a Ulrich Rinsterwalder, Alfio Chisari e a Ludovico Quadroni. Esso prevedeva una soluzione a travata continua sommersa su luci di circa 500 m, poggiante su pile anch'esse sommerse. La sezione trasversale del ponte era simile a quella del ponte di Archimede, cioè composta da un doppio guscio di acciaio riempito di calcestruzzo. Il ponte era progettato per essere equilibrato dalla spinta idrostatica equivalente al peso di tutti i carichi permanenti mentre avrebbe avuto un comportamento statico di trave continua per i soli carichi mobili (stradale e ferroviario) e per le incrostazioni che si sarebbero potute depositare sulla struttura. Il nome dei progettisti era garanzia di fattibilità;

Un altro studio di fattibilità, presentato nel 1997 dall'ing. Gilbo che prevede un attraversamento realizzato con una struttura modulare, costituita da tre ponti strallati con struttura tutta in acciaio, fondata su galleggianti sommersi e ancorati al fondo. I tre moduli da 1 100 metri, in catena cinematica, formano l'attraversamento stradale e ferroviario di 3 300 m.

Lo studio di fattibilità di Società Elettrica Italiana che prevede l'installazione di generatori eolici nei piloni del ponte.

Nel 2017 è stato proposto un tunnel, sotto le rocce del fondo marino, simile all'Eurasia Tunnel inaugurato a Istanbul nel 2016.

Il ponte sullo stretto di Messina nella cultura di massa. Un argomento importante come il ponte sullo stretto di Messina non poteva non essere oggetto di riflessioni, scritti, saggi, canzoni o aneddoti oltre che di studi tecnici o scientifici: Alcuni cantautori italiani, nel tempo, hanno citato il ponte sullo stretto di Messina nelle loro canzoni, si ricordano i seguenti:

1979: Vincenzo Spampinato nella canzone Elle («...e c'è chi dice che faranno il ponte sullo stretto... | se la Mafia approverà il progetto»);

2002: Samuele Bersani nella canzone Che vita! («Però sul ponte fra Messina e Reggio | gli operai a gettoni sono progettati dalla Sony | Alla mafia han dato in cambio un Tamagochi | e il monopolio nazionale | del settore videogiochi!»);

2002: Modena City Ramblers nella canzone La legge giusta («Un giorno sul ponte di Messina | Passeremo con le jeep | E ricorderai che non si scherza | con chi decide e chi comanda»);

2003: Elio e Le Storie Tese nella canzone Pagàno («Ricevi in omaggio un rarissimo bootleg | Di Cesare che | Ti insegna a costruire un ponte ... | Grazie, Giulio, di questa dritta per il ponte | Mi precipito a costruirne uno qui di fronte | Per unire sponde prima d'oggi irraggiungibili | Come sullo stretto di Messina | Approfitto del condono di Pompeo | Poi lo appalto all'amico Caio Voluseno | Per realizzare un sogno tipo quello di Fonopoli»);

2006: Casa del vento nella canzone Il grande niente («Niente | Come un ponte che allontana la gente | Dove manca tutto e qui non c'è niente | Fumo in faccia per il corpo votante»);

2006: Cortometraggio ironico NO TAV Le meraviglie del mondo! di Nicola Palmeri, con Nino Seviroli e la partecipazione straordinaria di Alberto Perino;

2007: Gabriele Savasta nella canzone "Il ponte sullo stretto" («Una banana di cemento tra Messina e lo stivale»);

2007: Jaka nella canzone Benvenuti in Sicilia;

2008: Daniele Silvestri nella canzone Monetine («Una monetina per la Cina | Una per il ponte sullo stretto di Messina | Sperando che il calore della terra siciliana | Possa sciogliere la nebbia fissa in Val Padana.»);

2008: Caparezza nella canzone La grande opera descrive un mondo in cui le grandi opere (non solo il ponte sullo stretto, ma anche la Tav in val di Susa e persino un surreale spazioporto in Puglia, che ha come fine ultimo il lancio della… cacca nello spazio) sono solo un mezzo per far vincere le elezioni al Fronte dell'uomo qualcuno. («Qui si punta a ponti da 3000 metri e rotti | buoni come soffitti tenuti con i cerotti | Esclusiva la villa abusiva a riva | se ti fidi di sta casta non ti si castiga | Il divino tomo dice che il condono arriva | noi bluffiamo solo se giochiamo la partita IVA | Viva la diga, iddio la benedica | ma non tratterrebbe nemmeno la mia vescica»);

2009: Nel film di Checco Zalone "Cado dalle nubi", si vede lo stesso Zalone in una scena del film, interpretare una canzone stile tarantella calabrese sul tema dello Stretto di Messina ma a sfondo sessuale; credendo di essere tra gente calabrese che festeggiavano il peperoncino verde, mentre invece era tra leghisti del nord, che quindi lo ricoprono di fischi.

Nel corso del 2002 il programma televisivo Mai dire Domenica ospitava gli interventi dell'ingegner Cane, personaggio di fantasia interpretato da Fabio De Luigi, un incompetente e ridicolo capo-progetto di un ponte sullo stretto di Messina. Il ponte è anche al centro della storia a fumetti Disney Zio Paperone e il ponte di Messina, realizzata da Giorgio Pezzin e Giorgio Cavazzano, e apparsa per la prima volta su Topolino n° 1401 del 3 ottobre 1982[71]. In essa, il «papero più ricco del mondo» decide di cimentarsi con la costruzione dell'opera: dopo aver visionato vari progetti fallimentari, tenta di risolvere il problema usando dei coralli che crescono a super-velocità, "allevati" da un pescatore locale. Nella scena finale del film Qualunquemente con Antonio Albanese, del 2011, l'uomo politico Cetto La Qualunque accenna al ponte sullo stretto durante un comiziotenuto sulla costa calabrese, mentre la telecamera inquadra, al di là dello stretto, il Pilone, Torre Faro e Ganzirri nel comune di Messina. Il personaggio vi accenna con una famosa battuta: Noi costruiremo un Paese nuovo, dove è possibile anche avere due mogli, anche non pagare le tasse: un Paese di pilu e cemento armato! E se il Ponte non basta, faremo anche il Tunnel, perché un buco mette sempre allegria: qualunquemente!

Bestiario del Ponte sullo Stretto: da Craxi a Renzi lo vogliono tutti, tranne gli italiani. Berlusconi fu uno dei fan più accaniti del Ponte, ma è in buona compagnia: Renzi prima diceva di preferire la banda larga al Ponte, ma poi si è ricreduto, forse convinto dal Ministro Alfano, scrive Lorenzo Giarelli il 28 Settembre 2016 su "L’Inkiesta". Stando agli annunci dell'ultima trentina d'anni, di ponti sullo stretto dovremmo averne cinque o sei, tutti fatti e finiti. Forse avrebbero anche nomi particolari. Un'idea, per esempio, la diede Stefania Craxi, che nel gennaio 2002 propose di intitolare il Ponte (uno dei tanti, si intende) al padre Bettino, padre della patria e dello stretto: “sarebbe un gesto simbolico di riparazione per l'ingiustizia subita”, disse, ricordando gli sforzi di Bettino nella costruzione dell'opera, quando nel 1985, profetico, diceva: “entro il 1994 il ponte sarà ultimato”. Il problema è che, per anni, al Governo c'era chi avrebbe anche potuto dar retta alla signora Craxi, invece di farsi una risata. Erano i tempi in cui il progetto volava, nel fiore del Governo Berlusconi. Il Ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, nel giugno del 2002, confermava: “il ponte sullo stretto questa volta si farà, lo garantiamo”. E se lo garantiscono, siamo a posto. Lo sappiamo poi com'è fatto Berlusconi: è un mago nel venderti nel cose, e infatti l'8 maggio del 2005 si gioca la carta pop: “Faremo il ponte, così chi ha un grande amore dall'altra parte dello stretto potrà raggiungerlo anche alle quattro di notte, senza prendere il traghetto”. Le elezioni del 2006 le vince Romano Prodi, che va vicino a far saltare definitivamente tutto in aria liquidando la società incaricata della costruzione. Lo fermano il centrodestra e l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, preoccupato dalle penali che lo Stato avrebbe dovuto pagare. In questo modo, però, Silvio avrà terreno fertile quando, nel 2008, tornerà al Governo. E' un escalation di proclami. Il nuovo Ministro dei Trasporti Altero Matteoli non vuole essere da meno del predecessore Lunardi, tanto che nel 2009 annuncia: “I lavori inizieranno a dicembre e termineranno nel 2016”. In questi giorni, in pratica. Non vedete? Due anni dopo, lo stesso Matteoli, evidentemente preoccupato dai primi due anni di lavori mancati, conferma: “A breve presenteremo il progetto definitivo”. Cambiano governi, parlamenti, costituzioni, ma il Ponte è lì, sempre pronto per essere costruito. Anche stavolta, però, il ponte non s'ha da fare. Arriva il Governo Monti, che di ponti non ne vuole sapere. Sembra tutto finito, ma nel Paese dei ponti viventi non bisogna mai abbassare la guardia. Nel 2013, in piena campagna elettorale, Berlusconi accende Palermo con una nota malinconica: “Ho sempre sognato di poter camminare sopra lo stretto di Messina prima di morire”. Il resto è storia recente, con Renzi e Alfano che ogni tanto lanciano frecciatine d'amore a chi sogna questa grande infrastruttura. Ma che diciamo “grande”, la “madre” di tutte le infrastrutture, come la definì nientepopodimeno che Totò Cuffaro, Presidente della Region Sicilia negli anni in cui il grande sogno sembrava realtà, poi condannato per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Eppure Matteo Renzi sembrava diverso. Nel 2010, quando fomentava l'Italia al grido della rottamazione, scriveva nero su bianco sulla Carta di Firenze di preferire “la banda larga al ponte sullo stretto”. Deve aver cambiato idea, perchè già il 6 novembre 2015 prometteva: “Il ponte sullo stretto di Messina si farà”. Forse intendeva dire che si farà contro la sua volontà, chissà. D'altra parte non è facile tenere a bada un Angelino Alfano scalpitante, che da anni porta avanti la battaglia per il ponte. Un anno fa, a settembre 2015, ospite ad Agorà su Rai Tre, assicurava che il ponte si sarebbe fatto, concetto ribadito nel marzo scorso. In tutto questo, a nessuno è mai passato per la testa che il Ponte sullo Stretto, o il Ponte Craxi, sia una delle opere più detestate dagli italiani, intesi proprio come tutte le generazioni di italiani che ne abbiano sentito parlare negli ultimi trent'anni. Eppure, ogni tanto, l'idea del Ponte salta fuori, ci rassicura, ci dice che cambiano governi, parlamenti, costituzioni, ma il Ponte è lì, sempre pronto ad essere costruito, per la gioia di tutti.

Cosa c’è da sapere sul ponte sullo stretto di Messina. La storia, il progetto e le critiche riguardo una delle infrastrutture più discusse d'Italia, scrive il 28 Settembre 2016 "TPI". Il 27 settembre 2016 il primo ministro Matteo Renzi ha dichiarato, intervenendo all’assemblea per celebrare i 110 anni dell’impresa edile Salini-Impregilo, che terminata la fase di approvazione delle riforme ci si potrà meglio concentrare nel concludere le grandi opere, tra cui “il grande progetto di quella che Delrio chiama la Napoli-Palermo, per non dire ponte sullo stretto di Messina”. Un’affermazione che ha riportato in auge il progetto che da tempo sembrava accantonato e che ha nuovamente aperto il dibattito pluridecennale tra i favorevoli e i contrari all’infrastruttura. Solo un anno prima, il 29 settembre del 2015, la Camera dei deputati aveva approvato una mozione del Nuovo Centrodestra che prende in considerazione la realizzazione del ponte sullo stretto di Messina a uso esclusivamente ferroviario. In quell’occasione il governo aveva reso noto, attraverso il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, che al momento non vi erano dossier aperti sull’opera. Lo stretto di Messina si trova nel mar Mediterraneo, dove collega lo Ionio al Tirreno e separa la Sicilia dalla penisola italiana attraverso una larghezza di poco più di tre chilometri.

La storia del progetto. La possibilità di unire la Sicilia alla penisola italiana è un tema che, per la sua importanza strategica, viene approfondito da secoli. Secondo quanto riporta Plinio il vecchio, ad esempio, i Romani realizzarono un ponte di barche per attraversare lo stretto di Messina dopo aver sconfitto i Cartaginesi a Palermo. Nel corso dei secoli, tuttavia, l’elevato livello sismico della zona, il fondale marino irregolare e le forti correnti marine dell’area hanno sempre fatto desistere da ogni tentativo di costruire il ponte. Solo nel Diciannovesimo secolo il re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone ebbe il via libera per la costruzione da una squadra di ingegneri e architetti che aveva nominato per l’occasione, ma in seguito agli alti costi di realizzazione decise di abbandonare l’idea. Con l’unità d’Italia, i primi governi del nuovo stato iniziarono a studiare la possibilità di un collegamento tra Calabria e Sicilia non per forza sotto forma di ponte, ma anche sotto forma di tunnel. “Sopra i flutti o sotto i flutti, la Sicilia sia unita al continente” disse, nel 1876, il futuro primo ministro italiano Giuseppe Zanardelli riguardo la possibilità di realizzare l’infrastruttura. Gli studi proseguirono, a fasi alterne, fino agli anni Trenta, ma né il ponte né il tunnel furono fatti, per via delle difficoltà del sito. Nel 1952 l’idea fu rilanciata grazie al progetto di ponte sospeso in tre campate dell’ingegnere David Steinman che prevedeva un piano per il passaggio delle automobili e un livello inferiore per quello dei treni. Su questo progetto si basarono i successivi studi che portarono, nel 1969, a un grande concorso di idee per la costruzione del ponte indetto dal ministero dei Lavori pubblici. Negli anni Ottanta arrivarono i primi passi concreti verso la possibilità di una realizzazione dell’opera. Nel 1981, infatti, l’Iri, l’Italstat, le Ferrovie dello Stato, l’Anas, la regione Sicilia e la regione Calabria costituirono la società concessionaria Stretto di Messina Spa, che da quel momento avrebbe gestito progetto, realizzazione e futuro esercizio del ponte. Nel 1984 il ministro per gli Affari del mezzogiorno Claudio Signorile annunciò che il ponte sarebbe stato realizzato entro il 1994, e l’anno successivo il presidente del Consiglio Bettino Craxi confermò gli intenti del ministro. Nel 1986 fu scelto di costruire un ponte che avrebbe attraversato lo stretto tra Messina e Villa San Giovanni attraverso un progetto a campata unica di oltre tre chilometri, un record per un ponte di questo tipo, ritenuto utile per permettere il passaggio a ogni tipo di nave, realizzabile dal punto di vista tecnico e anche economico. Dopo anni in cui si continuò a studiare la realizzazione del progetto senza tuttavia fare concreti passi avanti, nel 2001 il governo guidato da Silvio Berlusconi dette un forte impulso nel tentativo di costruire l’opera. Nel 2003 il progetto venne modificato leggermente e nel 2005 si arrivò per la prima volta alla gara d’appalto per realizzare il ponte, vinta da una cordata guidata dall’azienda Impregilo con un’offerta da 3,88 miliardi di euro. Tuttavia, lo stesso anno, la Commissione parlamentare antimafia rese noto al Parlamento che la mafia era intenzionata a mettere le proprie mani sulla realizzazione del ponte. Dopo una serie di rallentamenti, tra il 2009 e il 2011 è stata realizzata la deviazione della ferrovia tirrenica presso Villa San Giovanni, la prima delle opere propedeutiche alla costruzione, ma nel 2011, con il peggioramento della crisi economica in Italia e l’entrata in carica del governo guidato da Mario Monti, il progetto venne nuovamente accantonato.

Il progetto. Il progetto del ponte che è stato approvato nel 2003 collegherebbe Cannitello, frazione del comune di Villa San Giovanni, a Ganzirri, frazione di Messina, e prevede una struttura di 3,6 chilometri di lunghezza. Si tratterebbe di un ponte sospeso, con un’unica campata centrale di 3,3 chilometri che rappresenterebbe un record per un ponte di questo tipo, retto su due piloni alti 382 metri attraverso quattro cavi d’acciaio.

Le critiche al progetto. Il progetto del ponte sullo stretto di Messina è stato oggetto di numerose critiche di tipo diverso, che hanno contribuito in più occasioni a congelare la realizzazione effettiva dell’opera. L’area dello stretto di Messina è fortemente sismica, e le città di Messina e Reggio Calabria sono state pesantemente danneggiate dal terremoto del 1783 e da quello del 1908: in molti, a partire dal geologo Mario Tozzi, pensano che costruire un ponte che oltre tutto sarebbe il ponte a campata unica più lungo al mondo in questa zona potrebbe essere molto rischioso. L’attuale ponte più lungo al mondo, il ponte di Akashi Kayiko, in Giappone, si trova anch’esso in un’area sismica e fu colpito nel 1995 dal terremoto di Kobe, con il risultato che i due piloni subirono uno spostamento di circa un metro. C’è poi il timore, manifestato negli anni da diversi esponenti politici e dalla commissione antimafia, di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata nella realizzazione dell’opera, che vanno ad aggiungersi ai problemi di tipo economico, dal momento che l’opera avrebbe un costo potenziale estremamente elevato. Il ponte, inoltre, verrebbe a trovarsi in mezzo a un contesto di infrastrutture ferroviarie e autostradali assolutamente arretrate e insufficienti, come l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, che se non venissero modernizzate prima della costruzione del ponte lo potrebbero rendere una sorta di cattedrale nel deserto, circondata da linee di trasporti del tutto insufficienti. Ci sono poi le critiche tecniche al progetto, che come detto costituirebbe un record sotto diversi punti di vista e sarebbe, dunque, una struttura estrema. Un ponte di quella lunghezza a campata unica, che si regge su due soli pilastri, è infatti più sensibile a possibili danni, tanto più in una zona sismica e soggetta a venti molto forti, è considerato molto rischioso. Tuttavia, costruire pilastri poggiati sul fondale marino è anch’essa una procedura molto complessa in un’area soggetta a correnti marine particolarmente forti. Anche per questa ragione i progettisti hanno preferito una struttura a campata unica.

Il Ponte sullo stretto di Messina, un sogno vecchio 130 anni, dal primo progetto del 1870 al governo Berlusconi, scrive il 29/09/2015 "AdnKronos". E' un sogno vecchio di 130 anni e più, se proprio non si vuole andare indietro di due millenni, quello di collegare Scilla e Cariddi con un tunnel o un ponte. Il primo progetto era assolutamente avveniristico e prevedeva l'attraversamento dello Stretto di Messina con un tunnel sottomarino. A renderlo quasi 'fantascientifico' era la data in calce al progetto dell'ingegner Carlo Navone, il 1870. Eppure di unire Sicilia e Calabria non se ne parlò più per un secolo. L'idea si riaffaccia, infatti, negli anni '60, e, dopo le proposte, culminate nel Concorso di idee per il collegamento stabile tra la Sicilia e il Continente, nel '71 viene approvata una legge per la realizzazione dell'opera attraverso una società concessionaria. Dovranno passare 14 anni prima che venga affidato alla Stretto di Messina spa l'atto di concessione. Ma la macchina stenta a mettersi in moto e l'opera tra Scilla e Cariddi, fortemente voluta e al tempo stesso fortemente avversata, sembra destinata a rimanere un'utopia. Ma il dibattito è quanto mai vivace. A tal punto, che nei primi anni '90, si apre una accesa 'querelle' tra Iri ed Eni sul progetto di collegamento stabile sullo stretto. E alla holding di Via Veneto che vuole il ponte a campata unica (allora, c'era anche l'ipotesi della doppia campata), il gruppo energetico risponde con il tunnel sospeso (ma, anche in quel caso, era stata valutata anche l'ipotesi del tunnel subalveo). Nella disfida avrà la meglio il Ponte. La società Stretto di Messina predispone un progetto di massima, approvato con prescrizioni dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, nell'ottobre del '97. Dall'approvazione della legge sono passati 26 anni. Due advisor vengono quindi incaricati di compiere nuovi studi e il governo dispone un'indagine conoscitiva sulla bancabilità del ponte. L'indagine accerta la possibilità di un autofinanziamento parziale, ma con deroghe alla legge Merloni. Si arriva al 2001. Con il governo Berlusconi, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti avvia l'iter per l'approvazione della Legge Obiettivo che elimina i limiti che rendevano impossibile la concessione con autofinanziamento parziale (anche sotto il 50% e o per periodi superiori ai 30 anni). Nel corso del 2002, Stretto di Messina aggiorna il Progetto preliminare rispetto al progetto predisposto nel 1992, sulla base delle prescrizioni normative intervenute, in particolare in termini di sicurezza, nonchè delle deliberazioni assunte dal Comitato Tecnico Scientifico, istituito dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nel febbraio 2002. Nel gennaio 2003, Stretto di Messina approva il progetto preliminare del ponte e dei suoi collegamenti, con lo studio di impatto ambientale e la localizzazione urbanistica mentre prende avvio la procedura della Legge Obiettivo. Il 28 aprile l'assemblea degli azionisti approva l'aumento di capitale di 2.507 milioni di euro. Il primo agosto arriva dal Cipe il via libera al progetto preliminare del ponte e dei suoi collegamenti. A novembre viene firmato l'accordo di programma tra ministero delle Infrastrutture, ministero dell'Economia, Regione Calabria e Siciliana, Rete Ferroviaria Italiana, Anas e Stretto di Messina. Ad aprile 2004 viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana ed Europea il bando di gara per selezione General Contractor al quale affidare la realizzazione dell'opera mentre intanto il Parlamento europeo conferma l'inserimento del ponte sullo Stretto nella lista di opere prioritarie a livello europeo. Nell'ottobre 2005, l'associazione temporanea di Imprese Eurolink S.C.p.A., capeggiata da Impregilo vince la gara d'appalto come contraente generale per la costruzione del ponte con un'offerta di 3,88 miliardi di euro. Il 27 marzo 2006, Impregilo firma ufficialmente il contratto per la progettazione finale e la realizzazione dell'opera. Ma, pochi giorni dopo, arriva lo stop, con la vittoria del Centrosinistra alle elezioni. Il Governo Prodi blocca l'iter e il progetto del Ponte torna nel cassetto. Ma solo per poco. Il nuovo Governo Berlusconi, succeduto nel maggio del 2008 al Governo Prodi, riapre il dossier e annuncia di volere riprendere nuovamente l'iter del progetto di costruzione del ponte. A gennaio 2009 il Governo riconferma il suo impegno a realizzare l'opera i cui lavori avrebbero avuto inizio l'anno successivo, nel 2010, per concludersi nel 2016. Il 2 ottobre 2009 la Stretto di Messina S.p.A. impartisce al contraente generale l'ordine di inizio dell'attività di progettazione definitiva ed esecutiva. I primi cantieri, relativi ai lavori propedeutici, vengono avviati il 23 dicembre 2009 e consistono nella deviazione dell'esistente tratta ferroviaria tirrenica in corrispondenza di Cannitello, poco a nord di Villa San Giovanni, onde evitare le interferenze con il futuro cantiere della torre del ponte con analoghi lavori propedeutici sulla costa siciliana intrapresi nei mesi successivi. Ma poi arriva un nuovo stop e questa volta con il Governo Monti. Il 30 settembre 2012 Corrado Clini, ministro dell'Ambiente, dichiara: “Non esiste l’intenzione di riaprire le procedure per il ponte sullo stretto di Messina, anzi al contrario, il governo vuole chiudere il prima possibile le procedure aperte anni fa dai precedenti governi, e per farlo deve seguire l’iter di legge”. Il 10 ottobre 2012 il governo Monti, nella cosiddetta legge di stabilità, ha stanziato 300 milioni per il pagamento delle penali per la non realizzazione del progetto. Il 31 ottobre 2012 il governo Monti delibera di prorogare, per un periodo complessivo di circa due anni, i termini per l'approvazione del progetto definitivo del ponte sullo stretto di Messina al fine di verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità.

Breve storia del ponte di Messina, scritta da Davide Maria De Luca mercoledì 28 settembre 2016 su "Il Post". Comincia ai tempi delle guerre puniche e arriva a Matteo Renzi, passando per Carlo Magno e l'ingegner Cane.  Martedì 27 settembre il presidente del Consiglio Matteo Renzi è tornato a parlare del ponte sullo stretto di Messina, un’opera pubblica di cui si parla da decenni e che ciclicamente ritorna al centro del dibattito pubblico. Renzi ha parlato del ponte durante l’evento per celebrare i 110 anni dell’impresa di costruzioni Salini-Impregilo. Durante il suo discorso, Renzi si è rivolto ai manager della società e, a proposito dei lavori di costruzione del ponte, che in passato hanno coinvolto la stessa Impregilo, ha detto: «Noi siamo pronti». Proprio pochi mesi fa la società Stretto di Messina SPA, creata nel 1981 per iniziare i lavori di progettazione e oggi in liquidazione, ha compiuto 35 anni. Ma la storia del ponte sullo stretto è molto più antica. Aurelio Angelini, professore dell’Università di Palermo e autore di “Il mitico Ponte sullo stretto di Messina”, la fa cominciare ai tempi delle guerre puniche, 250 anni prima della nascita di Cristo. All’epoca, racconta il geografo greco Strabone, i romani costruirono un ponte di barche per portare sul continente un contingente di elefanti che avevano catturato ai loro nemici cartaginesi. Nei secoli successivi, re e imperatori accarezzarono spesso l’idea di unire la Sicilia al continente. Secondo una storia di cui non è chiara l’origine, ci pensò anche Carlo Magno, quando durante un viaggio in Calabria si accorse di quanto erano vicine le due sponde (di recente è stato proposto di intitolare il ponte proprio al primo imperatore del Sacro Romano Impero). Fino al Diciannovesimo secolo, però, nessuno pensò seriamente che fosse possibile costruire un ponte sopra i tre chilometri e trecento metri che separano Messina dalla costa calabrese. Poi, quindici anni dopo l’Unità d’Italia, la sinistra arrivò per la prima volta al potere portando con sé un piano di ambiziosi investimenti pubblici. Erano gli anni della rivoluzione industriale, quando poche cose sembravano impossibili per l’ingegno umano: alcuni pensarono che fosse possibile ricreare con i mezzi dell’epoca l’antico ponte di cui parla Strabone. E ricrearlo magari sotto le acque, depositando sul fondo dello stretto un lungo tubo d’acciaio in cui far passare i treni. Nel 1876 l’allora ministro dei Lavori pubblici, Giuseppe Zanardelli, dichiarò: «Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente». Concretamente non si fece niente, perché nonostante l’ottimismo di quegli anni costruire un ponte sullo stretto di Messina è molto difficile, anche per la tecnologia del 2016. L’idea comunque sopravvisse e continuò a intersecare ciclicamente i piani di sviluppo del Mezzogiorno. Il devastante terremoto di Messina del 1908 fece mettere da parte i progetti per qualche anno, ma nel 1921 si tornò a parlare dell’ipotesi di un tunnel sottomarino. Benito Mussolini parlò un paio di volte del ponte, ipotizzando di costruirne uno dopo la guerra. Altri progetti furono valutati negli anni Sessanta e Settanta. Poi, nel 1981, il governo Forlani creò la Stretto di Messina SPA. Nel settembre di quell’anno il presidente della società, Oscar Andò, ex sindaco di Messina e padre del sindaco dell’epoca, fece un primo sopralluogo sul sito dove si ipotizzava la costruzione e dichiarò: «Il consiglio di amministrazione, visionando le sponde dello stretto, ha voluto dare la dimostrazione che il progetto del ponte sta per entrare nella nuova fase preparatoria all’inizio dei lavori per realizzare la grandiosa opera». Non se ne fece niente. Non ci furono né cantieri né lavori e per i vent’anni successivi la società Stretto di Messina SPA continuò ad aggiornare i suoi progetti nel disinteresse dell’opinione pubblica. Come ha raccontato Leonardo Tondelli in un post sul suo blog, furono anni di importanti novità tecniche. L’idea di costruire un ponte a più campate venne definitivamente abbandonata. Lo stretto è così profondo, infatti, che è praticamente impossibile gettare nel mare i piloni di sostegno. Tra gli anni Ottanta e Novanta si decise che il ponte doveva essere costruito con un’unica campata, cioè senza sostegni nel mezzo. I progetti elaborati nel corso degli ultimi 20 anni immaginano una struttura unica al mondo: sul lato siciliano, vicino al paese di Ganzirri, dovrebbe sorgere sulla terraferma un pilone alto come la Tour Eiffel, 300 metri. All’altro capo dello stretto, un pilone identico dovrebbe fornire il secondo sostegno al ponte: un unico arco lungo tre chilometri. Come nota Tondelli, non sarebbe soltanto il ponte a campata unica più lungo del mondo, ma batterebbe il record attuale, detenuto da un ponte in Giappone con una campata di poco meno di due chilometri, del 42 per cento. Dopo un decennio di oblio, il ponte tornò improvvisamente sulle prime pagine di tutti i giornali durante la campagna elettorale del 2001, quando Silvio Berlusconi promise che avrebbe ripreso i lavori e che avrebbe terminato il ponte entro il 2012. Nel 2005 il consorzio Eurolink, composto tra gli altri dalla società Impregilo, vinse l’appalto per costruire il ponte e nel 2006 furono firmati gli ultimi accordi: il progetto era arrivato alla fase più avanzata della sua lunga storia. In pochi però credevano che ci sarebbero stati altri passi in avanti e il ponte divenne rapidamente oggetto di innumerevoli sketch comici. La ragione di questo scetticismo sono gli immensi ostacoli che la costruzione del ponte presenta ancora oggi, come le difficoltà tecniche, la sismicità della zona, i dubbi sulla sua utilità economica e i costi, stimati in più di sei miliardi di euro. Come molti avevano previsto, questi problemi bloccarono ogni ulteriore progresso. Il progetto fu fermato dal governo Prodi entrato in carica nel 2006, ci fu un tentativo di ripartenza nel 2008 con il nuovo governo Berlusconi, ma nel 2012 il governo Monti bloccò il progetto in una maniera che sembrò a molti definitiva. Nel 2013 la società Stretto di Messina SPA fu messa in liquidazione e da allora è gestita da un commissario. Nessuno sa con esattezza quanto sono costati questi decenni di progettazioni, studi e false partenze. Nel 2009 la Corte dei Conti ha stimato che soltanto nel periodo 1982-2005 siano stati spesi quasi 130 milioni di euro. Altre stime portano il costo totale a circa 600 milioni di euro. È una cifra che potrebbe quasi raddoppiare se lo stato dovesse perdere la causa con Eurolink, la società che aveva vinto l’appalto per la costruzione del ponte e che oggi chiede 790 milioni di euro più interessi come risarcimento danni. Molti pensano che il ponte di Messina sia soltanto una specie di chimera usata dai politici per raccogliere consensi in vista di importanti consultazioni elettorali. Oggi sul Corriere della Sera Sergio Rizzo scrive che «non sbaglia chi interpreta l’annuncio di Renzi a favore del Ponte come una mossa per recuperare terreno in vista del referendum sulla riforma costituzionale». Per una volta, però, nell’annuncio di ripresa dei lavori potrebbe esserci anche un’altra ragione. Quando ha detto che il governo «è pronto» a riprendere i lavori, Renzi era ospite di Salini-Impregilo, una delle più grande società di costruzioni in Italia. È anche una delle società che fanno parte del consorzio Eurolink, quello che a causa dello stop ai lavori ha chiesto 790 milioni di euro di danni allo stato. Esattamente due anni fa l’amministratore delegato della società, Pietro Salini, commentò così le voci su una possibile riapertura dei lavori: «Siamo disponibili a rinunciare alle penali se si fa il ponte? La risposta è “certo”».

Arriva l’ultimo no sul Ponte di Messina. Ma c’erano 10 buoni motivi per farlo…, scrive Luca Maureli venerdì 14 novembre 2014 su “Il Secolo d’Italia". La beffa del destino è che l’ultimo “no” al Ponte dello Stretto è arrivato da uno dei suoi più grandi estimatori, Maurizio Lupi, berlusconiano convertitosi al Ncd, che fino allo scorso anno si sperticava in lodi sull’opera battezzandola come “strategica per la Sicilia”. Dopo le polemiche sollevate da Sel su quella posta di bilancio della legge di Stabilità che stanziava fondi per tenere in vita il progetto, il ministro è stato costretto oggi a una smentita categorica: “Il capitolo Ponte sullo Stretto è chiuso perché lo ha chiuso qualcun altro. Le leggi in Italia si rispettano». Ma Lupi ribadisce, anche oggi, che quell’opera a suo avviso è “strategica”. Sottotitolo: nel 2012 la bloccò Monti, oggi Matteo Renzi non la vuole, nonostante nei fondi del Cipe le tracce “di vita” ci siano davvero, almeno quanto basta per rianimare l’opera soffocata nella culla. Mancano i soldi, come sempre. Ma mancavano anche quindici anni fa, quando Silvio Berlusconi ne fece una bandiera e mise mano ai progetti finiti nel cestino. Con tanti rimpianti. Se si fosse iniziato nel 2000, tra un anno e mezzo il Ponte sarebbe stato pronto. E magari sarebbe diventato il simbolo dell’Italia nel mondo, come accadde per la Torre Eiffel a Parigi, che fu costruita in occasione dell’Esposizione universale del 1889, come opera provvisoria, per poi diventare una delle dieci meraviglie del pianeta. 

1- Il valore architettonico e paesaggistico. L’architetto Daniel Libeskind, per intenderci, quello che ha rifatto Ground Zero a New York, parlava del Ponte sullo Stretto come di “una straordinaria connessione fra le due coste, che offre al contempo una nuova possibilità di sosta in un luogo straordinario, un luogo fatto di contemplazione ma anche divertimento, un oggetto che unisce, simbolizzando, la libertà di movimento”. Può bastare?

2 – Le ricadute economiche. La stima sul ritorno economico del Ponte parla di una media di 40mila unità occupazionali assunte ogni anno, con il coinvolgimento diretto o indiretto nella costruzione del Ponte di altre migliaia di unità lavorative nell’indotto. Su tutto il settore turismo, appalti ed edilizia, poi, il contributo al Pil, secondo gli advisor, si sarebbe attestato intorno ai 3 punti nel Mezzogiorno. Ma le stime risalgono a quando si cresceva ancora…

3 – I vantaggi per il trasporto. Secondo studi commissionati dalla società “Ponte sullo Stretto” rispetto ai 52.000 passeggeri che ogni giorno si spostano tra la Sicilia ed il continente, la quota potenzialmente attratta dall’attraversamento stabile è del 40% del totale. Di decine di migliaia di utenti l’anno è invece la previsione sul bacino turistico interessato dall’opera, sia dal punto di vista attrattivo che dei disagi, considerando le interminabili code per accedere ai traghetti.

4 – Il risparmio di tempo. Il Ponte di Messina sarebbe stata un’opera utile anche a rilanciare l’uso delle ferrovie in Sicilia, fortemente penalizzato dalla necessità di dover smontare i treni per varcare lo Stretto con una perdita di tempo di circa 90 minuti e con gravi disagi per i viaggiatori e deperimento delle merci.

5 . L’indotto sui trasporti del meridione. Il Ponte avrebbe contribuito al rilancio dell’economia delle regioni meridionali, velocizzandone il trasporto delle merci, oggi prevalentemente affidato ai Tir, che trovano nello Stretto e nell’imbuto della A3 due fattori di strozzamento.

6 – I benefici per il trasporto delle merci. Il trasporto ferroviario di merci rappresenta oggi una quota residuale a causa per i suoi lunghi tempi necessario per l’imbarco e lo sbarco dai traghetti. Con il Ponte la velocizzazione e il minori utilizzo delle navi sarebbe stata considerevole.

7 – I vantaggi per l’ecosistema. L’inquinamento marino e ambientale prodotto dai molti traghetti che attraversano lo Stretto di Messina si sarebbe notevolmente ridotto, con notevoli miglioramenti anche per il territorio circostante, per il quale era prevista una vasta opera di bonifica a carico dei privato.

8 – I record e il prestigio. La campata record del Ponte di Messina, avrebbe con i suoi 3.300 metri la più lunga luce, solo stradale, mai realizzata finora al mondo (1.991 metri Akashi Bridge) e del 65,74% rispetto al più grande ponte stradale e ferroviario fino ad ora realizzato (1.377 metri Tsing Ma Bridge).

9 – Un colpo alla mafia. Una delle principali motivazioni degli oppositori del Ponte è stata sempre quella delle infiltrazioni mafiose nell’opera. Legittima preoccupazione. Ma a questo punto perché fare il Mose, dove ci sono inchieste per tangenti, perché fare l’Expo, dove hanno dovuto inviare un commissario anti-corruzione a vigilare, perché non chiudere anche la Sa-Rc, aggredita dai mafiosi come fosse un cadavere da spolpare.  E perché non chiudere i bar di Roma e Milano “infiltrati” dalla camorra…

10 – L’ottimismo delle grandi opere. Visto che per fare la Tav lottiamo da dieci anni con un piccolo esercito di scalmanati, perché nessuno si è posto, politicamente, l’obiettivo di ridare fiducia al meridione provando a realizzare una grande opera condivisa e di cui andare orgogliosi in Europa, senza farci ridere in faccia, per una volta?

Il ponte di Messina ci vuole! Scrive Michele Fronterrè il 30/09/2015. Ventennio che vai, ponte che trovi. Si torna, dunque, a parlare del ponte di Messina. Ora, gli italiani sanno già che si tratta della conferma che Renzi è un cazzaro così come il suo predecessore, e come i predecessori prima di lui. Pensate che il primo articolo sul ponte di Messina è datato 5 Febbraio 1970. Lo vedete in foto. È un ritaglio che custodisco per i miei nipoti quando sulla poltrona che guarda allo Stretto da Scilla e non da Cariddi, loro verranno a dirmi entusiasti che fanno il ponte. E però non si può sorvolare. È cosa che rattrista profondamente. Perché quella del ponte è proprio l’opera che potrebbe rimettere in moto l’intero paese. Unire finalmente la Sicilia al resto dell’Italia, accelerando lo spostamento di persone e cose. Non esiste paese sviluppato che non abbia collegamenti ferroviari veloci. E non c’è paese che non abbia costruito il suo benessere attorno a grandi opere d’ingegneria. La Danimarca, che non è certo nota alle cronache per le infiltrazioni mafiose o per gli slogan di politici cazzari, sta per avviare il progetto di costruzione di un tunnel sottomarino che la collegherà alla Germania. Un’opera che al tempo che fu esteticamente magnifico, quello dei primi del novecento, avrebbe avuto uno come Stefan Zweig pronto a farne una miniatura storica come in effetti fece all’epoca del varo dei cavi d’acciaio imbibiti di guttaperca e che resero possibili le comunicazioni da una parte all’altra dell’Atlantico. Tutti i siciliani dovrebbero essere d’accordo a volere il ponte. E pretenderlo. Sul ponte la Sicilia e i siciliani sono chiamati a una prova di maturità. Dar vita a un movimento come i No Tav in Piemonte. Altrettanto agguerrito nel pretendere che i lavori inizino. Con tanti Erri de Luca pronti al carcere.

Un ponte che mai si farà. Si parla da un secolo di collegare la Calabria alla Sicilia e nessuno è mai riuscito nell’impresa. E’ una vicenda ricca di insegnamenti e aiuta a capire certe costanti, certi schemi di comportamento che in Italia si ripetono sempre uguali a se stessi, pur nel variare delle situazioni e dei protagonisti, scrive Angelo Panebianco il 9 ottobre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il governo Renzi ha scelto di investire risorse nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Se ne parla da un secolo e nessuno è mai riuscito nell’impresa. La vicenda del ponte è ricca di insegnamenti, aiuta a capire certe costanti, certi schemi di comportamento che, in Italia, si ripetono sempre uguali a se stessi, pur nel variare delle situazioni e dei protagonisti. Ci sono due domande che meritano di essere formulate.

La prima: perché nonostante l’enfasi posta sulla sua necessità, e le risorse periodicamente investite da questo o quel governo, il ponte non è mai stato costruito e, con ogni probabilità, non lo sarà mai? La seconda: perché il tema del ponte entra improvvisamente nell’agenda pubblica nazionale, e poi scompare per anni o anche decenni, riappare e scompare di nuovo? Rispondere (o tentare di rispondere) alla prima domanda può aiutarci a capire alcuni aspetti del complicatissimo e travagliatissimo rapporto fra la Sicilia e il resto del Paese. La fondamentale ragione per cui il ponte non è mai stato costruito è che i siciliani sono sempre stati divisi sull’argomento. Ci sono nell’isola, naturalmente, i favorevoli al ponte ma sono sempre stati numerosi anche i contrari. Non si capisce la Brexit se non si mette in conto il rapporto storicamente complicato fra le isole britanniche e l’Europa continentale. Allo stesso modo non si capisce l’opposizione di una parte non piccola dei siciliani per il ponte se non si considera che esso — in definitiva, una passerella che collegherebbe stabilmente, permanentemente, la Sicilia alla Calabria — sarebbe, psicologicamente, un vulnus per l’insularità. Ciò, nonostante il fatto che quasi sempre, se non sempre, quando si abbattono costi e tempi di trasporto di persone e merci (come fanno appunto i ponti), ciò ha, nel lungo periodo, effetti economici benefici per i territori interessati. Naturalmente, oltre alle divisioni dei siciliani, ha sempre giocato anche la scarsa disponibilità del resto del Paese a dirottare verso tale impresa le ingenti risorse necessarie. Le tradizionali obiezioni al ponte (rischi sismici, rischi di impatto ambientale) non sono mai state davvero dirimenti. Anche perché esistono i mezzi tecnici per ridurre quei rischi. Le ragioni autentiche dell’opposizione sono altre.

La seconda domanda a cui occorre rispondere è: da cosa dipende il movimento pendolare per cui il tema appare e scompare, viene rilanciato da un governo e poi bruscamente accantonato da quello successivo? La questione ha a che fare, prima di tutto, con il grado di centralizzazione del potere di volta in volta prevalente. In Italia alterniamo momenti in cui si afferma (o tenta di affermarsi) una leadership individuale, personale, in cui il potere si concentra, ad altri momenti, in genere molto più lunghi, in cui il potere è diluito, in cui le redini del gioco sono nelle mani di una oligarchia, di una ristretta aggregazione di ottimati. Dal movimento pendolare, dall’oscillazione fra il polo della leadership individuale e il polo del potere oligarchico–collegiale dipendono la comparsa e la scomparsa del ponte sullo Stretto dalla discussione pubblica. Quando si afferma una leadership individuale, il progetto riappare, quando quella leadership individuale viene sconfitta e sostituita da una oligarchia, il progetto viene di nuovo accantonato. Lasciando da parte (perché non c’entra niente) l’età fascista, restando al solo periodo democratico, sono stati favorevoli al ponte sullo Stretto, nell’ordine, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi. Lasciando agli stolti di sostenere che fra tali uomini politici non ci sia differenza, notiamo però che un elemento di somiglianza c’è effettivamente: sono tutti casi di leadership personali, individuali, uomini che gestiscono il potere in modo antitetico rispetto a quello che è proprio degli assetti oligarchico-collegiali. Non è un caso che tutti e tre siano andati incontro all’accusa di autoritarismo, all’accusa di volere imporre una tirannia, da parte dei fautori del potere oligarchico, da parte dei nemici delle leadership individuali.

Che cosa muove questi leader, che cosa li spinge a imbarcarsi in una impresa difficilissima, probabilmente disperata, come il tentativo di fare il ponte sullo Stretto? Due cose, forse. Da un lato, la volontà di legare la propria leadership a un progetto di modernizzazione del Paese, Mezzogiorno d’Italia incluso (e il ponte diventa un simbolo di questo progetto). Dall’altro, l’idea che, data la forza degli ostacoli, dato il volume di fuoco che è sempre in grado di scatenare l’artiglieria dei nemici del ponte, riuscire a costruirlo, nonostante tutto e tutti, sarebbe una indiscutibile dimostrazione di potenza. Lo sappiamo tutti, conta anche un’altra cosa: il ponte sullo Stretto è di destra. Come la mozzarella, si sarebbe detto un tempo. Il non-ponte, invece, è di sinistra. Come il gorgonzola. Oltre all’oscillazione fra leadership personali e leadership oligarchico-collegiali, anche gli alti e bassi dell’eterno conflitto fra le due fazioni contribuiscono a favorire il movimento per cui l’interesse per il ponte appare e scompare. Appare quando è in vantaggio la destra oppure quando, come accade oggi, c’ è un leader di sinistra «impuro» o anomalo, uno che cerca di rimescolare le carte, attirando dalla sua gli italiani della più varia provenienza politica. Scompare invece quando è in vantaggio la sinistra dura e pura (ma anche un puro potere oligarchico-collegiale come fu quello democristiano). Ma questo movimento non modifica di un millimetro la situazione: il ponte, quasi certamente, non si potrà mai fare. Se venisse costruito potrebbe destabilizzare, quanto meno nel medio-lungo termine, equilibri consolidati, indebolire gerarchie sociali, dinamizzare un mondo che chiede di restare immobile. Quel desidero di immobilità è più forte del ponte nonché di qualunque governo voglia costruirlo. Il futuro, naturalmente, è sempre imprevedibile ma gli scommettitori, se conoscono il loro mestiere, non possono che puntare sulla vittoria di quel desiderio di immobilità.

Il Ponte? Le balene sarebbero spaventate. Ambientalisti catastrofisti, scrive Giuseppe Cruciani su "L’Occidentale" 11 marzo 2009. “Salviamo i tonni e i pescespada, il mollusco Argonauta argo, il bivalve Pinna nobilis e le alghe Laminaria!”, disse un giorno allarmata la portavoce dei Verdi Grazia Francescato. “E poi c’è la direttiva Uccelli dell’Unione Europea”, intervenne in soccorso dei volatili minacciati dal mostro di cemento. Di più. “Morirebbero tutti!”, scrive la pasionaria Anna Giordano, storica protettrice dei rapaci dello Stretto. Che in una lettera spiega serissima di opporsi al ponte “…perché non muoiano migliaia di uccelli impattando con il ponte quando il vento, la nebbia, la pioggia, la stanchezza impediscono loro di evitare un ostacolo”. Già: che angoscia la stanchezza degli animali. Ma anche “le balene sarebbero spaventate dall’ombra del ponte”, si intristisce la medesima Giordano progettando una marcia per scongiurare lo scempio: l’infelicità dei cetacei. Come dimenticare poi una previsione buttata lì durante un convegno anti-ponte: “La cozza di Messina impazzirà”. Che fa immaginare un soccorso dello psicanalista per rimettere in sesto il prelibato mollusco. E ancora. Abbiamo sentito dire: il ponte crea disturbi psicosomatici, fa diventare sordi, prosciugherà le riserve idriche e i laghetti di Ganzirri, verrà spazzato via da terremoti e tsunami. Attenzione, hanno aggiunto altri: non si può fare perché Calabria e Sicilia si allontanano ogni anno di qualche centimetro! E i venti? Vogliamo mettere i venti? Bloccheranno il traffico anche per 200 giorni all’anno! Ma il ponte li fermerebbe, spiegò invece angosciatissima una tale Laura Corradi professoressa all’Università della Calabria capitanando l’ennesima protesta lungo la costa calabrese, “dunque ne risentirebbero le correnti che vanno a irrorare le grotte subacquee dove si riproducono alcuni tipi di flora e di fauna”. Ma il catastrofismo ambientalista non ha trovato argini. Durante le comunali messinesi del 2003 i Verdi locali distribuirono in tutta la città un volantino in cui si mettevano in guardia i cittadini dai seguenti terrificanti disastri: l’onda anomala dopo il crollo sommergerebbe le due coste; il mare si inquinerà; i pesci non si potranno più mangiare; le malattie tumorali aumenteranno; le spiagge saranno infrequentabili; i villeggianti scompariranno; migliaia di operai si spargeranno per anni nei vicoli a contatto con le vostre case; i materiali degli scavi verranno gettati nei fondali; la pesca morirà; e per chiudere in bellezza: diventeremo obiettivo di attacchi terroristici. Senza scordare un appello di svariate associazioni, firmato anche da Dario Fo e Franca Rame, che implorava l’Unesco, sì proprio l’Unesco, di occuparsi della faccenda perchè sarebbe in pericolo l’effetto ottico Fata Morgana, “per il quale ogni tanto le rive montuose appaiono sollevate dal mare e le coste deformate sono trasformate in fantastiche immagini sul cielo”.

Ecco, per anni l’opposizione ambientalista al ponte sullo Stretto si è alimentata di questo materiale. Superstizioni, goliardate, allarmismi, fesserie di ogni ordine e grado che hanno trovato ampio spazio sui media confondendosi con le analisi più serie. Una sorta di terrorismo verde. Fa impressione la lista interminabile di soggetti che negli anni hanno ingaggiato battaglia: Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Amici della Terra, Fai, Lipu, Arci, Forum del terzo settore, Gruppo Abele, Libera, Comitato per la Bellezza, il Comitato internazionale per il contratto mondiale sull’acqua, Attac Italia, Forum ambientalista, Cobas di tutti i tipi, la Cgil, Sinistra ecologista, il Comitato No Tav insieme al No Mose di Venezia e al Coordinamento valdostano contro il ritorno dei Tir, la rivista Nuova Ecologia, la Rete Lilliput. Ma ne mancano sicuramente tante altre. A dicembre del 2004 sfilarono tutti insieme al grido “no ponte” i comunisti italiani, il Sole che ride di Pecoraro Scanio, Rifondazione e l’estremista di destra Adriano Tilgher con le insegne del suo movimento. Per far capire ancora più chiaramente quale sia il modo di pensare, c’è il caso clamoroso di un personaggio molto noto nel mondo della televisione e della comunicazione: Mario Tozzi, geologo, membro del comitato scientifico del Wwf, conduttore di Gaia-Il pianeta che vive su Raitre. Insomma, uno di quelli che su certi temi fa opinione. Viene ascoltato. E va in onda sulla televisione pubblica pagata con i soldi dei contribuenti. Il pezzo forte del suo ragionamento è questo: “Un’isola, lo dice il nome stesso, è fatta per essere isolata”. Invitato a parlare del ponte il 21 gennaio del 2005 a una trasmissione sul canale Italia7 sostiene che “ormai abbiamo occupato tutta la superficie abitativa, gli uomini meno si muovono meglio è”. Dunque: il ponte non va fatto per impedire che la gente si sposti. L’intervistatore replica: “Ma allora l’isola di Manhattan?”. Tozzi: “Lì è diverso, quei ponti si sono fatti negli anni trenta e quaranta quando la gente era poca. Oggi invece siamo tantissimi”. Quello che risalta non sono le inesattezze (i ponti di New York furono costruiti alla fine dell’800 e Manhattan raggiunse il picco di residenti nel 1910 con 2 milioni e 300mila abitanti mentre oggi sono quasi un milione in meno) ma la sostanza. “Chi si prende la responsabilità di unire qualcosa che la storia naturale ci presenta divisa? – insiste il guru verde in uno scritto sul supplemento scientifico della Stampa - Quale giustizia ci manderebbe assolti dall’aver modificato per sempre uno spazio naturale, storico e mitologico che poteva essere goduto dai nostri discendenti così come era pervenuto a noi?”. La Sicilia, insomma, ha da restare isola. Pur di dare addosso al ponte di carta, va bene tutto. Roberto Brambilla della rete Lilliput, interpellato da Antonio Cianciullo di Repubblica per commentare un discutibilissimo studio sull’esaurimento delle risorse della Terra, non si fa sfuggire l’occasione: “Servono meno opere dannose come il Ponte sullo Stretto e più riforestazione per ridurre le emissioni serra e le frane”. Fine dell’articolo. Discorso chiuso: fare quel ponte è come mandare in malora il pianeta.  

E non si tratta certo di sparute minoranze. Di posizioni ai margini della società. Più o meno gli stessi argomenti sono stati utilizzati dai leader dell’ambientalismo politico nostrano. Al governo come all’opposizione. Già nel 1994 Carlo Ripa di Meana riesce a strappare a Berlusconi la promessa che il progetto non andrà avanti perché “è un assurdo ecologico, economico, militare”. Gianni Mattioli, invece, minaccia sul ponte una crisi di governo al giorno. Quando nel ’97 si parla di un possibile grande terremoto chiamato Big One che poteva toccare anche l’Italia si affretta a dire: “E noi vogliamo fare il ponte sullo Stretto?”. Diventato sottosegretario ai lavori pubblici nel febbraio ’98 sostiene che si tratta di “un’idea ottocentesca”, proprio nelle settimane in cui veniva aperto il ponte Great Belt in Scandinavia, l’anno dopo insiste che è “una scelta superata”, quando da mesi il traffico scorre veloce sul ponte sopra il fiume Tago in Portogallo costruito a tempo di record. La fissazione di Mattioli è il terremoto. “Non è stabile”, se ne esce nelle vesti di ministro delle politiche comunitarie del governo D’Alema, senza rendersi conto che in quello stesso periodo in Giappone il ponte sospeso di Akashi resiste al fortissimo sisma di Kobe. “I Tir? Mandiamoli in nave”, spiega un’altra volta cercando di bloccare l’avanzamento del progetto. E comunque “non ci possiamo permettere di costruire altre strade”. Diventa feticcio, il ponte. Non c’è portavoce, deputato, consigliere comunale dei Verdi che non lo metta al primo posto tra gli orrori da combattere. Abbatterlo diventa condizione sine qua non per gli accordi elettorali; sul destino del ponte si giocano le verifiche di maggioranza; si consumano guerre tra ministri come quella vittoriosa, ai tempi del primo Ulivo targato Prodi, del ministro dell’Ambiente Edo Ronchi contro il titolare dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro, col sostegno del leader di Legambiente Realacci. E nessuna occasione va sprecata per affossarlo, come accadde nel 2004 al parlamento europeo dove un blitz guidato dalla verde Monica Frassoni (insieme al diessino Fava e agli assenti della destra) fece cancellare provvisoriamente l’opera dalla lista dei finanziamenti prioritari; mentre la commissione di Bruxelles è stata invasa per anni di reclami verdi poi finiti nel nulla (compresa una procedura di infrazione per danni ambientali).  

Evocato come la quintessenza del male – speculazione, criminalità, devastazione del territorio – il ponte perde così agli occhi degli ecologisti le sembianze concrete di un progetto, di una semplice opera, per assumere quelle di un’idra pericolosissima. Succede quando l’ambientalismo da cultura al servizio dell’uomo assume le sembianze dell’estremismo religioso o della speculazione politica. E’ il caso, ad esempio, di Alfonso Pecoraro Scanio che aggiunge alla lotta senza quartiere un tocco clownesco. “Un affare colossale per la mafia e una perdita secca per il paese: meglio costruire le metropolitane ed acquistare migliaia di autobus rendendo le nostre città più pulite”, sentenzia dopo l’affidamento dell’appalto alla società Impregilo. Obiettivo nobile, senza dubbio. Il bello è che Pecoraro per raggiungerlo si oppone nello stesso tempo a inceneritori, discariche, rigassificatori e pale eoliche in tutta Italia. “Una grande buffonata” oppure “una grande truffa” sono le sue espressioni preferite sul ponte di Messina, gettate nella grande mischia delle dichiarazioni alla stampa, insieme a battute fulminanti studiate per i telegiornali: “se Berlusconi vuole un’altra costruzione abusiva si faccia una statua nel giardino della sua villa in Sardegna!”. Pecoraro a parte, non è certo campata in aria una riflessione sull’effetto di un’opera come il ponte sul paesaggio, che resta un asset fondamentale del nostro paese. La zona di Ganzirri in Sicilia e quella di Cannitello in Calabria sono indubbiamente di grande fascino e bellezza. Pure la società dello Stretto ammette, e non potrebbe essere altrimenti, che dopo la costruzione dei piloni e delle strutture portanti “l’area non sarà più la stessa”. Milioni di euro sono stati spesi per studi e monitoraggi sul cosiddetto “ecosistema” della zona: animali, piante, correnti, laghetti, lagune. A un certo punto però uno Stato serio prende una decisione. Sceglie. Cos’è più importante? L’equilibrio psicologico dei pesci oppure raggiungere rapidamente l’altra costa senza lo stress dei traghetti? La velocità di crociera dei falchi o quella delle macchine? La lentezza oppure la velocità di un treno che passa sopra il mare? La bellezza di un paesaggio o quella di un ponte? Le migrazioni degli uccelli o quelle degli esseri umani? Per gli irriducibili tutto deve rimanere fermo, immobile. Osvaldo Pieroni, professore universitario in Calabria, uno dei trascinatori storici dell’opposizione al ponte, scrive indignato sui giornali che la lentezza equivale “alla tenerezza, al rispetto, alla grazia di cui gli uomini e la natura sono talvolta capaci”. La lentezza “è una dimensione morale che induce un atteggiamento di disponibilità e favorisce la grazia e la cura. In essa è la capacità di apprezzare i luoghi e riconoscere l’altro, nella sua e nella nostra diversità”. Il ponte è dunque arroganza, razzismo, brutalità, maleducazione, cialtroneria. Si lamenta il Pieroni perché il ponte “farebbe risparmiare tempo, velocizzerebbe la circolazione delle merci, accelererebbe la realizzazione del capitale”. L’urgenza è la visuale: “Nelle foto virtuali il paesaggio dello Stretto è già stato cancellato, ancor prima che a coprirlo possa essere il Ponte. Non vi è traccia della sagoma dei Peloritani, dell’Etna, delle sponde della Costa Viola, della Laguna di Capo Peloro”. Volete mettere: “L’attraversamento in auto o in treno sarebbe come il passaggio attraverso un tunnel anonimo, dal momento che nulla resterebbe visibile ai lati protetti da paratie antivento”. Meglio le barche.

Ma l’estremismo ecologista funziona in modo strabico. Mentre il ponte di carta viene descritto come un’apocalisse non s’è visto nessuno indignarsi per l’inquinamento quotidiano dei ferryboat. Le navi inquinano più degli aerei, certificano studi internazionali? I motori gettano in acqua diesel, catrame, oli pesanti, carbone e porcherie varie? Viene provato che il ponte rispetto ai traghetti farebbe calare drasticamente i gas di scarico? Non importa. Il nemico rimane un nemico.

Nel giugno del 2003 viene approvato da una commissione del ministero dell’Ambiente lo studio di impatto ambientale. In soldoni: ci sono tutte le garanzie per la tutela delle zone dove verrà costruito il ponte. In un paese normale dovrebbe essere sufficiente. Ma la senatrice verde Anna Donati dice che “la commissione è addomesticata”. Roberto della Seta di Legambiente parla di un pasticcio e annuncia reclami al Tar e alla Corte di Giustizia Europea per ribaltare il verdetto, mentre la Lega per la protezione degli uccelli si mobilita in nome delle cicogne. I ricorsi vengono persi? Nessun problema: l’opera rimane una schifezza. Anche se persino il Consiglio di Stato ha messo nero su bianco, dati alla mano, che il potenziamento dei trasporti esistenti avrebbe ripercussioni ambientali maggiori del ponte.

Ancora. Nel progetto definitivo vengono stanziati più di 30 milioni di euro per controllare le ricadute dei cantieri sulle zone circostanti per un periodo lunghissimo (97 mesi). Si tratta di un monitoraggio ambientale continuo, minuto per minuto, su un’area molto più vasta dello Stretto vero e proprio. Però viene ignorato dai critici. Non c’è ragione che tenga. Prendiamo la questione dei terremoti. Il progetto passa l’esame di centinaia fra esperti, ingegneri, architetti e sismologi. Viene vagliato dai più grandi studi di progettazioni di ponti sospesi nel mondo, negli Stati Uniti e in Danimarca. Ne esce sempre indenne. La conclusione è univoca: il rischio sismico è inesistente. Meglio: è inferiore a quello delle costruzioni ordinarie nella stessa zona. “Le fondamenta sono state concepite con materiali in grado di resistere agli smottamenti delle coste franose della Sicilia”, spiega uno dei progettisti. Oppure la questione dei venti. Anche qui decine di simulazioni, anzi si può dire che il disegno del ponte sospeso più lungo del mondo sia stato disegnato con le prove nella galleria del vento del politecnico di Milano. Nella sua versione finale può resistere fino a venti di circa 90 metri al secondo per un totale di 300 km all’ora e le raffiche più potenti lo potranno spostare anche di 8 metri, ma la sua elasticità permetterà di assorbire senza danni la deformazione. Succede: son progressi dell’ingegneria.

Ma agli ambientalisti non basta. “Che ne sappiamo come sarà il prossimo terremoto?”, se ne esce Tozzi. “Il pericolo esiste”, continuano a sostenere dalle parti di Legambiente. E la giostra continua. In fondo, la fine del mondo è sempre possibile. “Ambientalista? Certo sì, se si precisa di quale ambientalismo si parla. Di quello prezioso e preciso o di quello solo negativo e catastrofico?”. Folco Quilici vanta un’etichetta: essere un ecologista favorevole al ponte sullo Stretto. “Se ben interpretato e utilizzato l’ambientalismo è una ricchezza, per la comunità; ma oggi agli occhi dell’opinione pubblica è visto ormai solo come forza negativa; un monotono “fronte del no a tutto”, causa il blaterare di molti senza precise, reali giustificazioni”. Da oltre quarant’anni lui racconta con immagini e testi, grandi momenti delle storia umana. Soprattutto mediterranea. Da giornalista e scrittore ha girato e studiato anche altre culture del mondo e sa come può essere difficile raccontare con verità e sincerità. E’ facile, invece, imbrogliare le carte. Come, ad esempio, demonizzare la costruzione del ponte dello Stretto, descrivendolo come un mostro di cemento ficcato a forza tra le bellezze di Scilla e Cariddi. “Chi vede questo contrasto – dice – è confuso da un’ideologia oppure è in malafede. Certo, non si nega che l’intervento dell’uomo possa essere devastante e distruttivo, occorre sempre vigilare perché non ci siano sconvolgimenti drammatici. Ma il compito di ogni persona saggia è di trovare un punto d’equilibrio. Bloccare gli ecomostri, senza paralizzare, a priori, talune opere se indispensabili e ben progettate”. Gli facciamo notare che al Sud (e non solo al Sud!) col cemento sono stati compiuti grandi misfatti ecologici e di gusto. “Questo però non significa ignorare che grandi artisti col cemento e l’acciaio hanno creato opere straordinarie e stilisticamente ammirevoli. Sarebbe certo da ribellarsi davanti a un disegno di un ponte con centinaia di piloni conficcati nello Stretto che avrebbero scombinato le correnti, la vita del fondo marino, ferito gravemente il panorama. Il progetto attuale, un ponte sospeso, così com’è stato concepito, ha una linea perfetta, armonica, disegnata sul paesaggio. E non sono certo solo io a dirlo. Le compatibilità di una grande opera, pubblica o privata con l’ambiente è ovunque un problema, ma questo dipende da come viene risolto, lo riconoscono anche gli ambientalisti più seri”. E precisa: “Il ponte come necessità non si può discutere; è l’unione e l’amore tra culture, civiltà. L’esatto opposto di un conflitto, è un atto di pace. Ricordiamo la distruzione del ponte di Mostar, in Bosnia, e a tutte le riflessioni che si fecero sull’interruzione non solo materiale, di un profondo rapporto tra due rive”.

I ponti, nella storia dell’uomo, sono stati sempre motori di sviluppo, simbolo di progresso. “Non simulacri fini a se stessi. Dei miei viaggi – racconta - conservo nella memoria l’immagine di un’ardita passerella creata con intreccio di liane, sospesa su un piccolo ma impetuoso corso d’acqua, in Amazzonia. E di un ponte ancora più miracoloso in una valle del Nepal, creato con coraggio per superare un precipizio e unire due villaggi. Comunità che sentivano la necessità, per svilupparsi, di vincere un ostacolo, mettersi in collegamento tra loro”. Il ponte, insomma, è un istinto puro. Necessità. “Sono sempre serviti per unire, per sviluppare, aumentare lo scambio di idee e prodotti. Allo stesso tempo sono un simbolo e una realtà di vita e di civilizzazione”, Quilici ama ricordare come Roma diventò Roma: “Nel tempo lontano della prima Italia sulle pendici di un rilievo viveva una comunità di pastori che s’era stabilità tra un colle, il Campidoglio, e un fiume, il Tevere, là dove le acque erano superabili in un difficile, pericoloso guado. Qualcuno dei locali, un giorno, propose di costruire un passaggio più sicuro con tronchi d’alberi. Trovò molto probabilmente ogni genere di opposizione; forse qualcuno disse che l’opera sarebbe costata troppa fatica, altri evocarono l’ira degli Dei perché s’osava sfidare la natura. Oppositori appoggiati dai più rozzi e incolti della comunità, dove però prevalse chi era favorevole. E il ponte si fece. Da quel giorno cambiò la vita di quella gente perché dal misero villaggio sarebbe poi nata Roma”. Chi si oppone a un ponte, secondo Quilici, ha una mentalità simile a quella che avevano gli oscurantisti nel Medioevo quando si pensava che costruirne un ponte fosse un peccato perché l’uomo non poteva unire quello che Dio aveva diviso. A lungo i costruttori di ponti considerati in Europa “creature del diavolo”, condannati da retrogradi che tentavano di proibirne la costruzione minacciando il taglio della testa e la perdita dell’anima a chi si fosse azzardato a violare quel tabù. Oggi simile barbarie suscita il riso. Eppure c’è ancora chi pensa che un’isola debba restare isola perché la natura così ha voluto.

Di simili assurdità, Quilici ne ha udite molte in questi anni di mobilitazione contro il ponte. “Come quella delle balene che si potrebbero spaventare per l’ombra del ponte. Oppure il problema di un blocco di flussi migratori in cielo, mentre il vero pericolo per gli uccelli che sorvolano lo Stretto sono sempre stati i bracconieri su una e sull’altra riva”. A stupire, anzi a indignare, Quilici è poi la constatazione che le associazioni che contestano non hanno intenzione di mettersi intorno a un tavolo e ascoltare chi può spiegare e poi discutere. Dicono no e basta. Ignorano sistematicamente tutto quello che lungamente, seriamente e da esperti internazionali è stato studiato e preparato per monitorare eventuali ripercussioni della costruzione sulle coste, sulla fauna, sulla flora. “All’estero grandi opere come il ponte di Kobe in Giappone e quello in Scandinavia, furono realizzate anche con l’apporto e la collaborazione, non l’ostilità, di importanti gruppi di ambientalisti, e potendo contare su loro critiche costruttive. Aggiungo poi che non capisco perché in casa nostra nessuno dei supposti difensori della natura grida allo scandalo per le decine di traghetti fatiscenti che ogni giorno attraversano lo Stretto, inquinandolo con i loro scarichi. Perché su questo problema mai fu indetta una mobilitazione?”. Cosa significa un collegamento stabile tra Sicilia e Calabria per Folco Quilici? “Per me è il compimento dell’Unità d’Italia, il legame definitivo con l’Europa. Un nervo fondamentale, una vena, parte di un sistema essenziale che va dall’estremo nord all’estremo sud del continente e non si capisce perché dovrebbe venir mozzato alla fine. Avrà la stessa importanza e lo stesso significato dei trafori alpini”. Se gli si chiede se è ottimista o pessimista sul destino di questa grande opera, Quilici risponde con un ricordo. “Quando per la prima volta venni a Roma nel ’39, mio padre mi portò a vedere il cantiere della metropolitana che andava da Termini all’Eur, che allora si chiamava E42. Su quella metropolitana finalmente funzionante sono però salito solo molti decenni dopo… Beh, abituato come sono all’immobilismo italiano, sono certo che il Ponte si farà, ma non altrettanto sicuro di riuscire a vederlo…”.

Il libro di Giuseppe Cruciani: Quel ponte non s'ha da fare Lo stretto di Messina e le opere incompiute che bloccano l’Italia.

251 a.C.: il console Lucio Cecilio Metello unisce Calabria e Sicilia con un sistema di zattere galleggianti. Un ponte provvisorio per elefanti, carri e soldati. 

1870: l’ingegnere Carlo Navone progetta un tunnel ferroviario. Solo quattro anni di lavoro e otto chilometri di binari sottomarini per collegare Reggio e Messina. 

2008: se ne sono occupati 33 governi, 234 ministri e sono passate 12 legislature. Un quintale di documenti e 160 milioni di euro spesi. Lo hanno promesso tutti: Mussolini, Craxi, Prodi e Berlusconi. Ma del ponte nemmeno l’ombra. 

Cosa saranno mai tre chilometri? Passeggiando in tutta tranquillità, si percorrono in meno di tre quarti d’ora. Eppure è dalla notte dei tempi che tre chilometri di mare tengono lontana la Sicilia dal resto d’Italia. File interminabili per imbarcarsi sui traghetti, disservizi e ritardi da record: ecco come tre chilometri si trasformano in un’avventura costosa. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare del Ponte sullo Stretto, definendolo ogni volta in un modo diverso: grande opera, ecomostro, segno del progresso, favore alla mafia, simbolo di rinascita... Mille e più attributi che hanno alzato un inutile polverone attorno a un progetto considerato l’emblema di un Paese immobile. Con Questo ponte s’ha da fare, Giuseppe Cruciani svela impietosamente scandali, cifre e retroscena dell’Italia dei cantieri bloccati, dall’autostrada Tirrenica alla metropolitana di Roma, dai treni ad Alta Velocità alla Salerno-Reggio Calabria. Ma nella classifica delle opere incompiute, il ponte resta al primo posto: la società Stretto di Messina è nata nel 1971, da allora sono stati spesi fiumi di denaro da governi di qualsiasi colore, con l’unico risultato di aver accatastato una montagna di progetti e documenti. Oggi continuiamo a chiederci se vale la pena di affrontare questa impresa, trascurando un dato incontrovertibile: tornare sui nostri passi costerebbe molto più che portare a termine il lavoro. E’ ora di accettare questa sfida, non tanto per scrivere l’ultimo capitolo dell’unità d’Italia, ma per far sì che tre chilometri tornino a essere tre chilometri. Per chiunque.

Il Ponte? "Certo che si farà". Non solo la promessa di Matteo Renzi. Perché battersi per collegare Sicilia e Calabria rimane sacrosanto. La storia di un’idea raccontata da un protagonista. Una rivoluzione per ambiente, cultura ed economia, scrive Francesco Forte il 6 Novembre 2015 su "Il Foglio".  Matteo Renzi è stato chiaro nell'ultimo libro di Bruno Vespa parlando del Ponte sullo Stretto di Messina. "Certo che si farà", ha detto. Aggiungendo poi: "Prima di discuterne sistemiamo l’acqua di Messina, i depuratori e le bonifiche. Poi faremo anche il ponte, portando l’alta velocità finalmente anche in Sicilia e investendo su Reggio Calabria, che è una città chiave per il sud. Dall’altra parte dobbiamo finire la Salerno Reggio Calabria. Quando avremo chiuso questi dossier – prosegue Renzi – sarà evidente che la storia, la tecnologia, l’ingegneria andranno nella direzione del ponte, che diventerà un altro bellissimo simbolo dell’Italia.

Provochiamo. Se ci fosse il ponte sullo Stretto di Messina, la rottura dell’acquedotto comunale messinese non avrebbe effetti drammatici per i cittadini. L’acqua, con il completamento del bacino del Menta idrico e idroelettrico previsto per il 2016, potrebbe arrivare copiosamente a Messina da Villa San Giovanni col servizio idrico della società dello Stretto. Non solo con autocisterne d’emergenza ma soprattutto strutturalmente tramite una tubatura a fianco del ponte nella quale scorre l’acqua dell’Aspromonte. Sulla carta Messina e Reggio Calabria già costituiscono la “città metropolitana” dello Stretto, ma non lo sono nella realtà, dal punto di vista della unitarietà delle infrastrutture e dei servizi pubblici. A ciò non bastano i traghetti, che attualmente operano come servizio pubblico di merci, passeggeri e automezzi e treni, con sovvenzioni statali e inquinando l’ambiente marino e il terreno con i loro rilasci. Le tubature e i cavi telefonici connessi al ponte, il traffico automobilistico e ferroviario e l’elettrodotto, sono essenziali per dare vita al modello urbanistico integrato di città metropolitana dello Stretto nonché per lo sviluppo turistico e per i trasporti mediante il collegamento con la Sicilia.

I pedaggi sono la base economica con cui il ponte si potrebbe autofinanziare. Sono lieto che il ponte sullo Stretto sia tornato nel dibattito pubblico e parlamentare. Il progetto di cui si torna a parlare è quello voluto da Silvio Berlusconi, innovatore lungimirante. Sono soprattutto persone del nord d’Italia che hanno propugnato questa idea. Tutt’ora a battersi per il ponte è soprattutto un onorevole di Torino, Mino Giachino, un allievo di Carlo Donat Cattin, responsabile Trasporti di Forza Italia, che ha – come me – il chiodo fisso delle grandi infrastrutture. E una ragione c’è. Per quel che mi riguarda si tratta della teoria delle infrastrutture di Luigi Einaudi e di Benvenuto Griziotti, sviluppata da Vanoni con il suo piano lodato da Einaudi. Nella concezione di Einaudi le infrastrutture generano crescita. La tesi di Griziotti è che esse suscitano sviluppo anche perché trainano la domanda di lungo termine e contengono innovazione. Ugo La Malfa nel suo disegno di programmazione per il centrosinistra del 1961, basato sui tre squilibri, fra consumi privati e pubblici, su industria e agricoltura e su nord e sud – ha ripreso il tema, aggiungendovi la formazione del capitale umano mediante più spese per ricerca e istruzione e le retribuzioni legate alla produttività. Nel piano spuntavano anche gli incentivi all’industrializzazione. Ma in quel disegno “lamalfiano” non c’era il ponte sullo Stretto, che a me pare un grosso incentivo allo sviluppo industriale, dato che riduce drasticamente i costi dei trasporti, se è collegato alla modernizzazione ferroviaria e stradale. Il ponte è emerso nella programmazione economica dei socialisti e dei democristiani riformisti a metà anni 60, assieme alla teoria della città metropolitana.

Il ponte sullo Stretto e la metropoli Reggio Calabria-Messina compaiono nel “Progetto 80” del ministero del Bilancio e della Programmazione economica nel periodo 1966-’69, in cui il ministri furono Gaetano Pieraccini del Psi ed Emilio Colombo, Dc. Il “Progetto 80”, che costituiva le “Linee Preliminari del Programma Economico Nazionale 1971-’75”, veniva elaborato da un gruppi di economisti, giuristi, urbanisti del Centro studi e piani economici, diretto da Franco Archibugi, di cui io allora facevo parte. Promotore del progetto era Giorgio Ruffolo Segretario generale della Programmazione economica. Il “Progetto 80” fu terminato nel 1971, con ministro del Bilancio Luigi Preti e Mariano Rumor presidente del Consiglio. Ma il Consiglio dei ministri non lo approvò. Il ponte sullo Stretto e la relativa città metropolitana rimanevano dunque sulla carta. Il governo Colombo, succeduto nel 1970 al governo Rumor, con Antonio Giolitti ministro del Bilancio, nel 1971 li ripescò creando la Società dello Stretto Spa, con il compito di indire un concorso per i progetto del ponte; “aereo” o sotterraneo, stradale e ferroviario o solo l’uno o l’altro. Negli anni successivi, i governi del compromesso storico e di solidarietà nazionale non diedero attuazione alle gare, perché contrari alle grandi opere e, in particolare, al ponte avversato da architetti ambientalisti e dai Verdi, ideologicamente nemici “dello sviluppo neocapitalistico”.

Prevaleva per il sud la politica dell’industrializzazione forzata. Le infrastrutture “vanoniane” e i salari legati alla produttività “lamalfiani” erano passati nel dimenticatoio. Il progetto del ponte riemerse nel 1981 con il primo governo di centro sinistra degli anni 80, presieduto da Arnaldo Forlani, che, con ministro delle Partecipazioni statali Nicola Capria craxiano, creò la Società concessionaria dello Stretto di Messina, per il 51 per cento del gruppo Iri, e per il 12,25 per cento ciascuno di Anas, Ferrovie dello stato e regioni Sicilia e Calabria. Nel 1984 il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, impegnò il governo a una rapida realizzazione del ponte, con il progetto basato su un’unica campata. Questo, in effetti fu discusso e approvato dal governo Craxi nel gennaio 1987. Allora, Romano Prodi presidente dell’Iri fu d’accordo. Il progetto definitivo è del 1992.

Il ponte sospeso è lungo 3,3 chilometri, con una sola campata. Il record finora, per questa tipologia, è di un ponte giapponese di 2 chilometri. Ma il Parlamento non lo approvava. Io lo avevo invece proposto, a scrutinio palese, con il consenso della maggioranza. Poi però, a scrutinio segreto, veniva bocciato. La società dei traghetti avrebbe perso la sovvenzione per questo servizio e avrebbe dovuto cercarsi un’altra attività. Nel segreto dell’urna alcuni la assecondavano. Il governo Berlusconi ha rilanciato il progetto nel 1994. Ma bisogna aspettare il nuovo governo Berlusconi del 2005 per l’appalto, vinto da Impregilo, con il progetto attuale e stradale e ferroviario, poi bloccato dal governo Prodi. Il costo del progetto è 4,694 miliardi di euro del 2002. Il successivo governo Berlusconi ha ripreso il progetto, poi definitivamente bloccato dal governo Monti nel 2012, con l’argomento che il costo era salito a 6,6 miliardi a causa dell’aumento del tasso di interesse e quindi probabilmente si sarebbe dovuto accrescere il contributo pubblico, in precedenza previsto già nella rilevante cifra di 1,8 miliardi per quindici anni. Ma metà della sovvenzione pubblica era coperta dal contributo della Comunità europea per le grandi opere di interesse europeo. Inoltre, lo stato avrebbe risparmiato sia il contributo alle società di traghetti per il trasporto di merci e passeggeri nello Stretto, sia quello alle Ferrovie per il trasporto dei treni sui traghetti. Il tasso di interesse in euro era alto alla fine del 2011. Ma quando Monti bloccò il progetto esso stava scendendo, perché la Banca centrale europea aveva iniziato la sua politica monetaria non convenzionale, basata sull’acquisto massiccio di obbligazioni garantite e aveva abbassato il suo tasso di riferimento. Alla fine del 2012, questo era oramai a zero.

Gli argomenti finanziari per il blocco del progetto diventano sempre più deboli col passare del tempo. Infatti, l’Italia ha perso il contributo comunitario per i finanziamenti dell’opera. Lo stato è gravato da una causa per danni per rottura del contratto da parte della società concessionaria del ponte. Un governo guidato da criteri di finanza pubblica conforme al mercato che ritenesse questo progetto troppo costoso per l’erario, potrebbe ridurre il contributo statale, lasciando libera la società concessionaria di finanziarsi diversamente. E invero ora il tasso di interesse di mercato si è di molto ridotto, mentre il Quantitative easing (allentamento quantitativo) della Banca centrale europea consente l’acquisto di titoli obbligazionari di società pubbliche o para-pubbliche. Al tasso di interesse del 6 per cento i ricavi capitalizzati al presente dei pedaggi per il ponte, per una concessione ventennale, che inizi a operare fra otto anni sono, nell’ultimo anno, lo 0,17 per cento del loro valore effettivo. Al tasso di interesse del 3,5 salgono allo 0,35. Inoltre costi capitalizzati di un euro di lavori di costruzione del ponte durati 8 anni, al tasso del 6 per cento aumentano nell’ultimo anno a 1,79 mentre al tasso del 3,5 aumentano solo all’1,36. In realtà lo stop era ed è dovuto alla ostilità per le grandi opere, sorrette da deboli motivazioni ambientaliste. Si sostiene che il ponte, con l’altezza di 400 metri delle Torri che lo sorreggono, deturpa il paesaggio. Ma esso, come ognuno può vedere è, in sé, una creazione artistica che piuttosto crea una nuova magia nel paesaggio. Mi piacerebbe che i fari di notte lo illuminassero, a turno, con luci di colori diversi e che si facessero concorsi per dipingere murales sulle sue fiancate. Dal lato di Reggio metterei, all’inizio del ponte, di fianco alle Torri, la copia dei due Bronzi di Riace. Sul lato di Messina, invece, le statue di Lentisco e Simmaco, i due atleti messinesi che avevano vinto le Olimpiadi, uno nella lotta libera e l’altro nella corsa. La notte i fari, con colori diversi, possono illuminare il ponte. Secondo gli ambientalisti, il fatto che le navi debbano passare sotto il ponte, nel canale centrale, ove è garantita una altezza di 65-70 metri turberà i pesci, che nuotano nello Stretto. Ma i traghetti che ora li infastidiscono e alterano la flora e la fauna marina, con le loro polluzioni, diminuiranno. Questo nessun miope ambientalista è in grado di notarlo, ovviamente. Il ponte è in realtà un beneficio per l’ambiente, anche dal punto di vista del risparmio energetico.

E’ anche possibile prevedere che ci sarà un grande afflusso di turisti per ammirarlo. La Tav diventerà d’obbligo da Salerno a Palermo. La viabilità siciliana avrà nuovo impulso. La città metropolitana Messina-Reggio diventerà una grande realtà urbanistica, economica, culturale, turistica, terziaria. La ’ndrangheta calabrese e la mafia siciliana perderanno il controllo del loro territorio, perché il ponte genererà mobilità e modernità. Lo perderanno, il controllo, anche i politici clientelari, i bottegai e gli intellettuali, gelosi delle loro aree di influenza. La Germania dell’Est, che era il “Mezzogiorno tedesco”, si è sviluppata e industrializzata con le due politiche, fra loro interdipendenti delle infrastrutture e dei salari legati alla produttività locale e aziendale. Il ponte significa “libertà di scelta”, ovvero civiltà del 2000.

L’ETERNA LOTTA. 16 associazioni a favore del Ponte: “Accorinti non rappresenta il pensiero dei messinesi”. Rete civica per le infrastrutture nel Mezzogiorno, Cisl, Uil, Confcommercio, Ance, Acli, Mcl, Reset, Cittadinanzattiva, Mondo Nuovo, Riabilitiamo Messina e gli ordini professionali di ingegneri, architetti, geologi, avvocati e commercialisti, chiedono con forza la realizzazione del Ponte sullo Stretto e si scagliano contro il sindaco, scrive Martedì, 8. Novembre 2016 Marco Ipsale su "Tempo stretto". Le parole del presidente Renzi e del ministro Delrio hanno riacceso le speranze dei messinesi favorevoli al Ponte sullo Stretto. Entro dicembre la Camera dei Deputati esaminerà la proposta di legge presentata da Area Popolare che prevede la riattivazione delle procedure, bloccate dal governo Monti nel 2012. Rete civica per le infrastrutture nel Mezzogiorno, Cisl, Uil, Confcommercio, Ance, Acli, Mcl, Reset, Cittadinanzattiva, Mondo Nuovo, Riabilitiamo Messina e gli ordini professionali di ingegneri, architetti, geologi, avvocati e commercialisti, chiedono con forza la realizzazione del Ponte sullo Stretto e si scagliano contro il sindaco Accorinti che “della lotta contro il Ponte – si legge in un documento – ha fatto una ragione di vita e a essa deve le sue fortune politiche”. “Rappresentiamo una parte cospicua di città che vuole il Ponte – dice il coordinatore della rete civica, Fernando Rizzo -. Non servono capitali privati perché Rfi ha disponibili 94 miliardi per le reti di alta velocità, sprecare di nuovo quest’opportunità sarebbe disastroso. Già nel 2012 le somme del ponte furono stornate per l’Av Milano – Genova e oggi sarebbe di nuovo così, perché quei fondi non arriverebbero certo per le scuole o la messa in sicurezza dei territori messinesi e reggini. Le folcloristiche partecipazioni di Accorinti a Rai 3 e La 7 e le sue posizioni razziste, disfattiste e rassegnate danno un’immagine distorta della volontà della città”. Rizzo presenta uno studio del Certet, il Centro di economia regionale, dei trasporti e del turismo, dell’Università Bocconi di Milano, che per la realizzazione del Ponte ha previsto 20mila posti di lavoro, di cui circa 7mila diretti e i restanti nell’indotto. “Negli ultimi 30 anni – conclude – la città di Messina ha perso 40mila abitanti, la Provincia ha perso 30mila posti di lavoro. Il Ponte non è più rinviabile. Apriamo il nostro tavolo anche all’Università, a tutti i sindaci dei 108 Comuni e delle città metropolitane confinanti, Catania e Reggio Calabria”. Tutti sulla stessa linea gli altri partecipanti al tavolo. “A Messina la maggioranza è favorevole al Ponte – afferma il segretario generale della Cisl, Tonino Genovese -. E’ una scelta obbligatoria per dare sviluppo al sud e recuperare il gap col resto del Paese. Non è più un problema tecnologico o economico, si tratta solo di volontà politica e allora bisogna arrivare ad una decisione definitiva, univoca e veloce. Ricordo dichiarazioni di disponibilità da parte dei governanti da decenni, ora anche di Renzi. L’occasione buona è il prossimo 16 novembre, quando il presidente sarà qui insieme a Rfi e Anas, soggetti fondamentali per l’opera”. Si concentra sull’aspetto economico il presidente di Confcommercio, Carmelo Picciotto: “Mentre noi parliamo, altrove le opere si fanno. Il sì al Ponte è un sì all’economia e all’occupazione, non limitato solo alla realizzazione ma anche alla gestione. Sarebbe l’ottava meraviglia del mondo”. I dubbi tecnici-strutturali sono superati anche secondo il vicepresidente di Ance, Giuseppe Lupò: “Per i costruttori è una speranza, nell’ultimo decennio si è toccato il fondo. I giovani se ne vanno perché non c’è lavoro, bisogna puntare sul Ponte e anche su altre opere, come la messa in sicurezza del territorio, perché una cosa non esclude l’altra”. Il sì arriva anche da tutti gli ordini professionali messinesi. “Il Ponte è l’opera madre per lo sviluppo del sud – incalza il presidente degli architetti, Giovanni Lazzari -, per la continuità territoriale e le linee ferrate”. Pure secondo Lazzari, “servono opere per contrastare il rischio sismico e idrogeologico, mica sono in antitesi”. E ancora sul rischio di infiltrazioni mafiose: “Bisogna essere capaci di contrastarle – conclude -, non possiamo certo rinunciare a realizzare ogni grande opera per questo”. Il Ponte “è l’unica soluzione alla crisi che ha messo in ginocchio le imprese” – secondo Luciano Taranto, in rappresentanza del Consiglio dell’Ordine degli ingegneri, che ricorda anche che l’opera è presente in tutte le pianificazioni degli ultimi decenni. Poi le altre associazioni. Per Alessandro Tinaglia, di Reset, “è inaccettabile che il sindaco dica che la città è contraria, semplicemente perché non è vero. Il prossimo 16 novembre Renzi dovrà parlare di Ponte e delle infrastrutture collegate”. Poi invita il Consiglio comunale ad esprimere posizione in merito al più presto. Contrario alla posizione di Accorinti pure il presidente delle Acli, Antonio Gallo. “E’ l’ultima possibilità per far rinascere il lavoro a Messina, mentre molti giovani vanno via. Il Ponte è collegato alle infrastrutture, non può esserci l’uno senza l’altro. A pensarlo siamo in tanti, associazioni eterogenee che, su altri temi, hanno idee diverse”. Da sempre favorevole il Movimento Cristiano Lavoratori. “Le motivazioni del no si sono affievolite – dice il vicepresidente di Mcl, Lillo Zaffino -. Oggi ci vogliono due ore e mezza per attraversare lo Stretto in treno, siamo tagliati fuori dall’Europa. Serve una volontà politica forte”. Le critiche al sindaco arrivano anche da un ex sindaco, Franco Providenti, oggi rappresentante di Cittadinanzattiva. “Quand’ero sindaco c’erano tante navi, oggi per i pedoni non ce n’è neanche una, si vuole isolare la Sicilia. Accorinti non può dire il suo no al Ponte senza intervenire, e non solo a parole, sull’assenza di navi. Il Ponte porterà l’alta velocità in Sicilia, facendo crescere i traffici”. La città è invivibile ed è rimasta indietro, secondo Antonio Briguglio, di Riabilitiamo Messina. “Il lavoro genera lavoro, gli investimenti generano investimenti e l’assenza di lavoro e investimenti non genera niente. Il Ponte ci farà fare un salto nel futuro, non collega Messina a Villa San Giovanni ma la Sicilia all’Europa. Il sindaco parla di rischio mafia ma allora, se non siamo capaci di contrastare questo rischio, non si va avanti”. Le argomentazioni di Accorinti sono “illogiche” per Giovanni Frazzica, di Mondo Nuovo, “è un disco rotto, parla per slogan. Si prende i meriti della manifestazione di 10mila persone dieci anni fa, ma era stata organizzata dal comitato Cariddi – Scilla, non da lui, ed era stato fatto proselitismo. Oggi i tempi sono cambiati e invitiamo i favorevoli al Ponte, che sono tanti, a farsi avanti”.

PONTE SULLO STRETTO, IL NEMICO È IL NORD EUROPA, scrivono Giovanni Alvaro, Cosimo Inferrara, Bruno Sergi. La ipotesi di capitali privati al 100% per il Ponte di Messina ha lasciato i benaltristi e i no-ponte senza l’acqua nella quale, di solito, nuotano bene. Si erano già fiondati anche sulla notizia data, frettolosamente, da Repubblica e da Sel, di un rifinanziamento della Stretto di Messina di 1,3 miliardi, per blaterare che c’era “benaltro” da fare sul territorio a cominciare dalla difesa idrogeologica. E lo hanno fatto sfidando il ridicolo poiché l’ipotetico rifinanziamento corrispondeva alla penale, spettante in ogni caso all’Eurolink, che invece d’essere ‘bruciata’ avrebbe potuto far ripartire il progetto ponte. Usare quei soldi per altro scopo significava ripristinare il diritto dei vincitori della gara d’appalto ad avere il risarcimento previsto dalle leggi in uno stato di diritto. Con il reperimento dei fondi sul mercato internazionale dei capitali la solfa del benaltro finisce perché i privati non ti danno i soldi per farne ciò che vuoi ma solo per un preciso obiettivo che nel caso specifico significa ‘Ponte sullo Stretto di Messina’. Che il benaltro, comunque, sia un argomento strumentale per la propaganda spicciola si è reso evidente nell’ennesimo incontro a Messina svoltosi recentemente su un tema accattivante “Uno sguardo dal Ponte” accompagnato, però, da una domanda provocatoria come “Ma c’è ancora qualcuno che ci crede?”. Insomma si vuol far passare l’idea che siano in pochi a crederci veramente, idea volta a rafforzare così la menzogna che a volere il Ponte sia solo una sparuta minoranza (vecchio meccanismo per trasformare una bugia in verità assoluta). In realtà, nel dibattito tra il Si e il No al Ponte, quasi tutti i presenti ammisero, ad alta voce, l’importanza decisiva, per il Sud e per l’Italia, dell’infrastruttura pontista, mentre a sostenere le ragioni del No è rimasto solo uno dei relatori e qualche altro.

Col project finance al 100% comunque si risolve il problema del finanziamento del Ponte vero e proprio ma rimane aperto il problema del finanziamento delle, impropriamente dette, opere di compensazione a terra che sono invece necessarie all’amalgama del Ponte col territorio che lo accoglie. In questa direzione, ci soccorre il prof. Francesco Forte che, qualche settimana fa, lanciava l’idea del credito d’imposta. Ipotesi più che intelligente che ci permettiamo di fare nostra specificandone chiaramente fini ed obiettivi. Si tratterebbe di chiedere all’Impregilo, capofila della cordata aggiudicataria dell’appalto, di farsi carico del finanziamento di dette opere trasformandone il costo in crediti d’imposta.

A quanti poi, pur professando una scelta di campo per il Si al Ponte, pensano di poter sfruttare il vento sfavorevole per rilanciare ipotesi costruttive già sottoposte al vaglio tecnico di organismi italiani, va ricordato che, nel 1969, al “Concorso Internazionale di idee per il collegamento stabile viario e ferroviario tra la Sicilia e il Continente” parteciparono ben 143 progetti e ben 6 vinsero ex-equo il 1’ premio. Tra essi uno solo prevedeva il tunnel sottomarino mentre gli altri 5 erano progetti di ponti sospesi, ad una o più campate.  Il progetto definitivo è datato 1992, ma la scelta finale è datata all’anno 2000 quando gli advisor (Steinman Int. – Gruppo Parson e Pricewaterhouse Coopers), nominati dal Cipe, presieduto da Massimo D’Alema, consegnano i rapporti finali ritenendo il progetto del ponte, a campata unica, il più vantaggioso rispetto a qualsiasi altro scenario alternativo e riconoscendone la fattibilità economica, finanziaria, trasportistica ed ambientale.

C’è da chiedersi, comunque, il motivo della cancellazione operata dal governo Monti poiché affiora il sospetto di un compito a casa sotto dettatura di paesi europei interessati a non disturbare i grandi porti del Nord Europa (Anversa, Rotterdam e Amburgo), indizio comunque di alto tradimento degli interessi del nostro Paese. Le motivazioni? Evitare impegni gravosi per l’erario. Ma con il project finance al 100% e la proposta del credito d’imposta riconosciuto al General Contractor in cambio della realizzazione delle opere a terra, decade immediatamente questo alibi che si sbandiera solo quando si tratta di opere da fare nel Sud dimenticando che la stessa Italia ne guadagnerebbe sia sul piano economico che in termini di immagine. Risultati certamente più importanti degli 80 euro distribuiti come mancia elettorale e che non hanno avuto alcun impatto sull’economia. Ben altra musica si leva con l’attivazione dell’indotto necessario alla realizzazione del Ponte, con i ricavi delle aree energetica, turistico-commerciale, socio-politica che rendono la straordinaria infrastruttura auto-sostenibile ab initio, e soprattutto con la resa economica del transito ferroviario e gommato. Ma Calabria e Sicilia vanno addirittura in concerto se si attiva l’alta velocità a Sud della Campania, se si intercetta il traffico merci che transita nel Mediterraneo pari al 30% del traffico mondiale, se si rilancia il sistema portuale meridionale -e non solo- a partire da Agusta, Gioia Tauro, Pozzallo, se in definitiva il Mezzogiorno supera il Gap col resto del Paese con ciò aiutando lo stesso Paese a risollevarsi, mentre ora il Sud ne è fuori (Svimez, 2014).

Scenari impensabili che il Nord Europa non vuole e che trova nel nostro Paese ciechi alleati dimentichi che senza misure straordinarie di investimenti e di rinascita la crisi rischia di diventare cronica. Atteso che lo Stato è incapace oggi di investire grosse somme di denaro e che addirittura non appare avere un buon programma di azione per il rilancio del Mezzogiorno, il ruolo dell’investimento privato sembra essere la vera soluzione alle difficoltà occupazionali e di rilancio economico. Ma è necessario anche il coraggio di opporsi all’Europa del Nord.

Il vero ponte sullo Stretto? L'hanno costruito in Scozia. Il "Queensferry" è un prodigio di ingegneria. Niente ricorsi o battaglie "no bridge". Impensabile in Italia, scrive Tony Damascelli, Martedì 5/09/2017 su "Il Giornale". La regina, vestita di celeste, dal capello all'abito, ha tagliato il nastro blu e la gente ha applaudito, mentre nel cielo di Scozia passava la pattuglia acrobatica delle frecce rosse e, lungo il fiume Forth, fischiavano le sirene delle imbarcazioni in festa. C'era il reverendo Browning per la benedizione, c'era anche Filippo di Edimburgo, nel suo classico impermeabile color della sabbia, c'era la banda che suonava God save the Queen, c'era il primo ministro di Scozia Nicola Sturgeon, c'era la gente locale e quella di altrove, orgogliosi tutti di quelle tre grandiose vele, simbolo di tre secoli, il Queensferry Crossing, il nuovo ponte che unisce la contea di Lothian, potrei dire Edimburgo, e quella storica di Fife, situata tra due fiordi, sulla costa del mare del Nord. Fu sempre Elisabetta, 53 anni fa, a inaugurare il Forth Road Bridge che, con il tempo, ha accusato il logorio di milioni di passaggi pesanti. Il ponte in ferro rosso è qualche metro più in là, quasi una costruzione del meccano. Ma nel duemila e sette, il governo scozzese decise di lanciarsi nel progetto di un nuovo ponte che passasse su quell'insenatura e garantisse il traffico sicuro, una struttura avveniristica, con materiale proveniente da Giappone e Spagna. Costo: 2 miliardi di sterline. Michael Martin è l'uomo che ha studiato, curato e seguito l'opera, sei anni di lavoro, con un solo incidente mortale, per la caduta di una gru un operaio restò schiacciato. L'inaugurazione, prevista per lo scorso inverno, ha subito vari rinvii, sempre per controlli e messa in sicurezza, la Regina ha atteso con pazienza e così le migliaia di viaggiatori che quotidianamente sono stati costretti a passare per il vecchio ponte. Questo sarà ancora aperto per i pedoni, le biciclette e qualche autocarro. Sabato e domenica scorsa, cinquantamila turisti pedoni, vincitori di un premio speciale, dopo aver acquistato un biglietto della lotteria, hanno potuto trascorrere una intera giornata lungo il ponte, fotografando e ballando e cantando. Oggi toccherà a diecimila abitanti della zona e ai bambini delle scuole, quindi da giovedì, il Queensferry Crossing diventerà il punto di riferimento e di passaggio esclusivo degli autoveicoli, alla velocità massima di 40 miglia, per agevolare i curiosi, poi aumentata a 70 nelle settimane successive. Sei anni, dunque, per una struttura lunga quattro chilometri e dal costo contenuto. Sei anni senza battaglie sul campo e no-bridge a fermare i lavori. Sei anni per consegnare a una parte del Paese, per di più alla Scozia che non ha ponti con il Brexit, un'opera che è garantita, dai tecnici, per il prossimo secolo e più. Sei anni per ridurre i costi iniziali, il preventivo era stato fissato a 2 miliardi di sterline ma il governo scozzese, tenendo fede alla propria tradizione, ha saputo contenere le spese, riducendole a un miliardo e mezzo, utilizzando totalmente fondi pubblici. Un'impresa impossibile per le nostre abitudini, un'opera che comporterebbe il doppio, se non il triplo dei tempi di esecuzione e di bilancio contabile. Tra l'altro non ci sarà alcuna pedaggio per attraversare il ponte, così come non è previsto alcun pagamento sulle grande arterie stradali scozzesi. La poetessa Jackie Kay ha letto un testo dedicato al Queensferry Crossing mentre la banda eseguiva musiche di rito. La Regina ha ascoltato, tenendo il cappello in testa mentre Filippo è parso distratto dalla squadriglia aerea inglese. Nicola Sturgeon ha donato un mazzo di fiori alla sovrana. Nessuno ha fischiato, nessuno ha protestato o urlato. Nessun poliziotto era in assetto di guerriglia. Il ponte è il simbolo di un Paese. Come in Italia. Nel week end.

CHI HA FALLITO PAGHI.

Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD. Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta. «Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo. Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà. E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno. Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano. La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati. Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Caro diario, cronache dal Medioevo, tra cinghiali, rifiuti, siccità. Chi ha fallito lo ammetta. Caro diario, siamo piombati indietro nel tempo, cancellando i doni della civiltà. Frane, alluvioni, invasioni di cinghiali e zanzare, emergenza rifiuti ed idrica. A fronte di tutto questo la risposta di chi amministra è stata approssimativa ed inadeguata. Non basta la buona volontà. Bisogna saper gestire le emergenze. Non basta andare in tv per dare risposte a una città in ginocchio. E' arrivato il momento di fare un passo indietro e ammettere i fallimenti, scrive Venerdì, 30. Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. “Caro diario, oggi ti scrivo usando penna e calamaio per adeguarmi al ritorno indietro nel tempo che stiamo vivendo a Messina. Se continua così il prossimo caro diario lo dovrò scrivere sulla parete di una caverna con una punta di selce. E’ come se fossimo piombati indietro nel tempo, azzerando i doni che la civiltà ci ha dato. A un certo punto mi è sembrato di essere dentro il film Il Gladiatore, quando Russel Crowe dice “al mio via scatenate l’inferno”. E’ successo di tutto, sembravano le 10 piaghe d’Egitto: frane, alluvioni, fango, detriti, invasioni di: zanzare, topi, blatte, cinghiali, rifiuti. Per finire, dopo le invasioni di specie animali, vegetali e “indifferenziate” (ovvero quei cumuli che troviamo davanti alle nostre case e nelle strade), è arrivata un’altra piaga: la “siccità”, Messina senz’acqua. E non per 1 ora, 10 ore, 1 giorno ma per 10 giorni (5 già trascorsi e gli altri a venire). Fatto inaudito per una comunità civile del 2015. E’ stato un balzo indietro agli albori della civiltà. Mancano soltanto l’invasione delle cavallette e i 3 giorni di tenebre e piombiamo nell’Egitto biblico. E’ stato come guidare un’auto impazzita che va all’indietro. Ci stiamo ritrovando sull’orlo dell’emergenza igienico-sanitaria e a fronte della gravità dell’accaduto si è registrata un’impreparazione all’emergenza, un’approssimazione intollerabile. Paghiamo i danni e le scelte scellerate del passato, con responsabilità inaudite, ma l'emergenza è oggi ed è a chi amministra oggi che si chiedono risposte adeguate. Caro diario, per restare in ambito cinematografico “ho visto cose che voi umani non potreste neanche immaginare”, casalinghe e anziani in fila coi bidoni alle autobotti, persone pacifiche pronte a litigare per riempire prima una bottiglia d’acqua, interi condomini alla ricerca di acqua al mercato nero, distinti signori che si sono accapigliati per l’uso di un pozzo o di mezzo serbatoio, pendolari della doccia e della lavatrice a Rometta, Villafranca, Santa Teresa o in casa di amici e parenti, gente che si è improvvisata atleta sperando di lavarsi in palestra, coniugi sull’orlo del divorzio per aver usato troppa acqua per lavarsi i denti. Tutto ciò che davamo per scontato con la civiltà è venuto meno in un batter d’occhio. In tempi di crisi anche i comportamenti umani si deteriorano, tutto si amplifica. Ma Messina senz’acqua è contemporaneamente Messina piena di rifiuti, perchè è scaduta la proroga alla discarica di Pace e perché era già emergenza da mesi. Messina senz’acqua è anche Messina ultima nella classifica di Legambiente. E’ la città con le strade piene di buche, senza cura del verde, con le ville e le aiuole in condizioni inguardabili, alberi che crollano sulle auto. E’ trasandata e sporca. L’immagine della città è spettrale, scuole chiuse, negozi chiusi, uffici chiusi, file per l’acqua, file per pagare la Tari (a proposito caro diario, ho fatto la differenziata e ho risparmiato il 35% nella bolletta, vorrei che questa notizia fosse da esempio per quanti ancora non la fanno). Danni incalcolabili, anche sociali.  Il baratro sono anche quei 29 milioni di cartella esattoriale a Messinambiente, quei 3 conti pignorati. Tra non molto pignoreranno uomini e mezzi. Eppure nonostante tutto questo, caro diario, ho sentito squilli di tromba e dichiarazioni di giubilo dal presidente dell’Amam e dal sindaco sul successo epocale di un’operazione che pochi minuti dopo si è rivelata un disastro. Il problema è stato a dir poco SOTTOVALUTATO. So bene che le responsabilità sono di chi in passato ha fatto scelte scellerate come quella di rinunciare nel 2009 alla condotta dell’Alcantara, ma la capacità di chi amministra si misura nel momento dell’emergenza, quando deve dare risposte. La capacità di chi amministra non si vede quando inaugura una piazza o parla agli studenti o rifiuta d’indossare una cravatta. Si vede quanto il terreno sotto i piedi frana e la tua comunità ha bisogno di te, ha bisogno di qualcuno che prenda decisioni efficaci in tempi rapidi. Quando il sindaco di Calatabiano ha sbarrato la strada ai nostri mezzi, quando si è esultato per la prima “toppa”, quando si è convocato con enorme ritardo il vertice, quando nessuno ha messo nero su bianco la richiesta di stato di calamità limitandosi all’annuncio verbale, si è data prova di aver sottovalutato la gravità dei fatti e dei disagi che Messina stava patendo e avrebbe patito. Nelle ore più dure solo il parlamentare Enzo Garofalo a Roma ha chiesto al ministro Alfano di intervenire e lo ha fatto senza il supporto di una sola carta scritta, di un atto ufficiale dell’amministrazione. Non si tratta di fare polemiche ma è nei momenti di crisi, quando si “scatena l’inferno” che si misura la capacità di reazione di fronte alle difficoltà. Lo stesso è accaduto con la Protezione civile, attivata con enorme ritardo e solo dalla Regione. Non metto in dubbio la buona volontà dei vertici dell’Amam, ma non è con le buone intenzioni che si risolvono le emergenze. Serve ben altro. E’ questa l’azienda che dovrà gestire acqua, rifiuti, cielo terra e mare con un esercito di dipendenti? Mi chiedo poi, perché Accorinti non era al vertice in Prefettura? Non era al Palazzo del Governo ma per tutto il giorno lo abbiamo visto in Tv. Quando è apparso pure ospite di Barbara D’Urso ho temuto di vederlo di lì a poco da Porta a Porta con il plastico della lavatrice per spiegare come usare la Fontalba per pulire le magliette Free doccia. Sul ritardo della convocazione del tavolo d’emergenza è chiarissima la nota del prefetto Stefano Trotta, che ha messo in luce quelle che sono state le leggerezze, sin dal lunedì scorso, nella gestione dell’emergenza, la sottovalutazione della gravità dei fatti. Parole dure quelle del prefetto, quando ricorda la prima riunione richiesta lunedì, quando spiega che ancora fino a ieri pomeriggio le risposte dell’amministrazione sono state approssimative, le autobotti non sono state sufficienti, il Papardo ha avuto gravi disagi. Parole dure e non sono le prime da parte del prefetto che alla fine assume il coordinamento della gestione dell’emergenza, di fatto “commissariando” la giunta Accorinti che nel momento più difficile non ha saputo resistere all’impatto dell’onda d’urto. Mentre Messina è in ginocchio, in serata arrivano 3 righe dal presidente della Regione, che ci rassicura che è in contatto con Foti, capo della Protezione civile regionale, e che la situazione si risolverà. Il governatore è a Tunisi, a quella che lui chiama l’Expo di Cartaginee per la quale ha lasciato una Sicilia senza governo (perché ha azzerato la giunta prima di prendere l’aereo), con i forestali che assediavano il Palazzo. Ma quel che interessa a Crocetta e ai partiti è l’ennesimo rimpasto fatto solo per far arrivare a fine mandato i 90 dell’Ars e la giunta. E mentre litigano per le poltrone in Sicilia 6 linee ferroviarie sono interrotte, 3 autostrade sono indecenti (1 è interrotta dopo il crollo del viadotto Hymera e viene chiusa ad ogni frana e l’altra è ridicola), le strade statali franano, i torrenti tracimano, le alluvioni evidenziano un dissesto del territorio spaventoso. Ciliegina sulla torta hanno arrestato Dario Lo Bosco, presidente Rfi, per concussione. Potrei aggiungerti che stanno declassando o chiudendo l’aeroporto dello Stretto, che dello Stretto non è mai stato giacchè per raggiungerlo costa di più in termini di tempo e soldi che andare a Trapani, ma sono già abbastanza depressa. Stanno decidendo a Roma come cancellare la nostra Autorità portuale, uno scrigno che merita di regnare da sola in questo specchio di mare. Invece stiamo mercanteggiando la nostra fine, fagocitati o da una parte o dall’altra in cambio di un piatto di fagioli.  Ma questa è filosofia. La realtà sono le invasioni di zanzare, sporcizia, cinghiali, i rifiuti, l’incapacità di ribellarsi e dire basta. La realtà oggi sono le file con i bidoni come 40 anni fa, quando ero bambina, ma è passato mezzo secolo. Dico grazie a quei lavoratori che faranno lo straordinario per farci stare meglio, agli operai dell’Amam che lavoreranno sotto la pioggia e nel fango, a chi ci sta mettendo la faccia mentre altri, quelli che negli anni scorsi ci hanno causato il danno, l’hanno persa. Ripeto, le responsabilità del passato sono enormi, ma adesso c'è chi ha il compito di alzarsi e guidare la comunità e non sono più quelli del passato. Oggi rischiamo l’emergenza igienico-sanitaria, sappiamo che la Protezione civile si è attivata e che il governo Renzi segue l’evolversi della situazione, ma mai come in questa settimana di errori abbiamo “toccato con mano” l’incapacità di dare risposte adeguate. In un altro Paese chi ha fallito avrebbe già fatto un passo indietro e chiesto scusa. Se questa è l’Amam sulla quale l’amministrazione sta riponendo tutte le sue aspettative, ci sono riflessioni di fare. Se questa è l’amministrazione che avrebbe dovuto fare la rivoluzione e cambiare Messina allora ha fallito. Nessuno può fermare la natura, le frane, le alluvioni, ma è nella capacità di alzarsi e guidare la reazione, prendere decisioni, battere i pugni, essere autorevole, farsi rispettare, che si misura il saper amministrare. Non basta la buona volontà, le migliori intenzioni, l’essere persone perbene. Gestire un’emergenza, quando la salute, la quotidianità, il vivere civile di 250 mila persone dipendono da te, è tutta un’altra cosa”. Rosaria Brancato

Messina, obbligo di firma davanti ai vigili per i consiglieri comunali indagati per la Gettonopoli. Inedito provvedimento del gip che dispone una sorta di Daspo per 12 consiglieri comunali che avrebbero intascato le indennità senza partecipare ai lavori delle commissioni consiliari costate nel 2014 quasi un milione di euro, scrive “la Repubblica” IL  12 novembre 2015. Dovranno firmare nell'ufficio della Polizia municipale a Palazzo Zanca un minuto prima dell'inizio e un minuto dopo la fine dei lavori della commissione di cui fanno parte. E' una sorta di Daspo per i consiglieri comunali quello firmato dal giudice delle indagini preliminari del tribunale di Messina Maria Militello che ha accolto la richiesta del procuratore aggiunto Barbaro a conclusione dell'inchiesta sulla gettonopoli messinese che solo nel 2014 è costato alle casse del Comune di Messina quasi un milione di euro. L'inedito provvedimento "cautelare" è stato firmato dal giudice nei confronti di dodici consiglieri comunali indagati per truffa, abuso d'ufficio e falso ideologico. Secondo la Digos, che ha condotto le indagini con l'ausilio di telecamere piazzate all'interno del Comune, sarebbero loro i principi della truffa che, grazie alle false partecipazioni a ben 39 sedute di commissioni consiliari al mese, consentiva ai consiglieri di incassare l'indennità massina aggiuntiva di 2.184 euro al mese. Nonostante, dopo l'esplosione dello scandalo dei gettoni di presenza, il consiglio comunale di Messina avesse dimezzato il compenso, da 100 a 54 euro, a seduta, i consiglieri non avevano avuto esitazione a segnarsi presenti nel numero massimo di sedute consentite per garantirsi l'indennità aggiuntiva. E così, la più parte di loro, entravano a Palazzo Zanza, firmavano la presenza e andavano via senza neanche attendere l'inizio dei lavori o dopo pochi minuti. E dall'enorme numero di sedute di commissione venivano partoriti pochissimi provvedimenti che poi approdavano in aula. Adesso i dodici consiglieri comunali destinatari del provvedimento del giudice dovranno apporre firma davanti ai vigili prima e dopo l'intera durata dei lavori. Ecco i loro nomi: Carlo Abbate, Pietro Adamo, Pio Amodeo, Angelo Burrascano, Giovanna Crifò, Nicola Salvatore Crisafi, Nicola Cucinotta, Carmela David, Paolo David, Fabrizio Sottile, Benedetto Vaccarino e Daniele Santi Zuccarello.

La Procura indaga sui misteri di Messina senza acqua, scrive Salvatore Parlagreco su Sicilia Informazioni del 12 novembre 2015. Una sete perfetta, come se fosse stata studiata a tavolino. La Procura di Messina ha aperto una inchiesta sull’emergenza idrica nella città dello Stretto. Non ci sono indagati, Gli inquirenti vogliono vederci chiaro sulla serie di infortuni e coincidenze nefaste che hanno prosciugato i rubinetti dei messinesi. Nessuno vuole una caccia alle streghe. I messinesi sono interessati a riavere l’acqua, intanto. Poi se ne parla. Se qualcuno ha sbagliato, per negligenza, paghi. E se qualcun altro che ha approfittato della situazione, per creare il bisogno d’acqua, sia punito severamente. Non è affatto detto che i guai di Messina siano da addebitare a malversazioni. Potrebbe trattarsi di sciatteria, imprevidenza, omissioni. O, addirittura, di semplice mancanza di risorse. Che la Procura metta mano alle carte, tuttavia, potrebbe essere utile, per monitorare gli eventi. Il presidente di Sicilacque, l’avvocato Antonio Tito, ha detto di avere inviato una squadra di dodici tempestivamente a Messina, già il 27 ottobre, quando è saltato l’acquedotto di Caltabiano, allo scopo di riparare il guasto, ma l’intervento non c’è stato perché gli uomini non hanno avuto il permesso di operare ed hanno atteso tre giorni prima di mettere le mani alla conduttura. Concluso il lavoro, rapidamente, la valvola s’è sfasciata, e si è dovuto ricominciare da capo. Ma non è tutto. Le due condutture, Alcantara e Fiumefreddo, non sono collegate fra loro. Quando uno degli acquedotti ha un gusto, i quartieri serviti da quella conduttore rimangono senza acqua. Un caso pressoché unico. Non capita spesso, inoltre, che entrambe le condutture, contemporaneamente, vengano messe fuori uso, seppure a causa di circostanze naturali. E non è frequente che un bypass appena riparato nel giro di poche ore si guasti nuovamente. La saracinesca che chiudeva il bypass ha ceduto, e nessuno ha saputo dare una spiegazione plausibile. Si rompe per la seconda volta. La frana? La qualità del materiale usato o che cosa? La valvola è stata sostituita poche ore dopo essere stata riparata da Sicilacque, questo è un dato di fatto. Gli interrogativi non finiscono qui. Messina ha una popolazione di 240 mila abitanti, e ha bisogno di 1.300 litri di acqua al secondo. Il fabbisogno medio di acqua per abitanti è di 160-200 litri di acqua giornalieri. La richiesta dell’Anam, la società municipale che si occupa della distribuzione idrica, alza l’asticella di quasi il doppio. A conti fatti, il fabbisogno sarebbe di 400 litri pro capite. Siccome se ne consuma 200, non di più per ogni abitante, dove va a finire la restante quantità di acqua? Dispersione nell’erogazione idrica? Possibile, ma non documentata. Il dossier di Cittadinanza attiva segnala una dispersione dell’ordine del 52 per cento, uguale a Palermo. Ma è un dato che meriterebbe controlli accurati sulle cause. Non può essere addebitato “solo” alle condotte colabrodo. La mancanza di manutenzione e lo stato delle condutture potrebbero “coprire” ben altro. Se non è così, meglio, ma ancora non lo sappiamo. Sarà la Procura a vederci chiaro.  Sarebbe di qualche utilità, scrivevamo giorni or sono, seguire la filiera dei venditori di acqua per farsi un’idea dell’entità del business.

L’acqua che trascina via Messina e la Sicilia, scrive Nadia Terranova, scrittrice. Tra le prime frasi che un bambino messinese impara ad articolare ce ne sono due che riguardano l’acqua: una sulla sua abbondanza tentatrice e l’altra, all’opposto, sulla sua sofferta penuria. La prima è la domanda “Mi posso fare il bagno?”, lo sguardo bramoso verso la lunga striscia dello Stretto e nel cuore la speranza che il genitore dichiari concluse le infernali tre ore di digestione. La seconda la si pronuncia scappando via dalla doccia, insaponati e asciutti, oppure agitando le mani sotto il rubinetto a secco, ed è l’amara constatazione: “Si sono tolti l’acqua un’altra volta”. Già, perché a Messina l’acqua se la tolgono: la forma dialettale non è usata a caso, si ha la percezione impotente di un bene rubato e tenuto nascosto chissà dove e per quali motivi. Nei pomeriggi d’agosto bisogna far presto a tornare dalla spiaggia per lavarsi, perché nelle torride estati insulari la normalità è avere acqua corrente fino all’ora di pranzo, al massimo fino al crepuscolo, poi peggio per chi non ha un serbatoio in casa. E mentre l’acqua per uso quotidiano è insufficiente, altra acqua erode ogni cosa trascinandola nella rovina. Nel 1908 l’apocalittico terremoto di Messina fu aggravato da un maremoto e da una frana sottomarina; un secolo dopo, nel 2009, un’alluvione mortale ha distrutto il quartiere di Giampilieri e il comune di Scaletta Zanclea. La parola acqua, nella mia città, ha diversi sinonimi: catastrofe, incubo, disastro, morte. Più uno all’ordine del giorno: disagio. Già nel 1968 Leonardo Sciascia parlava dell’ennesimo stanziamento per inutili opere idriche. Quando ho aperto twitter e ho visto #Messinasenzacqua fra i trending topic, gli argomenti più discussi, ho sorriso con stizza. Perché il problema non nasce oggi e, se lo si risolve con un semplice rattoppo, Messina che era senz’acqua ieri sarà senz’acqua domani. L’acqua sparita dalle prime pagine tornerà a essere uno degli atavici problemi dell’isola, di cui lamentarsi passivamente allargando le braccia: la siccità, il traffico, l’Etna, le tre piaghe della Sicilia secondo il famoso discorso dell’avvocato-zio in macchina per le vie di Palermo nel film Johnny Stecchino. Tutto ciò che riguarda l’acqua, sull’isola, ha a che fare più con interessi e diatribe degli uomini che con la natura. Nel 1968 lo raccontò il documentario La grande setedi Massimo Mida, sceneggiato da Marcello Cimino. Il testo che accompagnava il video era di Leonardo Sciascia, che con amara ironia commentava l’ennesimo stanziamento miliardario per grandi, vacue opere idriche con una data all’epoca orwelliana: “Nell’anno 2015 il problema dell’acqua sarà completamente e definitivamente risolto”. Il 2015 è arrivato, i fondi per l’acqua persi chissà dove, e l’opera più annunciata, vacua e pomposa del governo nazionale è il ponte sullo Stretto. Intanto, da settimane, Messina vive un’emergenza idrica: scuole e uffici chiusi a singhiozzo, l’esercito sbarcato in città (come negli anni dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio) e adesso anche un commissariamento. L’allarme è scattato il 24 ottobre, quando una frana all’altezza di Calatabiano, in provincia di Catania, ha danneggiato l’acquedotto di Fiumefreddo, la principale fonte di approvvigionamento di Messina, con circa mille litri al secondo. L’erogazione è stata interrotta e i messinesi invitati alla parsimonia. Restava in funzione l’acquedotto civico, meglio conosciuto come “la Santissima”, il cui apporto però è molto limitato, soddisfa solo il venti per cento del bisogno. L’utilizzo sistematico del terzo acquedotto, quello dell’Alcantara, fiume dalle leggendarie acque cristalline, da anni è invocato come migliore soluzione alla penuria e ai guasti: fu realizzato dal comune con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, la gestione passò da un ente all’altro, infine non ci si accordò su nulla, nemmeno sulle tariffe. Il ritorno all’approvvigionamento dall’Alcantara, o quantomeno l’utilizzo del doppio canale accanto a quello di Fiumefreddo, costituiscono secondo molti le uniche strade per ripristinare una situazione di quasi normalità. Messina è edificata in buona parte su torrenti insabbiati, come si evince ancora dal nome di alcuni viali: Torrente Giostra, Torrente Trapani, Torrente Boccetta… Camminare per quelle vie dove un tempo scorreva l’acqua, oggi rettilinei di asfalto popolati da case dai rubinetti prosciugati, è solo una delle tante contraddizioni che da tempo noi messinesi abbiamo accettato di vivere. Proprio a proposito di torrenti, secondo i dati del genio civile, ghiaia e sabbia nei corsi d’acqua sottoposti a pianificazioni idriche inadeguate avrebbero causato dislivelli, dissesti e frane. Intanto, la protezione civile definisce l’acquedotto di Fiumefreddo “obsoleto”. Il sindaco di Catalabiano, Giuseppe Intelisano, minimizza le responsabilità idrogeologiche della provincia catanese accusando l’Amam, l’azienda idrica messinese, di non aver mai fatto manutenzione. Renato Accorinti, sindaco di Messina, denuncia invece il rallentamento dei lavori di ripristino, ostacolati dalla chiusura della zona da parte di Intelisano. Per non parlare dello scambio di accuse fra Accorinti e il presidente della regione siciliana Rosario Crocetta, fra cui la comunicazione è sempre complicata. Intanto nuove frane vicino Calatabiano (nella stessa zona se n’erano verificate già nel 2010 e nel 2012, causando uguali disagi pur se di minore durata e con meno clamore) provocano continue interruzioni. Ogni giorno è una scommessa, ciascuno si organizza come può. Molti messinesi hanno in casa un serbatoio privato, comunemente chiamato “autoclave”, la chiusura ermetica che fa da sineddoche per l’intero prezioso oggetto. Stavolta però anche per le famiglie un po’ più fortunate, abituate ad arrangiarsi con l’acqua risparmiata, il quantitativo è troppo esiguo: ci sono anche loro in fila davanti ai pozzi pubblici e alle autobotti, con bidoni e contenitori. Su twitter, con l’hashtag #Messinasenzacqua, i cittadini fanno girare pragmatiche e solidali comunicazioni di servizio, dalla situazione nei luoghi di rifornimento agli orari di erogazione quotidiana. Le diatribe politiche appassionano sempre meno, la sfiducia è totale e l’unico problema urgente è come arrivare alla fine di una lunga giornata in cui bisogna bere, lavarsi, andare in bagno, pulire. Ogni sera gruppi WhatsApp di genitori e insegnanti confermano se la scuola l’indomani sarà aperta o chiusa. Ogni mattina i baristi si scusano di servire caffè, cappuccino e granita nei bicchieri di plastica, quasi fosse colpa loro. Disabili, anziani e ammalati lamentano solitudine e abbandono. I disagi continuano a essere totali nei rioni più alti rispetto al livello del mare. Negli stessi giorni è suonata come una presa in giro dal tempismo diabolico la notizia che Matteo Renzi vuole mantenere la promessa berlusconiana del ponte sullo Stretto. Mi immagino questo ponte come un prolungamento del Torrente Boccetta (la controversa arteria cittadina che collega il porto e l’autostrada), una bretella che attraversa una città e i suoi problemi reali. Dicono che sarebbe un attimo tagliare il mare e arrivare dall’altra parte, dicono che non è nulla privare tutti dello spasso malinconico della traversata di ‘Ndria Cambria, il marinaio protagonista di Horcynus Orca (che arrivava addirittura da Napoli) o, con meno letteratura, di chiunque abbia fatto la spola con Villa S. Giovanni per l’università, per amore, o semplicemente per godersi il viaggio. Il dibattito è fermo al secolo scorso: inquinano di più le navi o il ponte, l’impatto ambientale è catastrofico o irrisorio, ci saranno tanti posti di lavoro però li perderanno quelli che lavorano nelle navi, interi quartieri della città saranno spazzati via. Di nuovo, l’acqua come territorio di scontro, di decisioni imposte e subite. Con un esercizio di distopia, vedo questo ponte unire la punta di Trinacria con quella dello Stivale, e poi vedo un turista fermo sulla Salerno-Reggio Calabria. Dopo esser corso via grazie alla nuova, efficientissima, brillante opera, sarà costretto a rallentare, maledire l’ostacolo dei cantieri bloccati, ritrovarsi invischiato nell’eterno disagio dell’autostrada peggiore d’Italia. Forse ripenserà con più attenzione a cosa c’era sotto quella patina, alle furberie, ai piccoli e grandi affarismi, alla popolazione offesa che si è lasciato alle spalle, a quella storiaccia dell’acqua di Messina. Avrà, nelle lunghe e forzate ore di coda, tutto il tempo necessario a capire che i problemi non scompaiono con una struttura all’avanguardia che nasconde una città sotto un pilastro, come polvere sotto al tappeto. Forse gli verrà voglia di ripercorrerla all’indietro, quella linea della palma, tornare sui suoi passi e fermarsi a saperne di più.

Tangenti, 5 arresti a Messina su appalti rifiuti. L’intercettazione: “Fatturiamo 3700 cassonetti. Minchia saranno 1500 in strada”, scrive "Il Fatto Quotidiano" dell'11 novembre 2015. La sezione di polizia giudiziaria della polizia insieme ai carabinieri ha eseguito un misura cautelare ai domiciliari, con applicazione del braccialetto elettronico, nei confronti dicinque persone, tra dirigenti di Messinambiente ed imprenditori, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Messina su appalti pubblici e mazzette. Le persone arrestate sono l’ex amministratore delegato ed ex liquidatore di Messinambiente che si occupa della raccolta rifiuti a Messina Armando Di Maria, di 55 anni, il funzionario della stessa società Antonino Inferrera, di 70, Antonio Buttino, 73 broker assicurativo, gli imprenditori Marcello De Vincenzo, di 65 e Francesco Gentiluomo, di 70, tutti sono accusati di corruzione. Ecco l’audio di una delle intercettazioni legate all’inchiesta.

Nel mirino finisce in particolare Armando Di Maria, già amministratore delegato, definito dalla Porcura “un personaggio privo di qualsiasi competenza”. Così sulla partecipata dei rifiuti di Messina è partita la bufera giudiziaria, scrive l'11 novembre 2015 Ilaria Calabrò su “Tempo Stretto”. La Sezione di Polizia Giudiziaria-Aliquota Polizia di Stato della Procura di Messina, unitamente a personale del locale Nucleo Investigativo del Comando Provinciale CC, ha eseguito stamane una Misura Cautelare, con cui il Gip c/o il Tribunale di Messina Dott. Giovanni De Marco, su richiesta del Procuratore Agg. Dott. Sebastiano Ardita e dal Sost. Proc D.ssa Stefania La Rosa, disponeva gli arresti domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico nei confronti di:

1. DI MARIA Armando, cl. 55, già A.U. e poi liquidatore della società MESSINAMBIENTE S.p.a.;

2. INFERRERA Antonino, cl. 70, funzionario amministrativo-contabile della società MESSINAMBIENTE S.p.a.;

3. BUTTINO Antonio, cl. 73, broker assicurativo e titolare della società BCM Insurance Broker S.r.l. con sede in Barcellona P.G.;

4. DE VINCENZO Marcello, cl. 65, titolare della società MEDITERRANEA A. S.r.l.
5. GENTILUOMO Francesco, cl. 70, titolare della società GENTILUOMO S.r.l.;

Il provvedimento scaturisce da una complessa e articolata indagine avviata nel 2013 e protrattasi sino ad oggi, nel corso della quale è stata sottoposta a vaglio l’intera gestione di Messinambiente S.p.a., importante società pubblica (il cui capitale è interamente detenuto da enti locali) che per conto del Comune di Messina gestisce la raccolta e lo smaltimento RSU. Dall’analisi della gestione operativa e finanziaria dell’Ente, in un ampio arco di tempo compreso tra il 2009 e il 2014, sono emersi una serie di profili di rilevanza penale che discendono principalmente dalla sistematica violazione della normativa prevista dal codice degli appalti per quel che concerne l’acquisizione di servizi e forniture da parte di enti e società pubbliche, e dalla fallimentare conduzione economica dell’ente, nonostante l’adozione di un indirizzo privatistico che avrebbe quantomeno dovuto produrre economie di gestione. Invece veniva registrato dal 2009 al 2013 un risultato operativo negativo ammontante a € -25.764.066, con perdite d’esercizio ammontano a complessivi € 31.828.559, tanto che nel 2012 la società veniva posta in liquidazione. In questo arco temporale la gestione dell’ente è stato accentrata nelle mani di Armando DI MARIA (prima come D.G., poi A.U. e infine liquidatore della società sino al 2014, data in cui subentrava Alessio CIACCI), personaggio privo di qualsiasi competenza manageriale, che ha demandato quasi interamente ai privati i servizi di competenza dell’ente, ivi compresi quelli rientranti nel core business dell’azienda: dalla raccolta RSU, per lunghi periodi affidata alla ditta SEAP di Agrigento, alla manutenzione di mezzi e cassonetti interamente demandata a ditte esterne, tra cui la MEDITERRANEA A. del DE VINCENZO Marcello, che faceva la parte del leone, e la GENTILUOMO S.r.l. di GENTILUOMO Francesco. Le indagini hanno permesso di appurare che in questi anni un ruolo preminente è stato assunto dal contabile della società INFERRERA Antonino, che diveniva il braccio destro di DI MARIA, al punto da influire sulle più rilevanti decisioni riguardanti la scelta dei partners privati di Messinambiente, spesso amici personali dello stesso INFERRERA, sia sull’ordine preferenziale e sull’entità dei pagamenti erogati ai fornitori; ciò gli consentiva di rafforzare oltremodo la sua capacità d’influenza sulle ditte esterne. A fronte di affidamenti di servizi e consulenze a vantaggio di imprenditori e professionisti “amici”, scelti in modo del tutto discrezionale e spesso senza una contropartita in termini di efficienza, qualità ed economicità del servizio reso, riceveva illecite retribuzione dell’ordine di diverse migliaia di euro dai privati, sotto forma di servizi e consulenze fittizie conferiti a due società dallo stesso gestite: la FINCONSULTING e la FIN.SERVICE S.r.l..Emblematici i casi della società MEDITERRANEA A. di Marcello DE VINCENZO cui veniva in un primo tempo affidato il servizio di manutenzione e sanificazione dei cassonetti, in precedenza svolto con mezzi e personale di Messinambiente, e subito dopo la manutenzione dei mezzi di Messinambiente, pur non avendo la ditta alcuna esperienza nel settore, che generava profitti in un quinquennio per circa € 2.600.000. Analogo discorso per GENTILUOMO Francesco, cui veniva affidato un servizio di pronto intervento su mezzi di Messinambiente, nonostante la ditta fosse priva di operai specializzati, operando principalmente nel settore del noleggio di mezzi e macchine industriali: GENTILUOMO Francesco percepiva, unitamente alla ditta del fratello Santi, per soli interventi di manutenzione oltre € 1.000.000 dal 2009 al 2013, cui devono aggiungersi le vendite all’ente di diversi mezzi industriali. Ed, infine, il caso di BUTTINO Antonino, un broker assicurativo di Barcellona P.G., non molto conosciuto sul mercato, che subentrava alla compagnia SAI nella gestione di tutti i contratti assicurativi (sia RC auto che di altro tipo) dei mezzi di Messinambiente, percependo una commissione del 15% sull’importo lordo dei contratti stipulati, ed incassando commissioni per circa € 350.000 in tre anni. In concomitanza con questi affidamenti le società di INFERRERA ricevevano dai predetti imprenditori e professionisti, incarichi di consulenza, che le indagini hanno dimostrato essere fittizi, per giustificare le dazioni di denaro al suddetto funzionario: questi riceveva dal 2011 al 2014 circa € 52.000 da BUTTINO, circa € 41.000 da DE VINCENZO, e circa € 10.000 da GENTILUOMO.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

IL MISTERO DEI ROGHI SPONTANEI.

Messina, ritorna il mistero dei roghi nella «Xfiles» italiana. Nel Messinese case, televisori non collegati alla corrente elettrica e materassi in fiamme da giorni, scrive Alessio Ribaudo su “Il Corriere della Sera”. Una presa elettrica si scioglie in uno sgabuzzino, il fumo che pervade l’abitazione ma stranamente il sistema «salvavita» e l’allarme non entrano in funzione. Poi, un televisore prende fuoco in un altro appartamento a poca distanza. Quindi un compressore in un garage. Passando per un materasso che va in fiamme e la stessa fine fa una cesta di vimini con indumenti pronti per essere stirati. L’epilogo è di stanotte con un rogo al secondo piano di una casa che ha provocato due feriti lievi. In una città qualsiasi potrebbero essere catalogate come coincidenze sfortunate in 48 ore. Però, la musica cambia se avvengono in una piccola frazione composta da un pugno di case affacciate sul Mar Tirreno. Benvenuti a Canneto di Caronia, nel Messinese. Una cinquantina di persone che, dal 15 gennaio del 2004, ciclicamente vivono nell’incubo delle combustioni improvvise nei loro appartamenti. I fenomeni elettrici e gli esperti da tutto il mondo. Da allora esperti da tutto il mondo sono accorsi in Sicilia. Sono state mobilitate le migliori intelligenze della Protezione civile, del Centro elettrotecnico sperimentale italiano, del Consiglio nazionale delle ricerche, dell’Istituto di geofisica e vulcanologia di Firenze, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri e professori universitari. Senza dimenticare i tecnici di Ferrovie dello stato, Enel e Telecom. Tutti a Canneto per tentare di studiare e spiegare il motivo di oltre 180 roghi improvvisi. Senza considerare i cellulari impazziti, i sensori e i rivelatori di fumo che si attivavano anche senza scosse o fiamme, pen drive smagnetizzate, bussole impazzite. Il tutto spesso con allarmi di auto strombazzanti in sottofondo. Insomma anomalie degne di Xfiles che hanno indotto i giornalisti e i documentaristi di tutto il mondo a raccontare gli avvenimenti di questo piccolo borgo marinaro a vocazione turistica incastonato fra Santo Stefano di Camastra, città famosa per le sue ceramiche d’arte e gli scavi dell’antica Calacte immortala da Cicerone. Il sindaco e la lettera a Matteo Renzi. Anomalie così strane da indurre il governo Berlusconi, nell’aprile 2005, a creare un «Gruppo interistituzionale di lavoro per l’osservazione dei fenomeni di Canneto». «Viviamo nell’incubo di questi fenomeni inspiegabili e per questo martedì ho scritto una lettera al presidente del Consiglio Matteo Renzi – dice Calogero Berlinghieri, sindaco di Caronia – e a tutte le autorità competenti italiane per chiedergli di portare a nostra conoscenza i risultati a cui è pervenuto questo gruppo perché non ci hanno mai detto ufficialmente quali sono state le loro scoperte dal 2005 al 2007. La mia popolazione ha diritto di sapere cosa è accaduto e continua ad accadere. La Protezione civile, dopo il 2004, ha rifatto completamente la rete elettrica di tutta la frazione ma oggi siamo punto e accapo. Va a fuoco di tutto e ieri è avvenuto anche davanti alle troupe televisive che hanno ripreso in diretta gli accadimenti. Abbiamo paura». Una paura acuita dall’incendio di stanotte. «Ho chiesto anche al prefetto di Messina di costituire un’unità operativa di pronto intervento per fronteggiare le emergenze – continua il primo cittadino messinese – e chiarire una volta e per tutte i motivi. Ho chiesto anche al governatore Crocetta di inviarci consulenti universitari o di enti di ricerca per fornirci spiegazioni scientificamente valide. Ho scritto anche al comando provinciale dei vigili del fuoco, alla protezione civile e al direttore generale dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente per chiedere un monitoraggio continuo dell’area per stabilire anche l’eventuale presenza di campi elettromagnetici». Risposte? «Sono intervenuti i carabinieri e i vigili del fuoco di Santo Stefano di Camastra insieme ai tecnici dell’Enel ma nessuno mi ha saputo spiegare come mai una cesta con degli indumenti sia andata a fuoco così come uno dei nuovi impianti elettrici. L’Arpa ci ha assicurato che da stamattina interverrà ma dal premier Renzi ancora non ho ricevuto risposte sulle cause di allora che aiuterebbero a capire cosa avviene oggi», conclude Berlinghieri. A dire il vero teorie sui roghi del 2004 a Canneto sono state avanzate da scienziati e studiosi di mezzo mondo con conclusioni molto differenti (spesso smentite): si va da potentissimi campi elettromagnetici forse localizzati in mare alla presenza nel sottosuolo di magma sino a una possibile sperimentazione di armi militari. Non manca nulla perché si è ventilata anche l’ipotesi di Ufo e, per padre Gabriele Amorth, noto esorcista, invece c’è lo zampino del Diavolo che si manifesterebbe impossessandosi degli elettrodomestici. Tesi suggestive o meno che sono state tutte rigettate dalla procura della Repubblica di Mistretta che ha archiviato un fascicolo nel 2007 bollandolo come “un fenomeno di natura dolosa e umana”. I responsabili però sono rimasti, a oggi, ignoti. Una spiegazione che non è mai stata accettata dai cittadini di Canneto che dieci anni fa sono stati evacuati dalle autorità per motivi precauzionali e oggi hanno paura di rivivere la stessa esperienza. «Ci sentiamo abbandonati da tutte le istituzioni e così non si può più continuare – dice adirato Paolo Pizzuto – perché qui è peggio del 2004 visto che prende fuoco qualsiasi materiale. Solo ieri ci sono stati due roghi a casa di mia cognata e mia zia e poi stanotte è toccato alla casa dei miei cugini che per salvare il salvabile si sono fatti pure male. Non siamo certo dei pompieri!». Giovedì sera è andato a fuoco un phon non collegato all’energia elettrica e poco dopo le 21 un’altro materasso si è incendiato al primo piano di un’abitazione. «Noi non dormiamo più di notte perché non conosciamo chi è il nostro misterioso nemico». Di certo, c’è solo che a continuare è proprio il mistero dei roghi di Canneto di Caronia.

D'IMPROVVISO SI SCOPRONO SEVERI. LA MOSCA BIANCA.

La notizia è stata ripresa da "Il Corriere della Sera". Non ci si accorge che vi è una strumentalizzazione razzista. I nordisti tendono a dimostrare che gli idonei o i promossi nel sud Italia sono frutto di intrallazzi e, quindi, ben venga l'eroina che equipara gli studenti del sud con quelli del nord. Perchè si sa, o perchè vogliono far intendere i giornali del settentrione d'Italia, che gli studenti del nord sono più preparati e meritevoli di quelli del sud......

La prof severissima e il record di bocciature: odiatemi, ma studiate. All’ultima sessione 70% di respinti. «I ragazzi si impegnano poco e male, io cerco di aiutarli. Regalo anche dei libri», scrive Riccardo Bruno su “Il Corriere della Sera”. La mitologia studentesca a Messina narra di un ragazzo che si è presentato 43 volte all’esame di Chimica e per 43 volte è stato rispedito a casa. Ripetere quel benedetto esame per almeno una dozzina di volte sarebbe invece quasi una prassi. Materia impossibile, un Cerbero a stroncare le ambizioni. Per la precisione una prof di 56 anni, che reagisce con una risata. «Sono tutte invenzioni. Gli esami sono trasparenti. E io non sono mai da sola, c’è sempre un collega, o anche due, accanto a me». Sandra Lo Schiavo, docente di Chimica generale e inorganica nel corso di Biologia marina dell’Università dello Stretto, smentisce le proporzioni della mattanza di studenti ma non nega di essere uno scoglio piuttosto ostico. «Il 60/70 per cento si siede al pre-esame, dieci domande scritte su tutto il programma prima dell’orale, tanto per provarci. Le potrei far vedere i compiti, li conservo tutti. Roba da mettersi le mani ai capelli». La prof non è tipo da dispensare regali. I ragazzi sono terrorizzati, sembra che in facoltà l’abbiano invitata ad addolcirsi un po’, addirittura alle prove le avrebbero affiancato un docente più rassicurante. «Posso solo dire che l’intero corso di laurea mi ha sempre appoggiato». E mostra lettere e mail che le arrivano. Un professore da Padova: «Cara collega, ti capisco e ti invito a mantenere la linea di rigore». Un altro: «Mio nipote ha finito con ottimo l’Alberghiero, non sa tritare neanche uno spicchio d’aglio, né tantomeno parlare le lingue straniere. Sono tutti fatti così, che ci vuol fare». La prof Lo Schiavo rincara: «Escono dalle Superiori totalmente impreparati. All’inizio del corso mi tocca spiegare anche i concetti più elementari. Per carità, molti sono anche in gamba, ragazzi intelligenti che però non sanno studiare». L’ha divertita la battuta di un suo allievo, sfinito da otto prove senza soddisfazione finale: «La professoressa deve essere sponsorizzata dalla Red Bull, dare Chimica è diventato ormai uno sport estremo». «So chi è - assicura lei -. È un tipo brillante ma svogliato, non me la prendo certo per commenti come questi. Io i miei ragazzi li conosco bene tutti, cerco di aiutarli, ad alcuni regalo anche i libri. È vero, negli ultimi tempi ho notato un calo di rendimento, e ho alleggerito il programma. Nei limiti del possibile faccio in modo che almeno possano arrivare a un 20/21». All’ultima sessione è andata ancora male. Su dieci all’appello soltanto tre si sono guadagnati l’accesso all’orale. «Non è cattiveria, ma non si può promuovere chi non conosce la nomenclatura, o un’equazione chimica. Come possono pretendere di diventare biologi marini? Come faranno a capire che cosa avviene negli oceani? Preferisco essere odiata che mandare sul mercato del lavoro gente impreparata». Ultimamente si è accorta di stare più antipatica del solito. «Preferisco non dare i particolari, ma tutto è iniziato un mese fa. Un fuori corso, vicino alla trentina, appartenente a una famiglia integratissima a Messina, pretendeva di essere promosso dopo aver fatto tre esercizi imbarazzanti. Ha minacciato ritorsioni. E si era fatto pure raccomandare...». Inutile dirlo, le scorciatoie con lei non funzionano. «A volte capita di ricevere qualche segnalazione. Niente di esplicito, un collega che si informa: “Come va quel ragazzo?”, in modo che tu capisca...». Non si ritiene un’aliena: «Ritengo di essere un dipendente pubblico che prova a fare bene il proprio dovere, faccio ricerca da sola, non ho un gruppo che possa aiutarmi a fare carriera. Sono ancora professore associato, solo l’anno scorso ho avuto un aiuto da un dottorando indiano». Solo che non sopporta il degrado dell’istruzione. «Una volta l’Università era un’industria culturale. Soprattutto qui al Sud, se si rinuncia a una preparazione adeguata che cosa rimane a un laureato?». Abita poco fuori Messina, a 50 metri dal mare, circondata da un giardino curato dal marito. «Amo i libri, la musica e mi piace viaggiare. Come vedete, non sono un mostro». Ma il suo pensiero è sempre lì. «Adesso devo preparare i quesiti per l’esame domani». Preferirebbe non vedere la sua foto sul giornale. Ma alla fine si convince e convince anche Sasha. Il suo pastore tedesco, tanto per non smentire la fama.

Professoressa Sandra Lo Schiavo, l'anomalia di compiere il proprio dovere. Sì, compiere il proprio dovere rischia di fare apparire anomali, eclettici, forse anche colpiti da qualche vera e propria patologia comportamentale, scrive Giuseppe Pitrone su “Palermo Mania”. Sì, compiere il proprio dovere rischia di fare apparire anomali, eclettici, forse anche colpiti da qualche vera e propria patologia comportamentale. Mi riferisco, in modo particolare, alla professoressa Sandra Lo Schiavo, docente di Chimica all’Università di Messina, corso di Biologia marina.  Molti giornali si sono occupati di lei - e continuano - da quando, in una sessione di esami, ha bocciato il 70% degli studenti. Sostengo subito, da ex docente, che la percentuale non  mi ha  sorpreso affatto, tanto per intenderci. E sostengo altresì, pur non conoscendola, che ha compiuto, appunto, il proprio dovere. Come faccio ad essere così sicuro? A lei la parola, da un’intervista rilasciata a Riccardo Bruno: «Sono tutte invenzioni. Gli esami sono trasparenti. E io non sono mai da sola, c’è sempre un collega, o anche due, accanto a me». Ineccepibile, cara professoressa. Gli esami non solo sono trasparenti, ma anche pubblici, chiunque può assistere. Chiunque può, extrema ratio, farsi accompagnare da un insegnante di chimica o da un esperto. Per, eventualmente, operare contestazioni. Continua l’intervista: «Non è cattiveria, ma non si può promuovere chi non conosce la nomenclatura, o un’equazione chimica. Come possono pretendere di diventare biologi marini? Come faranno a capire che cosa avviene negli oceani? Preferisco essere odiata che mandare sul mercato del lavoro gente impreparata. Il 60/70 per cento si siede al pre-esame, dieci domande scritte su tutto il programma prima dell’orale, tanto per provarci. Le potrei far vedere i compiti, li conservo tutti. Roba da mettersi le mani ai capelli». Ci credo! Ci credo perché le mani nei capelli le ho messe io per tanti anni, meritando la fama di “cattivo”. E ancora: «Escono dalle Superiori totalmente impreparati. All’inizio del corso mi tocca spiegare anche i concetti più elementari. Per carità, molti sono anche in gamba, ragazzi intelligenti che però non sanno studiare». Condivido! I lettori di palermomania.it sanno che ho dedicato molti articoli al sistema scolastico, che giudico non sempre all’altezza dell’importante compito di educare e preparare i ragazzi. E conoscono i motivi che hanno provocato tale risultato, non è più il caso di ripetere. È il caso, invece, di ricordare che la percentuale segnalata dalla professoressa Lo Schiavo non riguarda solo la sua materia o il corso di  Biologia. Riguarda tutto il cosiddetto sistema, dall’asilo (si fa per dire) alla laurea. Tutto il cosiddetto sistema in tutto il Paese. E aggiungo che, presto o tardi, scoppierà nel campo dell’istruzione una “bomba” simile a “Mani pulite”. È solo questione di tempo. Perché tentare di oscurare il sole con le reti è operazione che qualifica bene chi l’ha proposta e continua a praticarla. E sempre in riferimento all’alta percentuale di bocciati, ho riesumato un articolo del 2008, da repubblica.it. Titolo: “Aspiranti giudici ma un po' somari”. “Verbi sbagliati, errori di grammatica e di ortografia. Un disastro per gli esaminatori che sono inorriditi di fronte a lacune da scuola dell'obbligo e incapacità di coniugare i verbi secondo regole elementari, e hanno respinto oltre il 90 per cento dei candidati aspiranti giudici. Al punto che, nonostante il numero da record dei partecipanti al concorso per l'accesso in magistratura (43mila domande), alla fine sono rimasti scoperti una sessantina dei 380 posti da assegnare”. Dati preoccupanti che hanno indotto uno dei componenti della commissione d'esame, il giudice della Corte d'appello di Palermo Matteo Frasca, a esprimere ‘non poche perplessità sul livello medio di preparazione dei partecipanti’, in un intervento pubblicato sul sito del Movimento per la Giustizia. E le lacune riscontrate non sono solo giuridiche: ‘La conoscenza della lingua italiana è una pre-condizione per partecipare al concorso, ma alcuni candidati non ce l'avevano. Ci siamo trovati a fare la disarmante constatazione che in alcune prove c'erano errori di grammatica e di ortografia, oltre che di forma espositiva, testimonianze evidenti di una mancanza formativa, che non è emendabile. Non faccio esempi per ragioni di riservatezza, posso dire solo che se il mio maestro delle elementari avesse visto in un mio compito verbi coniugati come in certe prove che ci sono state consegnate, mi avrebbe dato una bacchettata sulle dita. Abbiamo però trovato anche candidati con livelli di preparazione eccellenti, punte esaltanti che inducono all'ottimismo". E speriamo nell’ottimismo. Tuttavia, compiere il proprio dovere è, ripeto, diventato sinonimo di anomalia. Un sindaco meticoloso e onesto? Un piddiccusu. Un sacerdote serio e preparato? Un bigotto. Un maresciallo giustamente severo?  ‘Na camurria. Ecco il  livello raggiunto dopo decenni di lassismo, corruzione, scandali, massacro della meritocrazia. Ma tant’è. Ai ragazzi, infine,  vorrei dare solo un consiglio: meditare sul vecchio proverbio chi ti vuole bene ti fa piangere, chi ti vuole male ti fa ridere.

MESSINESI BRAVI SOLO A SALIRE SULLA BICI DEL VINCITORE.

Le cronache sportive raccontano di un tale Vincenzo Nibali da Messina che ha staccato in salita i migliori ciclisti del momento, svettando sulle Alpi e consolidando la sua maglia gialla al Tour de France 2014. La reazione in città è di quelle che ti aspetti, eccome. Tutti pronti a salire sul carro, o sulla bicicletta, del vincitore. Sui social network come nella vita reale, scrive Fabio Bonasera su “Messina Ora”. Un po’ come l’effetto dei mondiali di calcio: anche chi non assiste a una partita per quattro anni di fila, di fronte alle gare della nazionale diventa appassionato. Perfino acuto intenditore di pelota e dintorni. Personalmente, il ciclismo non lo seguo più dai tempi di Marco Pantani. Un ragazzo fragile nella vita di tutti i giorni ma capace di tirare fuori un cuore da leone quando, in sella alla sua Bianchi, doveva sfidare le scalate più impervie. È stato il ciclismo a innalzarlo, fino a condurlo in cima all’Olimpo degli dei immortali dello sport. È stato il ciclismo a distruggerlo, con un’ostinazione senza pari. Mai trovato positivo a un solo controllo, è stato messo alla gogna per doping e addirittura perseguito dalla giustizia penale. Cosa più unica che rara, inequivocabile indice di un accanimento le cui ragioni sono altre e nessuno, finora, le ha mai raccontate. Quello che, al contrario, è stato ampiamente raccontato è un mondo, quello del ciclismo su strada, che ama elevare i suoi miti al cielo solo per farli disintegrare, poco dopo, lanciandoli senza paracadute dal punto più alto della torre. Perfino sui sette trionfi consecutivi al Tour (dal 1999 al 2005) di Lance Armstrong, campione di coraggio prima ancora che sui pedali, sono state gettate ombre pesanti come macigni. Così, ben sette anni dopo il suo ultimo successo francese, viene squalificato sine die per doping e privato, ma solo formalmente – perché la verità non si può cancellare – dei suoi trofei. Qualunque individuo di media levatura è capace di porsi la conseguente domanda: come fa uno che si afferma sette volte di fila nella competizione più prestigiosa in assoluto, pertanto con i riflettori del mondo costantemente addosso, a eludere controlli sempre più accurati? E come fanno le analisi che, mentre era in attività, lo dichiaravano perfettamente in regola, a svelarne le eventuali magagne ben sette anni dopo? Misteri di un mondo perverso, anche a latitudini più familiari. Per esempio a Messina, dove il 14 novembre 1984 nasce Nibali. Figlio di un impiegato del Comune e di una noleggiatrice di videocassette, viene spedito, ancora minorenne, a Mastromarco Lamporecchio, in provincia di Pistoia, proprio a causa del poco o nulla che questa terra può offrirgli. I suoi genitori lo seguono ovunque, con il loro camper, e, consapevoli del suo talento straordinario, lo amano al punto da allontanarlo, pur di dargli delle prospettive che qui non potrà mai avere. Non a caso, è Mastromarco Lamporecchio a intitolargli il primo fan club. Oggi, però, questa città, che dei figli degli impiegati o dei negozianti, dei lustrascarpe o dei fornai, se ne infischia altamente, lo osanna. Come se le sue vittorie fossero merito proprio. Perché i messinesi sono bravissimi a salire in corsa sul carro, o la bici, dei vincitori. Purtroppo, però, sono pessimi scalatori quando tocca a loro pedalare. E i messinesi? Sempre pronti a guardare. Perché pedalare, soprattutto in salita, è troppo faticoso. Non è una mera coincidenza, del resto, che le isole pedonali e le piste ciclabili siano belle solo quando si trovano nelle città degli altri. Se son rose… scaleranno.

L'AFFAIRE FRANCANTONIO GENOVESE. IL PARADOSSO DEI COMUNISTI DI ESSERE DIVERSI.

Il 19 marzo 2014 tutta Italia ne parla. Da qui la notorietà nazionale per un personaggio che fino ad allora nessuno conosceva.

Messina, chiesto l'arresto per il deputato pd Genovese: "Sottratti 6 milioni di euro". Dall'inchiesta emerse speculazioni sui noleggi di attrezzature e sull’acquisto di immobili per svariati milioni di euro. Quattro fedelissimi ai domiciliari, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. L'inchiesta "Corsi d’oro" sulla formazione professionale fa tremare il Partito democratico. Il gip di Messina Gianni De Marco ha, infatti, depositato a Montecitorio una richiesta di arresto per il deputato piddì Francantonio Genovese, già segretario regionale ed ex sindaco di Messina. Mentre per il parlamentare si attende l’autorizzazione a procedere, tre suoi fedelissimi collaboratori, Salvatore La Macchia, Domenico Fazio e Roberto Giunta, e il commercialista Stefano Galletti, sono stati arrestati dagli agenti della squadra mobile di Messina. Come Genovese sono accusati di una serie di reati tra cui "l’associazione per delinquere finalizzata alla frode sui corsi di formazione professionale, il peculato e la frode fiscale". Mentre nella legislatura in corso arriva la prima richiesta di arresto per un deputato, il Pd deve fare i conti con una nuova bufera giudiziaria. Genovese è, infatti, al suo secondo mandato alla Camera. Dall’indagine, coordinata dai sostituti procuratori Fabrizio Monaco, Liliana Todaro e Antonio Carchietti e dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, sono emerse speculazioni sui noleggi di attrezzature e sull’acquisto di immobili per svariati milioni di euro. Nella prima fase della stessa indagine erano stati posti agli arresti domiciliari la moglie di Genovese, Chiara Schirò, Daniela D’Urso, consorte dell’ex sindaco Giuseppe Buzzanca, e altre sette persone. In quel caso, le accuse hanno riguardato i finanziamenti per la formazione professionale regionale agli enti Lumen, Aran e Ancol per il periodo compreso tra il 2007 e il 2013. Ora l’indagine si estende agli enti Enfap, Enaip, Ial Training Service, L&C Training and consulting, Cesam, Ecap, Cesofom, Apindustria e Reti. All’attenzione degli inquirenti sono finiti i corsi organizzati da enti professionali legati ai due parlamentari e alcune compravendite o cessioni di rami d’azienda tra gli stessi enti. Un capitolo dell’inchiesta è invece dedicato agli affitti. Il trucco era piuttosto semplice: una società prendeva in locazione un immobile per una certa cifra per poi subaffittarlo ad altri enti, ovviamente con un sovrapprezzo. "Lo stesso - ipotizzano gli inquirenti - veniva fatto per gli acquisti di mobili e per le forniture di servizi". Dalla documentazione acquisita sono emerse anche fatture gonfiate del 600% per affitti o prestazioni di servizi: sarebbe stato un metodo per accaparrarsi decine di milioni di euro di fondi destinati dalla Regione agli enti della formazione professionale. In tutte e due le fasi dell'inchiesta "Corsi d’oro" sulla formazione professionale, gli indagati sono risultati legati tra loro da vincoli di parentela o, comunque, di assoluta fiducia. Il deputato del Pd Genovese è considerato dagli inquirenti come "l’unitario centro di interessi cui fanno riferimento una ragnatela di enti e società, uniti tra loro da una trama volta a consentire, attraverso meccanismi di fatturazione in tutto o in parte inesistenti, la sistematica sottrazione di consistenti volumi di denaro pubblico". Il parlamentare, sostiene chi indaga, "nel corso del tempo, ha acquisito, grazie ad una rete di complici riferibili anche alla propria famiglia, il controllo di numerosi enti di formazione operanti in tutta la Sicilia e, parallelamente, di una serie di società che gli hanno permesso di giustificare le appropriazioni, così da lucrare illeciti profitti".

Associazione per delinquere, chiesto l’arresto per il deputato Pd Genovese. Per la Procura avrebbe commesso il reato di riciclaggio per avere intascato, sotto forma di consulenze, 600 mila euro, scrive “Il Corriere della Sera”. C’è anche il deputato del Pd Francantonio Genovese, ex sindaco di Messina, tra i 5 arrestati per reati tributari nonché per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, al peculato ed alla truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche. La richiesta del gip è stata notificata a Montecitorio. Dalle prime ore dell’alba di mercoledì le forze dell’ordine hanno eseguito la richiesta di arresti domiciliari ne confronti del parlamentare messinese e a quattro suoi fedelissimi (un commercialista e tre amministratori di società, Salvatore La Macchia, Stefano Galletti, Roberto Giunta e Domenico Fazio). Nel luglio scorso la Procura di Messina aveva arrestato la moglie di Genovese, Chiara Schirò e la cognata, entrambe sotto processo sempre nello stesso filone d’inchiesta.

CHI È. Francantonio Genovese, il primo parlamentare di questa legislatura per il quale è stato chiesto l’arresto, è nato a Messina, ed ha 43 anni. Avvocato, alle primarie per il Parlamento del 2012 è stato il più votato d’Italia con quasi 20 mila preferenze e alle ultime primarie si è schierato con la corrente che fa capo al segretario Partito democratico Matteo Renzi. È figlio del senatore Luigi Genovese e nipote del più volte ministro Nino Gullotti, entrambi esponenti dell’allora Democrazia cristiana. Nel 1998 è stato assessore all’agricoltura nella giunta provinciale di Messina. Nel 2001 è deputato all’assemblea regionale siciliana e nel 2005 è eletto sindaco di Messina. Nel 2007 è anche eletto segretario regionale del Partito Democratico in Sicilia, sostenendo la corrente di Veltroni. Alle elezioni politiche del 2008 eletto alla Camera dei deputati , è divenuto componente e segretario della commissione antimafia. Riconfermato alla Camera nella Legislatura del 2013 è componente della Commissione Bilancio. Attivo anche nel campo imprenditoriale, è azionista e dirigente della traghetti Caronte di Pietro Franza, una società di trasporto marittimo privato che opera nello Stretto di Messina.

Le accuse. L’autorizzazione all’arresto nei confronti di Genovese è la prima finora presentata alle camere in questa legislatura ed è la prima richiesta di arresto nei confronti di un parlamentare. A Genovese la Procura contesta di essere stato il promotore dell’associazione per delinquere, di aver commesso il reato di riciclaggio per avere intascato, sotto forma di consulenze, oltre 600.000 euro da parte di società del proprio gruppo, parte dei quali erano provento di peculati e frodi alla Regione Siciliana, e di averli poi messi in circolo mediante pagamenti per operazioni inesistenti in modo da non rendere possibile la ricostruzione delle operazioni. Secondo la tesi dell’accusa il parlamentare del Pd avrebbe anche operato un vorticoso giro di false fatture tra sé stesso e società del gruppo a lui riconducibili per frodare sistematicamente il fisco e non pagare le tasse. La Procura di Messina ritiene che il deputato, per evadere il fisco, si sia avvalso della società Caleservice, trasferendo alla stessa la gran parte del proprio reddito personale e successivamente caricando sui suoi bilanci, come costi societari, tutte le spese personali e della famiglia rendendo così i corrispettivi esenti da tassazione, ed anzi utilizzandoli come costi per aggravare il passivo dell’azienda. A Genovese è anche contestata la gestione di un immobile di 300 metri quadrati, della Caleservice, nel quale, secondo l’accusa, coesistevano in affitto a prezzi gonfiati ed a spese della Regione otto diversi enti di formazione che polizia e guardia di finanza ritiene siano riconducibili al deputato e gestiti da prestanomi. Quest’ultimi, è la tesi dei pm, avrebbero poi preso in affitto tutti contestualmente l’immobile con canoni che lievitavano fino a 10 volte il valore reale. Dalla documentazione acquisita sono emerse anche fatture gonfiate del 600% per affitti o prestazioni di servizi: sarebbe stato un metodo per accaparrarsi decine di milioni di euro di fondi destinati dalla Regione agli enti della formazione professionale.

Messina, scandalo formazione: richiesta di arresto per Genovese. Quattro fedelissimi ai domiciliari. Al setaccio sei milioni di finanziamenti. Il gip di Messina firma l’ordine di custodia cautelare in carcere per il deputato del Pd. La richiesta di autorizzazione notificata alla Camera. Lui: "Chiarirò tutto", scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica”. In cinque anni, con un sistema di enti e società tutti a lui riconducibili, avrebbe fagocitato sei milioni di euro di risorse pubbliche destinate alla formazione professionale. Già la scorsa estate, chiudendo la prima tranche dell’inchiesta, la Procura di Messina aveva arrestato la moglie e la cognata, ora il pool di magistrati coordinato dal sostituto procuratore Sebastiano Ardita chiede l’arresto del deputato nazionale del Pd Francantonio Genovese, ras della formazione professionale nella provincia di Messina, azionista e dirigente della traghetti Caronte di Pietro Franza, oltre che nipote dell'ex ministro Nino Gullotti ed esponente di spicco dei democratici siciliani (alle primarie per il Parlamento del 2012 è stato il più votato d'Italia con quasi 20 mila preferenze). La richiesta è stata accolta dal gip che ha girato alla Camera dei deputati la richiesta di autorizzazione all’arresto del parlamentare accusato di una sfilza di reati che vanno dall’associazione per delinquere al peculato, dalla truffa al riciclaggio al falso in bilancio. La richiesta di autorizzazione alla custodia cautelare in carcere è stata notificata a Montecitorio dagli uomini della squadra mobile di Messina e della Guardia di finanza che all’alba di oggi hanno eseguito anche altre quattro ordinanze di custodia, questa volta ai domiciliari, notificando i provvedimenti a persone tutte molto vicine a Genovese e con incarichi nel Pd o negli enti e nelle società da lui controllate. Si tratta di Salvatore La Macchia, già capo della segreteria tecnica dell’ex assessore regionale alla Formazione Mario Centorrino, Stefano Galletti, Roberto Giunta e Domenico Fazio. Anche in questo secondo filone di inchiesta restano indagati la moglie di Genovese, Chiara Schirò, sua sorella Elena (entrambe arrestate a luglio e attualmente sotto processo) con il marito Franco Rinaldi (deputato regionale del Pd), altre due cognate di Genovese, la segretaria Concetta Cannavò, Elio Sauta (personaggio chiave del complesso meccanismo controllato dal politico messinese) e tutte le altre persone già coinvolte nel primo troncone d’indagine sfociato negli arresti del luglio scorso. Da allora, i magistrati della Procura di Messina hanno scoperto che non erano solo la Lumen e l’Aram gli enti mangiasoldi attraverso i quali Genovese e il suo clan politico-elettorale avrebbero drenato finanziamenti regionali, statali e comunitari e soprattutto foraggiato un bacino elettorale che negli anni ha sempre garantito al deputato Pd elezioni con numeri da record. Secondo le più recenti risultanze investigative sarebbero stati una decina gli enti ( tutti no-profit naturalmente) dei quali Genovese avrebbe acquisito il controllo, attraverso suoi familiari o prestanome, per presentare progetti da inserire nei piani di formazione. Progetti che all’assessorato, dove Genovese riusciva esercitare forti pressioni, venivano puntualmente finanziati. Una rete alla quale vanno ad aggiungersi diverse società sempre riconducibili all’uomo politico che servivano come interfaccia e che consentivano di quintuplicare fittiziamente i costi, mai sostenuti, che venivano poi rimborsati dalla Regione per lo svolgimento dei corsi di formazione professionale. Affitti e acquisti di locali, noleggio di attrezzature, locazione di macchine. Gli enti di formazione amministrati dai familiari di Genovese si rivolgevano alle società (sempre da loro controllate) che fornivano i servizi a prezzi esorbitanti e fuori mercato. Senza che alla Regione nessuno esercitasse alcun controllo. Per giustificare le ingenti somme percepite venivano poi rendicontate una serie di consulenze fittizie. Tra il personale degli enti di formazione, naturalmente tutti pagati dalla Regione, Genovese sistemava non solo il suo numeroso clan familiare, ma anche i parenti degli uomini su cui poteva contare all’interno della pubblica amministrazione e anche i suoi più stretti collaboratori. Alcuni degli addetti alla sua segreteria politica sarebbero stati stipendiati dagli enti di formazione. Il Pd in mattinata ha comunicato la decisione di sospendere Genovese, sebbene lo stesso Genovese abbia diramato un comunicato quasi a togliere il partito dall'imbarazzo: "Per comprensibili ragioni di opportunità", non disgiunte dall'alto senso di rispetto che ho sempre avuto nei confronti delle istituzioni, dei colleghi di partito e dei parlamentari tutti, anticipo la mia determinazione ad autosospendermi dal Partito democratico e dal gruppo parlamentare", ha scritto il deputato. "Al momento, ho avuto contezza solo dei capi di  imputazione e non delle ragioni a sostegno delle accuse mossemi. Sin da ora, tuttavia, anche alla luce di quanto emerso, in questi ultimi mesi, nel corso di un  parallelo procedimento penale ed avuto riguardo alla documentazione già depositata agli inquirenti dai miei difensori, sono certo di poter fornire ogni chiarimento utile ad escludere la sussistenza degli addebiti che mi vengono contestati. Ciò farò, con serenità, in ogni sede, non esclusa quella parlamentare".

La rete degli enti mangiasoldi: così Genovese drenava il denaro pubblico. Il parlamentare ne ha acquisiti undici, anche da Cisl e Uil, a volte approfittando delle loro difficoltà economiche. Aveva una preziosa testa di ponte nel segretario dell'ex assessore alla Formazione Mario Centorrino, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica”. La moglie, le cognate, i nipoti, i collaboratori e i loro familiari lavoravano tutti per lui. Un clan familiar-politico al servizio di quello che il gip Giovanni Di Marco, che ha firmato l'ordine di custodia cautelare per Francantonio Genovese, definisce "l'unitario centro di interessi cui fanno riferimento una ragnatela di enti e società, uniti tra loro da una trama volta a consentire, attraverso meccanismi di fatturazione in tutto in parte inesistenti, la sistematica sottrazione di consistenti volumi di denaro pubblico. Custodia agli arresti domiciliari per i suoi collaboratori, ma arresti in carcere per il deputato Pd, "capo e promotore dell'organizzazione per delinquere". Nel corso degli anni, Genovese, con una serie di operazioni spregiudicate, aveva attraverso prestanomi acquistato ben undici enti di formazione professionale attraverso i quali è riuscito a drenare risorse per più di sei milioni di euro. Operazioni di acquisto che non erano certamente sfuggite all'assessorato regionale alla Formazione dove con Salvatore La Macchia, suo stretto collaboratore e segretario dell'assessore Mario Centorrino, aveva una formidabile testa di ponte. Oltre alla Lumen e all'Aram, gli enti sui quali la Procura aveva già messo gli occhi l'estate scorsa quando aveva arrestato la moglie di Genovese, Chiara Schirò e sua sorella Elena, moglie del deputato regionale Pd Franco Rinaldi (anche lui indagato), ora l'indagine ha portato alla luce tutti gli altri enti che Genovese aveva acquisito e non solo a Messina: Enfap, Enaip, Ial Training service, L&C Training and consulting, Cesam, Ecap, Cesofom, Apindustria Messina e Reti. Enti molti dei quali prima erano controllati da sindacati come la Cisl o la Uil con i quali il parlamentare avrebbe trattato per acquisirne il controllo approfittando della difficoltà economica in cui alcuni di loro si trovavano. Alcuni di questi enti - hanno scoperto i pm Camillo Falvo, Liliana Todaro, Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti - versavano in difficoltà economiche, e Genovese ne avrebbe acquisito la proprietà nonostante vi fossero debiti da sostenere. Un'operazione sospetta considerato che si tratta di associazioni no-profit che dovrebbero incassare esclusivamente denaro da destinare all'organizzazione dei corsi senza alcun margine di guadagno. Del tutto evidente dunque che operazioni di acquisizioni di enti in perdita sarebbero state antieconomiche. Ma servivano per drenare le ingenti risorse statali e comunitarie che gli enti controllati da Genovese si assicuravano quasi in esclusiva. "Nel corso del tempo - scrive  il gip Di Marco - "Genovese ha acquisito, grazie ad una serie di complici riferibili anche alla propria famiglia, il controllo di numerosi enti di formazione operanti in tutta la Sicilia e, parallelamente, di una serie di società che gli hanno permesso di giustificare le appropriazioni, così da lucrare illeciti profitti". Su tutti la Caleservice, già venuta fuori nella prima tranche dell'inchiesta, attraverso la quale Genovese fatturava ingenti somme, mai denunciate al fisco, per presunte consulenze mai effettuate e attraverso la quale scaricava spese per centinaia di milioni di euro relative a beni e consumi destinati a sè e alla sua famiglia. Persino sulle pulizie dei locali destinati ai corsi di formazione Genovese e i suoi avrebbero lucrato cifre spaventose, svariate centinaia di migliaia di euro, facendo figurare appalti a ditte che tutto facevano tranne servizi di pulizia.

Messina, l'Eden dei democratici. "Il partito? Qui c'è Francantonio". Viaggio nella città dove ha stravinto mister primarie: Francantonio Genovese il più votato in Italia, ha doppiato Fassina a Roma e De Maria a Bologna. "Clientelismo? Mi danno fastidio queste accuse. In una città al default come Messina  cerco di ascoltare la gente e adoperarmi per risolvere i problemi. Con meno risorse di quante ne avesse la Dc. E se vinco non vorrei vergognarmi", scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. "Sì, sinceramente questo risultato crea qualche problema". La sfida dello Stretto, alla fine, registra un esito "imbarazzante " persino per lo stesso vincitore. Francantonio Genovese, l'incontrastato regnante del Pd messinese, da ex democristiano sa bene che vincere è meglio che stravincere: "Sai quanti nuovi nemici adesso...". Lui, amante del low profile, ha costruito un risultato che non può passare inosservato: 19.590 preferenze su poco più di 24 mila votanti nella sua provincia. Numeri che contribuiscono a delineare i contorni bulgari dell'affermazione di mister primarie: Genovese è risultato di gran lunga il più votato in Italia. Per intenderci, Genovese ha conquistato quasi il doppio dei consensi di Stefano Fassina, primo a Roma, e di Andrea De Maria, miglior classificato nella rossa Bologna. Il suo risultato è stato quattro volte superiore a quello di Barbara Pollastrini, in cima alla graduatoria milanese. Qualcuno, davanti all'exploit messinese, ha gridato al miracolo della Madonna della Lettera che veglia sul transito dei traghetti nello Stretto, garantito peraltro dalla società di navigazione cui Genovese è azionista. Ma molti, fra gli amici (tanti) e i rivali (pochi) del deputato, non si sono affatto sorpresi. Conoscendo il bagaglio elettorale di Francantonio, uno capace solo un mese fa di portare Bersani al 75 per cento nelle primarie per il ruolo di candidato premier: altro record italiano. Uno che a ottobre spinse il cognato Franco Rinaldi in cima al podio dei candidati più votati alle Regionali: 18.600 suffragi. Si è ripetuto anche stavolta, Francantonio, assicurando l'elezione a se stesso e pure a Maria Tindara Gullo, un avvocato di Patti che non ha mai fatto politica e che ha superato quota 11 mila voti. Cifre che fanno di quest'angolo di Sicilia una sorta di Eden dei democratici. Risultati ancor più sorprendenti se si pensa che da queste parti il Pd è al 19 per cento: cifra ben lontana dal 40 per cento emiliano. A Messina il partito è lui, Francantonio: basti pensare che il Pd, per molte attività, ha eletto sede nella sua segreteria di via Primo settembre. E che a Genovese fanno riferimento 15 consiglieri comunali su 16, oltre naturalmente al responsabile provinciale Nino Bartolotta finito di recente come un alieno nel rutilante governo Crocetta, accanto a Battiato e Zichichi. Il presidente, per accontentare Genovese, ha dovuto fare una deroga alla regola del "niente politici in giunta": come non prestare orecchio a questo straordinario portatore di voti, degno nipote dell'otto volte ministro Nino Gullotti, l'uomo che sposò la Dc e che si vantava di avere 2 mila figliocci di cresime e battesimi? Con il rigoroso metodo scientifico dei democristiani veri, Genovese ha messo su per le primarie ben 25 seggi a Messina (a Palermo, città tre volte più grande, ce n'era uno solo), molti dei quali nelle sedi di circoli e patronati guidati da consiglieri entrati in competizione tra loro per far bella figura con il capo. Un seggio è stato allestito addirittura negli uffici di un ente di formazione, l'Aram, gestito da un amico di Genovese, Elio Sauta. Lì il deputato ha preso 200 voti su 212. La formazione, settore con ottomila dipendenti, è molto caro all'imprenditore Genovese: a enti riferibili a lui o alla sua famiglia (la moglie, tre cognati e un nipote) sono giunti oltre due milioni di contributi pubblici nel 2012. E nell'anno appena concluso esponenti di Innovazioni, la corrente di Genovese, hanno messo le mani su grossi enti quali lo Ial Cisl e l'Enfap Uil. Abbastanza per far urlare il suo ex vicesindaco Antonio Saitta: "Il Pd non ha bisogno del collateralismo di enti di formazione, patronati e apparati clientelari". "Clientelismo? Mi danno fastidio queste accuse. In una città al default come Messina  -  replica Genovese  -  cerco di ascoltare la gente e adoperarmi per risolvere i problemi. Con meno risorse di quante ne avesse la Dc. E se vinco, beh, non vorrei vergognarmi". Ma "un problema c'è", come dice Genovese. E il deputato Filippo Panarello lo delinea così: "A Messina siamo ai limiti del partito personale. Non proprio edificante per un Pd che vuole essere forza plurale e con una leadership contendibile". Se pensate che Genovese si arrabbi per questa critica, non conoscete il personaggio: "Partito personale? E' vero, sono conscio del problema. Lo risolveremo insieme. Ma intanto dovrebbero essere tutti contenti se il Pd cresce intercettando anche i voti di un centrodestra alla deriva. O no?"

Scandalo formazione, richiesta di arresto per il deputato Pd Francantonio Genovese. Ordine di custodia cautelare in carcere per l'ex sindaco di Messina accusato di aver sottratto sei milioni alla formazione professionale. Come avevamo scritto sull'Espresso, Genovese coltiva in Sicilia i suoi interessi economici: decine di società, con bilanci milionari, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. In questa legislatura la prima richiesta di arresto arriva per un deputato del Pd. Lui è l'onorevole Francantonio Genovese, di Messina, per il quale la procura ha chiesto ed ottenuto dal gip l'arresto che adesso è stata trasmessa alla Camera per l'autorizzazione a procedere. Il provvedimento del Giudice ipotizza il reato di associazione per delinquere, riciclaggio, peculato e truffa, e se la Camera accoglie la richiesta ne dispone gli arresti in carcere. L'atto è stato già notificato da Guardia di finanza e da agenti della squadra mobile della Questura di Messina alla presidenza della Camera. L'inchiesta punta sulle erogazioni pubbliche destinate al finanziamento di progetti formativi tenuti da numerosi centri di formazione professionale che erano di fatto riconducibili a Genovese e alla sua famiglia. Oltre ai già noti Lumen, Aram, Ancol sono finiti sotto inchiesta anche gli enti Enfap, Enaip, Ial, Training service L&C Learning e consulting, Cesam, Ecap, Esofop, Apindustria e Reti. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita, e dai sostituti, Camillo Falvo, Liliana Todaro, Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti, avrebbero permesso di accertare che i soggetti indagati, attraverso gli Enti di formazione e società appositamente create, grazie a prezzi gonfiati per l'acquisto di beni e servizi o, addirittura, a prestazioni totalmente simulate, sottraevano a loro vantaggio i fondi assegnati per lo svolgimento dei corsi di formazione. La gran parte degli indagati sono risultati tra loro legati da vincoli di parentela e di assoluta fiducia. Nelle scorse settimane l'Espresso aveva pubblicato una propria inchiesta giornalistica su Genovese da cui era emerso che tutti i mesi si mette in tasca lo stipendio da deputato. E, mentre a Roma siede in Parlamento, in Sicilia coltiva interessi economici. Una rete di decine di società, con bilanci milionari, che operano in tutti i campi: immobiliare, trasporti, servizi, telecomunicazioni e formazione professionale in Sicilia. È un politico potente Francantonio Genovese, esponente del Pd, ex sindaco di Messina, con un passato nella Democrazia cristiana e poi nella Margherita di Francesco Rutelli. È stato segretario regionale del Pd, appoggiato allora dall’ex ministro delle Comunicazioni Salvatore Cardinale. È ispiratore della corrente “Innovazioni” che si ritrova nel percorso di Renzi e alle ultime primarie per la candidatura alla Camera ha ricevuto nel messinese quasi ventimila voti su 24 mila complessivi. Ed è pure un bravo uomo d’affari, a quanto pare. Basta fargli due conti in tasca: dal 2008 (quando è stato eletto alla Camera dei deputati) al 2012, ha dichiarato redditi sempre in crescita: da 153 mila euro a 489 mila. In più, negli ultimi cinque anni, Genovese ha ottenuto dallo Stato, oltre al cospicuo mensile da deputato, anche un credito complessivo di imposte pari a un milione e 185 mila euro. Una bella somma, che non passa certo inosservata se ad ottenerla è un parlamentare. Lo Stato è in debito con lui, dunque. Ma come avrà fatto l’onorevole Genovese ad accumulare tutti quei crediti dal Fisco? Per chiarire queste cifre “l’Espresso” ha sollecitato per settimane il parlamentare. Gli ha chiesto di spiegare somme e crediti, eppure Genovese non ha voluto rispondere. Che ci sarà mai, dunque, dietro alle somme incasellate con grande professionalità, secondo le norme, nella sua dichiarazione dei redditi? Il decreto che rende conoscibili i patrimoni dei politici e dei loro familiari semplicemente cliccando sul sito della Camera non è stato preso in considerazione dal parlamentare, che è uno dei pochi deputati del Pd che sul proprio profilo web di Montecitorio non ha inserito la documentazione patrimoniale. I parlamentari, nonostante il decreto che li obbliga a rendere tutto trasparente, continuano insomma a pubblicare la dichiarazione dei redditi, il numero delle macchine e dei pacchetti azionari posseduti e le spese per la propaganda elettorale in maniera del tutto facoltativa. Così “l’Espresso” è andato alla Camera e ne ha chiesto visione: leggendo e scartabellando, è emerso che possiede decine di unità immobiliari e migliaia di azioni. Per la campagna elettorale che lo ha portato a Montecitorio, invece, ha stretto i cordoni della borsa, dichiarando la modesta spesa di 81 euro e 80 centesimi. Dai redditi indicati dall’ex sindaco di Messina, si ricava che Genovese è azionista in diverse società, in particolare una, Calaservice, che si occupa di “consulenza e pianificazione”, di “forniture di software e compravendita immobiliare”, il cui bilancio contiene un finanziamento che oggi arriva a circa 8 milioni di euro, effettuato dai due soci, che è stato alimentato nel corso degli anni. Nel 2005 era di cinque milioni e 600 mila euro. I soci sono Genovese, che detiene il 99 per cento del capitale, e suo cognato Franco Rinaldi, deputato regionale del Pd, indagato a Messina per l’inchiesta sulla formazione professionale, che detiene l’uno per cento rimanente. Eppure, considerato il reddito dichiarato dal socio di maggioranza, suona piuttosto strano un versamento così elevato. Anche esaminando i bilanci della Caleservice, che sono pubblici, si rileva che nel 2012 l’incremento del finanziamento è di 651 mila euro, mentre l’anno precedente di 451 mila. Cifre che appaiono poco congrue rispetto al reddito dichiarato dal deputato Genovese. La galassia di imprese in cui è entrato o uscito il parlamentare è vastissima. Una per tutte lo riporta a far affari con la pubblica amministrazione. È la “Mandarian Wimax Sicilia spa”, un’azienda di Catania che opera nel settore delle telecomunicazioni, in particolare nel mercato delle concessioni a banda larga in modalità wireless. Fondata nel marzo 2008, Genovese ne è diventato socio insieme al suo amico Franza, patron di alberghi a Messina e navi traghetto sullo Stretto siciliano. La “Mandarian” è uno dei cinque operatori assegnatari di licenza nazionale per l’utilizzo delle frequenze nella banda riservata al Wimax. È entrata in affari con imprese del gruppo Finmeccanica, si è consorziata con altre società di telecomunicazioni per prendere appalti anche in Iraq, per la ricostruzione dopo il conflitto. E in Sicilia negli ultimi due anni ha preso appalti con decine di Comuni per centinaia di milioni di euro, per la video sorveglianza o progetti per la sicurezza. In associazione temporanea di impresa la società di Genovese si è aggiudicato un lavoro per 25 milioni di euro dalla Regione siciliana per potenziare i ponti radio della Forestale. E poi ancora appalti nelle Asl, in particolare due anni fa a Palermo per la “realizzazione e gestione di un sistema informatizzato di archiviazione e trasmissione di immagini diagnostiche per l’Azienda” ad un costo di 8 milioni e 600 mila euro. Appalto affidato mentre l’azienda sanitaria era gestita dal manager Salvatore Cirignotta, arrestato a Palermo nelle scorse settimane e poi scarcerato, perché accusato di aver tentato di pilotare una gara per la fornitura di pannoloni. Un appalto da 42 milioni di euro. E mentre le province, secondo l’editto del governatore Rosario Crocetta, devono essere sciolte e commissariate, ecco che alle società di Genovese arrivano altri incarichi milionari proprio da questi enti. Tutto sotto gli occhi del presidente della Regione, che corre voce non vada d’accordo con l’ex sindaco, ma nonostante ciò ha inserito nella sua giunta un assessore che fa parte della corrente Genovese: si tratta di Nino Bartolotta alle Infrastrutture e la mobilità. L’ex sindaco di Messina è il ras delle preferenze nella sua città, uomo di potere e di consenso fin dai tempi della Prima repubblica. Un consenso consolidato dopo il 2007, quando guidò il Pd regionale. Potere che si mescola, dunque, agli affari. Con qualche grana per l’onorevole democratico. Nei mesi scorsi, il deputato del partito di Renzi è stato indagato per associazione per delinquere, peculato e truffa, insieme alla moglie, e ai cognati, perché coinvolti nell’inchiesta sui corsi di formazione. Per la procura di Messina c’era chi distraeva centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici destinati alla formazione e se ne appropriava in modo sistematico. E chi costruiva rendicontazioni infedeli traendo in inganno anche la Regione Sicilia. Un’indagine che offre uno spaccato della gestione privatistica dei soldi pubblici in cui emerge il ruolo fondamentale del parlamentare.

Gli strani affari dell'onorevole Francantonio Genovese. Il deputato dem ed ex sindaco di Messina ha la passione per le società. E ha presunti crediti dello Stato per 1,2 milioni di euro. Che non vuole spiegare, scrivono Lirio Abbate e Primo Di Nicola su “L’Espresso”. Tutti i mesi si mette in tasca lo stipendio da deputato. E, mentre a Roma siede in Parlamento, in Sicilia coltiva interessi economici. Una rete di decine di società, con bilanci milionari, che operano in tutti i campi: immobiliare, trasporti, servizi, telecomunicazioni e formazione professionale in Sicilia. È un politico potente Francantonio Genovese, esponente del Pd, ex sindaco di Messina, con un passato nella Democrazia cristiana e poi nella Margherita di Francesco Rutelli. È stato segretario regionale del Pd, appoggiato allora dall’ex ministro delle Comunicazioni Salvatore Cardinale. È ispiratore della corrente “Innovazioni” che si ritrova nel percorso di Renzi e alle ultime primarie per la candidatura alla Camera ha ricevuto nel messinese quasi ventimila voti su 24 mila complessivi. Ed è pure un bravo uomo d’affari, a quanto pare. Basta fargli due conti in tasca: dal 2008 (quando è stato eletto alla Camera dei deputati) al 2012, ha dichiarato redditi sempre in crescita: da 153 mila euro a 489 mila. In più, negli ultimi cinque anni, Genovese ha ottenuto dallo Stato, oltre al cospicuo mensile da deputato, anche un credito complessivo di imposte pari a un milione e 185 mila euro. Una bella somma, che non passa certo inosservata se ad ottenerla è un parlamentare. Lo Stato è in debito con lui, dunque. Ma come avrà fatto l’onorevole Genovese ad accumulare tutti quei crediti dal Fisco? Per chiarire queste cifre “l’Espresso” ha sollecitato per settimane il parlamentare. Gli ha chiesto di spiegare somme e crediti, eppure Genovese non ha voluto rispondere. Che ci sarà mai, dunque, dietro alle somme incasellate con grande professionalità, secondo le norme, nella sua dichiarazione dei redditi? Il decreto che rende conoscibili i patrimoni dei politici e dei loro familiari semplicemente cliccando sul sito della Camera non è stato preso in considerazione dal parlamentare, che è uno dei pochi deputati del Pd che sul proprio profilo web di Montecitorio non ha inserito la documentazione patrimoniale. I parlamentari, nonostante il decreto che li obbliga a rendere tutto trasparente, continuano insomma a pubblicare la dichiarazione dei redditi, il numero delle macchine e dei pacchetti azionari posseduti e le spese per la propaganda elettorale in maniera del tutto facoltativa. Così “l’Espresso” è andato alla Camera e ne ha chiesto visione: leggendo e scartabellando, è emerso che possiede decine di unità immobiliari e migliaia di azioni. Per la campagna elettorale che lo ha portato a Montecitorio, invece, ha stretto i cordoni della borsa, dichiarando la modesta spesa di 81 euro e 80 centesimi. Dai redditi indicati dall’ex sindaco di Messina, si ricava che Genovese è azionista in diverse società, in particolare una, Calaservice, che si occupa di “consulenza e pianificazione”, di “forniture di software e compravendita immobiliare”, il cui bilancio contiene un finanziamento che oggi arriva a circa 8 milioni di euro, effettuato dai due soci, che è stato alimentato nel corso degli anni. Nel 2005 era di cinque milioni e 600 mila euro. I soci sono Genovese, che detiene il 99 per cento del capitale, e suo cognato Franco Rinaldi, deputato regionale del Pd, indagato a Messina per l’inchiesta sulla formazione professionale, che detiene l’uno per cento rimanente. Eppure, considerato il reddito dichiarato dal socio di maggioranza, suona piuttosto strano un versamento così elevato. Anche esaminando i bilanci della Caleservice, che sono pubblici, si rileva che nel 2012 l’incremento del finanziamento è di 651 mila euro, mentre l’anno precedente di 451 mila. Cifre che appaiono poco congrue rispetto al reddito dichiarato dal deputato Genovese. La galassia di imprese in cui è entrato o uscito il parlamentare è vastissima. Una per tutte lo riporta a far affari con la pubblica amministrazione. È la “Mandarian Wimax Sicilia spa”, un’azienda di Catania che opera nel settore delle telecomunicazioni, in particolare nel mercato delle concessioni a banda larga in modalità wireless. Fondata nel marzo 2008, Genovese ne è diventato socio insieme al suo amico Franza, patron di alberghi a Messina e navi traghetto sullo Stretto siciliano. La “Mandarian” è uno dei cinque operatori assegnatari di licenza nazionale per l’utilizzo delle frequenze nella banda riservata al Wimax. È entrata in affari con imprese del gruppo Finmeccanica, si è consorziata con altre società di telecomunicazioni per prendere appalti anche in Iraq, per la ricostruzione dopo il conflitto. E in Sicilia negli ultimi due anni ha preso appalti con decine di Comuni per centinaia di milioni di euro, per la video sorveglianza o progetti per la sicurezza. In associazione temporanea di impresa la società di Genovese si è aggiudicato un lavoro per 25 milioni di euro dalla Regione siciliana per potenziare i ponti radio della Forestale. E poi ancora appalti nelle Asl, in particolare due anni fa a Palermo per la “realizzazione e gestione di un sistema informatizzato di archiviazione e trasmissione di immagini diagnostiche per l’Azienda” ad un costo di 8 milioni e 600 mila euro. Appalto affidato mentre l’azienda sanitaria era gestita dal manager Salvatore Cirignotta, arrestato a Palermo nelle scorse settimane e poi scarcerato, perché accusato di aver tentato di pilotare una gara per la fornitura di pannoloni. Un appalto da 42 milioni di euro. E mentre le province, secondo l’editto del governatore Rosario Crocetta, devono essere sciolte e commissariate, ecco che alle società di Genovese arrivano altri incarichi milionari proprio da questi enti. Tutto sotto gli occhi del presidente della Regione, che corre voce non vada d’accordo con l’ex sindaco, ma nonostante ciò ha inserito nella sua giunta un assessore che fa parte della corrente Genovese: si tratta di Nino Bartolotta alle Infrastrutture e la mobilità. L’ex sindaco di Messina è il ras delle preferenze nella sua città, uomo di potere e di consenso fin dai tempi della Prima repubblica. Un consenso consolidato dopo il 2007, quando guidò il Pd regionale. Potere che si mescola, dunque, agli affari. Con qualche grana per l’onorevole democratico. Nei mesi scorsi, il deputato del partito di Renzi è stato indagato per associazione per delinquere, peculato e truffa, insieme alla moglie, e ai cognati, perché coinvolti nell’inchiesta sui corsi di formazione. Per la procura di Messina c’era chi distraeva centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici destinati alla formazione e se ne appropriava in modo sistematico. E chi costruiva rendicontazioni infedeli traendo in inganno anche la Regione Sicilia. Un’indagine che offre uno spaccato della gestione privatistica dei soldi pubblici in cui emerge il ruolo fondamentale del parlamentare.

CHE FINE FANNO LE NOSTRE DENUNCE: IL CASO DI PROVVIDENZA GRASSI.

Provvidenza Grassi: la ragazza sparita e insultata dai carabinieri. "Quella è una puttana": così due carabinieri parlavano di Provvy, la 27enne trovata morta a Messina. L'audio shock  pubblicato da "Chi l'ha visto?" che ha registrato per errore un discorso fra due carabinieri: "Quella è una zoccola" dicono senza sapere di essere ascoltati.  "Quella è una puttana, una zoccola. Il padre rompe sempre, è un coglione". "Quella" è Provvidenza Grassi, la 27enne messinese scomparsa da casa il 10 luglio 2013 e travata morta il 24 gennaio 2014 nella sua Fiat 600 sotto il viadotto autostradale di Bordonaro. A parlare sono due carabinieri che non sanno di essere ascoltati e che si scambiano delle frasi pesantissime. Le loro parole vengono registrate per caso dalla trasmissione di RaiTre "Chi l'ha visto?" che aveva chiamato proprio i due agenti per avere delle notizie sul caso della ragazza scomparsa. "Questa è una puttana, una zoccola. C'è Chi l'ha visto, non possiamo fottercene" dicono i due carabinieri. Che poi parlano del padre della ragazza - che in quel momento era ancora dispersa - lamentandosi del fatto che l'uomo vada spesso in caserma a chiedere informazioni. "Capita sempre di domenica pomeriggio - si sfoga uno dei due - E' la terza domenica pomeriggio che rompe i coglioni, più il giorno di ferragosto". Quindi, i due parlano di qualcuno che avrebbe cacciato il padre di Provvidenza Grassi dalla caserma: "Perché rompe i coglioni, si mette a piangere. E' un coglione, poi lo conoscerai, tanto verrà". «Quella puttana scomparsa…È una zoccola e ora non ce ne possiamo fottere perché c’è Chi l’ha visto? che se ne occupa. Il padre poi rompe sempre i coglioni in caserma. L’ho cacciato. È un coglione». Queste le parole andate in onda a Chi l’ha visto che ha raccolto una telefonata di tre mesi fa nella quale i carabinieri si sono lasciati sfuggire le offese gravissime. L’inviato della trasmissione, Giuseppe Pizzo, aveva chiesto loro notizie su pressione del padre su una presunta pista calabrese citata da una donna che sosteneva che la ragazza potesse essere stata sequestrata da uomini pericolosi. I carabinieri una volta conclusa la telefonata avrebbero lasciato la cornetta alzata rivelando il loro pensiero sulla giovane scomparsa, definita «puttana» e «zoccola» mentre il padre è stato bollato come «rompicoglioni» e «coglione». Intanto per la morte di Provvidenza Grassi, che dovrebbe essere avvenuta per un incidente la sera stessa della scomparsa, sono indagate sei persone per omicidio colposo perché il guard rai che ha ceduto non era a norma.

Sui giornali di oggi c’è la storia di Provvidenza Grassi, la ragazza sparita e insultata dai carabinieri in un’intercettazione in cui caso è stato portato alla luce da Chi l’ha visto?. La ragazza viene ritrovata per caso da un elettricista sei mesi dopo, il 23 gennaio 2014. Il corpo era vicino alla sua auto, tra i rovi, sotto un viadotto dell’autostrada. La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati sei dirigenti del Cas (Consorzio autostrade siciliane) per omicidio colposo: il guardrail contro il quale avrebbe impattato l’auto della giovane non sarebbe regolare e non avrebbe fermato la corsa del veicolo. Racconta il Corriere della Sera: La sensazione amara che la figlia dovesse essere cercata meglio si trasformò subito nell’ossessione di Papà Grassi, impiegato in una casa di cura a Messina, e della moglie, la signora Maria, decisi con il loro avvocato, Giuseppina Iaria, a insistere, pressare, invocare. Fino a sbattere contro la strafottenza denunciata da quella odiosa registrazione in cui Grassi è solo uno che «rompe sempre i c… in caserma », come dice un carabiniere senza nome per la cronaca parlando con un collega: «L’ho cacciato. È un c…, te ne renderai conto anche tu. È venuto anche il giorno di Ferragosto e poi si mette sempre a piangere». Una storia disgustosa: Parole pronunciate in autunno, durante indagini a scartamento ridotto, al termine del colloquio telefonico con il cronista Giuseppe Rizzo, per un attimo rimasto alla cornetta dopo i saluti, colpito dalle battute captate mentre stava chiudendo la conversazione, rimasto in linea col registratore aperto, incredulo. Come la stessa Sciarelli, sconcertata, ma allora decisa a non rendere pubblici quei disgustosi commenti: «È una zoccola ed ora non ce ne possiamo fottere perché c’è “Chi l’ha visto” che se ne occupa”. Ed ancora: “Quella p… scomparsa…”». Quanto basta perché l’avvocato Iaria passi al contrattacco: «Chiediamo il trasferimento dell’indagine ad altra Procura».

Chi l’ha visto e il mistero della morte di Provvidenza Grassi, scrive Giornalettismo. Un servizio di Raitre elenca gli interrogativi nella storia della ragazza trovata senza vita a Messina. Chi l’ha visto nella puntata in onda ieri sera ha ricostruito ancora una volta la storia e gli interrogativi legati alla scomparsa e alla morte di Provvidenza Grassi, la ragazza messinese che non aveva dato più notizie di sè dallo scorso 10 luglio e ritrovata senza vita il 10 gennaio ai piedi di un viadotto (poco distante dalla sua auto). A chiede di far luce fino in fondo sul caso sono ovviamente soprattutto i genitori. Il papà di Provvidenza, Giovanni, lo ha chiesto ancora una volta, in diretta, negli studi della trasmissione di Raitre condotta da Federica Sciarelli.

LE TELEFONATE AI GENITORI – Il primo mistero riguarda alcune telefonate. Lo hanno esposto i genitori durante un’intervista rilasciata un mese dopo la scomparsa. I Carabinieri, che si presume conoscessero il numero di cellulare della mamma di una persona, a pochi giorni dalla scomparsa avrebbero chiamato la donna chiedendole ‘Lei chi è?’. «Nel tabulato risulta il suo numero», avrebbero chiesto i militari alla signora Grassi riferendosi ad una telefonata anonima che risultava dai tabulati di Provvidenza. Secondo i Carabinieri la ragazza avrebbe fatto uno squillo alla mamma senza numero visibile. Ma la signora non ricordava di aver sentito nulla. «Non l’ho sentito questo squillo». Come mai i Carabinieri hanno chiesto alla mamma di Provvidenza Lei chi è? Quando è arrivato lo squillo alla mamma di Provvidenza? E chi lo aveva fatto?

LA TELEFONATA AL FIDANZATO - Altro mistero. Chi ha chiamato Fabio, fidanzato di Provvidenza, con numero anonimo, nei giorni successivi alla scomparsa? È Fabio il ragazzo con il quale Provvidenza ha trascorso l’ultima sera prima che si perdessero le sue tracce. Fabio racconta di aver sentito Provvidenza piangere al telefono, il giovedì o il venerdì – spiega il giovane -, al massimo il sabato, due o tre giorni dopo la scomparsa. Il ragazzo dice di aver sentito solo piangere una ragazza, ma si dice certo si trattasse di Provvidenza, alla quale avrebbe poi posto delle domande senza ottenere alcuna risposta. È possibile che qualcuno avesse fatto delle telefonate a Fabio solo per divertimento facendo pensare che la sua ragazza fosse ancora viva?

L’SMS DEL FIDANZATO - L’interrogativo dell’sms. Fabio, mentre Provvidenza torna a casa a Messina, le invia un sms. Sono le 2 e 15 di notte. Il ragazzo non riceve risposta. Provvidenza ha letto quel messaggio?

GLI INDUMENTI – Il mistero degli indumenti indossati la sera prima di scomparire. Provvidenza, come raccontato da Fabio e da un amico, indossava jeans con strass, scarpe marroni e una maglietta marrone. Ma da indiscrezioni raccolte da Chi l’ha visto emerge qualcosa di diverso. La ragazza al momento del ritrovamento, rivela la trasmissione, indossava jeans senza strass, un giacchetto nero e scarpe di colore non marrone. Ma non solo: Fabio ha riconosciuto i jeans con strass indossati da Provvidenza tra gli indumenti a casa della ragazza. Provvidenza come mai indossava jeans diversi, dunque, al momento della scomparsa? Come mai i jeans con strass sono a casa? È tornata a casa quella notte prima che si perdessero le sue tracce?

IL TESTIMONE – La tangenziale che porta a Messina è trafficata. È possibile che nessuno abbia sentito un rumore quella notte d’estate. Nessun altro stava percorrendo il tunnel dal quale sarebbe precipitata Provvidenza con la sua auto? Giovanni Scivolone, residente poco lontano dalla tangenziale, racconta di aver sentito una frenata e un forte impatto alla galleria alle 2 e 23 esatte di notte mentre era affacciato al balcone e fumava una sigaretta. Ma fissa una data inesatta. Provvidenza è scomparsa nella notte tra il 9 e il 10 luglio. Il testimone indica però la notte tra il 10 e l’11 luglio.

Caso Provvidenza Grassi, il padre: “Si puniscano i carabinieri che l’hanno offesa”. L'uomo, nel corso dell'ultima puntata di Chi l'Ha Visto?, ha lanciato un messaggio al Presidente della Repubblica affinché i carabinieri che dissero "puttana" alla figlia scomparsa vengano destituite dai loro incarichi. L'Arma ha garantito che sono stati già presi provvedimenti. Nei confronti dei due carabinieri della caserma di Messina registrati da un inviato di Chi l’Ha Visto mentre offendevano Provvidenza Grassi l’Arma ha preso seri provvedimenti, scrive Fan Page. I due militari, conversando, avevano offeso sia la ragazza che suo padre che la stava cercando. Quest’ultimo è andato nello studio di Chi l’Ha Visto ed ha lanciato un appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano perché non accada di nuovo che un padre in cerca disperata della figlia venga trattato come un “rompicoglioni” e che la scomparsa venga apostrofata come “puttana”. “Se fosse stata figlia loro avrebbero fatto di tutto per cercarla. Invece se ne sono lavati le mani perché a soffrire erano degli estranei”, ha detto l’uomo. “Voglio che queste persone del comando, che si sono sono sempre negate ogni volta che andavo a chiedere aggiornamenti, vengano destituite dai loro incarichi”. Provvidenza Grassi era sparita tra il 9 e il 10 luglio scorso a Messina. Il suo cadavere è stato rinvenuto recentemente sotto un viadotto autostradale: ciò ha fatto ipotizzare agli inquirenti la pista dell’incidente oppure quella dell’omicidio. Il padre di Provvidenza non si era mai rassegnato all’idea che la figlia fosse scappata di casa. Per questo si era rivolto anche a Chi L’Ha Visto? che aveva iniziato a indagare sul caso con l’inviato Giuseppe Pizzo che, rivolgendosi ai militari per chiedere delucidazioni sul caso, aveva udito al telefono che uno dei due diceva: “Quella puttana scomparsa”. Poi anche: “È una zoccola e ora non ce ne possiamo fottere perché c’è ‘Chi l’ha visto?’ che se ne occupa. Il padre poi rompe sempre i coglioni in caserma. L’ho cacciato. E’ un coglione”. Infine: “Rompe i coglioni e dice: ‘Voi mi dovete dire’… e poi si mette a piangere”. Provvidenza Grassi, 27 anni, è scomparso nella notte tra il 9 e 10 luglio a Messina. Il suo corpo privo di vita è stato rinvenuto pochi giorni fa nella auto sotto il viadotto autostradale di Bordonaro, sulla Messina-Catania, all’uscita dello svincolo di Gazzi, dove è probabilmente rimasta vittima di un incidente. Dopo la sua misteriosa sparizione, si era pensato ad un allontanamento volontario. Ma il ritrovamento del cadavere ha portato gli inquirenti all’apertura di due piste: quella dell’omicidio e quella, appunto, della disgrazia stradale. Quest’ultima ipotesi è quella privilegiata, dal momento che non sarebbero emersi elementi che fanno pensare ad una morta violenta provocata da una aggressione. Il padre di Provvidenza non si era mai rassegnato all’idea che la figlia fosse scappata di casa. Per questo si era rivolta anche a Chi L’Ha Visto? che aveva iniziato a indagare sul caso con l’inviato Giuseppe Pizzo.

«Nostra figlia è stata ammazzata, la sua auto spinta fuori strada da un’altra macchina»: torna alla carica la famiglia di Provvidenza Grassi, la 27enne di Messina scomparsa il 10 luglio del 2013 e ritrovata morta nella sua Fiat 600 bianca la sera del 23 gennaio scorso, sotto il ponte dell’autostrada nella zona di Bordonaro, scrive “Il Corriere della Sera”. E lo fa nel giorno in cui sono iniziati gli esami dei periti sulla carcassa dell’automobile della ragazza, ritrovata dietro una cabina elettrica da un operaio dell’Anas.I periti cercheranno di capire cosa abbia provocato la perdita di controllo dell’auto da parte della ragazza, spingendola contro il guard rail.Il primo esame sull’auto ha rivelato dei segni sulla parte posteriore e lateralmente: ma si tratta di segni ambigui, che possono essere indizi sia di un tamponamento che di uno schiacciamento dovuto all’incidente. Qualche elemento in più dovrebbe arrivare nei prossimi giorni dagli esami dei Ris dei carabinieri. E’ l’accusa che gli inquirenti hanno formulato a carico di sei dirigenti del Consorzio autostrade siciliane, accusati anche di cattiva manutenzione stradale. L’ipotesi più semplice è infatti che la ragazza abbia urtato con la sua macchina il guard rail, che in quel punto è danneggiato, per poi fare un volo di più di dieci metri e precipitare di sotto. Anche se risulta strano come da quel punto l’auto sia potuta volare, visto che non ci sono altri segni di impatto vicini al luogo del presunto incidente.Un altro dettaglio che non torna emerge dai filmati della televisione locale di Messina, Tremedia, esaminati insieme ad un inviato della trasmissione «Chi l’ha visto», che fin dal primo momento aveva parlato della scomparsa della ragazza: quel tratto di guard rail il 23 luglio, quindi 13 giorni dopo il presunto incidente, se,brava ancora integro. Un altro particolare poco chiaro riguarda i jeans con gli strass, che Provvidenza, che lavorava in un negozio di casalinghi, indossava la sera della scomparsa: almeno stando alla testimonianza del fidanzato, Fabio. Ma gli inquirenti forse dubitano della sua credibilità, visto che durante le indagini Fabio è stato arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti, e ora è agli arresti domiciliari. Poi c’è il telefonino della ragazza, che fino alle 10.30 del 10 luglio risultava agganciato alla cella di Santa Lucia sopra Contesse, che è la cella che aggancia sia la zona in cui abitava Provvidenza che il luogo in cui è stato ritrovato il suo corpo. Il cellulare è sempre stato insieme a Provvidenza oppure no? Il caso della morte di Provvidenza è inquinato anche dalle frasi spiacevoli che i carabinieri della caserma di Messina, a cui si era rivolto il padre della ragazza la mattina della scomparsa della figlia. In una telefonata con il programma «Chi l’ha visto?», in cui i carabinieri credevano di aver riagganciato, hanno parlato del padre di Provvidenza e della stessa ragazza in maniera volgare, insultando anche l’uomo per le pressioni fatte per ritrovare la ragazza. Il padre di Provvidenza, Giovanni Grassi,ha infatti sempre lamentato la negligenza delle forze dell’ordine nel condurre le ricerche e le indagini sul caso. E dopo aver ascoltato le offese in diretta tv, ha chiesto che i carabinieri venissero puniti. Secondo indiscrezioni, i tre sarebbero stati trasferiti in una località del Nord e avrebbero avuto 10 giorni di consegna. Intanto, anche l’avvocato della famiglia di Provvidenza Grassi, Giuseppina Iaria, ha chiesto lo spostamento delle indagini in un’altra Procura, e nell’attesa di una decisione ha chiesto che siano sospese. Ma forse a chiarire il giallo potrà essere solo l’autopsia sul corpo della ragazza: per i risultati bisognerà aspettare 60 giorni.

UNIVERSITOPOLI. UNIVERSITA’ TRUCCATA.

Concorsi truccati all'Università: due docenti ai domiciliari. La commissione giudicatrice e i vincitori delle selezioni venivano stabiliti a monte dagli arrestati, con la collaborazione di tre loro colleghi, adesso indagati. L'indagine scaturita da una falsa fattura rimborsata a uno degli arrestati, scrive “La Repubblica”. Nuovo scossone sull'Università di Messina, da anni al centro di inchieste e scandali legati alla corruzione dei docenti. La Guardia di finanza ha arrestato due docenti dell'Università di Messina ritenuti responsabili di avere inquinato un concorso per ricercatore in Microbiologia e Microbiologia Chimica, allo scopo di pilotarne l'esito. L'operazione, ribattezzata "Pacta servanda sunt", è il risultato di indagini protrattesi per mesi e che hanno messo in luce un vero e proprio sistema deviato delle procedure concorsuali che regolano l'accesso al mondo accademico non solo messinese. Le indagini sono state coordinate dal procuratore aggiunto Ada Merrino e dal sostituto Diego Capece Minutolo. Le ordinanze di custodia cautelare, agli arresti domiciliari, firmate dal gip Massimiliano Micali, sono state eseguite nei confronti di un Direttore di Dipartimento dell'Università di Messina nonché professore ordinario presso il medesimo dipartimento, e di un altro professore ordinario dello stesso Ateneo. Indagati per i medesimi fatti, altri tre docenti, che svolgono la loro attività anche in altre Università. Gli investigatori hanno accertato che sia la commissione giudicatrice, che il vincitore del concorso, venivano stabiliti a monte dagli arrestati, con la collaborazione dei loro colleghi. Nel concorso oggetto delle indagini, nonostante l'accurata pianificazione della procedura, che avrebbe dovuto chiudersi con la nomina a ricercatore di un parente di uno degli arrestati, la presenza di un candidato con un punteggio più elevato aveva creato qualche problema agli indagati che, per portare a termine il piano, sarebbero giunti a costringere il concorrente meritevole a ritirarsi consentendo la proclamazione del candidato predesignato. "Pacta servanda sunt". I patti vanno rispettati, così in una intercettazione telefonica i due arrestati avrebbero concordato circa la necessità che il candidato, potenziale vincitore del concorso, dovesse rispettare i patti, ovvero ritirarsi, dietro la promessa di una sua successiva sistemazione in altra procedura concorsuale per ricercatore. L'indagine è scaturita da una denuncia per una falsa fattura utilizzata presso il Dipartimento, dove operava uno dei destinatari delle misure cautelari e ha consentito di accertare l'appropriazione di somme da parte di quest'ultimo dalla gestione del "fondo economale" del Dipartimento con il concorso di un dipendente della medesima facoltà.

I patti vanno rispettati. Anche quelli illeciti, stipulati per favorire il figlio del barone di turno, assicurandogli la sicura promozione al concorso, scrive Antonio Castaldo su “Il Corriere della Sera”. Succede nell'Università di Messina, non nuova a scandali di questo tipo. La Guardia di Finanza ha messo agli arresti domiciliari due docenti accusati di «aver gravemente inquinato» un concorso per ricercatore in Microbiologia bandito nel 2010. Si tratta di Giuseppe Teti, docente di Microbiologia e componente della commissione esaminatrice e del direttore di dipartimento di Farmacia, Giuseppe Giovanni Bisignano. Quest'ultimo, secondo l'accusa, avrebbe chiesto e ottenuto una pista preferenziale per il figlio Carlo, che ha poi effettivamente vinto la selezione. Cinque gli indagati, e tra questi anche l'ex rettore Francesco Tomasello. Gli altri indagati sono la delegata del rettore per la composizione della commissione, Maria Chiara Aversa, un docente di Camerino, Sandro Ripa, uno di Catania, Giuseppe Nicoletti, e il gestore dell'economato del dipartimento di Farmacia Cesare Grillo. Non avrebbero vigilato nella formazione della commissione. Il tutto, come scrive il sito Messina Oggi, sarebbe stato scoperto dalla Guardia di Finanza grazie ad una intercettazione: «Pacta sunt servanda», si dicono i due, confermando l'esistenza di un accordo. I finanzieri del comando provinciale messinese parlano di «un vero e proprio sistema deviato delle procedure concorsuali che regolano l'accesso al mondo accademico». Le indagini sono state coordinate dal procuratore aggiunto Ada Merrino e dal sostituto Diego Capece Minutolo. Secondo gli inquirenti, «sia la commissione giudicatrice, che il vincitore del concorso, venivano stabiliti a monte dagli arrestati, con la collaborazione dei loro colleghi». Secondo le indagini il piano rischiava di saltare perché un altro candidato aveva raggiunto un punteggio più alto di quello che secondo i docenti coinvolti doveva vincere il concorso. In un'intercettazione telefonica, i due arrestati concordano sulla necessità che il candidato col punteggio più alto debba rispettare i patti, ovvero ritirarsi, dietro la promessa di una sua successiva sistemazione in altra procedura concorsuale per ricercatore. L'indagine è scaturita da una denuncia per una falsa fattura utilizzata presso il Dipartimento, dove operava uno dei destinatari delle misure cautelari e ha consentito di accertare l'appropriazione di somme da parte di quest'ultimo dalla gestione del «fondo economale» del Dipartimento con il concorso di un dipendente della medesima facoltà. Dopo aver appreso la notizia dell'operazione della Guardia di Finanza, il senato accademico e il consiglio d'amministrazione dell'università hanno deciso la sospensione dei due docenti agli arresti domiciliari. Senato e Cda, presieduti dal prorettore vicario, professor Emanuele Scribano, hanno approvato all'unanimità il seguente documento: «Il Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione, adotteranno ogni opportuna iniziativa prevista dalla legge, ivi inclusa la sospensione immediata dal servizio dei docenti oggetto dei provvedimenti cautelari e la costituzione di parte civile in un eventuale procedimento giudiziario. Verrà altresì sospesa la presa di servizio del vincitore del concorso oggetto di indagine per rivalutare, alla luce delle risultanze processuali, ogni profilo della vicenda. Il nuovo governo dell'Ateneo, nel confermare sostegno e fiducia nell'azione della Magistratura, è più che mai determinato ad impedire che si verifichino episodi di illegalità». Fin dal 1998 e dall'omicidio di Matteo Bottari, l'università di Messina e la facoltà di Medicina in particolare, sono stati oggetto di inchieste della magistratura. Di recente si è tornato a parlare dell'ateneo messinese per un docente iscritto all'elenco nazionale dei valutatori, con un curriculum palesemente taroccato. Lo scorso sei luglio 2013, la Dia di Catania ha invece arrestato sei dipendenti dell'università, tra docenti e funzionari, nell'ambito di un'inchiesta su una presunta compravendita di esami. Dietro i traffici di voti e di lauree c'era la 'ndrangheta, che da oltre vent'anni utilizza l'ateneo messinese come «diplomificio» per i rampolli dei boss.

È un bene che i professori universitari non siano più intoccabili. Soprattutto gli ordinari (di cui io stesso faccio parte) quando per interessi personali assumono o fanno progredire in carriera giovani ricercatori e docenti di scarso valore, scrive Andrea Ichino su “Il Corriere della Sera”. E anche quando si dimenticano che il loro compito è fare ricerca rilevante per il dibattito scientifico e insegnare nel migliore dei modi agli studenti loro affidati. Posto che il processo confermi le colpe dei professori di Messina accusati di aver manipolato concorsi, sarà quindi una buona notizia se essi perderanno il posto. Altrimenti avrebbero davvero ragione i sindacalisti che protestano contro i professori che chiedono flessibilità alle altre categorie di lavoratori senza saper lavare i panni sporchi in casa propria. Ma la stranezza italiana è che questo accada per un intervento della magistratura, non grazie ad un sistema di valutazione degli atenei che punisca chi non merita e chi fa scelte dannose per la qualità dei propri dipartimenti. In un Paese normale, i professori di Messina avrebbero perso il posto di lavoro prima ancora di essere messi sotto processo dalla magistratura, perché un sistema di valutazione, centralizzato o basato sul mercato, avrebbe punito i loro comportamenti. Anzi, non ci avrebbero nemmeno provato ad assumere colleghi senza merito, per paura di perdere fondi di ricerca, studenti e prestigio. Avrebbero invece cercato di assumere ricercatori migliori di loro perché avrebbero migliorato il loro dipartimento e la loro attività di ricerca. Quando gli incentivi sono corretti e forti, non serve la magistratura. In futuro, quindi, speriamo che sia l’Anvur a punire i professori senza meriti. E all’Anvur sarebbe bene affiancare anche strumenti di valutazione basati sul mercato, come con Daniele Terlizzese abbiamo proposto in “Facoltà di Scelta”(Rizzoli, 2013). Non è una questione di amici e parenti. Quando Maldini padre scelse il figlio per capitanare la difesa della Nazionale di calcio ai Mondiali, nessuno protestò perché Paolo Maldini era semplicemente il migliore per quel ruolo. Nessuno parlò di “parentopoli” in quel caso. Tutti avevano gli occhi puntati su Maldini padre che senza bisogno dello spauracchio dei magistrati fece la scelta migliore.

LA MAFIA E L’UNIVERSITA’

Esami facili a Messina, così la 'ndrangheta comandava l'università.

L'organizzazione influenzava le prove di ammissione alla facoltà a numero chiuso e agli esami, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Un'altra ombra oscura l'Università di Messina. Dopo il servizio delle Iene sulla parentopoli, i concorsi truccati e i raccomandati, ecco la Dia scoprire una vera e propria compravendita di esami e titoli di laurea nell’ateneo di Messina da anni al centro di scandali e inchieste della magistratura. Significativa è sul punto l’intercettazione ambientale nella quale Montagnese spiega che esistono due metodi:

quello del condizionamento violento dei docentise tu ti vuoi prendere gli esami senza fare un cazzo.. e..senza problemi, allora bisogna andare praticamente a minacciare…non c’è niente da fare è così…è questo il sistema… quello si caca di sotto … è tutto la il discorso…inc..bisogna andare a minacciare…bisogna andare a minacciare e saperlo fare…perche se no, sei fottuto…”;

quello del condizionamento “politico”:e poi c’e’ il metodo Caratozzolo…. Caratozzolo và..dice: “questo è un amico..un..cosa..vediamo che possiamo fare.. parapì..parapù”, per dire che l’organizzazione può intimidire o condizionare a seconda degli obiettivi utilizzando la ‘ndrangheta o i docenti amici.

Nei dialoghi intercettati della Dia, Domenico Montagnese spiega chiaramente il "sistema" che veniva portato avanti all'ateneo di Messina. Le indagini, dirette dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita e dal sostituto procuratore Liliana Todaro della Dda di Messina, sono cominciate nel luglio 2012 in vista degli esami di ammissione alle varie facoltà previsti per il successivo settembre. Indagini che hanno consentito di individuare un’organizzazione criminale all’ombra della ’ndrangheta: al vertice vi era Domenico Montagnese. Attraverso intercettazioni telefoniche e ambientali e pedinamenti, appostamenti e riprese filmate, la Dia ha infatti documentato in diretta incontri e pagamenti. Il sistema di "favori e intercessioni" emerso dalle indagini andava dal diffuso malcostume della raccomandazione all’efficace e grave interferenza sulle commissioni d’esame tanto da alterare risultati dei test di accesso alle Facoltà a numero chiuso e condizionare pesantemente alcune commissioni esaminatrici per le abilitazioni professionali come quelle per la professione di dottore commercialista. "Il consistente e variegato tessuto relazionale nel quale l’organizzazione criminale ha potuto progettare i propri ambiti di operatività  - dicono gli investigatori - è connotato da autorevoli nomi di docenti, che il sodalizio ha ritenuto a disposizione per attuare una vera e propria modalità". Dall'avvicinamento dei docenti alla corruzione anche attraverso piccole regalie in grado di "ammorbidire" l’atteggiamento dei professori più esigenti ma comunque sensibili alla "premura", dalle minacce alle intimidazione l'organizzazione criminale riusciva, ogni volta, a garantirsi il risultato finale, ovvero il superamento dell’esame. "Qualora le condizioni, i rapporti con il docente o la scarsa preparazione del candidato, non consentivano a procedere attraverso un più cauto 'avvicinamento' - chiariscono gli inquirenti - passavano a un’azione decisa e risolutoria". Dietro compenso economico, Domenico Montagnese e Marcello Caratozzolo offrivano a vario titolo il loro interessamento per il superamento degli ostacoli ad esami ed abilitazioni. Ma non solo. In periodo elettorale, anche l’impegno a far ottenere idoneità scolastiche senza problemi vale la promessa di un voto. Il gruppo carpiva, infatti, il controllo sul territorio attraverso il consenso da parte dei giovani studenti alla ricerca dei risultati sperati. In tale cornice si inserisce il reciproco scambio di favori tra sodali, culminato nel sostegno politico offerto dall’organizzazione criminale a Dino Galati Rando, ex consigliere provinciale di Messina, in occasione della sua candidatura alle scorse elezioni regionali, attraverso un sistema in cui sono state barattate preferenze elettorali con idoneità scolastiche garantite attraverso le scuole private già riconducibili allo stesso Galati Rando e ai suoi congiunti. "L’organizzazione criminale - spiega la Dia tesseva efficaci relazioni e rapporti d’affari con i docenti nonché con personale amministrativo, con lo scopo di influenzare, dietro pagamento di somme di danaro, l’andamento di esami universitari per interferire sullo svolgimento delle prove preselettive di accesso a Facoltà a numero chiuso, per far conseguire l’abilitazione alle libere professioni, senza che sia mai stata persa di vista e manifestata, con prepotente arroganza, l’origine calabrese dell’indagato Montagnese che ha imposto i propri metodi di intimidazione ed influenza per consentire alla clientela 'protetta' richiedente il favore di cui di volta in volta aveva bisogno in cambio di denaro". Angelo Bellomo, capo della Dia di Catania, ha anche aggiunto in conferenza stampa che l'indagine non coinvolge solo gli arrestati di oggi. «C'è un secondo filone che riguarda tutte le facoltà dell'ateneo peloritano». «Non possiamo dare numeri - prosegue Bellomi - ma sarebbero coinvolti molti docenti. Il ruolo di promotore e organizzatore delle attività connesse alla cosca era Montagnese che era in contatto con il clan Fabrizia nel Vibonese. Il clan utilizzava questo collegamento per condizionale con metodo mafioso gli esami e l'inserimento soprattutto alla facoltà di Medicina di studenti calabresi». Un sistema di favori e intercessioni presso l'Università in grado di essercitare una grave interferenza sulle commissioni d'esame tanto da alterare risultati dei test di accesso alle facoltà a numero chiuso. Nel settembre 2007 i risultati di ammissione alla facoltà di Medicina e chirurgia ebbero un curioso risultato: gli studenti più bravi d'Italia erano tutti a Messina e tutti nella stessa aula. Un risultato che aveva spinto la Procura di Messina ad aprire un'inchiesta che non portò a nessun risultato.

QUALE MAFIA? CONCORSI TRUCCATI A MESSINA SOTT'ACCUSA ANCHE DUE MAGISTRATI.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d' appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c' erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell' inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell' immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008   pagina 20   sezione: cronaca).

Piccole e grandi storie di questa Italia alla rovescia. L'ennesima testimonianza arriva da Gian Antonio Stella con un articolo su “Il Corriere della Sera". Come pensa di spiegare, lo Stato, ai ragazzi di un liceo di Messina, che occorre rispettare le regole? La loro preside è stata condannata perché usava un bidello come autista e cavalier servente per la spesa al supermercato. Eppure la dirigente è ancora lì, al suo posto. E han dovuto andarsene gli insegnanti che avevano testimoniato contro di lei. Quella di Anna Maria Gammeri è una piccola storia esemplare. Che dimostra come, oltre ai contratti di lavoro di cui si discute in questi giorni, sia urgente mettere mano anche ad alcune storture inaccettabili nel mondo della giustizia (quasi sette anni per una sentenza di primo grado!) e della scuola. A partire dalle scelte del ministero della Pubblica istruzione: com'è possibile che, lanciando un messaggio omertoso agli studenti di quella scuola, di tutta Messina e dell'Italia intera, non si sia costituito parte civile nel processo contro quella sua dirigente che usava un bidello come lacchè?

Ma partiamo dall'inizio. Siamo nel 2005 e i magistrati ricevono un esposto. È anonimo, ma così ricco di dettagli, date, circostanze, che decidono di non buttarlo nel cestino ma di controllare se c'è qualcosa di vero. La Guardia di Finanza, come spiegherà la sentenza, si apposta e nel giro di qualche giorno accerta che è proprio così: la preside Anna Maria Gammeri utilizza un collaboratore scolastico, Nicola Gennaro, come fosse un servitore personale messo dallo Stato a sua completa disposizione. Per cominciare, si fa venire a prendere a casa la mattina e riaccompagnare al pomeriggio come si trattasse di uno chauffeur. «Vado a prendere la preside» dice l'uomo ai colleghi uscendo di scuola. Manco fosse la cosa più normale del mondo, dirà il verdetto, ironizzando sulla tesi della difesa secondo cui l'accompagnamento della signora rientrava «nelle mansioni di servizio del Gennaro» in quanto lei non guidava «a suo dire, per scarsa inclinazione personale». Testuale: non era portata al volante...

Ma non basta. Gli investigatori accertano che la dirigente manda il bidello anche a sbrigare qualche commissione in banca e al supermercato: «In data 25 ottobre 2005, alle ore 09.25 l'autovettura condotta dal Gennaro veniva vista giungere presso l'abitazione della Gammeri, in via La Farina n.165, e fermarsi in doppia fila. Egli scendeva dal veicolo, prelevava dal cofano n.3 borse della spesa ed entrava nel portone dove è ubicata l'abitazione della dirigente scolastica». Il magistrato convoca un po' di testimoni. Giovanna Fichera, Natale Inferrera, Sebastiano Feliciotto, Giovanni Parisi, Daniela Picciolo, Teresa Saccà, Geremia Melara... Quelli confermano: tutto vero. Gli investigatori vanno a vedere le tabelle degli straordinari e salta fuori che Nicola Gennaro risulta essere uno stakanovista infaticabile. Accumula ore su ore. «Almeno quattrocento l'anno» accusa Daniela Picciolo, della Gilda, sindacato dei docenti.

Insomma, c'è quanto basta per il rinvio a giudizio. A quel punto la Gilda chiede per la donna una sospensione cautelare. Macché: la lasciano al suo posto. Anzi, come riconoscerà la sentenza, la preside ne approfitta per creare intorno ai suoi protetti, cioè il bidello-attendente e chi altri le reggeva la corda, «un'aurea di intangibilità». Di più: ne approfitta per «disincentivare gli altri dipendenti dal presentare esposti o segnalazioni al riguardo». Il risultato sarà sconcertante: mentre le udienze vengono rimandate una dopo l'altra (sette rinvii per arrivare alla prima udienza dibattimentale!) tutti i professori e i collaboratori che avevano testimoniato a carico della preside, sentendosi a torto o a ragione esposti a ogni genere di ripicca, chiedono uno dopo l'altro il trasferimento in un altra scuola. E il ministero, come dicevamo, non si costituisce parte civile.

Il processo, intanto, non arriva mai a chiudersi: c'è per caso lo zampino della massoneria? Se lo chiede sul suo blog il cronista Antonio Mazzeo in un articolo di denuncia. Dove ricostruirà il ruolo di Anna Maria Gammeri come «Commendatore del Sovrano Ordine Imperiale Bizantino di San Costantino il Grande» e «relatrice in importanti convegni nazionali della famiglia massonica del Supremo Consiglio d'Italia e San Marino». Finalmente, sei anni dopo la prima denuncia e cinque dopo il rinvio a giudizio, arriva la sentenza. È il 24 ottobre 2011. Il giudice monocratico Bruno Sagone, ricordando che tutte le deposizioni dei testimoni «appaiono perfettamente sovrapponibili, concordando univoche nello stigmatizzare questa "cosa un po' curiosa" che appariva prassi costante ("li vedevo sempre", "tutte le mattine", "era un'abitudine")» sancisce che la donna ha compiuto «"artifici e raggiri" finalizzati a conseguire, tramite l'uso privatistico dei propri poteri e funzioni, un ingiusto profitto». E la condanna la preside a 10 mesi di reclusione e 400 euro di multa. Quanto al bidello, 7 mesi e 300 euro di pena pecuniaria. Pene evaporate per entrambi grazie al condono del 2006.

Da allora, come sottolinea scandalizzato un comunicato del coordinatore nazionale della Gilda, Rino Di Meglio, la preside e il bidello sono ancora al loro posto. Nonostante sia «prioritaria la tutela dell'interesse pubblico che si concretizza nel ripristino della legalità e della serenità dell'ambiente del suddetto liceo». E il ministero? Tace. Proprio un bel segnale di pulizia e di legalità, per gli alunni di quella scuola...

QUALE MAFIA? PARENTOPOLI ALL'UNIVERSITA'.

Le Iene sbattono la Parentopoli delle Università italiane in diretta televisiva, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. E mostra come questa piaga non risparmi nemmeno l’Ateneo di Messina. Lo conferma il servizio di ieri: dopo quello mandato in onda la settimana scorsa, che svelava come tra la Sapienza di Roma e l’università di Palermo la famiglia sembra contare più del merito, il giornalista Pablo Trincia ha raggiunto anche il centro peloritano. Pochi giorni dopo la condanna in primo grado a tre anni e sei mesi comminata allo stesso Rettore, Franco Tomasello, per concussione e abuso d’ufficio. E’ stato giudicato colpevole per aver tentato di alterare il risultato del concorso per l’accesso alla Facoltà di Veterinaria. Tutto a favore di Francesco Macrì, ricercatore e figlio dell’allora preside di Facoltà, Battesimo Macrì, condannato a sua volta a 5 anni e 4 mesi. Quest’ultimo avrebbe cercato di influenzare la commissione per fare promuovere il figlio al ruolo di docente ordinario.  Ma quali sono i cognomi ricorrenti nell’Ateneo di Messina? Trincia è andato tra le aule della Facoltà di Giurisprudenza, dove insegna Raffaele Tommasini, professore di diritto privato. Nello stesso dipartimento è presente la figlia, mentre l’altra si trova nel Dipartimento di Economia. Ma non è il solo: Salvatore Berlingò è docente di diritto canonico: ha una figlia, ricercatrice di diritto amministrativo. Percorso inverso per Aldo Tigano, che insegna proprio diritto amministrativo, mentre la figlia è associato di diritto canonico. Anche Giuffrida è ordinario di diritto agrario, come la figlia. Sarà un caso? Stesso discorso a Medicina: i due figli di Mario Teti, ex ordinario di microbiologia, insegnano nello stesso campo. E a Lettere la situazione non è certo migliore: lo stesso rettore Tomasello ha un figlio, professore associato sempre nello stesso settore. “E guardate Veterinaria” – aggiunge Trincia – dove Giovanni Germanà, prima di andare in pensione ha visto scalare i vertici sia al figlio che al nipote. Stesso discorso per la famiglia Chiofalo. In pratica, un’abitudine quantomeno sospetta. Soltanto a Veterinaria un terzo delle persone che insegnano risultano imparentate tra di loro. Eppure l’università di Messina – come si spiega nel servizio – avrebbe adottato un codice etico che impedisce ai “figli illustri” di insegnare nello stesso settore di genitori e parenti. “Ma io cosa ci posso fare: lei deve leggere i numeri sulla produttività”, si limita a difendersi Chiofalo, intervistato da Trincia, che gli chiede se gli studenti non si siano stufati di questa situazione. “Assolutamente no”, controreplica Chiofalo. Ma cosa ne pensano i diretti interessati? Seppur intimoriti, ammettono: “Ci rode e ci infastidisce, perché magari persone che invece meritano non possono continuare la propria carriera universitaria”. Un altro ragazzo spiega: “Paghiamo le conseguenze di concorsi bloccati”. Anche i Germanà sono una famiglia influente, tutti a Veterinaria. “Tre con lo stesso cognome, nella stessa Facoltà”. Un caso anche questo? Sembra di sì per i diretti interessati. Viene intervistato anche Francesco Macrì, coinvolto nello scandalo del rettore e del padre che avrebbe cercato di avvantaggiarlo nel concorso da professore ordinario. “Lasciamo decidere alla magistratura”. Per fortuna c’è chi denuncia: come Giuseppe Cucinotta, il professore che ha parlato delle pressioni a favore di Macrì. E le sentenze: così è la stessa università di Messina a perdere credibilità, dopo le condanne allo stesso Macrì padre e al rettore.  Nella puntata precedente, Le Iene si era interessata anche ad altri casi: dall’università di Bari, dove cinque famiglie hanno dominato per anni gli incarichi di vertice in Economia e Commercio, all’Università di Palermo, dove più della metà dell’intera popolazione accademica ha almeno un parente che lavora all’interno dell’istituzione. Per finire, tra i tanti casi denunciati, con quello che coinvolge il rettore della Sapienza di RomaLuigi Frati, già ex preside della Facoltà di medicina, dove lavorano anche i due figli e la moglie. La figlia, laureata in Medicina legale, è finita per insegnare nell’università del papà: proprio come la mamma, Luciana Rita Angeletti, che insegna storia della medicina. Non manca all’appello nemmeno il figlio, Giacomo Frati. A differenza di tanti altri giovani docenti – si pensi alle migliaia di ricercatori precari – lui ha bruciato le tappe: a 28 anni ricercatore, a 31 professore associato, a 36 insegnante di ruolo. Forse un caso di eccellenza. Ma i dubbi restano. Soprattutto per una questione di trasparenza: tutti i nomi dell’importante famiglia nello stesso settore. “Nel mio caso c’è soltanto merito”, si era difeso il Rettore nel servizio delle Iene. Peccato che anche il Corriere della Sera, con l’articolo “La carriera del primario che operava i manichini”, con protagonista proprio il figlio di Frati, aveva messo in dubbio proprio le “competenze” sbandierate dal padre. E come sia emerso anche un caso di cartelle false ad Oncologia, con lo stesso rettore indagato: al Policlinico Umberto I, secondo l’accusa, venivano truccate per coprire le assenze.

La testimonianza di Giuseppe Cucinotta, il professore  che con la sua denuncia ha provocato un vero e proprio terremoto. "Quella cattedra è assegnata se ci ostacoli avrai problemi". Concorsopoli a Messina, nei nastri le minacce al prof ribelle, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”.  "Quando ho deciso che mi dovevo opporre a questo "sistema" il mio pensiero è anche andato al mio amico e collega Matteo Bottari (ucciso nel 1998). Ho subito minacce, intimidazioni; ma non potevo permettere che diventasse docente uno, chiunque esso fosse, che non avesse i meriti e le qualità. E non sono stato il solo, tutta la commissione ha valutato non idoneo il candidato raccomandato dal rettore Tomasello". Chi parla, per la prima volta con i giornali, è Giuseppe Cucinotta professore ordinario della facoltà di Veterinaria di Messina che con la sua denuncia ha provocato un vero e proprio terremoto nell'ateneo. Le sue dichiarazioni hanno portato al rinvio a giudizio del rettore, che sarà processato insieme a ventidue tra docenti e dirigenti dell'università messinese il 5 marzo prossimo. L'accusa: avere truccato concorsi per fare diventare docenti e ricercatori figli di altri docenti, di magistrati, di esponenti della Messina che conta. "Non lo potevo e non lo volevo fare - prosegue Cucinotta - non sarei stato a posto con la mia coscienza e così ho denunciato tutto alla magistratura. Spero solo che il mio non sia stato un gesto inutile, e che possa dare speranza a tanti giovani che sono figli di nessuno".  Per alcuni mesi il professor Cucinotta ha girato con addosso un registratore, raccogliendo su nastro le minacce e le intimidazioni che gli venivano inviate dal rettore e da altri docenti per pilotare il concorso che avrebbe dovuto essere vinto da Francesco Macrì, figlio di un pro-rettore. Le minacce cominciarono ad arrivare subito dopo il bando di quel concorso fatto ad hoc. Il professore Orazio Catarsini, ex preside della facoltà di Veterinaria, "messaggero" del rettore Tomasello si incontra con il professor Cucinotta e lancia un avvertimento. Catarsini: "Giuseppe, io sono soltanto un messaggero del Magnifico e con questo concorso sta scoppiando una bomba. Questo concorso lo deve vincere Macrì, in caso contrario non avrai più protezione e la magistratura aprirebbe un'inchiesta...". Pochi giorni dopo è il turno di un altro "messaggero", il docente di veterinaria Giovanni Caiola. Caiola: "Guarda che se non vince il figlio del professor Macrì ti tagliano le gambe e per te ci saranno tempi duri. Se non vince Macrì il concorso deve andare in bianco". Ma non è soltanto il professor Cucinotta ad avere paura. Anche il candidato Filippo Spadola è terrorizzato per le pressioni ricevute. Telefonando ad un amico gli confida: "Ho partecipato a quel concorso ma ci sono problemi, il professor Cucinotta si è messo contro il sistema mafioso messinese". Quando il professor Catarsini viene interrogato dal pm Nastasi, conferma: "Fui convocato dal rettore e mi prospettò cosa stava accadendo per quel concorso che stava assumendo una direzione non auspicata, in quanto non sarebbe stato dichiarato idoneo il figlio del professor Macrì, persona per la quale il concorso era stato bandito. Questo perché il professor Cucinotta faceva delle resistenze. Il rettore mi chiese in modo accorato e pressante di intervenire su Cucinotta. Un eventuale rifiuto avrebbe comportato una presa di distanza del rettore dal Cucinotta stesso".

Messina, l'ateneo ad amici e parenti, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. Dentro il tempio del sapere, nell'università di Messina, è in corso un vero e proprio terremoto giudiziario che ha coinvolto i vertici dell' ateneo della città dello stretto. Tutto provocato da "Parentopoli" (raccomandazioni e minacce a studenti per non partecipare ai concorsi truccati dove il vincitore era sempre "figlio di") e presunte tangenti per l'affidamento della vigilanza del policlinico messinese. E dopo il rinvio a giudizio del Magnifico Rettore, Franco Tomasello che sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti e docenti ricercatori e funzionari d'ateneo a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato per alcuni concorsi truccati, l'inchiesta si allarga a macchia d'olio ed in procura arrivano nuove denunce, nuovi scandali. Ed in questo bailamme giudiziario è coinvolta, per un'altra vicenda, proprio la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di "mazzette", una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza del Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. Alla Procura della Repubblica di Messina, al nostro giornale ed alle forze dell'ordine, sono giunte denunce, anonime e firmate, di alcuni docenti ed aspiranti ricercatori ed associati che raccontano quanto accade dentro l'ateneo messinese, vero e proprio feudo di una ventina di famiglie, presidi, docenti, ricercatori e funzionari amministrativi che si aiutato l'un l'altro presiedendo commissioni d'esami che consentono lo "scambio" di assunzioni di figli, generi, nipoti e amici stretti. Il tappo è saltato proprio per uno di questi concorsi truccati, quello bandito lo scorso anno per un posto di associato alla facoltà di medicina Veterinaria che doveva essere vinto, "ad ogni costo", da Francesco Macrì, figlio del prorettore, Battesimo Macrì e sponsorizzato proprio dal rettore Franco Tomasello. Molti aspiranti a quel posto furono intimiditi e minacciati per non presentarsi al concorso e lasciare vincere il figlio del prorettore. Accadde però qualcosa di straordinario per l' Università, il docente di Veterinaria, Giuseppe Cucinotta che aveva incoraggiato i suoi allievi a partecipare a quel concorso che era stato fatto su misura per Francesco Macrì, denunciò i fatti alla Procura della Repubblica. La Commissione che presiedeva il concorso definì il raccomandato dal padre, Battesimo Macrì e dal rettore, Franco Tomasello «carente di preparazione di base, in possesso di superficiale conoscenza della materia, scarsa capacità espositiva e sensibilità didattica». Il concorso lo vinse uno sconosciuto Filippo Spadola ma non fu facile per lui ottenere la chiamata del Consiglio di Facoltà. Soltanto dopo un anno, dopo essersi rivolto alla magistratura ed agli organi di giustizia amministrativa, il signor Filippo Spadola ottenne finalmente il suo posto. E quando fu chiesto un parere al delegato del rettore, il professor Raffaele Tommasini, se si poteva ritardare la "chiamata" di Spadola, in una conversazione intercettata diceva: «Bastava dire che l'idoneo non corrispondeva al profilo richiesto dalla Facoltà». Ed un altro docente, Antonino Pugliese, diceva candidamente che non importava se il candidato, raccomandato dal padre e dal rettore, «nel corso delle prove non avesse neanche potuto definire la carie». Insomma all'Università di Messina tutto si può o si poteva fare anche perché le "famiglie" si proteggevano l'una con l'altra. Io assumo tua figlia, tua nuora, tuo nipote e tu assumi i miei parenti. E non è un caso, come ha scoperto il settimanale messinese Centonove che il 50 per cento dei 1.500 docenti dell' Università messinese ha almeno un omonimo. Sono tutti padri, mogli, figli, generi, nuore, nipoti, cugini o quasi parenti.

UN ANNO... DI MESSINA

Alti, bassi e il boom mediatico. Durante l'anno, specialmente nella parte finale, il nostro ateneo al centro di diverse inchieste giudiziarie e processi televisivi, Elena De Pasquale su “Tempo Stretto”. Un anno travagliato, costellato di alti e bassi, molti dei quali non strettamente attinenti a questioni accademiche, il 2008 targato Università di Messina. Facendo un passo indietro, anzi qualcuno in più, potremmo certamente affermare che, quasi si fosse trattato di un presagio, l'anno che stiamo per lasciarci alle spalle, per l'Ateneo Peloritano non è certo iniziato sotto la luce di una buona stella. Lo sanno bene i precari del Policlinico, gli ausiliari socio-sanitari che hanno inevitabilmente visto intrecciarsi i propri destini lavorativi con le scelte dirigenziali dell'azienda ospedaliera universitaria. Oggetto del contendere, la decisione presa dall'allora commissario straordinario Antonio Mira, che al 31 dicembre del 2007, non ha rinnovato il contratto in scadenza dei lavoratori, procedendo al contrario con lo scorrimento della graduatoria per i dipendenti in attesa. Una situazione che si è manifestata subito in tutta la sua criticità, attraverso sit-in, manifestazione di protesta, inscenati dai lavoratori ora davanti la direzione generale dell'azienda, ora di fronte il Palazzo del Governo, per diversi mesi. Uno “scontro- che con il passare dei giorni e con estrema rapidità, ha determinato una vera e propria spaccatura tanto all'interno del mondo del precariato, tra coloro in attesa di rinnovo di contratto e quelli in attesa di scorrimento della graduatoria, autodefinitisi “Precari Invisibili di Serie B-, quanto fra le file dei sindacati confederali per la gestione della vicenda. Vicenda che ha investito anche il rettore Franco Tomasello che in più occasioni, una su tutte l'interruzione della seduta del consiglio d'amministrazione per l'improvviso “sbarco- dei precari, ha mostrato piena solidarietà ai lavoratori intercedendo presso l'assessorato regionale alla Sanità al fine di dare via alle procedure di stabilizzazione del personale. Altrettanto determinante l'intervento del prefetto Francesco Alecci ribattezzato come il prefetto “risolvi-vertenza” che, con o senza “poteri speciali, attraverso una lunga e laboriosa attività di mediazione ha contribuito alla risoluzione dei problemi. Il lieto fine arriva solo nel mese di luglio al termine dell'ennesimo vertice tra l'assessore alla sanità Massimo Russo (neo-eletto della giunta Lombardo e succeduto a Roberto Lagalla nominato rettore di Palermo), Tomasello e il commissario del Policlinico Giuseppe Pecoraro .E proprio la nomina di Pecoraro, avvenuta il primo marzo, 12 giorni dopo l'insediamento presso l'Aou, ha rappresentato uno dei passaggi fondamentali nell'anno, accademico e non, dell'Ateneo Peloritano. Il nome di Pecoraro, il più quotato nella terna dei possibili candidati che Tomasello ha sottoposto all'attenzione dell'organo regionale competente, girava da tempo tra i corridoi del Policlinico e del rettorato. L'ufficialità della nomina, giunta sotto la spinta di una leggera “brezza primaverile-, dà il via ad una fase di rilancio dell'azienda ospedaliera che va di pari passo a quella che il rettore cerca di portare avanti all'Università. I primi provvedimenti che Pecoraro adotta sono destinati al risanamento finanziario dell'azienda, che ha un bilancio in rosso per 42 milioni di euro, necessario affinché il nosocomio messinese possa usufruire delle sovvenzioni governative. I “correttivi- apportati dal commissario (per cui non è ancora arrivata la nomina ufficiale di direttore generale), sono diretti al riequilibrio tra spesa e servizi offerti ai pazienti, ivi compresa la riorganizzazione del personale dell'azienda, delle unità mediche esistenti all'interno del Policlinico, e il ridimensionamento nel numero dei posti letto. Provvedimenti che seguono la scia del “Piano di rientro- della sanità dettato dall'assessore Russo e anche esso fonte di non poche polemiche. Pecoraro ufficializza finalmente la ristrutturazione dei Padiglioni A-B-C, in attesa dal 2006, per un costo totale di circa 13 milioni di euro. Nomina direttore sanitario il professore Sebastiano Coglitore, che subentra a Giovanni Egitto e riconferma alla direzione generale Vincenzo Scicchitano. A Piazza Pugliatti invece, il 2008, dovrebbe essere per Tomasello l'anno della “Rivoluzione strisciante- e della trasparenza, come da lui stesso ribadito in più occasioni. Una su tutte la conferenza di “bilancio- dei primi mesi tenutasi il 27 giugno nella sala dell'Accademica dei Pericolanti. Un affollato incontro, in cui il rettore lancia la sua “battaglia- contro quegli “stolti- che marciano contro gli interessi dell'Università, convinti che l'Ateneo di Messina non sia una fucina di talenti bensì di raccomandati e concorsi truccati. Proprio “loro-, quei presunti concorsi truccati che valgono a Tomasello la seconda sospensione, dopo quella relativa all'inchiesta veterinaria, per abuso d'ufficio. Il reato secondo quanto sostenuto dal sostituto procuratore Angelo Cavallo(nel frattempo trasferito alla direzione distrettuale antimafia), sarebbe quello di aver favorito l'ex-presidente del consiglio comunale Umberto Bonanno nell'ambito di un concorso a Medicina del Lavoro. La peggiore delle accuse, quella mossa al “vertice dell'Università, fautore proprio di quella politica della trasparenza con cui è stato inaugurato l'anno che volge al termine. A qualche mese di distanza dall'inizio del 2008, a febbraio, Tomasello infatti adeguandosi agli indicatori ministeriali, stabilisce che l'assegnazione dei nuovi posti di ricercatore a tempo determinato, avvenga sulla base di criteri improntati alla chiarezza e alle qualità scientifiche. Ottenere tale titolo comporta inoltre il possedere una “via preferenziale nell'acquisizione di un eventuale incarico a tempo indeterminato. Discorso simile quello relativo alla premialità degli studenti (proprio ieri discussa in Senato Accademico) , che mira appunto a premiare i più meritevoli con sovvenzioni, borse di studio o corsi di lingua inglese da “consumare- negli Usa. Un colpo duro, dunque, quello inferto negli ultimi mesi del 2008 all'Università “tomaselliana, colpita proprio al cuore di quella politica inneggiante al merito che ne avrebbe dovuto rappresentare il punto forte. Una vicenda (il rettore attende ancora di conoscere il verdetto del Tribunale del Riesame) cui si vanno ad aggiungere ulteriori “scandali mediatici, veri o presunti, che non sembrano voler dare scampo a Tomasello, e stavolta anche alla consorte Melitta Grasso e a tutto l'Ateneo. A far discutere anche la nomina di Giuseppe Cardile ex-presidente dell'Atm, in qualità di direttore amministrativo. Quest'ultimo, succede a Vincenzo Santoro ottenuto l'incarico di direttore facente funzione a seguito dell'abbandono di Salvatore Biliardochiamato a ricoprire un incarico presso la ragioneria generale dello Stato. Ma ad aprire le danze vere e proprie nel salotto di Annozero Michele Santoro e Marco Travaglio che concentrano l'attenzione sulla “parentopoli” messinese. Un albero accademico-genealogico accuratamente dettagliato, quello che viene mostrato in diretta tv sulla prima serata di Raidue e che non risparmia proprio nessuno, in particolare fra le aule di Giurisprudenza e Medicina. La prima delle trasmissioni televisive destinate a spaccare letteralmente in due il mondo accademico e più in generale l'opinione pubblica cittadina tra favorevoli o contrari a Franco Tomasello. L'Università di Messina, suo malgrado, viene travolta dall'ondata di malumore che travolge l'intero sistema accademico italiano. Mariastella Gelmini porta avanti la sua riforma per combattere il sistema del baronato. Un male che affligge l'Ateneo Peloritano come gran parte delle realtà italiane, ma che in riva allo Stretto assume una dimensione ben diversa. Nel team Santoro-Travaglio si aggiunge un terzo “elemento”, il conduttore torinese Massimo Giletti, che nel tranquillo pomeriggio di una “Domenica in" di ottobre irrompe nelle case degli italiani ma soprattutto dei messinesi, intitolando la puntata “Università di Messina. Concorsi truccati”. Rettore, professori, ma soprattutto studenti e i loro rappresentanti, vengono gettati nella bolgia mediatica, accusati di non aver avuto il coraggio di ribellarsi all'omertoso sistema di potere che soffoca la Messina accademica. Una settimana di “passione” quella trascorsa dalla città, in particolare dai rappresentanti di veterinaria, che a causa del loro rifiuto di partecipare alla puntata, sono finiti nel mirino di Giletti. Alle 14.30 della domenica successiva si replica. Stavolta a parlare sono anche gli studenti che, in un modo o nell'altro, riescono a far capire le loro ragioni. Ma la “suonata- è sempre quella: Università di Messina=Raccomandazioni. Un susseguirsi di avvenimenti che rischiano quasi di far passare in secondo piano un fatto ben più rilevante, giunto come un fulmine a ciel sereno girono 2 ottobre. Il suicidio del professore universitario Adolfo Parmaliana, che decide di mettere fine alle proprie sofferenze gettandosi con l'auto da un viadotto dell'autostrada A/20. Un episodio che, purtroppo, vale ancora una volta a Messina gli “onori” della cronaca. Le circostanze in cui si consuma il suicidio del docente di chimica, e soprattutto quell'ultima toccante lettera di addio, fanno riemergere lo spettro del “verminaio” degli anni'90. Anche in questo caso, in occasione dell'incontro tenutosi al Comune per ricordare il professore scomparso e a cui ha preso parte anche il senatore Lumia, Tomasello viene chiamato in causa proprio dal politico che definisce assolutamente prive di significato le parole spese da “quel rettore oggetto di provvedimenti giudiziari-, in occasione del funerale di Parmaliana.

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI CHE DELINQUONO.

Alla Procura generale di Messina c’era un “dossier Parmaliana”, sul professore universitario che anni prima aveva denunciato al Csm l’attuale Procuratore generale di Messina, scrive Sonia Alfano sul suo Blog. Ricordate le manovre di Olindo Canali e del suo network per sfuggire alla giustizia disciplinare? Nella nota del R.o.s. di Reggio Calabria del 10 settembre 2009, insieme alle telefonate di cui ho dato conto alcuni giorni fa , ne compaiono altre ancor più nauseabonde. Canali si informa al Csm sul nome del titolare del fascicolo a suo carico e apprende che si tratta del dr. Antonio Patrono e pensa subito che, essendo compagno di corrente (Magistratura Indipendente) del suo capo dell’epoca (il Procuratore di Barcellona P.G. Salvatore De Luca), gliene può venire qualcosa di buono. Questo è il modo con cui il magistrato affronta i processi. Si scopre anche che la moglie di Canali, che fa la cancelliera alla Procura generale di Messina (guarda caso), passa il tempo (naturalmente in orario di lavoro) a rimestare nei fascicoli di quell’ufficio giudiziario per trovare carte utili per la difesa del marito: anzi, nel caso in questione, per colpirne i nemici o coloro i quali avessero mai avuto intenzione di denunciarlo per le sue malefatte. Ed ecco che subito telefona a Canali dicendogli di aver trovato carte importanti nel fascicolo relativo a una denuncia di Adolfo Parmaliana (“che non è il dossier Parmaliana, però”: cosicchè apprendiamo che alla Procura generale di Messina c’era un “dossier Parmaliana”, sul professore universitario che anni prima aveva denunciato al Csm l’attuale Procuratore generale di Messina) e che in quelle carte ci sono elementi da utilizzare contro il dr. Minasi (sostituto procuratore generale che aveva preso posizione contro Canali). Tanto è importante la scoperta, che la moglie chiede a Canali (in quel momento in ferie) un numero di fax per inviargli subito le carte e lui le detta il numero della Biblioteca Civica del Mobile e dell’Arredamento, che in realtà non appartiene a Canali ma al Comune di Lissone, in Brianza. Ma Canali poi ci ripensa e stoppa la moglie, temendo che rimanesse traccia della trasmissione di un documento riservato (“no! non è pubblico per niente. Te la tieni tu, poi doma… Non voglio, non voglio averla per adesso questa cosa”), e la donna di rimando gli garantisce che ne avrebbe parlato subito con lo “zio”, che non è propriamente un parente ma qualcosa di più, un protettore: il dr. Antonio Franco Cassata, oggi Procuratore generale a Messina. Ed è naturale dunque che poi il protetto Canali telefoni allo “zio” Cassata, che gli garantisce che metterà (di nuovo!) “l’ufficio sotto sopra” per trovare le carte che servono a Canali e aggiunge che a giorni cercherà notizie in suo favore al Csm. Insomma, fra “zii”, pupi e pupari, dalla nota del R.o.s. si capisce che la Procura generale di Messina, anziché occuparsi di giustizia nell’interesse dei cittadini, si adopera solo per procurare l’impunità a Canali e per sfregiare (a colpi di dossier?) l’onore dei nemici della banda. Quelle intercettazioni risalgono all’estate 2009. Nel settembre 2009 “ignoti” spedirono a vari destinatari (fra essi lo scrittore Alfio Caruso e il senatore Giuseppe Lumia) un lurido dossier anonimo colmo di infamie contro Adolfo Parmaliana e contenente alcuni documenti allegati: fra di essi, un articolo di Centonove a firma di Michele Schinella che schizzava fango post mortem su Parmaliana e, soprattutto, un documento che era stato ricevuto per fax sapete da chi? Dalla Procura generale di Messina, per l’esattezza da un apparecchio telefax che si trova nella stanza in cui lavora la moglie di Olindo Canali. Bisognerebbe sostituire l’insegna all’ingresso di quell’ufficio. Andrebbe affisso un nuovo cartello: “Procura generale di Messina – ufficio dossier”.

QUANDO I BUONI SONO CATTIVI.

Il procuratore generale di Messina, Francesco Antonio Cassata è stato condannato per diffamazione dal giudice di pace di Reggio Calabria. Cassata, nel settembre 2009, divulgò un dossier, allora anonimo, contro il professore Adolfo Parmaliana. Un memoriale inviato, tra gli altri, allo scrittore Alfio Caruso (che in quel momento era impegnato nella stesura del libro «Io che da morto vi parlo», biografia del docente suicidatosi il 2 ottobre 2008) e al senatore Beppe Lumia, amico di Parmaliana. Cassata è stato condannato a 800 euro di multa e al risarcimento del danno in favore dei familiari di Parmaliana. Docente universitario e segretario dei DS nel paese di Terme Vigliatore (Messina), Parmaliana, si gettò da un cavalcavia dell’autostrada Messina-Palermo, lasciando una lettera in cui denunciava le gravi responsabilità di politici e magistrati nel rallentare le indagini sulla mafia. La sentenza è stata emessa dal giudice di pace di Reggio Calabria. I sostituti procuratori Luca Miceli e Matteo Centini avevano chiesto la condanna del magistrato al lavoro di pubblica utilità. La vicenda risale a diversi anni fa quando Cassata, secondo quanto ha sostenuto l'accusa, inviò ad un parlamentare siciliano e ad uno scrittore un esposto anonimo diffamatorio contro il docente universitario. Nel corso delle indagini, secondo quanto è emerso dal processo, a Cassata fu trovata una cartellina con un biglietto che riportava la scritta "anonimi da inviare".

Cassata, condannato per la prima volta un Procuratore Generale, scrive Federica Fabbretti e Martina Di Gianfelice su “Il Fatto Quotidiano”. "Ieri sera è avvenuto un miracolo". Così ha detto Fabio Repici, l’avvocato della famiglia Parmaliana e, tra gli altri, di Salvatore Borsellino, commentando la sentenza del processo al Procuratore generale di Messina, Antonio Franco Cassata. Erano le 19.41 del 24 gennaio 2013 quando ci arriva questo messaggio da Fabio: Condannato. Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana, un Procuratore generale viene condannato. Ma, al contrario di quanto ho affermato in questi giorni a Fabio e ai miei colleghi di redazione, Marco e Angelo, io non credo ai miracoli. O meglio, non credo ai miracoli che avvengono da soli. Perché ne avvenga uno, c’è sempre bisogno di una persona che lo compie e di altre che la aiutino. Esattamente come l’ha compiuto – e lo continuerà a compiere – la mia amica Angelina, che dopo nemmeno 30 ore da un’operazione di 6 ore al cervello, era già in piedi che camminava, mangiava e chiacchierava. Sono le persone che compiono i “miracoli”. Le persone che non smettono di lottare anche quando le cose vanno male, quando sembra di star affrontando la sfida di Davide contro Golia, quando sembra di stare sul cavallo di Don Chisciotte, quando arriviamo al punto di star per mollare ma poi pensiamo “ancora un altro giorno”. Per questo riusciamo a far avverare i sogni, per questo riusciamo a fare cose “impossibili”. Come poteva essere “impossibile” far condannare per la prima volta nella storia d’Italia un Procuratore generale. E Franco Cassata lo è stato, condannato per diffamazione nei confronti del professore Adolfo Parmaliana, la cui storia vi ho accennato in un articolo scritto un anno fa. Era appena iniziato il processo e, parlando a Fabio Repici, che si scusava con Adolfo per non essere riuscito a farsi chiamare a deporre come teste, conclusi: “E l’unica cosa che mi sento di dire a Fabio Repici, avvocato di alcune delle famiglie migliori che conosco, Salvatore Borsellino, gli Alfano, i Manca, i Campagna, i Parmaliana, è che forse la sua mancata deposizione sarà un’altra battaglia persa, ma è una battaglia di una guerra che alla fine vinceremo.” E la guerra, ieri, l’abbiamo vinta davvero.

MASSONERIA, MAFIA E POTERI OCCULTI

Le polemiche che hanno accompagnato la scoperta della loggia massonica “Ausonia”, considerata coperta dalla procura di Messina, riapre i riflettori sul fenomeno della Massoneria. Un ordine iniziatico che ha per scopo il "perfezionamento dell'individuo" viene definita l’associazione dalle enciclopedie. Un ordine le cui origini si perdono nella storia e che nel corso del tempo ha annoverato tra i suoi affiliati nomi di primo piano della storia europea e statunitense da Washington a Mentesquieu passando per Voltaire e Garibaldi. La riservatezza, il simbolismo, gli stravaganti arredi dei tempi ed i segreti della massoneria, però, l’hanno circondata di misteri e leggende non sempre positive. In Italia soprattutto, fu la loggia P2 a screditare una associazione che ha tra i suoi principi quelli di essere uomini dediti ad altri uomini ed in cui è proibito parlare di politica e religione. Ma le logge regolari, che operano in Italia hanno sempre difeso la qualità del proprio operato rivendicando, oltre al loro diritto a discutere di filosofia, anche la loro attività di beneficenza svolta nel mondo.

In provincia di Messina, le logge massoniche ufficiali sono una ventina e si rifanno ai tre principali ordini: il Grande Oriente, la Gran Loggia Regolare e la Gran Loggia d’Italia. I tempi della Gran Loggia di d’Italia si trovano a Messina, Spadafora, Patti e Barcellona. Opera su Messina e Taormina, invece, la Gran Loggia Regolare. Molto più diffuso è il Grande Oriente. Ben 11 logge si trovano a Messina, una a Taormina e due a Barcellona. Si tratta, in quest’ultimo caso, della Fratelli Bandiera e dell’ultima nata, la Eugenio Barresi. Opera dal 2005, invece, la Loggia Agatirso, che ha sede a Torrenova e che annovera una quindicina di aderanti, quasi tutti staccatisi da Barcellona e che hanno fondato il nuovo tempio in una posizione equidistante tra quelli già esistenti nella città del longano ed a Bagheria.

Più precocemente che altrove in Sicilia, nel XVIII secolo Messina registra intense attività di loggia: attività che, parallelamente alle evoluzioni latomistiche europee, si articolano in tutta una serie di scissioni e ricomposizioni e di cambiamenti ideologici che determinano all’interno delle varie obbedienze massoniche la diffusione di contenuti filosofici razionalistici e l’ingresso nelle logge di un numero sempre più ampio di appartenenti alla borghesia ed al ceto colto di intellettuali di orientamento liberale e democratico. Nella città dello Stretto erano presenti, sin dalla seconda metà del Settecento, diverse logge. La loggia de’ Costanti, con patente massonica del 1766 rilasciata dalla Gran Loggia Provinciale Olandese Les Zéles, aderisce inizialmente alla Stretta Osservanza, ancora intrisa di esoterismo, magia, alchimia, pratiche mistiche e riti talvolta bizzarri. Nel 1778 la Gran Loggia di Londra rilascia patente alla English Lodge n.510, fondata da Francis Everard. Alle logge di affiliazione inglese la rivoluzione illuminista aveva dato invece nuovo impulso: raccoglievano in prevalenza elementi della borghesia, intellettuali, che volevano dare un contenuto filosofico e progressista alle logge, facendone strumento di lotta contro le forze conservatrici del clero e della nobiltà. La loggia de’ Costanti, che sopravvive con alterne vicende fino al 1782, si ricostituisce in quell’anno nella Loggia della Riconciliazione, aderente in un primo momento alla Stretta Osservanza, poi, di riflesso ai più generali mutamenti nella libera muratoria europea, al Regime Scozzese Rettificato.

Tanta e tale era l’attività dei lavori di loggia a Messina, altrettanto frequenti i contatti con altri massoni della realtà napoletana ed europea, che si rende presto necessario provvedere ad una riunificazione di tutte le logge attive sul territorio sotto un’unica obbedienza, ma soprattutto rifondarle su basi ideologiche di impronta marcatamente illuministico-razionalista. Questo cambiamento, seguito a Messina per conto dell’Ordine degli Illuminati di Baviera da Frederich Münter (l’ordine degli Illuminati di Baviera è fondato da Adam Weischaupt in aperto scontro con il dogmatismo gesuitico, la superstizione e le mistificazioni esoteriche, su basi politiche repubblicane e democratiche) segna il progressivo passaggio della massoneria ad una fase più apertamente politica e di condanna dei regimi dispotici e autoritari. Entrando nell’orbita degli Illuminati di Baviera anche l’esperienza latomistica messinese, al pari di quella europea, si emancipava, ed assieme all’attività di formazione e divulgazione svolto dalle altre istituzioni culturali cittadine come le Accademie, facilitava la transizione verso una società post-cetuale e l’attivazione di un dibattito filosofico, scientifico e politico, capace di star dietro alla più generale temperie europea ed all’affermazione dei nuovi valori e ideali borghesi.

Dai baroni dell'università ai politici. Così la massoneria manovra le carriere. Il boss e il procuratore generale, il sindaco e il senatore e poi uno stuolo di avvocati, professori universitari, medici, notai. E adesso anche donne, una novità assoluta che sta prendendo piede. Così Alessandra Ziniti (La Repubblica, 3 settembre 2010). Il circolo culturale "Corda Fratres" di Barcellona Pozzo di Gotto è il volto nuovo della massoneria della vecchia città "babba", l'erede più rampante di quell'antico tessuto di fratellanza con il cappuccio che nell'Ottocento vedeva Messina tra le città italiane più attive e che fino agli anni Novanta era nelle mani di un affiatata elite di ambasciatori che tessevano affari e rapporti che andavano dall'Unione Sovietica agli Stati Uniti. Oggi, nella città dello Stretto, può capitare che a porgere la mano con la "toccata del polso" siano allo stesso modo esponenti di Cosa nostra e alti magistrati, tutti seduti allo stesso "tavolino" di politici, imprenditori e professionisti in grado di pilotare appalti, assunzioni, nomine e carriere. Basta scorrere gli elenchi del circolo culturale "Corda Fratres" al centro di una recentissima indagine della magistratura di Reggio Calabria che lo considera un circolo para massonico ed ecco venir fuori, uno accanto all'altro, il nome dell'attuale procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata e quello di Giuseppe Gullotti, boss accusato dell'omicidio del giornalista Beppe Alfano, quello del sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto Candeloro Nania e di suo fratello Domenico, senatore Pdl. Ma ci sarebbe anche quello del sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, lo stesso che - alle accuse rivolte dal manager del Policlinico Giuseppe Pecoraro al sistema di potere massonico che imbriglia la città - ha risposto: «Se ritiene di aver subito delle pressioni ha l'obbligo civile, morale ed istituzionale di fare nomi, altrimenti taccia». I nomi dei massoni, coperti e scoperti, nelle stanze del potere di Messina corrono sulla bocca di tutti da molto tempo. Dal palazzo di giustizia al Comune, dagli uffici di governo ai più importanti studi legali e notarili, dai baroni dell'Università ai medici, la categoria che - su tutte - sembra più affascinata dal cappuccio massonico. La "Corda Fratres" o la "Ausonia", scoperta poco tempo fa ancora a Barcellona dai magistrati della Dda di Messina partiti dalla denuncia di un imprenditore costretto a pagare il pizzo da dieci anni, incrociano il condizionamento degli appalti e della vita politica con la criminalità organizzata. Ma è il potere per il potere e soprattutto il profumo dei soldi a fare ancora molti proseliti tra le due obbedienze ufficiali presenti a Messina, il "Grande Oriente" e il "Rito scozzese antico", anche se il fenomeno nuovo degli ultimi anni è la polverizzazione in micrologge, divise possibilmente per appartenenza professionale, che stringono alleanza tra loro.

Ci sono nomi noti e che contano negli elenchi ufficiali: dall'ex ministro degli esteri Antonio Martino all'ex ambasciatore Paolo Fulci, dall'ex sottosegretario alle Finanze Dino Madaudo all'ex assessore regionale Salvatore Natoli, dall'avvocato Francesco Celona all'ex presidente dell'Opera Universitaria Carlo Mazzù, dal notaio Magno all'ex presidente dell'Ordine degli avvocati Carlo Vermiglio. E ci sono naturalmente tanti professori universitari. Perché, come mise in evidenza l'indagine della commissione antimafia sul "verminaio" Messina e soprattutto l'inchiesta per l'omicidio del professore Matteo Bottari, della massoneria dello Stretto l'Università degli scandali è sempre stata l'ombelico. Massone era Bottari, massone è il suo "maestro", l'ex rettore Diego Cuzzocrea, massone è Giuseppe Longo, calabrese d'origine, che per quel delitto e per altri affari con le cosche calabresi fu inquisito. Come loro decine di altri "baroni" e semplici professori decidono le sorti di assunzioni, dottorati, associati, carriere universitarie: una concorsopoli da sempre con il cappuccio quella messinese. Non a caso Ignazio Marino, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, ricorda la storia di quel giovane medico messinese da lui assunto: «Quando gli chiesi come mai a Messina non avesse trovato lavoro - racconta - mi disse: "Lì se non hai i poteri forti che ti appoggiano non sei nessuno". Logge "in chiaro" o coperte, ma soprattutto una miriade di pseudo-associazioni culturali che fanno da ombrello a "fratelli" che non possono dichiararsi tali per il ruolo pubblico e che però siedono ai tavolini dei comitati d'affari o scendono in campo per sponsorizzare nomine o anche solo per sollecitare un pagamento o favorire un altro fratello. Ognuno ha il suo ruolo: gli uomini di legge scrivono, gli imprenditori fanno affari e poi sono riconoscenti, i professori universitari gestiscono carriere e lauree, i magistrati insabbiano le inchieste, i politici fanno da "gancio". Basta continuare a "tastare il polso" a chi va ad occupare la sedia giusta.

Secondo l'ammissione del direttore del Policlinico di Messina, Giuseppe Pecoraro, molti medici farebbero un uso privato della struttura pubblica. Non basta, il direttore si lancia ancora più in là: consorterie massoniche condizionano la vita del Policlinico di Messina. Così ha dichiarato in una intervista al TG di La7 del 31 agosto 2010.

Il consigliere Greco è massone; si scopre che nel Pd non poteva nemmeno starci. Ma in fondo è solo il codice etico… da Tempostretto.it (S. Caspanello – E. Rigano): «Sono massone e me ne vanto». La frase forte dell’esponente del Pd Marcello Greco, pronunciata durante la prima lunga seduta del consiglio comunale dedicata al caso Scoglio, non può passare sottotraccia. Non può perché segue un altro delicato dibattito, aperto alcune settimane prima dall’arcivescovo di Messina, mons. Calogero La Piana, il quale ha puntato il dito contro quella «cappa massonica» che avvolgerebbe la città proibendole qualsiasi linea di sviluppo. Un messaggio di fronte al quale in tanti, compreso il vertice cittadino del partito di Greco, si sono “battuti il petto”, e alla quale Greco ha risposto così: dichiarando pubblicamente la sua appartenenza alla massoneria. Perché proprio durante il dibattito su Scoglio? «Quando a Messina si parla di questione morale – spiega Greco – non ci si può riferire a un caso singolo. Il caso singolo è stato Scoglio in questi giorni solo perché ci sono interessi di qualcuno a cui Scoglio da fastidio, ma allora dovremmo parlare anche del capo di gabinetto Ruggeri, dell’assessore Isgrò, del rettore, del presidente della Provincia, di alcuni dirigenti del Comune. Il caso singolo è stato anche la massoneria, nei giorni scorsi. Ecco, io volevo dire all’arcivescovo che se Messina esiste è grazie alla massoneria. Fu il fratello massone Fulci a impedire che non fosse demolita. Se la città si è persa, la colpa è della politica». «La massoneria – prosegue Greco – è sempre stata al servizio della città, penso agli asili realizzati, ai mezzi di trasporto donati. Non esiste una cappa massonica. Discorso diverso è quello delle logge deviate, ma lì si parla di criminalità. A Messina ci sono vari istituti massonici, ma non logge deviate. Non si confondano questioni delinquenziali con rituali che seguono una tradizione. I nostri elenchi sono a disposizione di questura e prefettura, non c’è nulla di segreto». Ma di fatto la massoneria è concepita dall’opinione pubblica come qualcosa di segreto, quasi di misterioso. «Io non nascondo nulla e per questo ho dichiarato pubblicamente di essere massone – ammette Greco – e invito gli altri fratelli a non avere il timore di fare lo stesso. Quando si sono riunite le logge italiane a Rimini si sono aperte al pubblico». Greco non risparmia una frecciata a certi istituti vicini al mondo ecclesiastico: «Si parla di massoneria, ma nell’Opus Dei, che è una rete di associazioni, non ci sono massoni? Non ci sono appartenenti al Kiwanis e al Lions? O che dire delle confraternite? Della massoneria si è parlato tanto e in un certo modo, soprattutto mettendola in relazione alla P2 di Licio Gelli che era un’altra cosa. Massoneria e istituzioni politiche possono convivere e coesistere, d’altronde un ex capo dello Stato, Sandro Pertini, era massone. D’altronde se la massoneria, attraverso l’iniziazione, chiude la porta a chi ha la fedina penale anche solo lievemente sporca, certi partiti non si creano di questi problemi». Ma come detto in apertura, il dibattito seguito alle parole di La Piana ha visto in prima linea, tra gli altri, il segretario cittadino del Pd, Giuseppe Grioli, che oggi ribadisce: «Il codice etico del Pd evidenzia in modo inequivocabile l’incompatibilità tra l’adesione al partito e l’adesione ad associazioni di tipo massonico. Aderire al Pd significa aderire ai valori, alle idee di un partito che privilegia l’uguaglianza sostanziale, la trasparenza della pubblica amministrazione, la crescita e lo sviluppo della società. Non avendo mai fatto parte di associazioni massoniche, non conosco quali siano i vincoli associativi e le finalità delle stesse. Credo che tradizionalmente tali associazioni non fanno parte del patrimonio costituente del Partito che ho l’onore di rappresentare». Più precisamente, il punto 2 dell’articolo 1 del codice etico del Pd, approvato dall’assemblea costituente il 16 febbraio di un anno fa, recita così: “Non appartenere ad associazioni che comportino un vincolo di segretezza o comunque a carattere riservato, ovvero che comportino forme di mutuo sostegno, tali da porre in pericolo il rispetto dei principi di uguaglianza di fronte alla legge e di imparzialità delle pubbliche istituzioni”.

Tutta la Stampa ne parla. Il magistrato Franco Antonio Cassata rinviato a giudizio.

Il Procuratore Generale di Messina, Franco Antonio Cassata, è stato rinviato a giudizio per la diffamazione pluriaggravata a carico di Adolfo Parmaliana, il professore che si suicidò nel 2008 all'età di 50 anni. Il dossier di 30 pagine smette così di essere anonimo. Sarebbe proprio Cassata l’autore, del memoriale creato ad hoc per infangare la memoria di Parmaliana. Citazione diretta a giudizio del procuratore generale di Messina per aver diffamato il professore di Terme Vigliatore "suicida d'ingiustizia". Lo ha rivelato Alfio Sciacca sul Corriere della Sera. Nel settembre 2009 in prossimità della pubblicazione del libro di Alfio Caruso “Io che da morto vi parlo” sulla storia di Adolfo Parmaliana è stato redatto un anonimo offensivo e denigratorio contro il Prof. Adolfo Parmaliana. La moglie ha proposto querela ed indirizzato subito le indagini verso la Procura Generale di Messina per un banale errore commesso dall’anonimista: è stata allegata una sentenza che era stata inviata da una cartoleria di Barcellona P.G. alla Procura Generale di Messina e quindi solo dentro la Procura Generale di Messina poteva essere stato redatto lo scritto anonimo. La Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha rinviato a giudizio con citazione diretta il Dott. Franco Antonio Cassata, Procuratore Generale di Messina, imputandolo - del reato di diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di avergli addebitato fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta - per avere redatto tale scritto anonimo. A darne notizia è il Corriere della Sera con l'articolo che segue: Accogliendo il pm arrivato da Reggio per indagare sulle calunnie nei confronti del defunto professor Adolfo Parmaliana, il procuratore generale Franco Cassata fu particolarmente cordiale. Tanto da mettere a disposizione del collega il suo ufficio perché potesse comodamente procedere con i testi convocati. E fu così che tra un interrogatorio e l’altro, il pm notò il carteggio all’interno di una vetrinetta. Nella stanza del procuratore generale di Messina c’era proprio quel dossier anonimo sul quale stava indagando. Tra i foglietti persino un appunto a penna con la scritta "da spedire". Insomma, il presunto corvo che ha infangato la memoria del povero Parmaliana potrebbe essere proprio Cassata, che da ieri è formalmente imputato per "diffamazione con l’aggravante dei motivi abietti di vendetta". Forse è la prima volta che un magistrato finisce a processo per aver diffamato un morto. Cassata avrebbe elaborato il dossier di 30 pagine per demolire la credibilità di un personaggio scomodo che aveva denunciato le infiltrazioni mafiose nei palazzi di giustizia messinesi e che, evidentemente, faceva paura anche da morto. Parmaliana, 50 anni, ordinario di chimica a Messina, si suicidò il 2 ottobre 2008 lanciandosi da un ponte. Lasciò una lunga lettera. "La magistratura barcellonese e messinese vorrebbe mettermi alla gogna – scrisse – vorrebbe delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando la mafia e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati … Dovranno provare rimorso per aver ingannato un uomo che ha creduto, sbagliando, nelle istituzioni". Non viene citato Cassata, ma quel nome Parmaliana lo aveva fatto più volte, anche davanti al Csm, parlando di un sistema di potere che avrebbe il suo epicentro a Barcellona Pozzo di Gotto e nel circolo "Corda Fratres". Nel tempo tra i soci ci sono stati faccendieri, mafiosi e pezzi delle istituzioni. Cassata è di Barcellona ed è stato anche presidente del Corda Fratres. Il suicidio di Parmaliana fu dunque un gesto estremo per richiamare l’attenzione dei media su quel grumo di potere. Ne venne fuori anche un libro di Alfio Caruso dal titolo profetico "Io che da morto vi parlo". "Con la nomina Cassata – scrive Caruso – diventa tangibile l’egemonia di Barcellona su Messina attraverso il sindaco Buzzanca, il procuratore generale e il politico più influente Domenico Nania. Tutti e tre provengono da Barcellona e dalla Corda Fratres, l’associazione della quale hanno fatto parte anche Pino Gullotti, il capo riconosciuto della famiglia mafiosa, e l’enigmatico Saro Cattafi". Guarda caso il dossier su Parmaliana salta fuori a poche settimane dall’uscita del libro che qualcuno, hanno accertato i pm, avrebbe voluto bloccare. E infatti Caruso è il primo a ricevere l’anonimo nel quale Parmaliana viene accusato di aver preso soldi per consulenze di favore e persino di essere un violento. Una campagna d’odio alla quale reagisce la vedova che presenta querela contro ignoti. Nessuno però poteva immaginare che si arrivasse al procuratore generale. Altro riscontro: uno dei documenti allegati al dossier risulta spedito da una cartoleria di Barcellona e indirizzato al suo fax. Ma anche i pentiti hanno cominciato a fare il nome di Cassata come persona vicina al boss Gullotti e Cattafi. Mentre qualche mese prima il suo ufficio è stato perquisito dai Ros nell’ambito di un’indagine per mafia che coinvolgerebbe magistrati messinesi. (Tratto da Il Corriere della Sera del 3 dicembre 2011).

E’ accettabile che in una società civile un Procuratore Generale della corte d’appello già indagato per concorso esterno in associazione mafiosa resti al suo posto nell’indifferenza quasi totale della collettività cittadina? Serve trasparenza, e per questo è ora che la provincia “babba” si svegli. Dobbiamo indignarci, smetterla di essere indifferenti, richiedere giustizia da chi della giustizia dovrebbe essere garante. Solo attraverso l’indignazione e la pretesa da parte di molti potrà rinascere la società civile, con la consapevolezza che stiamo toccando il fondo dell’essere uomini civili e cooperanti nell’interesse di molti piuttosto che di pochi. Franco Antonio Cassata notoriamente membro della Corda Frartes “circolo culturale” del barcellonese, appare come un uomo dalle mille sfaccettature, il suo ruolo e la sua posizione collidono con presunti favoreggiamenti ad esponenti della malavita barcellonese che noti personaggi del panorama politico hanno sollevato negli anni scorsi (da Sonia Alfano ad Antonio Di Pietro). Tale circolo vantava di soci come Giuseppe Gullotti (mandante dell’omicidio Alfano) e Rosario Cattafi al quale sono stati sequestrati beni immobili per un valore di diversi milioni di euro. In un clima simile possono non preoccuparsi i cittadini onesti? Apprendiamo dai giornali che il ROS di RC su mandato del procuratore capo Giuseppe Pignatone, ha perquisito la procura generale di Messina e sequestrando alcuni atti, nell’ambito di un’indagine su alcuni magistrati peloritani per concorso esterno in associazione mafiosa tra i quali sembra risulti anche il Procuratore Generale. Apprendiamo sempre da un articolo della Gazzetta del Sud datato dicembre 2010 che Barcellona è stata recentemente luogo di un summit tra esponenti di primo piano di mafia, ‘ndrangheta e camorra. Al centro ci sarebbe una ripresa della strategia stragista avente nel mirino alcuni magistrati impegnati nella lotta alle mafie tra i quali il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone. È possibile che una Procura non sappia nulla di tutto ciò che avviene nel proprio territorio? È forse un caso? Si giunge quindi ad un punto importante per tutta la Provincia di Messina. È opportuno e indispensabile che la Giustizia faccia il suo corso, affinché si inizi a distinguere il bene dal male, senza omertà e senza paura.

Il magistrato Franco Antonio Cassata rinviato a giudizio.

Il Procuratore Generale di Messina, Franco Antonio Cassata, è stato rinviato a giudizio per la diffamazione pluriaggravata a carico di Adolfo Parmaliana, il professore che si suicidò nel 2008 all'età di 50 anni. Il dossier di 30 pagine smette così di essere anonimo. Sarebbe proprio Cassata l’autore, del memoriale creato ad hoc per infangare la memoria di Parmaliana. Il topo si mette la trappola da solo insomma. Noncuranza o troppa sicurezza? Eppure Cassata avrebbe dovuto fare più attenzione, considerati gli indizi che già gravavano sulla sua persona e che avevano portato, l’agosto 2010, alla perquisizione dei Ros degli uffici giudiziari messinesi. È stato in quell’occasione che l’europarlamentare Sonia Alfano, nonché presidente dell’associazione nazionale familiari vittime di mafia, aveva colpito il magistrato Cassata con la sua tesi personale che lo vedeva indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. “Il tempo, alla lunga, è galantuomo”, aveva dichiarato. Quelle parole che prima sembravano gettare fango su un’istituzione che doveva far luce su altre difficili questioni, oggi risuonano più veritiere che mai. Il tempo galantuomo lo è stato davvero, o almeno così sembra. L’Alfano commenta con parole gravi l’accaduto: “Il processo a carico del procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata è una notizia che descrive bene lo squallore indecente del sistema di potere barcellonese”, e non si risparmia affatto sul magistrato per il quale richiede "l’allontanamento immediato dal suo ruolo, oltre che la sua espulsione per indegnità dalla magistratura associata". Una cattiva notizia che apre uno spiraglio di speranza per l’europarlamentare, perché finalmente venga fatta giustizia sul caso Parmaliana, "già martire della malagiustizia del distretto messinese e perseguitato perfino da morto".

A Proposito della notizia dal Portale Web dell’On. Sonia Alfano il commento. E’ il 9 giugno del 2009, e mentre io festeggio la mia elezione al Parlamento europeo, il pm che ha depistato le indagini sull’omicidio di mio padre parla al telefono con il peggior rappresentante della giustizia messinese: l’attuale procuratore generale, suo degno compare, Antonio Franco Cassata, che in altri documenti troveremo appellato come “lo zio”, al pari di un capobastone della malavita siciliana. Chi è Cassata ormai lo sappiamo, ma fare un ripasso non può far male. Si tratta del più entusiasta promotore del tristemente noto “circolo” barcellonese denominato “Corda Fratres”, che ha visto soci il boss mafioso Giuseppe Gullotti (condannato a 30 anni quale organizzatore dell’omicidio Alfano), ed il “compare d’anello” (testimone di nozze) dello stesso Gullotti, Rosario Cattafi (pregiudicato e già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno oltre che, recentemente, al sequestro dei beni da parte del Gico della Guardia di Finanza. Il suo nome saltò fuori, seppure allo stato senza sviluppi, perfino nelle indagini delle Procure di Caltanissetta per le stragi del 1992 e di Palermo sui sistemi criminali). Il dr. Cassata è anche la persona che fu sorpresa nel settembre 1994 a colloquio con la moglie del boss Gullotti in quel momento latitante. E, infine, è la persona le cui gesta sono immortalate in un’informativa di reato che porta, non a caso, il nome “Tsunami”. Ma torniamo alle telefonate. E’ Cassata che chiama Canali, per chiedergli informazioni su un argomento che deve trattare nell’ambito di una causa a Reggio Calabria. Si tratta di una vecchia informativa delle tenenza della Guardia di Finanza di Barcellona Pozzo di Gotto su una presunta loggia massonica deviata, che avrebbe visto tra i suoi iscritti lo stesso Cassata, l’attuale senatore della Repubblica Domenico “Mimmo” Nania, il dottor Giovanni Lembo (sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia condannato nel 2008 a 5 anni per favoreggiamento dell’associazione mafiosa, per la vicenda del falso pentito Sparacio), il prof. Benito Andronico, il fratello dell’ormai noto avvocato Rosario Cattafi, il boss Giuseppe Gullotti e tanti altri. Un dettaglio interessante e non trascurabile: alcuni dei nomi coincidono con quelli che il modesto cronista Beppe Alfano aveva fatto a Olindo Canali a proposito di una loggia massonica deviata barcellonese, nomi ritrovati dieci anni dopo il suo omicidio nella memoria del suo computer. Il contenuto dell’informativa oggetto della telefonata, rivelato indebitamente a suo tempo dalla D.d.a. di Messina a Giovanni Lembo e Franco Cassata (che erano chiamati in causa da quel documento), fu poi destituito di fondamento dietro intervento dei vertici della Guardia di Finanza con motivazioni sorprendenti quali: è notorio l’impegno dell’on. Domenico Nania contro ogni forma di massoneria, è notorio l’impegno del dr. Cassata contro la criminalità organizzata… Davvero notorio, verrebbe da dire. Cassata interpella quindi Canali (che era stato il P.m. che aveva delegato la Guardia di Finanza di Barcellona P.G. a raccogliere elementi su una presunta loggia massonica deviata, della quale aveva avuto contezza proprio da Beppe Alfano) per avere ragguagli sulla presunta fonte confidenziale utilizzata dagli investigatori. E conclude spiegando le ragioni delle sue domande. Deve preparare un atto per una causa a Reggio Calabria contro “quel tale” al quale “non darò pace“. Quel tale è il loro incubo peggiore, la persona che per primo ha sputtanato le collusioni mafiose dell’attuale Procuratore generale di Messina e dalla cui denuncia è nata l’indagine per falsa testimonianza con l’aggravante di mafia a carico di Olindo Canali: l’avvocato Fabio Repici, che ha anche la colpa, agli occhi di questi infedeli magistrati, di aver scovato le prove dei depistaggi commessi da Olindo Canali nelle indagini sull’omicidio di mio padre. Quei depistaggi che da anni denuncio e che ormai hanno trovato evidenza documentale. Quei depistaggi compiuti per tutelare il ruolo centrale di Barcellona Pozzo di Gotto nel biennio stragista di Cosa Nostra e nella trattativa fra mafia e apparati dello Stato. Vicende sulle quali la carriera di magistrato del dr. Canali troverà termine.

MASSONERIA, TUTTI I NOMI: LA CLAMOROSA INCHIESTA DI ANTONIO MAZZEO

Uno spaccato di piccola e media borghesia siciliana. C’è l’anziano politico buono per tutte le stagioni; il sindaco, l’assessore e il consigliere comunale; il medico condotto e il chirurgo affermato; l’avvocato penalista, il consulente finanziario e il commercialista; il dirigente di un grande ente statale; il preside, l’insegnate di ruolo e quello precario. “Fratelli” e “sorelle” e qualche cognato, tutti devoti del Grande Architetto dell’Universo. I riti esoterici vengono consumati tra squadrette, compassi, cappucci, spade, pavimenti a scacchiera, candelabri, teschi e casse da morto nell’oscurità di un anonimo appartamento alla periferia di Barcellona Pozzo di Gotto, centro tirrenico della provincia di Messina. È in questo “tempio” dello spirito e dell’intelletto che il 25 ottobre del 2009 si presentano funzionari ed agenti della polizia di Stato. Anch’essi, come ogni comune profano, devono transitare da una lugubre stanzetta di “meditazione e purificazione” dove ad una parete è affissa una falce e un cartello che ammonisce: «Se tieni alle distinzioni umane, vattene». Gli agenti hanno l’ordine di sequestrare l’elenco degli iscritti, lo statuto e i verbali delle riunioni svolte all’interno della loggia massonica che vi è ospitata, l’“Ausonia”, indipendente dalle obbedienze che popolano la sin troppo litigiosa frammassoneria italiana. A ordinare il blitz, i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina, Angelo Cavallo e Giuseppe Verzera, che ipotizzano la violazione dell’articolo 2 comma 2 della legge 25/1982, la cosiddetta “Spadolini-Anselmi” che vieta le associazioni segrete, approvata dopo lo scandalo della superloggia P2 di Licio Gelli. Secondo i dirigenti della Squadra Mobile della Questura di Messina, l’“Ausonia”, fondata il 15 gennaio 2004, non risulterebbe inserita negli elenchi ufficiali depositati in prefettura. «Gli obiettivi che si prefiggono non appaiono riconducibili alla conduzione di studi filosofici ed approfondimenti culturali – scrivono nella richiesta di autorizzazione alla perquisizione – bensì all’acquisizione ed al consolidamento di posizioni di vertice, nei contesti professionali e lavorativi in cui operano, ed incarichi presso strutture sanitarie che forniscono un bacino elettorale a cui attingere di volta in volta nelle competizioni amministrative e politiche, dietro cui staglierebbe, quale promotore e artefice ideatore, la figura del Senatore Domenico Nania». Sì proprio lui, uno dei politici più influenti del Polo delle libertà in Sicilia, ex Giovane Italia, poi Movimento Sociale italiano ed infine Alleanza nazionale, deputato della Camera nella X, XI, XII e XIII legislatura, senatore della Repubblica nella XIV, XV e XVI legislatura (già vicepresidente Pdl del Senato e membro della Commissione ambiente e territorio), tra i quattro “saggi” che hanno redatto la Costituzione votata in parlamento nel 2005 ma respinta referendariamente dal popolo italiano. Una parte dei “fratelli” dell’“Aurora”- che gli inquirenti considerano esserne il “nucleo forte” – prima di approdarvi è transitata da altre logge “spurie” del barcellonese, ultime delle quali la “Loggia Gran Principato delle Andorre” e “I Filadelfi”. Consolidati i collegamenti con altre logge non ufficiali d’Italia e all’estero e con ordini cavallereschi e presunto-nobiliari che sarebbero proliferati localmente anche grazie al fascino suscitato dai Caballeros del Antiguo Reino de la Corona de Aragòn (Spagna) e dal Gran Maestre de la Soberana y Militar Orden del Temple Catalano Aragonés, giunti nel messinese, in visita ufficiale, nell’ottobre del 2002. Qualche massone, inoltre, sarebbe poi accreditato tra gli esclusivi circoli cattolici pro Opus Dei. Sei gli appartenenti alla presunta loggia occulta indagati: è contestata la «partecipazione ad una associazione segreta che, occultata l’esistenza degli associati e tenendo segrete congiuntamente attività sociali e finalità, svolgevano attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi ed enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale». Si tratta dell’informatore scientifico Giuseppe Iacono; del professore Placido Conti, preside dell’Istituto parificato alberghiero; di Sebastiano Messina, docente di un istituto superiore ed ex assessore comunale di Barcellona in quota Forza Italia; di Roberto Meo, docente precario; di Giorgio Maugeri, direttore pro tempore della sede Inps di Milazzo; del direttore del Pronto soccorso dell’ospedale “Cutroni-Zodda” di Barcellona, Felice Carmelo La Rosa, proprietario dell’appartamento di piazza Marconi che ospita la loggia. “Sovrano gran cerimoniere del Rito scozzese antico ed accettato”, il dottor La Rosa è certamente il personaggio più noto alle cronache. Ex consigliere ed assessore della Provincia di Messina con Forza Italia, è stato tra i fondatori del sodalizio degli “Azzurri” nella città del Longano. Prima ancora ha militato nell’arcipelago dell’estrema destra locale. L’esistenza nel Longano di associazioni segrete e logge massoniche non regolari in grado di condizionare la vita amministrativa e il regolare svolgimento delle gare d’appalto è stata rivelata ai magistrati dall’imprenditore edile Maurizio Marchetta, titolare della Cogemar Srl ed ex vicepresidente del consiglio comunale di Barcellona con Alleanza nazionale, indagato nel 2003 nell’ambito dell’operazione “Omega” con l’accusa di turbativa d’asta ed associazione per delinquere. Interrogato il 16 marzo e l’11 giugno 2009, Marchetta si è soffermato proprio sulla “Gran loggia Ausonia” e sulla contigua associazione “Onlus Ausonia” costituita il 29 maggio del 2004 per operare nel campo della «beneficenza e di attività culturali quali convegni su personaggi storici e dell’arte». «Presso la sede dell’onlus hanno la propria sede ben tre logge massoniche “occulte” ed i cui iscritti, di cui sono in grado di riferire alcuni nomi, utilizzano l’appartenenza massonica per ottenere in cambio incarichi e varie forme di potere da parte di politici locali», ha spiegato l’imprenditore. «Gli iscritti a queste logge occulte barcellonesi, per un numero di circa 40 persone tra medici, avvocati, informatori scientifici e liberi professionisti, hanno costituito una rete di collegamenti con la Sicilia e la Calabria, raggiungendo un numero complessivo di circa mille persone». «Le tre logge massoniche spurie di Barcellona – ha aggiunto Marchetta – sono state trasferite all’interno di un appartamento ubicato in Piazza Marconi n. 6 e 9. Tale spostamento è motivato da due ordini di ragioni: la prima è che nella precedente sede poiché abita la madre di un giudice, questi è solito andare a trovarla di frequente, pertanto gli associati alle logge occulte preferiscono non essere notati; la seconda è che lo stabile è di proprietà della famiglia La Rosa e quindi possono riunirsi indisturbati». Poi i fendenti contro alcuni dei vertici dell’“Ausonia”. «Carmelo La Rosa è il riferimento unico della massoneria barcellonese del senatore Nania, con il quale si scambiano reciprocamente cortesie», ha dichiarato l’imprenditore. «La Rosa è il più alto in grado che ha fondato questa loggia. Un suo fratello è consigliere comunale a Barcellona nelle liste di An, mentre un altro fratello è cognato del consuocero del senatore Nania». Maurizio Marchetta ha ammesso di essere iscritto da tempo alle logge del Grande Oriente d’Italia, prima alla “Fratelli Bandiera”, poi alla “Eugenio Barresi”. Quest’ultima è stata fondata nel febbraio 2009 dal Gran maestro venerabile Salvatore Tafuro (ex affiliato della “Fratelli Bandiera” ed ex dirigente del Commissariato di Pubblica sicurezza di Barcellona e della squadra mobile di Reggio Calabria) ed è intitolata ad un noto veterinario barcellonese, grado 33 della massoneria siciliana, deceduto qualche anno fa in un incidente stradale. «Per quanto riguarda le mie conoscenze sulla massoneria – ha spiegato Marchetta – posso dire di essere ufficialmente iscritto al Grande Oriente d’Italia nella loggia “Eugenio Barresi” col numero distintivo 1336; abbiamo deciso di costituire questa loggia perché in quella storica barcellonese “Fratelli Bandiera” venne ammesso contro la mia volontà e quella di altre persone tale Domenico Sindoni, figlio del noto Giovanni Sindoni, nominato con l’intervento del senatore Nania direttore sanitario dell’Ospedale “Cutroni Zodda” (…) Aggiungo che non appena è entrato Sindoni, il dottor Sergio Scroppo è diventato primario di anestesia ed il dottor Bruno Magliarditi, medico di Milazzo portato da Sindoni, è diventato primario di ginecologia. Questo determina che nella città di Barcellona il senatore Nania ha un bacino elettorale prevalentemente legato al mondo della medicina». Una presenza non gradita, dunque, quella del direttore sanitario pure alla guida del presidio ospedaliero di Milazzo. Il padre, il pregiudicato Giovanni Sindoni, frequentatore per lungo tempo della sezione locale dell’Msi e approdato poi alla Dc, è tra i maggiori imprenditori agrumari siciliani già coinvolto in inchieste per truffe miliardarie a danno dell’A.I.M.A.; per gli inquirenti è «soggetto ritenuto come legato alla organizzazione mafiosa barcellonese». Le accuse sui presunti condizionamenti della loggia “Ausonia” sulla vita politica ed amministrativa dell’hinterland di Barcellona Pozzo di Gotto sono state respinte dal “Sovrano gran cerimoniere”, Felice Carmelo La Rosa. «Non capisco come sia stato possibile che la nostra loggia abbia potuto influenzare la politica locale e incidere su appalti e incarichi professionali se, come è vero, nessuno tra di noi è imprenditore e nemmeno politico», ha dichiarato La Rosa al quotidiano Gazzetta del Sud. «Tra di noi in ben sette si sono candidati alle ultime elezioni amministrative senza che nessuno sia riuscito a farsi eleggere in Consiglio comunale. La nostra loggia che si ispira soltanto ai principi etici e morali della massoneria e in particolare al Grande ordine del principe di Andorra, intrattiene i propri iscritti su dissertazioni culturali in riunioni che si tengono da due a tre volte al mese in cui si parla di Budda, del Tempio di Salomone, della Piramide di Cheope e degli antichi Sumeri. Non abbiamo commesso alcun reato e non abbiamo nulla di deviato. La nostra associazione è stata regolarmente costituita e sono stati informati tutti gli organi di controllo dello stato, compresa la Questura. Già subito dopo la nostra costituzione, su di noi era stata aperta una inchiesta giudiziaria da parte della Procura di Barcellona che a quanto pare da tempo è stata archiviata, perché non ha sortito alcun effetto in quanto la nostra attività è regolare, trasparente e in linea con le leggi ed i regolamenti dello Stato italiano».

Un mese dopo il blitz all’interno della Gran loggia massonica “Ausonia”, la Procura distrettuale antimafia di Messina ha autorizzato la restituzione di tutti gli atti e i documenti sequestrati. Tra essi, in particolare, un contenitore con il logo dell’“Ausonia” e le carpette con le schede analitiche relative ai nominativi di possibili componenti delle distinte logge ospitate nel tempio di Piazza Marconi. Oltre ai professionisti sottoposti ad indagine, tra i nomi di spicco compare quello del capitano di lungo corso Angelo Paffumi, già sindaco Dc del comune di Fondachelli Fantina e deputato regionale nella XIII legislatura (prima con il Partito Repubblicano e poi con l’Mpa di Raffaele Lombardo), attuale membro del consiglio d’amministrazione del Consorzio autostrade siciliane. Ci sono poi Manlio Magistri, già direttore sanitario dell’Asl 5, attuale direttore del Policlinico Universitario di Messina e padre di Simone Magistri, consigliere provinciale di An; il sindaco di Mazzarrà Sant’Andrea, Carmelo Navarra; l’assessore alle finanze, al patrimonio e alla programmazione dei fondi comunitari del comune di Falcone, Pietro Bottiglieri (commercialista iscritto all’ordine di Barcellona ed ex esperto del comune di Furnari); il commercialista Sebastiano Baglione, revisore di bilancio al Comune di Mazzarrà; il medico ospedaliero Giuseppe Chiofalo, ex presidente del consiglio comunale di Furnari recentemente disciolto per infiltrazione mafiosa (cognato di Navarra e Baglione); il medico Antonino Messina, vice-presidente del Consiglio comunale di Merì (che però nega l’appartenenza alla loggia); il cardiologo Giovanni Pino, già consigliere comunale a Barcellona (Forza Italia); l’avvocato Maurizio Crimi, liquidatore del Consorzio intercomunale tra Furnari e Montalbano “Mare monti”; i penalisti Mario Buda e Tindaro Celi; l’informatore scientifico Alfio Maimone; la medico analista del “Cutroni Zodda”, Provvidenza Genovese. Ed ancora: Guglielmo Arcidiacono, Agostino Avenoso, Claudio Bellia, Lucia Benvenuto, Antonino Boncaldo, Francesco Bucalo, Paolo Cardia, Anna Carulli, Adalgisa Clara Cascio, Luigi Castro, Giordano Antonio Catalfamo, Francesca Mica Conti, Salvatore Costantino, Carmelo De Pasquale, Giovanni Di Bella, Claudio Di Blasi, Silvio Claudio Di Mauro, Alessio Virgilio Galati Rando, Daniele Gallo, Sebastiano Garofalo Francesco Giorgianni, Giuseppe Giuffrida, Giacomo Gualato, Sebastiano Gullotti, Antonino Iannello, Domenico Isgrò, Giovanni La Fauci, Giuseppe Lembo, Giovanni Lucifora, Rosa Maria Lucifora, Carmelo Manna, Aldo Maugeri, Antonino Mercadante, Angela Rita Milazzo, Antonino Mirabile, Vito Miria, Filippo Mulfari, Enrico Munafò, Natale Munafò, Renato Antonino Olivio, Rosario Natoli, Sebastiano Opinto, Giuseppina Palmieri, Cosimo Parisi, Grazia Rosa Patellaro, Giuseppe Peditto, Alessandro Puglisi, Cesare Pullella, Giuseppe Pullella, Domenico Restuccia, Daniela Riccieri, Giuseppe Ruggeri, Vincenzo Santamaria, Rosario Scaffidi, Salvatore Scarpaci, Sebastiano Calogero Sciortino, Pippo Spatola, Carmelo Sottile e Maria Torre. Dell’“Ausonia”, secondo quanto si evince dal verbale di sequestro dell’autorità giudiziaria, avrebbe pure fatto parte per un tempo il falso medico di Torregrotta Pietro Renda, condannato per truffa all’Asl e radiato dall’Ordine dei medici in quanto privo di laurea in medicina. Tra i documenti sequestrati e successivamente restituiti pure una lettera del Supremo Consiglio del Principato di Andorra, gli atti costitutivi delle due logge annesse all’“Ausonia”, “I Filadelfi” e “Armonia” e due carpette relative alle logge massoniche “Pitagora” ed “F. Bruno”, probabilmente con sedi al di fuori dalla Sicilia. Nella cartella della “Pitagora” erano inserite le schede nominative intestate ai Antonio De Cicco, Corrado De Cicco, Giovanni Fallaci, Antonino Iaria, Cosimo Rogolino e Antonino Violi. In quella della loggia “F. Bruno” le schede con i nomi di Giovanni Borea, Vincenzo Giustra, Giovanni Gurnari, Giuseppe Neto, Domenico Polito, Carmelo Maurizio Sergi, Giuseppe Siclari e Giuseppe Taglieri. Tra gli inquirenti è forte il sospetto che nelle logge “spurie” barcellonesi ci possano essere altri iscritti all’“orecchio del Gran Maestro”, cioè in maniera del tutto riservata. Persone di estrema rilevanza pubblica la cui adesione sarebbe stata tenuta segreta perfino agli altri “fratelli”.

E ancora pendenti dalla penna di Antonio Mazzeo scopriamo che Maurizio Marchetta era l’enfant prodige della politica e dell’imprenditoria locale, perlomeno sino alla deflagrazione dell’inchiesta “Omega”, nel luglio 2003, quella sullo strapotere della criminalità organizzata nella realizzazione delle opere pubbliche nella provincia di Messina. Architetto, titolare dell’impresa di costruzioni Cogemar, nel 2001 Marchetta ascese alla vicepresidenza del Consiglio comunale di Barcellona Pozzo di Gotto in rappresentanza di Alleanza Nazionale, il partito del senatore Domenico Nania, barcellonese. Due anni dopo la tempesta giudiziaria e un’accusa per l’imprenditore-consigliere di «aver fatto parte di un’associazione a delinquere finalizzata alle turbative d’asta». Il profilo tutt’altro che lusinghiero su Marchetta sarà tracciato nel 2006 dai componenti della Commissione incaricata dalla Prefettura di Messina di verificare eventuali infiltrazioni mafiose nella gestione del Comune di Barcellona. I commissari, in particolare, oltre ai procedimenti penali che lo vedevano coinvolto, segnalarono «gli stretti rapporti di cointeressenza esistenti» con Salvatore “Sem” Di Salvo, pluripregiudicato ai vertici dell’organizzazione mafiosa del Longano, e le «documentate condotte agevolatrici volte ad introdurlo nella casa comunale per permettergli di sbrigare con facilità e speditezza qualunque tipo di pratica amministrativa».Del politico-imprenditore furono inoltre evidenziate le frequentazioni con altri due personaggi di spicco della criminalità barcellonese, Giovanni Rao e l’avvocato Rosario Pio Cattafi,tessitore quest’ultimo oggi di una imponente operazione speculativa, la realizzazione di un Parco commerciale di 18,4 ettari alla periferia di Barcellona P.G..

Maurizio Marchetta ha deciso di rispondere alle domande degli inquirenti. La Procura preferisce definirlo un “dichiarante”, ma i suoi racconti hanno scatenato un vero e proprio terremoto tra la classe politica dirigente, gli imprenditori e i vecchi e nuovi reggenti delle cosche. Grazie a Marchetta è scaturita l’indagine denominata “Sistema”, che all’inizio del 2009 ha portato all’arresto di Giuseppe D'Amico (boss emergente della famiglia barcellonese), Pietro Nicola Mazzagatti (a capo della famiglia di Santa Lucia del Mela) e Carmelo Bisognano (Mazzarrà Sant’Andrea). Marchetta ha pure spiegato con dovizia di particolari il cosiddetto meccanismo regolatore del “3 per cento”, quanto cioè si deve pagare alla mafia per continuare a lavorare nella provincia di Messina. E si è soffermato sulle modalità di conduzione delle turbative d’asta nei pubblici appalti, illeciti resi possibili dall’esistenza di «un gruppo di imprenditori che adotta tale sistema su scala regionale e che fruisce sia di collegamenti con pubblici amministratori, sia con soggetti politici che svolgono una vera e propria funzione di referenti, sia con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata». Maurizio Marchetta non ha risparmiato parole di fuoco contro uno dei sui principali referenti politici, il dottor Candeloro Nania (ex Msi, ex An, oggi Pdl), da una decade a capo dell’amministrazione comunale di Barcellona, cugino di primo grado del senatore Domenico Nania. A proposito del sindaco del Longano, Marchetta avrebbe raccontato «le forme di condizionamento determinate per imporre a privati proprietari terrieri, che hanno ottenuto grazie a lui l’aumento dell’indice di cubatura, le progettazioni e le successive costruzioni con professionisti ed imprenditori da lui stesso imposti». L’architetto ha pure puntato il dito contro le logge e i templi “occulti” della massoneria, veri e propri centri dove sarebbe esercitato il potere del partito unico trasversale che regolerebbe la vita della fascia tirrenica del messinese. È stato grazie al dichiarante che la Squadra Mobile della Questura di Messina ha avviato un’indagine sulla Gran Loggia Ausonia, un’obbedienza “indipendente” fondata a Barcellona il 15 gennaio 2004. «Gli obiettivi che gli adepti si prefiggono non appaiono riconducibili alla conduzione di studi filosofici ed approfondimenti culturali», scrivono i dirigenti della Questura nella loro richiesta di perquisizione della loggia massonica. Al contrario, i “fratelli”dell’Ausonia punterebbero «all’acquisizione ed al consolidamento di posizioni di vertice, nei contesti professionali e lavorativi in cui operano, ed incarichi presso strutture sanitarie che forniscono un bacino elettorale a cui attingere di volta in volta nelle competizioni amministrative e politiche, dietro cui staglierebbe, quale promotore e artefice ideatore, la figura del Senatore Domenico Nania». Per gli inquirenti, poi, «taluni di questi soggetti»risulterebbero aver mantenuto rapporti con «personaggi legati sia al mondo della politica che della criminalità organizzata barcellonese». «A Barcellona vi sono tre logge massoniche “spurie” in quanto non sono riconosciute, ma forse sarebbe meglio definirle occulte», ha raccontato Maurizio Marchetta. «La gran parte degli appartenenti sono medici, soprattutto ospedalieri di Barcellona, poi ci sono informatori scientifici, avvocati, politici. I tre maestri venerabili ruotano ogni anno e ciascuno è alla guida delle singole logge». Per il Marchetta, il senatore Nania avrebbe come «riferimento unico della massoneria barcellonese»il dottor Felice Carmelo La Rosa, maestro venerabile dell’Ausonia e primario al Pronto soccorso dell’ospedale “Cutroni Zodda” della città del Longano. «La Rosa è il più alto in grado che ha fondato questa loggia», ha dichiarato l’architetto.«Un suo fratello, di nome Sebastiano, è consigliere comunale a Barcellona in quota Pdl, mentre un altro fratello è cognato del consuocero del senatore Nania. Le tre logge massoniche spurie di Barcellona sono state trasferite all’interno di un appartamento ubicato in Piazza Marconi, in uno stabile di proprietà della famiglia La Rosa. In tale stabile vi sono anche gli uffici dello studio del commercialista Sebastiano La Rosa e dell’Agenzia di Assicurazioni gestita dal fratello Luigi La Rosa, che è cognato di Tindaro e Francesco Calabrese, soci e amministratori della CA.TI.FRA. Srl per averne sposato la sorella. Anche da qui si rafforzano i rapporti con la famiglia Nania». Secondo Marchetta, proprio la società dei Calabrese farebbe parte del “tavolino” creato all’interno della sezione di Messina dell’associazione costruttori edili (ANCE) dal presidente Carlo Borella per pianificare e gestire l’aggiudicazione degli appalti d’importo consistente. Figura complessa quella del venerabile Felice Carmelo La Rosa. «Dalla consultazione della Banca Dati Interforze SDI risultano a suo carico precedenti per infrazioni a norme comportamentali, falsità ideologica commessa in concorso dal pubblico ufficiale in atti pubblici, truffa in concorso», scrivono i dirigenti della Squadra Mobile. Ex consigliere ed assessore della Provincia di Messina in quota Forza Italia, Felice Carmelo La Rosa è stato tra i fondatori del sodalizio degli “Azzurri” nella città del Longano. Prima ancora aveva militato nell’arcipelago dell’estrema destra locale. Erano gli anni in cui missini, giovani del Fuan, ordinovisti e avanguardisti, spesso con doppia o tripla affiliazione, lanciavano assalti e rappresaglie all’interno dell’Università di Messina. Una ventina di presunti attivisti neofascisti furono pure attenzionati dal pubblico ministero Vittorio Occorsio, poi assassinato. Tra essi c’era il La Rosa, l’allora dirigente nazionale del Fuan Gualtiero Cannavò (oggi avvocato civilista) e Giuseppe Alfano, il corrispondente da Barcellona del quotidiano“La Sicilia” barbaramente assassinato dalla mafia l’8 gennaio del 1993. Tre personaggi che negli anni a seguire avrebbero espresso valutazioni diametralmente opposte sui “valori” della fratellanza massonica. Felice Carmelo La Rosa e Gualtiero Cannavò entrarono a far parte del Grande Oriente d’Italia, il primo nella loggia “Fratelli Bandiera” di Barcellona, il secondo nella“Stretta Fratellanza” di Messina. Giuseppe Alfano, invece, intraprese un’indagine sui presunti condizionamenti della vita amministrativa locale da parte di una loggia segreta, che, stando agli appunti ritrovati dopo il suo omicidio, avrebbe avuto tra gli affiliati il medico Antonio Franco Bonavita (fratello di Salvatore Bonavita, ingegnere capo dell’ufficio tecnico del Municipio di Barcellona) e l’ingegnere Antonino Mazza, il proprietario dell’emittente Telenews misteriosamente assassinato il 30 luglio 1993, che insieme ad Alfano era stato promotore della lista civica “Alleanza democratica progetto Barcellona” che partecipò alle elezioni comunali del 1990. Altrettanto complessa la figura del germano del Maestro venerabile dell’Ausonia, Sebastiano La Rosa, consigliere comunale a Barcellona nella penultima legislatura (An-Msi) e cognato dell’odierno vicepresidente del consiglio Salvatore Schembri (Pdl-An). «Sul suo conto – si legge nella relazione della Commissione prefettizia sul mancato scioglimento per mafia del Comune del Longano - si rileva che l’8 gennaio 2000 è stato denunciato in stato di libertà dal Commissariato della Polizia di Stato, poiché resosi responsabile, in concorso con altri, del reato di accensione ed esplosione di cose pericolose; indagato in seno al procedimento penale n. 1871/99 - art. 171 L. 633/1941 (pirateria informatica), con sentenza 468/00 assolto per non aver commesso il fatto…». Alla Questura di Messina risulta però qualcosa in più: «precedenti per contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno, introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, frode nell’esercizio del commercio in concorso, vendita di prodotti industriali con segni mendaci, ricettazione, porto abusivo e detenzione armi».

Nelle sue deposizioni, Maurizio Marchetta ha indicato il nome di alcuni presunti “fratelli” al vertice del circolo massonico Ausonia del Longano. «Appartengono a questa loggia il prof. Placido Conti, oggi uno dei venerabili, insegnante presso l’Istituto Agrario di Barcellona, attivista politico legato a Carmelo La Rosa e che mi risulta frequentare e recarsi assiduamente, negli ultimi tre anni, sia a Urbino sia presso al Repubblica di San Marino; il dottor Giorgio Maugeri, direttore dell’INPS di Milazzo; il direttore dell’Istituto Superiore di Agraria di Barcellona a nome Sebastiano Salvatore Messina, già in passato assessore al Comune di Barcellona nella prima giunta Nania, in quota Forza Italia; il prof. Roberto Meo, insegnante alle superiori cui ho fatto seguire il figlio di Salvatore “Sem” Di Salvo; Giuseppe Iacono, un informatore scientifico. Queste persone tengono riunioni rituali periodiche, generalmente due al mese, nel corso delle quali attuano le finalità della loggia. Che sono quelle di mettere a disposizione il rispettivo ruolo nei vari settori per aiutarsi reciprocamente e, soprattutto, per creare voti elettorali». «L’attuale venerabile di una di queste logge che si chiama “Armonia” è Giorgio Maugeri», aggiunge Marchetta. «La loggia “Armonia” è dipendente da una sorta di“obbedienza”, sempre facente capo a Carmelo la Rosa che si chiama Gran Loggia Ausonia, sotto cui stanno le altre due logge. La carica di segretario della Gran Loggia Ausonia è attualmente ricoperta da Placido Conti. Posso precisare che la maggior parte delle persone da me indicate erano in precedenza iscritti ad un’altra obbedienza che credo si chiami “Principato delle Andorre”. Molti di questi ho saputo che sono stati raggiunti da un avviso di garanzia, ma non so per quale reato, ed in ragione di ciò sono transitati in queste logge occulte».

La Squadra Mobile di Messina ha accertato identità e curriculum vitae dei frammassoni tirati in ballo dal dichiarante. Giorgio Maugeri, ad esempio, è risultato essere stato iscritto in passato alla loggia massonica “Libertà” del Grande Oriente d’Italia, con sede a Messina; inoltre risulterebbero a suo carico «precedenti per reati in materia di prostituzione». Sebastiano Salvatore Messina, vicepreside dell’Istituto Professionale Statale per l’Agricoltura di Barcellona, «è subentrato alla guida dell’Assessorato al Bilancio, Finanze, Patrimonio e Autoparco del Comune di Barcellona al commercialista Luigi La Rosa, cugino dei germani Felice Carmelo e Sebastiano La Rosa, presidente dell’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici), sezione di Barcellona e attuale presidente dei Revisori dei conti della città del Longano». Luigi La Rosa – si aggiunge - è stato «notato in diverse circostanze con soggetti mafiosi dell’hinterland barcellonese» ed è stato indagato nell’ambito dell’operazione “Gabbiani” per il quale il 13 luglio 2004 venne tratto in arresto il consigliere comunale Andrea Aragona, capogruppo di Forza Italia. La Rosa fu successivamente condannato a 3 mesi e 10 giorni di reclusione per voto di scambio, per aver ceduto a più elettori buoni benzina in occasione delle elezioni provinciali del 2003. Nello stesso processo fu condannato ad una pena lievemente maggiore (sempre per l’accusa di voto di scambio nonché per turbata libertà degli incanti), Pietro Arnò, un imprenditore«legato al clan mafioso barcellonese», con cui il “fratello” Sebastiano Salvatore Messina è risultato essere stato in «interessanti rapporti personali, lavorativi e politici» prima della sua prematura scomparsa. Secondo l’accusa, Andrea Aragona, in concorso proprio con Pietro Arnò, avrebbe usato minaccia per costringere il dirigente del Comune di Barcellona Salvatore Bonavita a commettere una serie indeterminata di reati di falso in atto pubblico e di abuso in atti d’ufficio a vantaggio della Cooperativa “Libertà & Lavoro” di cui lo stesso Aragona era presidente. Nel novembre 2003, Pietro Arnò scampò miracolosamente ad un agguato mortale: due persone, rimaste ignote, gli spararono con un fucile all’uscita della sua abitazione di Spinesante, attingendolo alla regione temporale sinistra. «Faccio parte della massoneria e quindi, per forza di cose, conosco anche i massoni occulti che riconoscono noi in quanto rituali, metodi e simboli distintivi sono comuni», ha ammesso Maurizio Marchetta. Dopo essere stato iscritto alla storica loggia “Fratelli Bandiera” del Grande Oriente d’Italia, l’imprenditore è però transitato nella “Eugenio Barresi” del GOI, loggia fondata nel febbraio del 2009 ed intitolata all’ex veterinario capo provinciale ed ex socio della squadra di calcio dell’“Igea Virus”, deceduto qualche anno fa in un incidente stradale. Odierno Gran Maestro della “Eugenio Barresi” è Salvatore Tafuro, ex dirigente del Commissariato di Pubblica sicurezza di Barcellona e della squadra mobile di Reggio Calabria. «Abbiamo deciso di costituire questa loggia perché in quella dei “Fratelli Bandiera” venne ammesso contro la mia volontà e quella di altre persone tale Domenico Sindoni, figlio del noto Giovanni Sindoni, nominato con l’intervento del senatore Nania direttore sanitario dell’ospedale “Cutroni Zodda”», ha spiegato Marchetta. «Aggiungo che non appena è entrato Sindoni, il dottor Sergio Scroppo è diventato primario di anestesia dell’ospedale di Barcellona ed il dottor Bruno Magliarditi, medico di Milazzo portato da Sindoni, è diventato primario del reparto di ginecologia ed ostetricia del“Cutroni Zodda”». Magliarditi, tra l’altro, è primario del reparto di neonatologia del nosocomio di Milazzo.

Per Marchetta, dunque, l’ingresso in massoneria del direttore sanitario dell’ospedale di Barcellona avrebbe generato la diaspora di numerosi “fratelli”. Candidato alle ultime elezioni amministrative con la lista di Forza Italia, Domenico Sindoni risulta avere «precedenti per violazioni norme prevenzione infortuni lavoro in concorso ed altre violazioni in materia di lavoro». Ma ciò non può essere stata la causa dello scarso entusiasmo manifestato da certi adepti della “Fratelli Bandiera”.Esso, invece, sarebbe da imputare al “peso” esercitato dal padre, il pregiudicato Giovanni Sindoni. Già presidente della società calcistica “Nuova Igea S.p.A.” (poi “Igea Virtus di Arnò Pietro & C.”), Sindoni è tra i maggiori autotrasportatori ed imprenditori agrumari siciliani. «Allo stato attuale, è considerato uno dei più avviati e facoltosi imprenditori di Barcellona», scrivono i dirigenti della Squadra Mobile di Messina. «Pur avendo, sino al 1981, pendenze per emissioni di assegni a vuoto, nel volgere di pochi anni, Giovanni Sindoni riesce a promuovere ed avviare numerose attività imprenditoriali, accumulando con estrema rapidità una ingente ricchezza». Già coinvolto in inchieste per truffe miliardarie a danno dell’A.I.M.A., il “re delle arance” è ritenuto «soggetto legato alla organizzazione mafiosa barcellonese»,in «ottimi rapporti» con il boss Giuseppe Gullotti (una condanna definitiva quale mandante dell’omicidio del giornalista Alfano) e con Luigi “Gino” Ilardo, affiliato alla cosca catanese di Benedetto Santapaola, nonché cugino del boss nisseno Giuseppe “Piddu” Madonia, ucciso in un agguato a Catania il 10 maggio 1996. Nell’indagine sul presunto ruolo assunto dal Santapaola per il delitto Alfano, poi definitivamente archiviata, fu anche vagliata la posizione del facoltoso imprenditore come possibile altro mandante dell’omicidio. Nella iniziale prospettazione d’accusa, il giornalista sarebbe stato ucciso perché aveva scoperto il coinvolgimento del boss catanese nelle truffe relative alle sovvenzioni in campo agrumicolo, realizzate appunto dal Sindoni. Erano state le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola a fornire lo spunto per quelle indagini. «Il vero mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, si chiama Sindoni», ha raccontato Avola ai magistrati. «Sindoni è un potente massone che conosce tutta la magistratura, quella corrotta logicamente: ha importanti amicizie al Ministero e un po' ovunque. Poi, tantissimi giri di soldi insieme ai Santapaola, ai barcellonesi, ai messinesi, nel traffico delle arance. L’omicidio scaturisce perché il giornalista aveva capito chi era il vero boss nella sua zona e che amicizie avesse questa persona, un vero intoccabile». Ancora la massoneria dunque. E ancora l’omicidio Alfano.

Una notizia aspettata e inaspettata allo stesso tempo. A Renderlo noto è Sonia Alfano, europarlamentare e presidentessa pro tempore dell’associazione “Familiari vittime di Mafia.”Sonia, volto attivo sia a livello politico che nella lotta a Cosa Nostra, ha pubblicamente diffuso la notizia tramite il suo blog dopo che il 16 settembre 2011 la Gazzetta del Sud aveva pubblicato la notizia di una perquisizione e di un sequestro di atti. La perquisizione, avvenuta nel mese di agosto, si è svolta all’interno degli uffici della Procura Generale di Messina ad opera del Ros di Reggio Calabria, delegato dal Procuratore Giuseppe Pignatone. Un’indagine importante ai danni di ingenti, discutibili e famigerati volti del messinese. Il reato è quello di concorso in associazione mafiosa. Secondo le dichiarazioni di Sonia Alfano, alla perquisizione ha partecipato lo stesso dr. Franco Cassata, Procuratore Generale di Messina. In realtà, però, l’indagato è proprio Cassata; il Procuratore Generale di Messina indagato per mafia. In effetti la perquisizione è stata disposta a suo carico, dopo la notifica nei suoi confronti del relativo decreto. «La conferma di ciò – ha dichiarato Sonia Alfano – deriva dal contenuto dell’articolo di stamattina, che informa di come l’indagine sia nata da dichiarazioni di collaboratori di giustizia trasmesse a Reggio Calabria dal Procuratore di Messina Guido Lo Forte. E dal settimanale Centonove di inizio agosto sappiamo che almeno un pentito ha accusato il Procuratore generale Cassata di collusione con la mafia barcellonese. Mi auguro al più presto di vedere l’arresto dell’altro magistrato colluso con la mafia barcellonese Olindo Canali – ha proseguito Sonia Alfano – il principale responsabile dei depistaggi sull’assassinio di mio padre.»

Franco Antonio Cassata, membro della Corda Fratres, “circolo culturale” del Barcellonese, rappresenta un personaggio parecchio controverso della Provincia di Messina, sia per il ruolo e la posizione che occupa, sia per i presunti favoreggiamenti a Cosa Nostra.Già Antonio Di Pietro, nel luglio del 2008, anticipando di ben tre anni determinati fatti di cronaca recentemente provati, aveva proclamato un’interpellanza in aula che, di sicuro, aveva suscitato parecchio scalpore: «La Corda fratres era frequentata anche da un altro socio importante, tale Rosario Cattafi - lo ricordo anch'io, pensi un po', nelle mie indagini - già indagato dalla procura della Repubblica di Caltanissetta nell'indagine sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e via d'Amelio, ma, soprattutto, destinatario nel 2000 della misura di prevenzione antimafia della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, con provvedimento definitivo. Perché ha ricevuto tale misura antimafia? Perché Cattafi aveva legami accertati con «piccoli» personaggi: Benedetto Santapaola, Pietro Rampulla, Angelo Epaminonda, Giuseppe Gullotta e altri ancora, tutti boss di buon calibro. Questo è l'ambiente in cui si trova ad operare e a fare anche circolo culturale il dottor Antonio Franco Cassata. Lo ripeto, egli gestisce anche un museo etno-antropologico a Barcellona Pozzo di Gotto, una realtà che riceve finanziamenti dalla regione Sicilia, dal comune di Barcellona Pozzo di Gotto e dalla provincia di Messina; insomma, riceve finanziamenti da enti importanti i cui rappresentanti e dirigenti operano nel territorio dell'ufficio giudiziario. Ci si chiede se possa essere assegnato un ruolo a chi esercita attività in un museo etno-antropologico, per cui riceve da parte di enti finanziamenti che devono essere controllati anche dalla magistratura.» Di Pietro continua ancora su Giuseppe Gullotti, mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, padre dell’europarlamentare Sonia Alfano, ucciso dalla mafia nel 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. «Il dottor Cassata ha uno strano comportamento durante la latitanza di Giuseppe Gullotti (lo ricordate? È il mandante dell'omicidio di Beppe Alfano). Nel settembre del 1994 il dottor Cassata viene avvistato da due carabinieri mentre conversa in strada con una signora che si chiama Venera Rugolo: è la figlia di Francesco Rugolo, ma, soprattutto, è la moglie di Giuseppe Gullotti, cioè è la moglie del mandante dell'omicidio di Beppe Alfano. Nei giorni successivi il dottor Cassata, presso il proprio ufficio, esercita pressione nei confronti dei due carabinieri, affinché la loro relazione di servizio venga soppressa: ne nasce un'indagine. Sia chiaro, il dottor Cassata ammette l'incontro con la moglie di Gullotti, ma dice: «ma no, si trattava di un fatto occasionale, abitiamo tutti lì in paese! Stava lì con il bambino nella carrozzina e io ho dato una carezza al neonato.» Con questa interpellanza Antonio Di Pietro aveva descritto un quadro completo sul Procuratore Generale di Messina

Magistrati di Messina. Chiesta la condanna. Di Domenico Calabrò su La gazzetta del Sud del 19/01/2011. La Procura rincara, rilancia e insiste per fare condannare a pene più pesanti due magistrati messinesi, per decenni sulla cresta dell'onda e da quindici anni sulla graticola per ipotizzati comportamenti disdicevoli. Giovanni Lembo, sostituto procuratore nazionale antimafia e Marcello Mondello, tornano sul banco degli imputati per il secondo processo davanti alla Corte d'appello a Catania, che dovrà valutare la loro condotta che in primo grado è stata pesantemente sanzionata con cinque anni di reclusione al dott. Lembo (ora ne sono stati chiesti il doppio) e sette anni al dott. Mondello (adesso ne sono stati sollecitati nove), in un processo su vicende che disegnano contesti la cui gravità più preoccupante - al di là dei comportamenti degli accusati portati in giudizio - è relativa alla gestione dei "pentiti" in un periodo giustizialista secondo il quale due dichiarazioni convergenti rappresentavano prova. Qualcuno, colpevolmente e irresponsabilmente (ma forse faceva parte del gioco per favorire una cosca, in tal caso quella di Sparacio&C.) ha tollerato, favorito e forse provocato il "convivio" di una trentina di pentiti, radunati tutti insieme in uno stesso posto - l'hotel Europa - dove - c'è da atterrire! - hanno raggiunto intese, accordi e disegnato strategie. Qualcosa di quel periodo è andato a carte quarantotto on uno degli avvocati che ne difendeva parecchi, l'avv. Ugo Colonna, il quale ha scatenato il putiferio, originando un processo che a furia di essere discusso, valutato e vagliato si sta dirigendo verso l'oblìo della prescrizione. La Procura ha fatto risentire la sua implacabile voce accusatoria contro gli imputati ai quali non solo non ha concesso sconti, ma ha chiesto alla Corte di aumentare la condanna irrogata dal tribunale a Lembo (sospeso dalle funzioni di magistrato) e Mondello (che è in pensione). Lo hanno fatto il sostituto procuratore antimafia Antonino Fanara (che ha chiesto le condanne anche in primo grado) e il sostituto procuratore generale Mariella Ledda, che davanti alla seconda Corte d'appello, hanno concluso la loro requisitoria. Nei confronti del dott. Mondello, nel giudizio di primo grado, aveva retto la contestazione di concorso esterno all'associazione mafiosa; mentre per il dott. Lembo la qualificazione era stata derubricata in favoreggiamento aggravato. Adesso con la richiesta di un anno in più per Lembo, l'accusa ha sostenuto anche la calunnia con l'aggravante mafiosa patita dall'avv. Colonna e perciò, la "disparità" tra le due posizioni processuali principali alle quali secondo l'accusa dev'essere riconosciuta a entrambe la colpevolezza di concorso esterno all'associazione mafiosa. La prescrizione - che era stata rifiutata in primo grado - è stata avanzata per l'ex maresciallo dei carabinieri Antonino Princi, collaboratore del dott. Lembo, condannato in primo grado per calunnia, a due anni. Secondo i Pm, comunque, la sua condotta non era finalizzata a favorire boss e picciotti, ma rispondente alle esigenze del dott. Lembo. Chiesta anche la conferma a sei anni e quattro mesi della condanna in primo grado per Luigi Sparacio, boss-pentito. L'inchiesta ha trattato anche l'attività dell'imprenditore Michelangelo Alfano, suicidatosi nel novembre del 2005. La competenza dell'inchiesta è radicata a Catania perchè coinvolgeva magistrati di Messina e Reggio Calabria.

Ecco chi sono i magistrati.

Giovanni Lembo. Sposato, due figli, entrato in magistratura nel 1972, è stato pretore a Patti. Dal 1987 ricopre l'incarico di sostituto procuratore a Messina. Lo lascia nel 1994 quando entra nella Direzione nazionale antimafia. Lembo è stato un pm di punta, segnalandosi sia per le indagini contro la criminalità, sia per l'apertura di inchieste contro i "colletti bianchi" e la pubblica amministrazione. Fece scalpore il processo nato dalle sue indagini sugli "arredi d'oro" del Comune di Messina. La più incisiva inchiesta contro la mafia che porta la sua firma fu quella contro le cosche di Barcellona Pozzo di Gotto, capeggiate dal boss Giuseppe Chiofalo, ora pentito, e coinvolto con Lembo nell'inchiesta di Catania. Il pm ottenne sedici ergastoli, quattro per il solo Chiofalo.

Marcello Mondello. Ha svolto tutta la sua carriera a Messina, nella magistratura giudicante, prima come giudice istruttore, poi come capo dell'ufficio del gip. E' passato quindi a presiedere una sezione della corte d'Appello. Per otto mesi, come facente funzione, è stato anche la più alta carica della magistratura a Messina, avendo svolto il ruolo di presidente della corte d'Appello. Ha lasciato la toga dopo avere appreso di essere stato iscritto nel registro degli indagati a Catania.

E non basta. Da "La Repubblica" si scopre che l'ex procuratore aggiunto di Messina, Pino Siciliano, oggi in servizio come sostituto nella stessa Procura, è agli arresti domiciliari da oggi pomeriggio. Il provvedimento cautelare, firmato dal gip del Tribunale di Reggio Calabria, Kate Tassone, su richiesta del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, è stato notificato al magistrato nella sua abitazione dalla Squadra Mobile di Messina. Le ipotesi di reato sono di concussione e di due tentativi di concussione. In particolare viene addebitato a Siciliano di aver "condizionato", nella conduzione di inchieste penali da lui coordinate, alcune vicende di carattere amministrativo relative a controversie tra il Comune di Taormina (Messina) e due imprese. In un caso, si tratta del contenzioso con l'Impregilo, poi concluso da una transazione, per l'appalto della gestione dei parcheggi. L'altro riguarda invece la ristrutturazione dell'hotel "Castellammare" da parte dell'impresa "Decisa srl". La concussione viene invece ipotizzata per un presunto interessamento di Siciliano per far sì che la competenza sulla valutazione di incidenza ambientale delle Zone a protezione speciale interessate dai progetti fosse trasferita dal Comune alla Regione.

"Il Giornale" si chiede: che c’azzecca Antonio Di Pietro con l’omicidio del giornalista Beppe Alfano assassinato da Cosa nostra nel 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto? Ovviamente, nulla. Eppure c’è da chiedersi perché, in una memoria di 75 pagine presentata il 2 aprile 2004 alla Dda di Messina dalla figlia del collaboratore del quotidiano La Sicilia, Sonia Alfano - candidata di punta in tutte e cinque le circoscrizioni nel partito di Tonino - si tiri in ballo proprio l’attuale leader dell’Italia dei valori. E lo si fa accostando il nome dell’ex magistrato molisano a un giro di presunte coperture istituzionali e giudiziarie di cui avrebbero goduto personaggi mafiosi e paramafiosi, come Rosario Cattafi, il cui nome venne alla ribalta con la nota inchiesta sull’Autoparco di Milano, poi con una doppia storia di traffico d’armi, e infine con la divulgazione del cosiddetto «memoriale Cerciello» redatto dal generale della Guardia di finanza, grande accusatore dell’ex pm ai tempi di Mani pulite. I riferimenti a Cattafi crearono qualche grattacapo a Tonino nel giugno del ’95 quando si sparse la notizia (poi risultata infondata) di una sua iscrizione sul registro degli indagati della procura di Reggio Calabria per aver rallentato, insieme al magistrato Giorgianni, alcune indagini su un traffico d’armi che riguardavano proprio questo Cattafi. Veleni, anonimi e corvi fecero da sfondo alle denunce dell’avvocato Carlo Taormina, difensore del generale Cerciello, che chiese alla procura di Brescia di ascoltare Di Pietro in merito ai suoi rapporti con Cattafi. Non se ne fece nulla. Di Pietro annunciò, e inoltrò, querele. La cosa morì lì. Adesso dai cassetti esce questa memoria nella quale l’attuale candidata dell’Idv, nel 2004, chiese alla procura di Messina di fare luce su una serie di indiscrezioni stampa che parlavano di Cattafi e anche di Tonino.

Ma andiamo per gradi. L’8 gennaio del ’93 Beppe Alfano viene ucciso nella sua auto da sicari di Cosa nostra. Per l’omicidio finiscono condannati, quale mandante, il capomafia di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, e come killer, Antonino Merlino. Le indagini sono affidate al pm Olindo Canali, magistrato per bene trapiantato in Sicilia dalla Brianza, una toga considerata molto vicina al giornalista ammazzato al punto da essere considerato suo confidente, e soprattutto suo amico. La famiglia Alfano continua a intrattenere buonissimi rapporti col pm almeno fino all’anno 2001, quando Sonia Alfano non decide di cambiare strategia e di affidarsi al battagliero avvocato Fabio Repici. Da quel momento, nonostante le condanne incassate al processo per la morte del papà, la giovane Alfano comincia a sostenere che l’inchiesta presenta evidenti lacune, che non si è toccato il terzo livello, che vi sarebbero stati depistaggi istituzionali. Da parte dei carabinieri, che avrebbero chiuso un occhio sulla presenza in zona del latitante capomafia catanese Benedetto “Nitto” Santapaola. Da parte, soprattutto, del pm non più amico di famiglia, Olindo Canali, “eterodiretto” dal defunto magistrato Francesco Di Maggio, un tempo magistrato inquirente a Milano, per anni trapiantato proprio a Barcellona Pozzo di Gotto.

Secondo le ricostruzioni giornalistiche (e difensive) riprese e rilanciate nel 2004 da Sonia Alfano, il giudice Di Maggio avrebbe intrecciato rapporti proprio con il noto Rosario Cattafi. Nell’ambito del procedimento poi avviato presso la Dda di Messina (numero 2886/02) utilizzando, e facendo proprie, con forma retorica, le considerazioni espresse il 2 marzo 1998 dal settimanale locale Centonove, Sonia Alfano richiamava l’attenzione della procura di Messina sui rapporti tra il mafioso Cattafi e Antonio Di Pietro, e tra quest’ultimo e tale Francesco Molino, altro mafioso barcellonese.

L’intreccio fra toghe (Canali, Di Maggio, Di Pietro) boss mafiosi (Santapaola e Gullotti) e frequentatori di ambienti e personaggi criminali (Cattafi su tutti) porta la Alfano ad affrontare il caso Di Pietro a partire da pagina 54 della memoria stilata dall’avvocato Repici. Letterale: «È da notare un’altra curiosa coincidenza: a metà degli anni ’80 mentre il dottor Di Maggio era titolare di alcune indagini su Cattafi e raccoglieva dichiarazioni di accusa contro quest’ultimo da Epaminonda, suo uditore giudiziario fu il dottor Olindo Canali». E di seguito. «Di questo curioso intreccio di inchieste, inquirenti e inquisiti, si sono ripetutamente occupati gli organi di informazione. Il settimanale Centonove - si legge nella memoria - in un articolo dal titolo "Un dossier porta ad Hammamet" e avente a oggetto un memoriale prodotto dal difensore del generale Cerciello all’autorità giudiziaria di Brescia contro Di Pietro, scrisse… » e giù varie considerazioni. Tra le quali, questa: «Cattafi a Milano, dove aveva iniziato un’attività nel campo dei farmaceutici e sanitari, rivede e frequenta il giudice Francesco Di Maggio, che ha passato la sua giovinezza fra Milazzo e Barcellona, dove ha frequentato le scuole, compreso il liceo (il padre era appuntato dei carabinieri) e dove ha conosciuto Cattafi di cui è coetaneo. Di Maggio introduce Cattafi nell’ambiente dei magistrati (il 3 aprile ’96 Cattafi ottenne in affitto a Taormina un’abitazione del magistrato in servizio alla procura generale di Milano, Luigi Martino), dove pare Cattafi abbia conosciuto Di Pietro (allora sconosciuto) e la sua donna, poi divenuta sua moglie. Cattafi ha necessità di coperture della magistratura. Conosce - continua la memoria-esposto - anche tale Molino, che è di origine siciliana, che poi diventerà anche amico di Di Pietro. Cattafi viene arrestato su ordine dei magistrati di Firenze per la questione dell’autoparco milanese. I giudici di Firenze intuiscono o vengono a sapere qualcosa sui legami passati fra i due magistrati e Cattafi e cercano di indagare. Scoppia la guerra fra le due procure - prosegue la memoria - e le indagini si interrompono. Di Pietro vola a Messina, dove incontra il pool Mani pulite, in testa il giudice Giorgianni, che più tardi si recherà ripetutamente a Milano da Di Pietro». Nella memoria si fa poi presente che il settimanale Centonove, il 28 febbraio ’98, intervista proprio Cattafi. Il quale conferma d’aver incontrato un paio di volte Di Maggio, mai Di Pietro («l’ho visto un paio di volte in un locale pubblico») e Giorgianni in occasione di un’inchiesta su un traffico d’armi. I riferimenti a Di Maggio sono importanti - prosegue la memoria - per capire la natura dei rapporti col pm Olindo Canali «di cui era certamente a conoscenza Beppe Alfano». E proprio per andare a fondo alla faccenda nella quale è citato Di Pietro, la Alfano chiede alla Dda di Messina di svolgere una lunga serie di atti istruttori, tra i quali «l’assunzione a sommarie informazioni del dottor Olindo Canali» (che verrà ascoltato come persona informata sui fatti) e del giornalista autore dell’articolo su Di Maggio e Di Pietro «per sapere quali siano state le sue fonti di prova e comunque, se prima della redazione di quell’articolo, egli avesse avuto contatti con Canali».

Questo scriveva la Alfano nel 2004. Della tesi Cattafi-Di Maggio-Di Pietro la ragazza continuava a parlare fino al 2006-2007. Da allora, però, Sonia Alfano non segue più quella pista concentrando l’attenzione - quale causale alla base dell’omicidio del padre - sulla latitanza del boss Nitto Santapaola nel barcellonese. La scoperta di Alfano padre del luogo ove a fine del 1992 era tenuto il boss, secondo la figlia, ne determinò l’eliminazione. Pressoché contemporaneamente all’abbandono della pista Cattafi-toghe lombarde iniziano i contatti con il politico di Montenero di Bisaccia che condurranno alla candidatura di Sonia Alfano alle Europee nella lista Italia dei valori. Nessuno, ovviamente, arriva a sospettare una ricompensa elettorale di Tonino all’abbandono della pista “milanese” da parte della Alfano. Ci mancherebbe. Fa riflettere, piuttosto, la decisione della Alfano di rispolverare, nel 2004, fatti vecchi e sepolti.

ADOLFO PARMALIANA: UN EROE EMARGINATO O UN MITOMANE CALUNNIATORE ?!?

Il potente magistrato che voleva annientare il prof suicida..., scrive Simona Musco il 23 novembre 2016 su "Il Dubbio".  «Nell'ufficio del pg trovarono un dossier pieno zeppo di invenzioni sull'insegnante di chimica». Lo preparò per bloccare la pubblicazione di un libro. «Mentre le sue denunce venivano sistematicamente ignorate, lui finì a processo per diffamazione, per aver scritto una cosa vera. Si sentiva perseguitato, moralmente gambizzato. E con una lucidità agghiacciante decise di sacrificare la sua vita». L'avvocato Mariella Cicero è una delle ultime persone ad aver sentito Adolfo Parmaliana, professore universitario di Terme Vigilatore, in provincia di Messina, morto suicida il 2 ottobre del 2008. Lo ha sentito il primo ottobre, dopo il rinvio a giudizio per diffamazione, lasciando una lettera in cui denunciava le gravi responsabilità di politici e magistrati nel rallentare le indagini sulla mafia e indicando in lei, l'avvocata Cicero, la persona a cui chiedere del suo calvario. Una battaglia che aveva condotto contro la mala politica e la mala giustizia, che lo ha visto protagonista anche dopo la sua morte. Perché nonostante il suo volo giù dal cavalcavia della Messina-Palermo, qualcuno aveva tentato di diffamarlo con un dossier che una sentenza della Cassazione ha certificato essere falso. Un dossier che ha un autore, anche quello accertato dalla Cassazione: Franco Cassata, ex procuratore generale di Messina. Ha un prezzo da pagare, per ora: 800 euro, il "costo" della diffamazione aggravata dall'attribuzione di un fatto previso. Un fatto preciso contenuto in un plico di 33 pagine, al centro di un'inchiesta condotta dai magistrati di Reggio Calabria, quando a comandare la procura c'era Giuseppe Pignatone. Ora la moglie di Parmaliana, Cettina Marino, dovrà affrontare una causa civile per stabilire il risarcimento del danno causato da quel dossier che ha infangato la memoria di un morto. «Non me la sento di parlare», dice Cassata, contattato dal Dubbio. Ha la voce rotta. Più forte è quella di Mariella Cicero, che non capisce come mai, prima di ora, la storia fosse stata ignorata dalla stampa. Dopo il suicidio di Parmaliana, uno scrittore, Alfio Caruso, aveva deciso di raccontare la sua storia, col libro "Io che da morto vi parlo". Ma Cassata confezionò un dossier, pieno zeppo di invenzioni sul professore di chimica, che lo descrivevano come personaggio moralmente abietto. Cassata, però, commise un errore fatale: al dossier aveva allegato un documento inviato da un fax di una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto e indirizzato alla procura generale di Messina, che portò gli uomini di Pignatone fin nell'ufficio del procuratore generale. «Cassata disse che il dossier era stato spedito anche a lui ma sulla sua copia mancava il numero di protocollo - racconta l'avvocato Cicero, che assieme al collega Fabio Repici ha seguito la famiglia Parmaliana -. Avevamo capito anche che le buste utilizzate per la spedizione del dossier erano state redatte direttamente da lui, perché c'erano delle analogie con la sua scrittura ma questo non entrò in processo». Ma cosa voleva ottenere Cassata con quel fascicolo? «Voleva evitare la pubblicazione di un libro che lo mettesse in cattiva luce», spiega l'avvocato. Il professore, infatti, aveva indicato anche in Cassata uno dei responsabili dell'inerzia della magistratura di fronte alle sue denunce. «Il fatto che Cassata fosse stato confermato alla procura generale lo preoccupò molto - aggiunge -. Inoltre, il figlio del magistrato aveva ricevuto diversi incarichi al Comune di Terme di Vigilatore. Dopo le indagini per diffamazione aveva chiesto di essere ascoltato dalla procura, che si rifiutò di interrogarlo. Questa cosa lo fece sentire perseguitato». Così si suicidò. Ma la sua voce continuò a popolare gli incubi delle persone che aveva denunciato. «Cassata si vide costretto a produrre quel dossier», così dipinse Parmaliana come «una persona moralmente indegna», con una meticolosa raccolta di informazioni «durata almeno un anno». Per il legale questo enorme lavoro di raccolta non può essere frutto di una sola mano. «Ci sono sospetti, intercettazioni che fanno pensare che ci fossero anche altri responsabili - ha spiegato -. Ma il gruppo non venne mai colpito». Ma, spiega ancora l'avvocato, non fu questo l'unico metodo utilizzato per impedire la pubblicazione del libro. «Cassata fece mandare "un'ambasciata" a Caruso affinché il libro non uscisse», aggiunge. Il processo al procuratore iniziò nel 2010: «Allora era ancora molto potente e la notizia venne affossata». Fu l'avvocato Repici, attraverso il suo blog, a raccontare fase dopo fase il processo di Reggio Calabria. «Un processo difficile, non pensavamo di arrivare a sentenza», dice la Cicero. Che racconta del suo ultimo sms. «Alle 21.25 del primo ottobre mi scrisse: "grazie di tutto, ci vediamo domani"».

Procuratore diffama con falsi dossier il prof antimafia (che si è tolto la vita): condannato a risarcire 800 euro. La sentenza della Cassazione contro il magistrato Franco Antonio Cassata di Messina per aver infangato la memoria di Adolfo Parmaliana, docente suicida stremato dalla lotta contro il malaffare. La vedova: ma per tutti è sempre Sua Eccellenza, scrive Gian Antonio Stella il 21 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Era proprio lui, il corvo: l’allora procuratore generale messinese. Lo dice la sentenza della Cassazione che, depositata nei giorni scorsi, inchioda Franco Antonio Cassata, a lungo il più influente magistrato della città sullo Stretto, per una colpa infamante. La diffamazione pluriaggravata, con un dossier anonimo, di un morto: Adolfo Parmaliana, il docente suicida perché stremato dalla fatica di battersi contro il malaffare e una certa poltiglia giudiziaria. Una condanna piccola piccola: 800 euro. E spropositatamente bassa, per fare un esempio, rispetto ai nove mesi di carcere inflitti nel 2013 a un immigrato senegalese, mai arrestato prima, che dopo aver perso il lavoro aveva tentato di rubare in un supermarket un paio di confezioni di latte in polvere: di qua un dossier anonimo gonfio di veleni, di là il tentato furto di latte in polvere. Ma una condanna fondamentale per una città dove quel giudice era potentissimo. E che consente ora alla vedova del morto, Cettina, di chiedere un risarcimento in sede civile scartando ogni ipotesi di accordo bonario: «La cosa che più mi fa male è vedere come, nonostante le condanne in primo, secondo e terzo grado, lui si muova per Barcellona Pozzo di Gotto, la sua città, come fosse sempre Sua Eccellenza il Signor Procuratore Generale. Come se nessuno sapesse nulla. E gli fanno pure l’inchino. Un signorotto feudale». Ricordate? Al centro di tutto c’è la storia di Adolfo Parmaliana, un professore universitario di chimica industriale descritto come «amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi» che il 2 ottobre 2008, dopo anni di battaglie contro le piaghe della cattiva politica siciliana (perfino dentro la sinistra in cui si riconosceva) si uccise buttandosi da un viadotto autostradale. Combattivo segretario diessino di Terme Vigliatore, un paese a due passi da Barcellona, a sud di Milazzo, era stato appena messo sotto inchiesta per diffamazione (lui!) e l’aveva presa malissimo. La sua colpa, diceva, era aver fatto manifesti che ringraziavano Carlo Azeglio Ciampi per aver sciolto il consiglio comunale per le ingerenze della criminalità: «Giustizia è stata fatta. La legalità ha vinto. Tanti dovrebbero scappare… Se avessero dignità!». Aveva chiesto di essere interrogato dal magistrato. Richiesta lasciata cadere…Sulla scrivania, quel giorno che si era messo al volante per raggiungere il viadotto, aveva lasciato l’orologio, il portafogli e una lettera: «La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, umiliarmi, delegittimarmi; mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario». Chiudeva accusando «una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente». Ultime parole: «Questo sistema l’ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni. Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita». Colpito da quella morte, dove si impastavano mala-politica e mala-università, mala-amministrazione e mala-giustizia, il giornalista e scrittore Alfio Caruso, da sempre attento a questi temi (sono suoi «Da cosa nasce cosa» e l’ustionante «Perché non possiamo non dirci mafiosi») decise di farci un libro: «Io che da morto vi parlo». E stava quasi per finirlo dopo aver ricostruito una serie di vicende inquietanti quando ricevette un plico. Lo stesso spedito in contemporanea a Giuseppe Lumia, già Presidente dell’Antimafia. Conteneva un dossier anonimo pieno di fango. La faccenda sfociò in un’inchiesta. Sul margine di uno dei fogli del dossier anonimo (il diavolo fa la pentola ma non il coperchio...) era rimasto il timbro del telefono della cartoleria da dove era stato spedito. E dalla cartoleria fu possibile risalire al destinatario di uno dei fax del dossier: il numero 090-770424 era intestato alla Procura generale di Messina. Era solo la prima delle sorprese. Convinto di essere intoccabile, il giudice Cassata accolse cerimoniosamente gli inquirenti reggini giunti a Messina per indagare su quel fax senza prendere la precauzione di svuotare l’ufficio da quanto c’era di compromettente. E cosa notò casualmente il capitano del Ros Leandro Piccoli in una vetrinetta? Un fascicolo con scritto «copie esposto Parmaliana da spedire». Istantanea telefonata al procuratore Giuseppe Pignatone che conduceva le indagini: «Che facciamo?» «Sequestrate». La carpetta, ricostruisce l’avvocato Fabio Repici che con la collega Mariella Cicero ha difeso il professore suicida, «conteneva quattro copie del dossier anonimo — senza il timbro dell’ufficio con il numero di protocollo — e su due di queste erano attaccati due post-it con su scritto “Procura ME” e “Procura Reggio C.”». Possibile che un procuratore generale si fosse abbassato a quel livello? Le prove erano schiaccianti. Da lì il rinvio a giudizio per «diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta». E dopo la condanna in primo grado, fu implacabile la sentenza d’appello confermata poi in Cassazione: «…tale ritrovamento è evidente spia di un lavoro di dossieraggio che vedeva l’imputato raccogliere carte per usarle contro la memoria del professore…». La memoria d’un morto. Suicida per difendere il proprio onore di uomo perbene. La parola adesso spetta ai giudici civili che dovranno stabilire quale sia il risarcimento dovuto alla famiglia. Ma esiste al mondo una cifra che possa minimamente risarcire una cosa così?

Caso Parmaliana: la condanna di un ''corvo'', scrive il 14 Luglio 2016 Lorenzo Baldo su "Antimafia Duemila". La Cassazione pone il sigillo dell'ignominia sull'ex magistrato Franco Cassata. Condannato. Con il disonore che spetta agli individui mossi da motivi abbietti. E' notizia di poco fa che la Cassazione ha confermato la condanna in appello per diffamazione nei confronti dell'ex Procuratore Generale di Messina, Franco Cassata. E' lui il “corvo” che nel settembre 2009 ha inviato un bieco dossier anonimo allo scrittore Alfio Caruso (all’epoca impegnato nella stesura del libro “Io che da morto vi parlo”, una meticolosissima analisi sulla vita del professor Adolfo Parmaliana, 50 anni, ordinario di chimica a Messina, e delle avversità da lui patite fino al suo suicidio del 2 ottobre 2008) e al senatore Beppe Lumia. In quel dossier il “corvo” denigrava pesantemente il prof. Parmaliana con toni e contenuti che qualificavano – e qualificano – la miseria umana dell’autore: 30 pagine finalizzate a demolire la credibilità di un uomo scomodo che aveva osato denunciare le infiltrazioni mafiose nei palazzi di giustizia messinesi e che, evidentemente, faceva paura anche da morto. A seguito di quell’anonimo la moglie di Parmaliana, Cettina Merlino (difesa dagli avvocati Fabio Repici e Mariella Cicero), aveva presentato una denuncia contro ignoti indirizzando le indagini degli investigatori verso la Procura Generale di Messina allora diretta dallo stesso Cassata. Che, nel redigere il suo scritto, aveva commesso un errore fatale: al dossier aveva allegato un documento inviato da un fax di una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto e indirizzato alla Procura generale di Messina. Paradossalmente era stato lo stesso Franco Cassata a spianare la strada per la sua incriminazione mettendo a disposizione il suo ufficio al magistrato che indagava sulle calunnie nei confronti del defunto docente. Il pm aveva notato che all’interno di una vetrinetta nella stanza del Procuratore Generale c’era proprio quel dossier anonimo sul quale stava indagando (per l'esattezza altre tre copie dell'esposto anonimo originale, privo dei timbri del protocollo che invece campeggiavano nella copia ufficialmente ricevuta dal Procuratore generale). Tra gli appunti c’era addirittura un foglietto con la scritta “da spedire”. Nominato magistrato nel 1971, nel 1980 Franco Cassata era divenuto consigliere d’appello, e poi nel 1986 consigliere di Cassazione. Nel corso della sua carriera Cassata aveva retto la Procura generale di Messina in qualità di membro anziano nel 1999, tra il 2004 e 2005 e anche nel 2008. In questi anni moltissime sono state le battaglie condotte da Sonia Alfano, ex Presidente della Commissione antimafia europea, ma soprattutto figlia del giornalista assassinato da Cosa nostra nel 1993, Beppe Alfano, e dall’avvocato Fabio Repici, per chiedere al Csm la rimozione dello stesso Cassata dal suo incarico. Appelli e interpellanze che si sono sempre scontrati contro un vero e proprio muro di gomma eretto da una potentissima casta restia a fare pulizia al proprio interno. Per comprendere meglio la figura ibrida di Franco Cassata basta riprendere l’interrogazione parlamentare del 4 giugno 2008 del senatore Giuseppe Lumia indirizzata al ministro della giustizia. Nel documento riaffiorano uno dopo l'altro i “dettagli” inquietanti del potere incontrastato di questo ex magistrato, già presidente della “Corda Fratres” tra i cui soci spiccavano boss del calibro di Pippo Gullotti e Saro Cattafi. Leggendo l’incipit del libro di Alfio Caruso “Io che da morto vi parlo” emerge un ritratto autentico del prof. Parmaliana “considerato uno dei massimi esperti mondiali nella ricerca delle nuove fonti di energia rinnovabile”. “All'impegno accademico Parmaliana ha unito per trent'anni un accanito impegno civile. Iscritto giovanissimo al Pci, ha difeso le ragioni della legalità, della correttezza, del buongoverno nella sua piccola patria, Terme Vigliatore. Un paesino che si trova a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, zona franca dei grandi boss di Cosa Nostra, da Santapaola a Provenzano, fondamentale snodo del Gioco Grande, lì dove confluiscono e s'intrecciano mafia-massoneria, alta finanza, pezzi rilevanti delle Istituzioni. Così il piccolo professore amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi diventa, quasi a sua insaputa, un testimone scomodo da zittire, soprattutto dopo che le sue denunce hanno portato allo scioglimento del comune di Terme per infiltrazioni mafiose”. Ed è rileggendo uno stralcio della lettera che ha lasciato prima di lanciarsi dal viadotto di Patti Marina che si comprende ciò che ha vissuto in quel periodo. “La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati ... Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi. Non glielo consentirò... Chiedete all'Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al Sen. Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all'Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo". “Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana un Procuratore generale è stato condannato”. Era il 25 gennaio 2013 quando l'avvocato Fabio Repici si esprimeva così in un lungo articolo a sua firma a seguito della sentenza di condanna di primo grado comminata dal giudice di Pace di Reggio Calabria. In quel caso il giudice, che pure aveva concesso all’imputato le attenuanti generiche, aveva condannato per diffamazione Cassata ad una multa di 800 euro (!) ritenendo sussistenti a suo carico anche le circostanze aggravanti dei motivi abietti di vendetta in merito all’ultima lettera lasciata da Parmaliana e “dell’attribuzione di fatti determinati”. “Su un piano sostanziale – scriveva Repici – per la provincia di Messina è una delle sentenze più rilevanti degli ultimi decenni. Da domani la storia giudiziaria messinese sarà scissa in due fasi: prima della condanna di Cassata e dopo di essa. E, allora, quando l’avvenimento è ancora nella dimensione della cronaca e prima che si incardini nella storia, qualche ulteriore considerazione di dettaglio si impone. La prima riguarda la giudice, la dr.ssa Lucia Spinella, umile giudice onoraria: con quella sentenza, pronunciata nelle condizioni note a chi per tutto l’ultimo anno ha letto queste impressioni d’udienza, ha dimostrato schiena dritta come decine e decine di giudici togati tutti insieme sarebbero stati incapaci di fare”. “La seconda – sottolineava il legale – riguarda la moglie, i figli, i genitori e i fratelli di Adolfo. Non hanno riottenuto indietro la preziosa persona del loro congiunto ma hanno visto lo Stato restituire una volta per tutte l’onore al loro caro Adolfo, quell’onore che chi aveva avuto la fortuna di incrociarlo aveva colto all’istante ma che l’intera nazione aveva avuto la possibilità di conoscere solo un anno dopo il suo suicidio, grazie al libro 'Io che da morto vi parlo', scritto da un giornalista e scrittore a sua volta con la schiena dritta come Alfio Caruso”. “La terza – aggiungeva ancora – riguarda chi scrive e la propria collega Mariella Cicero, che per tutto quest’anno hanno avuto la ventura di tutelare processualmente la memoria di Adolfo Parmaliana. Hanno avuto una di quelle fortune che capitano raramente, servire una causa giusta, e vincerla, e sapere dunque che la loro professione ha avuto un senso nobile e che potrebbero smettere anche domani di esercitarla avendo comunque concorso a realizzare vera giustizia, quella sensazione che certi presunti principi del foro non raggiungeranno mai, nemmeno dopo centinaia e migliaia di cause vinte e proporzionati guadagni”. “La quarta riflessione, poi – concludeva Repici - riguarda Adolfo Parmaliana, figlio mirabile di questa Sicilia disgraziata, inseguito dalla persecuzione di iene e sciacalli perfino dopo la sua morte. Da ieri sera le infamie contro di lui svaniranno in fretta. Pazienza se la sua terra non è stata capace di riconoscerlo in tempo, lui scienziato indiscusso e cittadino integerrimo e coraggioso, prima che si trovasse costretto a togliersi la vita”. Il 23 giugno 2015 il Tribunale di Reggio Calabria, nella persona del giudice Alberto Romeo, aveva confermato la sentenza di condanna. “Ho pensato a quanto sarebbe bello (anzi, quanto sarebbe normale per un paese civile) – aveva scritto Fabio Repici in un suo accorato commento a caldo – se il Presidente della Repubblica si rendesse conto che la vita e la morte e tutta la storia di Adolfo Parmaliana sono una ricchezza formidabile per questo paese sbandato e che sarebbe proprio un bel gesto invitare al Quirinale la moglie e i figli di Adolfo, per rappresentar loro simbolicamente che l’Italia non dimenticherà il prof. Parmaliana. Adolfo non tornerebbe in vita. Ma la sua memoria riposerebbe finalmente in pace e nel giusto prestigio che merita. E, chissà, forse a quel punto riuscirei a elaborare il lutto”. “Vivere intensamente, nella Sicilia malata di questo tempo – aveva scritto l'on. Claudio Fava a ridosso della morte di Adolfo Parmaliana –, vuol dire assumersi il peso d’una terra che ha smarrito se stessa, la propria corda civile, il senso elementare delle regole. Quel peso, Parmaliana se l’era preso facendo politica nel suo paese, nel suo vecchio partito, tra la sua gente. E provando con disperata perseveranza a indicare i luoghi e i momenti in cui la politica si faceva affare, miseria, clientela: anche nel suo partito. Per questo non stava simpatico”. “Anzi – aveva sottolineato il figlio di Pippo Fava –, diciamolo pure: un uomo come Adolfo era destinato alla solitudine e al fastidio di tanti. Me lo ricordo, in certe feste dell’Unità, con la sua cartellina di cuoio sotto il braccio e un repertorio lucidissimo di cose non digerite, non accettate, che aveva bisogno di raccontare, di condividere, di spiegare agli altri. Mi ricordo le sue telefonate, le sue lettere dentro le quali leggevi anche la fatica di chi temeva di parlare solo per sé. Adolfo aveva onestamente paura di questo: che nella sua terra, nel suo partito non ci fosse più spazio per le cose che custodiva dentro la quella vecchia borsa di cuoio”. Parole vere quanto amare. Oggi, però, qualcosa è cambiato: la condanna di quel “corvo” è il primo passo per restituire giustizia e verità ad un uomo giusto e segna inevitabilmente l’inizio della fine di un potere tra i più striscianti che la storia abbia mai conosciuto.

Parmaliana, una sentenza conferma: motivi suicidio da ricercare in amarezza per ''gambizzazione morale'', scrive il 05 Agosto 2016 Norma Ferrara su "Antimafia Duemila". Una cartellina bianca, 33 fogli e una sentenza, un post-it con la dicitura «copie esposto Parmaliana da spedire». Al centro dell’inchiesta condotta dai pm di Reggio Calabria sull’ex procuratore generale di Messina, Franco Cassata, c’è l’invio di questo fascicolo. Un dossier creato da “ignoti” contro Adolfo Parmaliana, professore universitario, animatore di battaglie per la legalità in provincia di Messina, morto suicida il 2 ottobre del 2008. Un plico rinvenuto casualmente nel novembre del 2010 nell’ufficio dell’allora procuratore generale di Messina. Lo scorso 14 luglio la quinta sezione della Suprema Corte, respingendo il ricorso presentato da Cassata, ha confermato per il magistrato la condanna definitiva per «diffamazione pluriaggravata in concorso con esecutori materiali ignoti» nei confronti del docente messinese. L’anonimo, come scrive il giudice nella sentenza di secondo grado del 29 settembre 2015 – sarebbe stato inviato a tre destinatari: il sindaco di Terme Vigliatore (Me), Bartolo Cipriano con cui a lungo Parmaliana si era confrontato pubblicamente, il senatore Beppe Lumia, che aveva portato in parlamento le battaglie del professore e lo scrittore Alfio Caruso, autore di un libro sulla vita e sulla morte di Parmaliana, (“Io che da morto vi parlo”, Longanesi edizioni, 2009). Secondo i giudici, Cassata avrebbe contribuito a diffondere il dossier agendo per «motivi abietti di vendetta» contro Parmaliana e come «tentativo estremo» per bloccare l’uscita del libro dello scrittore Caruso. Una pubblicazione che – scrivono ancora i giudici – «nell’elogiare l’attivismo di Parmaliana nella cosiddetta società civile evidenziava l’inattiviamo del sistema giudiziario del distretto di Messina». Il professore nella sua decennale attività politica per la legalità a Terme Vigliatore, aveva puntato il dito contro le lentezze e alcune ambiguità della magistratura della vicina procura di Barcellona Pozzo di Gotto (Me) e di quella di Messina, portando nel 2002 sin davanti al Csm le sue perplessità sull’attività del procuratore Cassata. Al culmine di decenni di impegno per la legalità, le tante denunce che avevano causato lo scioglimento del Comune per mafia e alcune campagne elettorali infuocate, Adolfo Parmaliana nell’ottobre del 2008 sembra arrendersi di fronte a quello che riterrà essere l’ennesimo sopruso in un territorio soffocato dal malaffare: il suo rinvio a giudizio per diffamazione contro alcuni politici locali da lui accusati di presunti illeciti. Così, dopo aver redatto un durissimo memoriale, decide di farla finita, lanciandosi dal viadotto della A20, a due chilometri dallo svincolo autostradale di Patti (Me). Un luogo scelto con attenzione dal professore. Un territorio che ricade nella competenza giudiziaria di una procura diversa da quella contro cui aveva puntato il dito, sottolineando rallentamenti e mancate indagini contro mafiosi e corrotti, coinvolti anche in una inchiesta del Ros denominata “Tsunami”, rimasta a lungo insabbiata. In un passaggio della lettera lasciata ai propri cari il professore scrive: “La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario”. L’ultimo j’accuse Parmaliana l’ha portato avanti usando come arma di denuncia, il proprio corpo, la propria vita. E per la prima volta un giudice conferma in una sentenza, nero su bianco, le motivazioni di quel gesto: «[…] Ciò consente di sostenere con solida certezza che i motivi del suicidio del professore siano proprio da ricercare […] soprattutto nell’amarezza incolmabile provata in conseguenza della sensazione di tradimento da parte della giustizia, ed in particolare da parte della magistratura barcellonese/messinese espressamente indicata come autrice del tentativo violento di gambizzazione morale messo in atto nei suoi confronti». A otto anni da quel suicidio e a pochi giorni dal sigillo della Cassazione, l’ex procuratore generale di Messina, Franco Cassata, oggi in pensione, in una lettera pubblicata dal quotidiano “La Gazzetta del Sud” scrive: «non posso che prendere atto del verdetto, che però respingo con forza, perché profondamente ingiusto, proponendomi di ricorrere ad ogni possibile, attuabile rimedio di legge, con quanto avrò ancora animo di sorreggermi in futuro». Il legale dei familiari Parmaliana, Fabio Repici, dichiara ad “Articolo21”: “Siamo di fronte ad una sentenza di importanza morale enorme perché restituisce dignità ad un cittadino fra i migliori che questo Paese abbia avuto. Una dignità calpestata anche dopo la morte, persino dalle istituzioni”. “Il suicidio di Parmaliana – afferma l’avvocato Repici – e la sua ultima denuncia hanno creato le prime crepe dentro un sistema la cui principale forza era la copertura all’interno del mondo giudiziario. A confermarlo è anche la sequenza temporale degli eventi accaduti dopo la morte e il memoriale di Parmaliana”. “Negli ultimi anni, per la prima volta nella storia di Barcellona Pozzo di Gotto alcuni mafiosi hanno iniziato a collaborare con la giustizia – spiega – e le loro dichiarazioni hanno dato impulso a numerose inchieste”. “Parmaliana aveva messo alla luce un sistema di relazioni potentissime fra mafie, settori della massoneria e alcuni livelli delle istituzioni e della politica” – commenta il politico Beppe Lumia della Commissione antimafia. “Le indagini condotte da Reggio Calabria e da Messina incoraggiano ad andare avanti. Bisogna continuare su questa strada – afferma il senatore – perché la provincia messinese è un crocevia di affari e collusioni, di ‘ndrangheta e Cosa nostra, su cui bisogna mantenere accesi i riflettori”. Rimane, invece, ancora fitto il mistero sui nomi di chi ha coperto a livello nazionale per oltre 15 anni quelle ambiguità contro cui puntava il dito Parmaliana. Un interrogativo davanti al quale, nonostante la lunga esperienza da parlamentare che dura dal 1994, rimane senza risposte anche il politico siciliano che chiosa soltanto: “Oggi sappiamo e conosciamo molto di più ma la sfida rimane difficile e rischiosa. Quel che è certo è che va portata avanti. E se possiamo farlo è anche grazie al sacrificio di Adolfo Parmaliana”. Tratto da: articolo21.org

La vera storia di Adolfo (Parmaliana) e del procuratore generale pregiudicato, scrive il 21 Luglio 2016 Fabio Repici su “Antimafia Duemila. Non ne sono certo, perché non ci capitò mai di parlarne, ma penso che ad Adolfo, cattolico dichiarato ma scienziato illuminista fino alla punta dei capelli, la data sarebbe piaciuta, almeno prima che nella tarda sera fosse lordata dal sangue delle inermi vittime procurato dall’ennesima strage ordita nella guerra alla razionalità, e quindi all’umanità, di questo nuovo medio evo oscurantista. E comunque – dicevo – la data di giovedì scorso, che ricordava la presa della Bastiglia e il trinomio di libertà e uguaglianza e solidarietà (più o meno l’intero spettro degli ideali politici del berlingueriano Adolfo), gli sarebbe piaciuta. Per questo motivo, quando avevo ricevuto la notifica della fissazione dell’udienza sul ricorso dei difensori del dr. Cassata contro la condanna, pure in appello, per la famigerata diffamazione compiuta con la divulgazione di un lurido dossier anonimo, la data dell’udienza mi era sembrata un buon presagio. Poi, come sempre capita, il terrore che qualcosa non andasse per il verso giusto aveva preso il sopravvento. E così la giornata di giovedì scorso si è risolta in un crescendo parossistico di ansia e nervosismo. Alla fine, il sollievo è arrivato poco prima delle otto e mezza di sera, quando, nella lettura del dispositivo di sentenza, forte e chiara è suonata la parola “rigetto”. In quell’esatto momento, la memoria di Adolfo Parmaliana riceveva definitivo ristoro e lo statuto giuridico dell’ex Procuratore generale di Messina, il barcellonese Antonio Franco Cassata, assumeva il profilo del pregiudicato. Erano passati sette anni, nove mesi e dodici giorni da quel pumbleo 2 ottobre 2008, il giorno in cui Adolfo aveva deciso di mettere fine alla sua vita. Quasi otto anni da una data che ha terremotato per sempre gli equilibri della provincia di Messina, e più miseramente anche della mia vita, soprattutto da quando lessi, con il cuore in gola, una decina di giorni dopo la sua morte, l’ultima lettera di Adolfo. Il contenuto di quel documento – non mi stancherò mai di ripeterlo, dovrebbe essere fatto leggere ogni anni a tutti gli studenti della provincia di Messina -, che mi designava, insieme ad altre quattro persone, quasi esecutore del testamento morale di Adolfo («Chiedete all’Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al senatore Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all’Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo»), mi autorizza ora, ma forse mi impone, di raccontarla tutta, la storia che si è conclusa con questa sentenza, che ha fatto diventare definitiva la condanna del dr. Cassata: il primo Procuratore generale pregiudicato della storia, in fondo Cassata è sempre stato un uomo da record. Il primo che aveva conosciuto il testo dell’ultima lettera di Adolfo, dopo i carabinieri che ne avevano operato il sequestro sullo scrittoio nello studio di casa sua a Terme Vigliatore, era stato, per pura beffa, il dr. Olindo Canali, che quel 2 ottobre era il P.m. di turno alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto. Volete che Canali non ne abbia informato il suo amico e mentore e protettore del tempo (pensate che in una telefonata intercettata dalla Procura di Reggio Calabria, Canali e la moglie chiamavano Cassata «lo zio», proprio così, Canali il brianzolo, come si usa in certa Sicilia)? Già la settimana successiva, il palazzo di giustizia di Messina per certi versi era diventato un far west. Il 5 ottobre era stata trasmessa una puntata di Blu Notte di Carlo Lucarelli sulla mafia in provincia di Messina (e sugli omicidi di Graziella Campagna, Beppe Alfano e Matteo Bottari). Ne era scaturito un avvenimento inaudito: i muri di palazzo Piacentini erano stati tappezzati da manifesti dell’Anm (associazione nazionale magistrati) distrettuale che mi bollavano, con tanto di cognome, come mentitore: solo che, a proposito di menzogne, attribuivano a me parole dette in quella trasmissione da tutt’altro avvocato (in tutti questi anni più che solidale con Cassata e Canali). Non mi fu difficile capire che si approssimavano burrasche, ben mirate nei confronti miei (e delle altre quattro persone indicate nel testamento morale) ma soprattutto nei confronti della memoria di Adolfo. Di lì a poco ricevemmo notifica di ciò dalle pagine del settimanale messinese Centonove. A dire il vero, il 10 ottobre 2008 su quel giornale era comparsa una ricostruzione puntuale delle vicende di Adolfo, a firma della giornalista Manuela Modica (testimone nel processo concluso giovedì: da lei abbiamo appreso che, nel fare quel lavoro, era stata sollecitata dal suo capo, Enzo Basso, a interpellare Cassata e l’allora Procuratore generale ne aveva approfittato per intimarle di dare basso profilo al suicidio di Adolfo). Sennonché, nelle settimane successive la giornalista era stata sostituita da quel giornale nel trattare le questioni riguardanti, in qualunque modo, il sistema deviato barcellonese, dal collega Michele Schinella, e tutto era cambiato. Addirittura a maggio 2009 Schinella, su Centonove, era arrivato a infangare la memoria di Adolfo con un articolo calunnioso, più che oltraggioso. Dalle intercettazioni avviate nel giugno 2009 dalla Procura di Reggio Calabria (e personalmente dall’allora Procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto al tempo in quell’ufficio Federico Perrone Capano) avemmo, in epoca successiva, certezza che Schinella era già al tempo giornalista di fiducia di Canali (e dagli articoli succedutisi per anni constatammo che era di fiducia anche del mafioso Rosario Pio Cattafi e del solito Cassata). È un caso se quell’articolo di Schinella fa parte del diffamatorio dossier anonimo per il quale è stato definitivamente condannato Cassata? Nel frattempo era accaduto un fatto che verrebbe da dire miracoloso. Un pomeriggio Cettina, la dolcissima moglie di Adolfo, cercava di far passare il tempo davanti alla tv, sintonizzata su Rai2, quando vide e sentì lo scrittore Alfio Caruso che, per cercare di spiegare una certa irredimibilità della Sicilia, aveva accennato al suicidio di Adolfo Parmaliana. Cettina sapeva bene quanto Adolfo stimasse Alfio Caruso, i cui libri sulla mafia (“Da cosa nasce cosa” e “Perché non possiamo non dirci mafiosi”) campeggiavano in primo piano sugli scaffali della sua libreria. Fu così che Cettina decise di contattare Alfio Caruso. Gli telefonò e gli disse che l’archivio del marito era a disposizione dello scrittore, se avesse avuto interesse a raccontare la storia di Adolfo Parmaliana. Qui è bene ricordare che Adolfo Parmaliana era un antico militante comunista (come detto, fervente berlingueriano) e Alfio Caruso è un autentico conservatore. Sennonché, quello fra il docente di chimica e lo scrittore fu l’incontro virtuale fra due italiani perbene. Ne sortì il libro “Io che da morto vi parlo”, biografia di Adolfo Parmaliana scritta da Alfio Caruso e pubblicata da Longanesi. E proprio nel paese in cui, quando riguarda propri amici e compagni, ci si spertica in labiali campagne a sostegno della libertà di informazione e del diritto alla manifestazione del pensiero (dei propri amici e compagni), la sentenza di condanna pronunciata a carico di Cassata ha certificato che il capo della magistratura requirente di Messina nel 2009 confezionò (insieme a più di un complice, rimasto impunito) il dossier anonimo proprio come ultimo disperato tentativo di impedire la pubblicazione del libro di Alfio Caruso sulla vita e sulla morte di Adolfo Parmaliana. Cosicché, oltre all’Associazione nazionale magistrati (non pervenuta), per il danno d’immagine arrecato alla categoria dalla condotta delittuosa e ignominiosa del Procuratore generale di Messina, anche la federazione degli editori, la categoria dei giornalisti (al tempo Caruso, oltre che scrittore, era ancora giornalista, e di meritata fama, allievo prediletto di Indro Montanelli) e naturalmente quella degli scrittori avrebbero potuto (o forse dovuto?) costituirsi parte civili. Invece, state tranquilli, siamo pur sempre il paese di don Abbondio, oltre che degli appelli a favore dei diritti degli amici (e certe volte pure degli amici degli amici), e nessuna di quelle categorie batté ciglio. Ma Cassata, invero, le provò tutte per ostacolare la pubblicazione del libro su Adolfo. Già a marzo 2009, in effetti, era diventata pubblica la notizia che Alfio Caruso stava lavorando alla redazione di quell’opera. Qualche settimana dopo Cassata si era rivolto al proprio amico scrittore Melo Freni, chiedendogli di intervenire su Caruso. Freni gli suggerì, per aver maggiori possibilità di raggiungere l’obiettivo, di parlare con il noto scrittore e giornalista agrigentino Matteo Collura, conosciuto da Cassata ma soprattutto grande amico di Caruso. Detto, fatto, ma il tentativo fu respinto con perdite: Collura, ben consapevole del carattere del suo amico Alfio Caruso, restio a ogni tentativo di accomodamento e tanto più di censura o di autocensura, buggerò Cassata dicendogli che il libro era ormai bell’e finito e pronto ad andare in stampa. Tutto falso, naturalmente: l’uscita del libro era prevista, e poi così fu, per il 19 novembre 2009. Cassata recepì chiaro e tondo che quello di Collura era stato un rifiuto. Si mise il cuore in pace, secondo voi? Manco per sogno. Il 19 giugno fu Canali, in costante contatto, anche per interposta moglie, con l’amico magistrato, a telefonare personalmente a Caruso, prendendo il discorso largo e comprendendo, alla fine, che lo scrittore era impermeabile a ogni tentativo di addomesticarlo. In quel momento, come detto, i telefoni di Canali erano stato sottoposti a intercettazione dalla Procura di Reggio Calabria. E così il Procuratore Pignatone e il sostituto Perrone Capano sapevano bene di quella telefonata fatta da Canali a Caruso. È facile immaginare, allora, quanto i due magistrati dovettero sforzarsi per evitare di scoppiare a ridergli in faccia, quando Canali, qualche giorno dopo, presentandosi spontaneamente per un interrogatorio, disse loro che era stato Alfio Caruso a cercarlo al telefono. Peraltro, poiché l’eterogenesi dei fini è sempre in agguato sulle azioni di ciascuno, proprio nel corso di quella conversazione con Alfio Caruso, a Canali sfuggì una frase su Cattafi che ha provocato, involontariamente, la riapertura, a trentatré anni di distanza, del processo sull’omicidio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, dove ora Canali è testimone. Ma questa, per dirla con Carlo Lucarelli, è un’altra storia. Cassata, però, se non sciascianamente di tenace concetto, è uomo di tenace volontà. Non rinunciò al tentativo di fermare la penna di Alfio Caruso e il libro su Adolfo Parmaliana. Solo che il tempo stringeva e si era ormai a due mesi dalla pubblicazione. A mali estremi, estremi rimedi, dovette pensare, e congegnò (con i suoi complici rimasti impuniti) una doppia manovra, a tenaglia, sullo scrittore catanese (ma da sempre abitante a Milano): da un lato, per il tramite del proprio nipote avvocato (Giovanni Celi) Cassata si rivolse a un sottufficiale della D.i.a. di Messina (quindi ufficiale di polizia giudiziaria sottoposto al Procuratore generale di Messina: è sempre bene farle valere, le gerarchie), amico del nipote ma ben conosciuto (come molti sottufficiali entrati alla D.i.a. di Messina) da lui stesso, Salvatore Caruso il suo nome e per puro caso cognato del fratello di Alfio Caruso, perché rendesse possibile un incontro fra il Procuratore generale e lo scrittore e comunque, in caso di rifiuto, lo informasse che Cassata voleva fargli avere un documento clamoroso, che avrebbe ribaltato l’idea ingiustificatamente positiva che Alfio Caruso si fosse fatta di Adolfo Parmaliana; dall’altro, all’indirizzo di Alfio Caruso si materializzò un documento clamoroso, per l’appunto il dossier anonimo. Un paio di giorni prima, il 22 settembre 2009, il dossier anonimo era già stato ufficialmente ricevuto dal Procuratore generale di Messina al proprio ufficio (un classico, l’anonimista che inserisce il proprio nome fra i destinatari, un po’ come la famosa pubblicità, «dal produttore al consumatore», tutto chiuso circolarmente nella medesima persona) e dal Sindaco di Terme Vigliatore (uno a caso, Bartolo Cipriano: lo storico avversario politico di Adolfo Parmaliana; uno degli indagati nell’indagine nel 2005 condotta dal giovane sostituto della Procura di Barcellona Pozzo di Gotto Andrea De Feis, nel corso della quale era interveuto a gamba tesa, con un’intimidazione al giovane collega, proprio Franco Cassata; il Sindaco che aveva conferito incarichi legali al giovane avvocato Nello Cassata, figlio di cotanto padre, proprio in sincronia con l’inerzia di Cassata senior nell’avocare l’indagine su Cipriano e altri amministratori di Terme Vigliatore, scaduta e dimenticata in un cassetto dell’ufficio del dr. Olindo Canali alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto; condannato qualche anno fa per diffamazione di Adolfo Parmaliana con sentenza definitiva). In contemporanea con Alfio Caruso, il dossier anonimo raggiungeva pure l’abitazione palermitana del Senatore Beppe Lumia. I nomi dei destinatari mostravano da sé le ragioni della scelta: Cassata se l’era mandato per stornare i sospetti e allo stesso tempo per farne uso (come poi fece); al Sindaco di Terme Vigliatore era stato inviato perché il fango fetido contenuto in quel documento trovasse divulgazione in paese, a uso dei nemici più livorosi di Adolfo anche dopo la sua morte (e voglio chiarire che non era Cipriano tra questi, ma altri, stalinisti fetidi di idee e di comportamenti); a Lumia era stato destinato per cercare di disincentivarlo dal rendere omaggio alla memoria di Adolfo, come richiesto nell’ultima lettera, tanto più che per l’1 ottobre 2009 era prevista la sua presenza a una conferenza pubblica a Terme Vigliatore, in ricordo dello scienziato, in occasione del primo anniversario della sua morte. È necessario spiegare perché il dossier anonimo fu inviato ad Alfio Caruso, negli stessi giorni in cui egli era destinatario dell’attività di stalking di Cassata per interposto nipote avvocato (anche avvocato di Cassata in una causa civile contro di me)? L’ha raccontato lo stesso scrittore alla Procura di Reggio Calabria: “viene arrangiato e distribuito questo dossier pieno di veleni nei confronti di Parmaliana con lo scopo evidente non solo di metterlo in cattiva luce, ma anche di porre dei dubbi all’autore del libro e alla sua casa editrice. Infatti ricordo bene che per due giorni mi affannai a mettere in chiaro i vari episodi che infangavano il professore Parmaliana, preoccupato perché la veridicità di uno di essi potesse costringermi ad una riscrittura del libro e a una sua ritardata pubblicazione. Risultarono tutti falsi”. A Terme Vigliatore anche Biagio Parmaliana apprese del dossier e ne ricevette copia al Comune. Da Alfio avemmo il plico recapitato a lui. Esaminando quelle carte, Biagio si accorse di una imperdonabile gaffe fatta dagli anonimisti. Il plico conteneva un esposto contenente le false accuse contro Adolfo (che dal cimitero non poteva certo rispondere per confutarle, ma da qualche parte si dovette fare crasse risate già per il titolo, di netta matrice psichiatrica, di quel testo: «A QUANTI ODIANO LE FALSITA’», così, a caratteri cubitali), elencate punto per punto, e dieci documenti allegati, che nelle intenzioni dovevano dare riscontro alle calunnie. Uno dei dieci allegati, come detto, era un articolo dell’apposito Schinella. Ma un altro si rivelò la prima buccia di banana sulla quale scivolò il piede dell’allora Procuratore generale, rendendo periclitante la sua posizione. Infatti, era allegata anche una sentenza emessa dalla Corte di cassazione l’1 ottobre 2008 (il giorno precedente al suicidio di Adolfo), con la quale era stato rigettato un ricorso proposto da Adolfo, quale parte civile, dopo che la condanna in primo grado di un tale Salvatore Isgrò per diffamazione era stata ribaltata da una sentenza assolutoria della Corte di appello di Messina. Solo che il documento ricompreso nel plico aveva una caratteristica pericolosissima per Cassata: si trattava della copia di un fax e in alcune pagine, nel margine superiore, era visibile il numero dell’utenza dalla quale il fax era stato trasmesso, insieme alla data, 14 novembre 2009, e all’ora. Capita raramente, ma alle volte il caso si mette di buzzo buono per dare una soluzione positiva alle cose del mondo. E il caso volle che quell’utenza corrispondesse a una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto il cui titolare era conosciuto da Biagio, che poté quindi richiedere alla Telecom, per conto del cartolaio, il tabulato delle telefonate in uscita da quella utenza nella data fatidica. La risposta fu raggelante: il numero 090-770424 che aveva ricevuto il fax (quel fax) era intestato alla Procura generale di Messina. Da verifiche empiriche, scoprimmo che l’apparecchio fax ricevente si trovava proprio accanto alla postazione della dr.ssa Franca Ruello, funzionaria amministrativa presso quell’ufficio ma, soprattutto, moglie di Olindo Canali e amica fidatissima di Franco Cassata (“lo zio”). Ergo, il dossier anonimo, che conteneva quel documento, era stato confezionato alla Procura generale di Messina. A chiunque altro, ad altre latitudini, sarebbe potuta sembrare un’ipotesi manicomiale, ma noi (e soprattutto io, dopo aver conosciuto le vicende giudiziarie dell’omicidio di Graziella Campagna, dell’omicidio di Beppe Alfano, dell’omicidio di Attilio Manca) sapevamo che in certi uffici giudiziari può accadere davvero di tutto. La Procura di Reggio Calabria poco tempo dopo accertò che il giorno prima di quel fax, il 13 novembre 2009, un giovane avvocato, amico e sodale dell’imputato Isgrò, tale Vito Calabrese, altro nemico giurato di Adolfo, aveva ricevuto in Cassazione copia proprio di quella sentenza. Nel frattempo, giusto per permetterci di ricondurre puntualmente a Cassata le attenzioni ostili contro la memoria di Adolfo, alla conferenza dell’1 ottobre 2009 intervennero tre disturbatori dal pubblico. Uno di loro era un addetto – udite udite – del museo Cassata (già, a Barcellona c’è pure quello; qualcuno auspicherebbe pure l’autodromo e l’ippodromo Cassata, e con l’attuale sindaco Roberto Materia, che a Cassata è devoto come a Padre Pio, qualche speranza può perfino averla) e pretese la parola per dire quanto probo e pio (non Pio, quello è un altro, a Barcellona Pozzo di Gotto) fosse il Procuratore generale, rivolgendosi in particolare al Senatore Lumia, presente lì a ricordare Adolfo, lui che nell’ultimo periodo era stato l’unico personaggio politico di cui il professore si fidasse. Del resto, Lumia a certe sortite aveva ormai fatto il callo, visto che quasi un anno prima – nell’imminenza della conferenza su «La crisi della giustizia a Messina», organizzata da Sonia Alfano il 9 novembre 2008 per discutere pubblicamente del significato del suicidio di Adolfo Parmaliana – per scongiurarne, invano, l’intervento gli erano stati trasmessi infervorati appelli per posta elettronica dal figlio di Cassata, l’avvocato Nello (quello che aveva preso incarichi dal Sindaco di Terme Vigliatore, molto impegnato professionalmente in materia di sinistri stradali), e da un’amica di Cassata, moglie di un ex senatore del Pds. Ricordo come fosse oggi il giorno in cui depositai, per conto di Cettina Parmaliana, la querela contro gli autori del dossier anonimo presso la Compagnia dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto. Era il pomeriggio del 17 dicembre 2009. Il fascicolo fu trasmesso subito alla Procura di Reggio Calabria, perché c’era da investigare su quella triangolazione fax-Procura generale-Ruello. Qui va fatta una puntualizzazione. Fra il 2008 e il 2012 la Procura di Reggio Calabria fu guidata dal dr. Giuseppe Pignatone. Non avevo certo ragioni di simpatia personale per lui. Tuttavia, deve essere riconosciuto, per mero rispetto del principio di realtà, che in quegli anni la competenza della Procura reggina sulle ipotesi di reato riguardanti i magistrati del distretto giudiziario di Messina fu effettiva e non ridotta a mera parvenza o, ancor peggio, ispirata a logiche deviate. Lo sa bene anche Olindo Canali, sottoposto a processo per falsa testimonianza, condannato in primo grado per falsa testimonianza il 14 marzo 2012 e poi assolto in appello con una motivazione davvero simpatica (confermata peraltro in Cassazione). Ora, il Procuratore Pignatone assegnò il fascicolo relativo al dossier anonimo, come era stato per il procedimento a carico di Canali, a se stesso e a un suo giovane sostituto, Federico Perrone Capano, che alla serietà e alla competenza professionali abbinava non comuni doti di umanità. Un caso davvero straordinario, si deve riconoscere: un fascicolo per un reato di competenza del Giudice di pace aveva come pubblici ministeri titolari il Procuratore della Repubblica e un magistrato della Direzione distrettuale antimafia. Le indagini furono rivolte a ricostruire il percorso del famoso fax ricevuto dalla Procura generale. E così il 17 novembre 2010 il dr. Perrone Capano, accompagnato dal Capitano Leandro Piccoli, si trovò nella stanza personale del Procuratore generale di Messina, cordialmente messagli a disposizione per sentire tutti i cancellieri dell’ufficio protocollo, la stanza del fax. Il giovane pubblico ministero e il giovane ufficiale avevano quasi finito le audizioni programmate e stavano facendo due passi nella stanza di Cassata per sgranchire le gambe quando, rivolgendo gli occhi verso una vetrinetta, si sentirono precipitare in una scena da film. Davanti ai loro occhi, nell’armadietto personale di Cassata, in quella che in quel momento si sarebbe dovuta definire “vetrinetta Parmaliana”, si trovavano, una accanto all’altra, una carpetta della Procura generale contenente il dossier anonimo che Cassata si era mandato in ufficio e un’altra carpetta della Procura generale con una scritta, vergata dalla mano di Cassata, che dovette raggelare quei due giovani rappresentanti dello Stato: «copie esposto Parmaliana da spedire», con le ultime due parole proprio sottolineate. Perrone Capano telefonò al proprio capo e Pignatone chiamò colui che in quel momento era il magistrato più potente del distretto giudiziario di Messina. Ci piacerebbe in futuro vedere quella telefonata trasposta in un film. «Buongiorno, Eccellenza. Sono Giuseppe Pignatone. Mi spiace disturbarla». «Oh, carissimo Procuratore, dica pure, lei non disturba mai». «Eh, no. Temo di deluderla. Credo che questa volta la disturbo davvero e me ne dolgo ma ho da adempiere a un obbligo istituzionale. Il mio collega Perrone Capano ha appena avvistato nella vetrinetta della sua stanza, uno strano fascicolo informale con una scritta sgradevolmente significativa. Mi ha detto che è sua intenzione sequestrarlo e io non posso che essere d’accordo con lui. Ora, poiché quel fascicolo si trova nella sua stanza personale e nel suo armadio personale in Procura generale, chiuso a chiave, devo chiederle se vuole essere così gentile da far aprire l’armadio in questione – se ritiene il mio collega è ben disponibile ad aspettare che lei rientri in ufficio -, in modo da evitarci una soluzione diversa, che è sempre nei nostri poteri». Dall’altro capo del telefono devono esserci stati secondi di silenzio lunghi come secoli. Nella mente del Procuratore generale la sensazione di sprofondare nel baratro. I suoi piedi e le sue ginocchia iniziano a cedere. Si siede per cercare di prendere fiato. «Mah… mah… posso spiegare tutto. Anzi, verrò di persona da lei a spiegare tutto. Ora, però, non me la sento di rientrare in ufficio, mi capisce. Telefono subito a una persona fidata, la persona più fidata che ho in ufficio, la dr.ssa Franca Ruello, che ha la chiave dell’armadietto, e le dico di mettersi a disposizione del suo sostituto». «Grazie, eccellenza. Mi dispiace di essere stato costretto a questa telefonata, ma anche lei mi capisce. Naturalmente, il mio collega, come è previsto dalla legge, consegnerà alla dr.ssa Ruello una copia del verbale di sequestro di ciò che preleverà nella sua vetrinetta». Così in effetti fu. Vennero sequestrate le due carpette, peraltro le uniche presenti in quella vetrina, ecco perché “vetrina Parmaliana”. La prima, per l’appunto, conteneva il dossier ufficialmente giunto in Procura generale, regolarmente protocollato, sul quale proprio Cassata di pugno aveva apposto il burocratico “Visto atti”. Sennonché, pur essendo passato oltre un anno, quel fascicolo, anziché essere in archivio, insieme a tutti gli altri analoghi, si trovava nella stanza personale del Procuratore generale. Il contenuto dell’altra carpetta, con quella scritta già spaventosa di suo, era impressionante, davvero al di là del bene e del male. C’erano quattro copie originali del dossier anonimo, prive della stampigliatura meccanografica del protocollo e prive anche della copia della busta che conteneva quello ufficialmente giunto in Procura generale. Su due delle quattro copie del dossier anonimo erano appiccicati due post-it gialli sui quali erano stati vergati sempre dalla mano di Cassata due dei futuribili destinatari: «Procura ME» e «Procura Reggio C.». Un terzo post-it era scivolato via dai dossier anonimi ed era finito su una delle tre copie di un documento che completava il contenuto della carpetta: putacaso un’ordinanza del Gip di Barcellona Pozzo di Gotto emessa il 7 settembre 2009 in un procedimento in cui Adolfo Parmaliana era stato il querelante e indagato era stato un giovane avvocato di Terme Vigliatore, Vito Calabrese, sempre lo stesso. Il pubblico ministero in quel procedimento era stato Olindo Canali, del quale si apprese a dibattimento la stretta amicizia con l’allora indagato Vito Calabrese. Canali aveva chiesto l’archiviazione per l’amico Calabrese. L’avviso della richiesta di archiviazione proposta da Canali era stato notificato ad Adolfo a metà settembre 2008. Nell’occasione, Adolfo aveva dovuto arrendersi all’idea che una persona che, a corrente alternata, gli si dichiarava amico, l’avvocato Ugo Colonna, era uno dei suoi traditori, e infatti aveva assunto, contro Adolfo, la difesa di uno dei querelati. Con la mia collega Mariella Cicero, Adolfo aveva depositato l’opposizione alla richiesta di archiviazione. Al Gip il fascicolo era giunto dopo la morte di Adolfo. E con quel provvedimento, ritrovato in triplice copia nella “vetrinetta Parmaliana” nell’ufficio di Cassata, il gip aveva accolto solo parzialmente la richiesta di archiviazione, mentre aveva ordinato al pubblico ministero di mandare a processo Vito Calabrese per uno degli episodi contestati e di svolgere ulteriori indagini in relazione a un altro episodio. Com’era finito a Cassata quel provvedimento? L’interessato nel corso del tempo ha fornito due risposte diverse. Una prima volta, pochi giorni dopo il sequestro, su carta intestata del suo ufficio, Cassata aveva scritto a Pignatone per dirgli che per errore gli era stato sequestrato un provvedimento che era in suo possesso in relazione al controllo che il Procuratore generale deve fare sulle misure cautelari emesse nell’ambito del distretto giudiziario. Sennonché, quel provvedimento non era una misura cautelare ma un’ordinanza su una richiesta di archiviazione. Ergo, Cassata aveva scritto un falso, evidentemente con l’intento di indurre la Procura di Reggio Calabria a una risposta, dalla quale magari avrebbe potuto capire quali fossero le intenzioni dei pubblici ministeri. Nel corso del successivo processo, da una memoria firmata da Cassata si apprese che quel documento era stato consegnato da Vito Calabrese all’avv. Nello Cassata, perché venisse recapitato al Procuratore generale. Per quale motivo e perché nella “vetrinetta Parmaliana” ci fossero tre copie di quel documento, Cassata non è stato in grado di spiegarlo. Avrebbe dovuto confessare l’attività di dossieraggio svolta su Adolfo. Con il sequestro di quella documentazione, il destino di Cassata fu segnato. I pubblici ministeri, dopo due interrogatori di Cassata, ormai iscritto nel registro degli indagati, nei quali Pignatone e Perrone Capano riuscirono a ottenere dall’anziano magistrato ulteriori prove a suo carico, svolsero un solo altro adempimento d’indagine. Avevano, infatti, colto un’allarmante somiglianza delle parole manoscritte sulle buste recapitate alla Procura generale, al Sindaco di Terme Vigliatore e ad Alfio Caruso con la grafia di Cassata. A osservarle con attenzione, c’erano alcuni elementi che sembravano un vero marchio di fabbrica (o di museo). Nonostante questo, tuttavia, la grafologa milanese incaricata dalla Procura di Reggio Calabria per svolgere la consulenza tecnica concluse il suo lavoro affermando che quelle scritte sì, erano simili alla grafia di Cassata, ma non erano stato apposte dalla sua mano. Certo, occorre aggiungere che la consulente, deponendo a dibattimento, dovette ammettere di aver utilizzato un atteggiamento particolarmente riguardoso nei confronti dell’indagato e pure che nel saggio grafico era evidente che Cassata avesse artatamente falsato la propria grafia. Ma, aggiunse la grafologa, era stato chiaro il nervosismo di Cassata nel rilasciare il saggio grafico perché, insomma, mica si trattava di un delinquente. Magari oggi l’esperta dovrebbe cambiare idea. Tanto più che una grafologa successivamente incaricata da me, Mariella Cicero e Biagio Parmaliana, che nel processo abbiamo svolto il ruolo di difensore delle parti civili per tutti i familiari di Adolfo, ha attestato in modo davvero inequivocabile gli elementi che imponevano di ricondurre quelle scritte alla mano di Cassata. Ma, tant’è,Cassata finì imputato “solo” come ideatore e determinatore del dossier diffamatorio, in concorso con altri esecutori materiali rimasti ignoti. Il dibattimento, innanzi al Giudice di pace di Reggio Calabria, si doveva aprire il 6 febbraio 2012, come disponeva il decreto di citazione a giudizio firmato personalmente dal Procuratore Pignatone, oltre che dal dr. Perrone Capano. Ma ci fu subito la prima sorpresa: il giudice, che era anche il capo dell’intero ufficio, tale Giovandomenico Foti, si astenne perché, effettivamente, non era molto imparziale: Cassata era un suo amico – disse – e i due si frequentavano insieme alle rispettive famiglie. In fondo, fra Messina e Reggio Calabria c’è la distanza di un mare, ma si tratta di quello più Stretto d’Italia. La successiva udienza si svolse davanti a un altro giudice, ma anche quest’ultimo durò solo per un’udienza: quiescenza per anzianità. Il terzo inizio del processo fu quello buono. Tuttavia, quella mattina del 29 marzo 2012, prima del nuovo giudice (anzi, della nuova giudice, la dr.ssa Lucia Spinella), fece capolino in udienza, davanti allo sguardo sbalordito del pubblico ministero Perrone Capano (e anche mio, confesso), il giudice Foti. Sì, quello che si era dovuto astenere perché amico dell’imputato ci teneva a presentare alle parti la dr.ssa Spinella, quasi che ella fosse sotto tutela dell’amico dell’imputato, che, del resto, come capo dell’ufficio del Giudice di pace di Reggio Calabria, continuava a mantenere una posizione ingombrante rispetto al processo. La sentenza di primo grado fu emessa il 24 gennaio 2013, dopo una lunga istruttoria dibattimentale. Testimoniarono Cettina, il Prorettore dell’Università di Torino (e amico di Adolfo) Salvatore Coluccia, Alfio Caruso, il Sen. Lumia, il nipote avvocato Giovanni Celi, il poliziotto suo amico (e cognato del fratello di Alfio Caruso) che era stato peggio che stalkerizzato (ma, almeno in parte, con il suo consenso), l’amico di Cassata e Canali avvocato Vito Calabrese e molti altri ancora. Soprattutto, testimoniò un personaggio che sembrava uscito da un film con Tomas Milian (quello che solitamente faceva la parte dell’amico del protagonista). Ciro Alemagna, questo il suo nome, era un commesso della Procura generale di Messina ma soprattutto era un uomo dichiaratamente al servizio di Cassata. In uno sgargiante slang napoletano, testimoniò provando a fornire un alibi falso al suo dante causa. Dante causa non è un eccesso, stando alle parole sue e dello stesso Cassata. Alemagna: «Le dirò di più ancora, io già ero in pensione, però il Dottore Cassata, dato che io ho avuto sempre un ottimo rapporto e anch’io per sbarcare il lunario, perché ho problemi economici, vado ogni tanto in ufficio, lui mi accoglie sempre come si deve, anche i colleghi». Cassata: «premetto che Alemagna da circa una ventina di giorni [è in pensione, n.d.a.] nonostante le mie pressioni e del colleghi del ministero di farlo restare ancora un po’, lui continua a venire alla procura generale, perché sbriga qualche cosetta per me» Quindi, utilizzando le stesse parole degli interessati, Alemagna, «per sbarcare il lunario», «sbriga qualche cosetta» per Cassata. Nella specie, sbrigò una falsa testimonianza fornendo un falso alibi. Non testimoniarono, invece, ma solo perché si avvalsero della facoltà di non rispondere, gli impiegati della Procura generale. In sostanza, pressoché l’intero ufficio giudiziario – in primis la moglie di Canali, Franca Ruello – si era astenuto dal deporre. Del resto, il Procuratore generale, in qualità di imputato, si era mantenuto contumace, rifiutandosi di comparire davanti al giudice e, conseguentemente, di sottoporsi alle domande delle parti. Peccato, sarebbe stata sicuramente un’occasione interessante. Nella fase conclusiva, dopo la mia arringa, accaddero eventi surreali, come una riunione nell’ufficio del Presidente della Corte di appello di Reggio Calabria (anch’egli amico dell’imputato e perfino originariamente indicato come testimone a discolpa dalla difesa di Cassata), con la dr.ssa Spinella, l’immancabile Giovandomenico Foti e il Presidente del Tribunale di Reggio Calabria. Per far cosa, non si è riusciti a capirlo. L’unica cosa che si è capita è che in quei giorni l’amico di Cassata, capo dell’ufficio del Giudice di pace di Reggio Calabria, in qualche modo dunque superiore della dr.ssa Spinella, era iperattivo, freneticamente in movimento intorno al processo a carico del suo amico, nonostante la sua immagine un po’ alla Danny De Vito in avanti con gli anni. Cassata, come si sa, fu condannato. Quando la sentenza, quel giovedì, anche quella volta un giovedì, venne letta dalla dr.ssa Spinella era già sera. La mattina del sabato successivo, 26 gennaio, si tenne al palazzo di giustizia di Messina (e nelle Corti d’appello di tutta Italia) l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Una spettacolare foto di Enrico Di Giacomo riprese il banco del Procuratore generale: c’erano persino una bottiglietta d’acqua e il bicchiere, ma la sedia era fantasmagoricamente vuota, preannuncio della fuga di Cassata verso il pensionamento, al fine di sventare l’ignominioso trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale. Il pensionamento del Procuratore generale, però, fu officiato due mesi dopo con una cerimonia solenne, alla presenza di tutte le autorità del distretto e degli amici di Cassata, stavolta presente. Ci furono discorsi di elogio (potevano mancare?) del pensionando. Non uno, invece, che rivolgesse un pensiero al mio amico Adolfo. Cassata, naturalmente, propose appello contro la sentenza di condanna. Il giudizio di secondo grado si sarebbe svolto davanti al Tribunale di Reggio Calabria, in composizione monocratica. Si perse un po’ di tempo per il susseguirsi di trasferimenti di due giudici, fino a quando il processo d’appello iniziò davanti al dr. Alberto Romeo, con fama di magistrato in assoluto fra i più preparati e fra i più garantisti a Reggio Calabria: una garanzia per ogni imputato innocente e pure per ogni imputato per il quale nel processo manchi la prova piena della colpevolezza. La sentenza di secondo grado giunse il 22 giugno 2015, anche in questo caso in serata. La condanna di Cassata fu confermata. Quando fu depositata la motivazione della sentenza, constatammo che il dr. Romeo aveva pure indicato, con tanto di nome e cognome, almeno alcuni dei probabili complici di Cassata: «Olindo Canali, marito della funzionaria Franca Ruello – cioè colei che prestava servizio con funzioni apicali nella stanza dove pervenne il famoso fax della sentenza Isgrò nonché che aveva le chiavi dell’armadietto sito nella stanza del Cassata ove erano custoditi i documenti che ci occupano -, amico di Vito Calabrese, a sua volta amico intimo di Salvatore Isgrò, tutti in stretti rapporti con Cassata, al quale la sentenza Isgrò veniva sicuramente consegnata per essere utilizzata, proprio in quella specifica copia transitata in Procura, nel dossier anonimo … Riepilogando, la sentenza veniva ricevuta presso la Procura Generale al fax presente nella stanza della Ruello (moglie di Olindo Canali, il quale aveva chiesto l’archiviazione nei confronti del Calabrese in una vicenda simile per aver tratto origine sempre da una querela del defunto Parmaliana) il giorno dopo del ritiro di una copia “uso studio” – qual è quella trasmessa via fax – presso la suprema Corte proprio da parte di Vito Calabrese, la cui deposizione sul punto non può pertanto essere ritenuta veritiera». Cassata, comprensibilmente, impugnò anche la sentenza di secondo grado e di qui quest’ultimo grado di giudizio. A fronte di una sentenza puntuale e dettagliatissima, come quella del dr. Romeo, e in presenza di una “doppia conforme”, non ci sarebbe stato da temere sulla tenuta del processo anche in Cassazione. Ma in un processo simile, con un imputato simile, con uno scenario di coinvolgimenti simile e con un fardello morale come quello assegnatoci da Adolfo nell’ultima lettera, come avremmo potuto essere tranquilli io, Mariella e Biagio? E come avrebbero potuto esserlo, svolgendo le loro ordinarie occupazioni come se fosse un giorno uguale a tutti gli altri, Cettina, Basilio e Gilda? Chi ha un minimo di buon senso non può non comprendere quale fosse il nostro umore e quali le nostre preoccupazioni, non proprio in sintonia con l’anodina trattazione dei processi che spesso caratterizza le udienze in Corte di cassazione, come se ci si trovasse in una campana di vetro. Mai come in questo caso era in gioco, in un’udienza, quella definitiva, l’intera vita (e pure la morte) e l’onore di Adolfo, la cui voce poteva essere resa solo da noi e la cui immagine, orribilmente sfregiata dall’abominevole dossier organizzato da Cassata, a noi spettava tutelare, senza lesinare sforzi. Anche in questo caso, la sentenza è arrivata a tarda ora. Prima e durante la lettura del dispositivo da parte della Presidente della Corte, tuttavia, c’è stato modo per l’ennesima evenienza inimmaginabile. E per l’ennesima volta mi sono dovuto arrendere all’idea che, al contrario di quanto in tanti pensano, ho una visione sempre ingiustificatamente buonista della realtà; non riesco mai a essere malizioso a sufficienza e vengo sempre scavalcato dalla virulenta crudezza dei fatti. Nei giorni precedenti, Biagio me l’aveva detto: «vedrai che Vito Calabrese verrà ad assistere all’udienza». Gli avevo replicato come se la sua fosse l’esternazione di un folle. Ebbene, mentre attendevamo la sentenza negli spazi enormi del palazzaccio in un silenzio irreale e insopportabile, ho visto il volto di Biagio trasfigurarsi, mentre apriva la bocca: «è arrivato Calabrese». Non fossi stato presente, avrei pensato che Biagio stesse farneticando. Vito Calabrese, proprio la persona indicata come complice di Cassata e come testimone falso nella sentenza del Tribunale di Reggio Calabria, era giunto proprio lì, davanti all’aula, ancora chiusa, nella quale sarebbe stata pronunciata la sentenza sulla diffamazione ai danni di Adolfo, commessa col dossier anonimo al quale anch’egli aveva contribuito, secondo il giudice Romeo. Il mio amico Adolfo aveva proprio ragione: in quel paese nel quale il suo cuore aveva battuto, Terme Vigliatore, il paese dal quale lui non era mai riuscito a distaccarsi, alcune persone sembravano agitate, con il buio nell’anima, dall’unica spinta esistenziale di muovere guerra alla sua persona. Del resto, Vito Calabrese non era stato anche il difensore dello zio, Filippo Giunta, che contro il libro su Adolfo aveva presentato una scombiccherata (psichiatrica anche questa, direi) querela per il fatto che Alfio Caruso non aveva raccontato ai lettori la storia della sua vita ma solo quella di Adolfo? Chissà, forse aveva querelato pure Giuseppe Fiori, perché il grande scrittore sardo aveva osato raccontare ai lettori la vita di Enrico Berlinguer e perfino quella di Antonio Gramsci senza dedicare nemmeno un capitolo, e nemmanco un paragrafetto, a Filippo Giunta. E ora Vito Calabrese era lì, e quando la Corte era pronta a rientrare in aula e le porte erano state finalmente aperte ecco che era entrato davanti a me. Come detto, la Corte ha rigettato il ricorso di Cassata e l’ha pure condannato a pagare ai familiari di Adolfo le ulteriori spese processuali. La notizia al neo-pregiudicato è senz’altro giunta telefonicamente dal suo amico e sodale Vito Calabrese. Anche qui – ho pensato – il solito schema circolare: «dal produttore al consumatore». Ma uscendo dall’aula e poi uscendo dal palazzaccio ho pensato ad altro. Ho pensato innanzitutto a informare la dolce Cettina. E poi ho pensato a dare notizia della sentenza ad Alfio Caruso. E poi ho pensato che quella notizia dovevo darla pure al mio fraterno amico Piero, che poi è il fratello eroico di Graziella Campagna. Non ho fatto altre telefonate, perché nel frattempo i miei pensieri si erano persi, come foglie rimestate dal vento, intorno ai fatti degli ultimi otto anni, come fermi immagine di un film horror interminabile e insopportabile. Ho pensato all’ultima volta che avevo incontrato Adolfo alla fine di agosto 2008, seduti a chiacchierare da soli al tavolo di un bar a Milazzo; e alle telefonate che avevo avuto con lui a metà settembre, quando la sua voce si era definitivamente incrinata sotto il peso dei tradimenti che gli si erano mostrati inconfutabili e delle manovre con le quali, sono le parole della sua ultima lettera, «La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati»; e all’ultima volta che l’avevo sentito, la sera prima del suo suicidio e come un perfetto imbecille non avevo capito quale decisione avesse preso; e a quella telefonata che nel primo pomeriggio di quello sciagurato 2 ottobre avevo ricevuto da Leonardo Orlando, che quasi balbettando tentava di farmi capire, a oltre mille chilometri di distanza, che Adolfo, insomma, non c’era più, per sua scelta; e a quell’altra telefonata che subito feci a Mariella per dirle, senza riuscire a respirare, che il nostro amico Adolfo si era tolto la vita; e alla visita che nel pomeriggio del 3 ottobre feci ad Adolfo a casa sua, quando vidi sua moglie Cettina pietrificata dal dolore; e alle dichiarazioni che subito, quello stesso pomeriggio, andai a rendere a verbale al Procuratore di Patti, su tutto quello che sapevo di Adolfo e su tutte le confidenze che mi aveva fatto, indicando tutti i nomi, uno per uno, perché ormai non era più pensabile avere freni e prudenze, come se già sapessi della sua ultima lettera; e alle ritorsioni che fin da subito furono rivolte verso Biagio, e poi verso di me, da Ugo Colonna e Sebastiano Buglisi, ai quali sono certo che Adolfo si fosse riferito, insieme ad altri, nell’ultima lettera, quando aveva scritto «alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni»; e al coraggio che io, Biagio, Mariella e pochi altri ci eravamo dovuti dare per far conoscere tutto alla Procura di Reggio Calabria; e ai sommovimenti che dal suicidio di Adolfo erano derivati alla tenuta del sistema barcellonese, che aveva iniziato a barcollare insieme al traballare dei suoi custodi giudiziari; e alle calunnie che erano cominciate a volare contro la memoria di Adolfo e pure personalmente contro di me, anche contro di me pure con anonimi la cui origine era di imbarazzante evidenza; e il fango riversato per anni contro Adolfo, me, Mariella, Biagio e pochi altri da quel giornale, Centonove, che a lungo fu come una rivoltella, non so se calibro 22, che ogni settimana sparava al nostro indirizzo; e all’isolamento sordo e cupo nel quale eravamo costretti, stringendo i pugni dentro le tasche, ad andare avanti per prestare fede alla richiesta rivoltaci da Adolfo; e all’insensibilità delle istituzioni, salvo poche e mai abbastanza lodate eccezioni, che, in campo politico ma pure in campo giudiziario, continuavano a calpestare la memoria di Adolfo; e alla sguaiatezza ributtante di certi suoi avversatori politici, che hanno fatto guerra ad Adolfo dopo la sua morte, e proprio per la sua morte, con fiera e ottusa oscenità, ancor più di quando era in vita; e alle aggressioni giudiziarie rivolte verso di me, anche per quanto facevo per difendere la memoria di Adolfo, in conseguenza delle quali sono diventato pluriindagato, pluriimputato e pluricitato in giudizio, per il delitto di parresìa, su iniziativa di Cassata, di Buglisi, di Centonove e di tanti altri che a ricordarli tutti non c’è spazio; e a quel territorio barcellonese, così moralmente piagato che viene impossibile distinguere guardie e ladri, mafia e Stato; e, infine, alla solitudine disperata e lucida di Adolfo, mentre scriveva la sua ultima lettera e poi mentre si lanciava nel vuoto. A quest’ultimo pensiero, nel vento lieve e ormai nel buio della serata romana, all’improvviso mi sono reso conto di una cosa che sembrava non mi dovesse mai capitare: forse ero riuscito a elaborare il lutto per la morte di Adolfo e per il modo in cui lui l’aveva scelta. Fino a quel momento mi ero sempre astenuto, per pudore nei suoi confronti, di provare a rispondere sulla accettabilità di quella scelta, sulla possibilità che essa avesse un senso e che, in fondo, altro che dover perdonare Adolfo per quel suo gesto, a me, alla fine, pure se per adempiere all’onere morale che mi aveva assegnato, avevo pagato, insieme a Mariella e a pochi altri, prezzi inenarrabili, non rimaneva altro che ringraziarlo. L’ho capito quando ho ricevuto la telefonata di suo figlio Basilio e ho sentito la leggerezza delicata delle sue parole e della sua voce e ho percepito quanto quel giovane uomo avesse da essere smisuratamente orgoglioso di suo padre, il migliore dei cittadini della provincia di Messina e lo scienziato affermato e il docente universitario adorato dai suoi studenti e l’uomo al quale veniva naturale continuamente migliorarsi e scalare ogni vetta. Ecco, alla fine non mi rimaneva altro che essere grato ad Adolfo. Mi aveva concesso, pure dopo la sua morte, in un modo che solo lui poteva architettare, la sua preziosa amicizia. Mi aveva concesso l’onore di conoscere i suoi splendidi familiari. Mi aveva regalato l’amicizia, quanto preziosa, di un intellettuale dalla dirittura morale nitida come Alfio Caruso, che mi ha insegnato che mantenere la schiena dritta davanti all’arroganza di qualunque potere è un privilegio impagabile. Mi aveva in fondo dimostrato, per l’ennesima volta, proprio in quella tiepida serata romana, che anche in questo scalcinato paese, un uomo giusto come lui può ottenere giustizia. Ho elaborato davvero il lutto. Ormai la memoria di Adolfo Parmaliana non è più il pesante fardello sulle mie esili spalle e su quelle di altre quattro persone. Il mio dovere l’ho adempiuto e il mio compito l’ho portato a termine. Ormai la storia di Adolfo è la storia di un giusto d’Italia. Tocca ora alle istituzioni rendere omaggio a se stesse tributando doverosamente onore alla memoria di Adolfo Parmaliana. Tratto da: stampalibera.it

Parmaliana, dieci dubbi per un “suicidio”, scrive Luciano Mirone il 12/08/2016 su “I Siciliani".

Dubbio numero uno. L’inchiesta ufficiale ha scandagliato a trecentosessanta gradi sul “suicidio” di Adolfo Parmaliana? Lo ha considerato un suicidio comune o un “suicidio” a sfondo politico?

Dubbio numero due. Perché questo brillante docente di Chimica industriale, 50 anni, una prestigiosa carriera universitaria, una famiglia meravigliosa, un rapporto protettivo con la moglie e i figli, un benessere economico superiore alla media, la mattina del 2 ottobre 2008 prende la macchina, percorre alcuni chilometri di autostrada, posteggia in corsia di emergenza, scende dall’auto, scavalca il guard rail, e si lascia andare nel vuoto schiantandosi al suolo, dopo un volo di trentacinque metri? Soffre di depressione o di malattie mentali? No. L’unico fatto certo è che è deluso per quel rinvio a giudizio per diffamazione subito qualche tempo prima. Perché? Aveva presentato un esposto contro il malaffare politico del suo comune, Terme Vigliatore, settemila abitanti in provincia di Messina, ma i magistrati di Barcellona, invece di colpire “loro”, hanno colpito lui. Ma è vero che Parmaliana, più che deluso, in quel periodo, era preoccupato o aveva addirittura paura?

Dubbio numero tre. È vero che la famiglia è stata avvisata della disgrazia (avvenuta intorno alle 10 del mattino) circa quattro ore dopo?

Dubbio numero quattro. E’ vero che intorno alle 14 dello stesso giorno, a casa del professore (per informare la famiglia), si sono presentati tre carabinieri in divisa e un numero imprecisato di uomini in borghese?

Dubbio numero cinque. È vero che sono stati sequestrati il computer, gli appunti ed altro materiale del docente universitario? Un “suicidio” a sfondo politico?

Dubbio numero sei. Se questo è vero, insistiamo con la domanda iniziale: suicidio comune o suicidio a sfondo politico? Adolfo non era un uomo qualunque, era un personaggio troppo scomodo per quel sistema osceno contro il quale egli lottava da sempre: era segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra, da tanti anni era il leader dell’opposizione di Terme Vigliatore. E Terme Vigliatore vuol dire Barcellona Pozzo di Gotto, con le sue incredibili collusioni fra mafia, politica, massoneria, servizi segreti deviati e pezzi di magistratura. Una circostanza non da niente.

Un leader illuminato Adolfo Parmaliana, integerrimo e trasparente. Il quale, con i suoi gesti coraggiosi, in poco tempo pone all’attenzione nazionale la situazione del triangolo Terme Vigliatore-Barcellona-Messina: nel 2002 davanti al Csm denuncia l’ex procuratore generale della Repubblica di Messina Antonio Franco Cassata e l’ex Pm Olindo Canali (successivamente trasferito a Milano per incompatibilità ambientale). Nel 2005, con i suoi esposti, contribuisce a fare sciogliere per infiltrazioni mafiose il Consiglio comunale di Terme Vigliatore. Dunque bisogna partire dalla “pericolosità” che quel sistema attribuisce a questo “eroe borghese” per capire che questo non è un suicidio come tanti, ma qualcosa di molto più profondo e ineffabile. Gli omicidi camuffati da suicidi.

Dubbio numero sette. Se sono stati sequestrati il pc, gli appunti ed altri “oggetti sensibili”, quale è stato l’esito del controllo? Quale è stato il risultato dell’autopsia e dell’esame esterno del cadavere? Chi eseguì queste due ultime operazioni? Furono riscontrate ecchimosi o fratture diverse da quelle formatesi dopo l’impatto col suolo, furono trovate sostanze anomale (droga, veleno, sedativo, ecc.) nell’organismo del professore universitario?

Dubbio numero otto. È stata eseguita una perizia calligrafica nella lettera in cui il professore “confessa” i motivi del gesto oppure è stato sufficiente mostrare il documento ai familiari per dichiararne l’autenticità e quindi, in base al contenuto, decretare la certezza del suicidio? Oggi una grafologa forense intervistata da “L’Informazione” (vedi seconda puntata) sostiene che la missiva è autentica, anche se può esserci un caso su novantanove che uno scritto possa essere contraffatto perfettamente. Ne prendiamo atto. Quindi diciamo che la lettera è “quasi” certamente autentica. Diciamo “quasi” sia perché c’è l’1 per cento di probabilità del contrario, sia perché crediamo che per vicende del genere – specie nel Barcellonese – le certezze assolute non esistono, a prescindere dalla diligenza e dall’onestà degli investigatori di Patti, competenti per territorio sul caso Parmaliana.

Ma quando parliamo di Barcellona Pozzo di Gotto, la diffidenza non è mai troppa. Si dà il caso infatti che recentemente il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico abbia dichiarato che la mafia barcellonese è specializzata nel camuffare gli omicidi in suicidi. Come? Mediante l’apporto dei servizi segreti deviati. L’esempio più eclatante? Quello di Attilio Manca, trovato morto nel 2004 nel suo letto di Viterbo (città dove da due anni svolgeva la sua professione) con due siringhe a poca distanza. A parere di D’Amico, l’urologo barcellonese è stato assassinato da uno 007 (anche in questo caso con un sequestro operato dalle forze dell’ordine, del pc e degli “oggetti sensibili”) su ordine dell’avvocato Rosario Pio Cattafi, ritenuto il boss di Barcellona. Manca, secondo D’Amico, sarebbe stato “colpevole” di due cose imperdonabili: avere scoperto il volto del boss latitante Bernardo Provenzano (allora nascosto col falso nome di Gaspare Troia) nell’ambito dell’operazione di cancro alla prostata in cui il medico avrebbe avuto un ruolo, e avere visto il volto di certi insospettabili che hanno nascosto e protetto il boss anche a Barcellona. Altro esempio? Il giornalista Beppe Alfano, assassinato nel ’93 per un’altra imperdonabile “colpa”: aver scoperto il covo barcellonese di un altro “boss di Stato”, Nitto Santapaola, protetto dalle istituzioni deviate per diversi decenni. Certo, nel ‘93 la mafia barcellonese non si era specializzata nei “suicidi”. Allora ricorreva solo al delitto eclatante, con sequestro del pc e di un sacco di altro materiale importante. La mano dei servizi segreti. Sonia Alfano, ex parlamentare europea e figlia del giornalista assassinato, ha dichiarato – per averlo appreso dall’ex Pm Olindo Canali – che dopo l’omicidio, l’appartamento del giornalista si riempì di uomini dei servizi segreti (ovviamente in borghese) che rovistarono dappertutto. Questo per capire il livello eversivo di quella mafia, che proprio a Barcellona, nel 1992, costruì il telecomando della strage di Capaci. E allora, se la cointeressenza fra Cosa nostra e servizi segreti nel Barcellonese si è verificata almeno in due occasioni, chi può escludere che si sia verificata in altre?

Dubbio numero nove. Un altro fatto oggettivo: la Procura che ha svolto le indagini sulla morte di Parmaliana, come detto, era quella di Patti, dipendente da quella Procura generale di Messina dove Antonio Franco Cassata il 29 luglio 2008 – due mesi prima della morte di Parmaliana – era assurto alla massima carica. Cassata dunque, il 2 Ottobre del 2008, è il massimo esponente del potere giudiziario che all’epoca indaga sul decesso di una persona contro la quale, a suicidio avvenuto, egli si scaglia con un dossier anonimo pieno di fango (almeno secondo i tre gradi di giudizio che lo hanno visto condannato per diffamazione a 800 Euro di ammenda). Una ulteriore dimostrazione della gravissima incompatibilità ambientale del magistrato.

Dubbio numero dieci. Passiamo alla lettera. Durante la perquisizione è stata ritrovata la missiva con la calligrafia e la firma di Adolfo Parmaliana, recante la data 1 Ottobre 2008 (giorno prima del “suicidio”). Quei fogli sono stati vergati davvero l’1 ottobre, ed eventualmente in quale momento, considerato che una lettera di quattro facciate richiede tempi di stesura non proprio brevi? La decisione del suicidio è stata estemporanea oppure ha comportato tempi di maturazione di giorni, di settimane o perfino di mesi? “Oltre” il contenuto della lettera. È stata data alla missiva una interpretazione più estesa, magari andando “oltre” il contenuto ufficiale, “oltre” quella “gogna” alla quale il docente universitario si riferiva quando parlava della “Magistratura di Barcellona e di Messina” (riferibile, secondo un’interrogazione dell’ex senatore Antonio Di Pietro, “al dottor Cassata e al dottor Canali, come testimoniato da numerose persone informate sui fatti alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria”) che lo avrebbe “isolato”? C’è un brano dell’intervista con la grafologa che secondo noi riveste particolare significato: quella di Parmaliana, dice l’esperta, “è una scelta vista come unica via percorribile per poter tutelare la famiglia”. Al professore quindi non restava altra via? Perché? “Solo” per fare accendere i riflettori sui guasti di quella zona di morte o “anche” per qualcos’altro? In quel gesto estremo c’era implicitamente contenuta una “convergenza di cause” che il professore potrebbe non avere svelato per intero? L’ultimo periodo del professore. Si è studiato l’ultimo periodo di vita del professore? Si è cercato di capire se l’ex segretario dei Ds – sempre alle prese con un’attività di denuncia – era minacciato ed eventualmente da chi, se le eventuali intimidazioni avrebbero potuto coinvolgere la sua famiglia? Si è accertato se ha confidato a qualcuno o ha appreso da qualcuno determinate notizie? Non lo sappiamo. Però sappiamo due cose: 1) nella lettera Parmaliana aggiunge: “Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo”. A chi faceva riferimento? Da chi si era sentito “ingannato”? 2) Parmaliana era odiato in quanto in grado di destabilizzare il terribile intreccio fra mafia e istituzioni presente in quel territorio. L’inchiesta ufficiale si preoccupa di discernere fra la delusione, l’indignazione e la rabbia da un lato, e la “preoccupazione” o addirittura la “paura” dall’altro? Lui nella lettera non parla né di preoccupazione né di paura, ma sappiamo che da agosto quei sentimenti albergano nel suo animo.

Processo Cassata, parla Vito Calabrese: «Un altro nemico giurato di..., scrive Giampaolo Scaglione il 5 agosto 2016 su "Centonove".

«Venni querelato per diffamazione a mezzo stampa dal professore per un articolo che scrissi su un mensile di Terme Vigliatore che si chiamava “Comunità”. Era l’anno 2005». Due storie di militanza politica che si sono incrociate, quelle di Adolfo Parmaliana e Vito Calabrese, il quale non accetta la patente di “nemico giurato” del docente morto nel 2008 che l’avvocato Repici gli attribuisce. A giudizio dell’avvocato Repici, il quale di recente ha pubblicato un mini-dossier sul caso-Parmaliana in concomitanza con la condanna definitiva dell’ex procuratore generale di Messina, Franco Cassata, a 800 euro di multa per aver diffamato post-mortem il docente universitario scomparso nel 2008, l’avvocato Vito Calabrese sarebbe «un altro nemico giurato di Parmaliana». Definizione che il legale originario di Barcellona, il quale oggi vive e lavora a Roma, respinge al mittente, in maniera decisa. È tuttora impegnato in politica ma non ha più una tessera di partito e si definisce “progressista”.

Lei ritiene di essere stato nemico del professor Parmaliana?

«La definizione di Repici non corrisponde affatto alla realtà. Si tende ad infilare il mio nome in fatti che non mi riguardano e in cui non sono stato coinvolto. Mi riferisco al processo-Cassata, com’è ovvio. Si tratta di un tentativo maldestro di infangare la posizione di intransigenza morale del sottoscritto».

Racconti la sua vicenda giudiziaria, se crede.

«Venni querelato per diffamazione a mezzo stampa dal professor Parmaliana per un articolo che scrissi su un mensile di Terme Vigliatore che si chiamava “Comunità”.  Era l’anno 2005, al docente universitario non piacque di essere stato da me definito “mercante della politica”, anche a seguito del suo tentativo di entrare in Giunta dopo aver perso le Comunali del 2002. Da quelle accuse sono stato assolto in Corte d’Appello nel settembre del 2015, dopo esserlo stato in primo grado nel 2012, rinunciando persino alla prescrizione. La sentenza di appello è passata in giudicato».

Quali erano i suoi rapporti con Parmaliana?

«Criticare oggi Parmaliana potrebbe essere visto come un gesto impopolare e rischioso. Ma io non ho avuto paura di farlo nemmeno nel 2005».

Lei e il professore eravate compagni di partito. E il partito erano i Democratici di Sinistra.

«Eravamo iscritti alla stessa sezione, la “Antonio Gramsci” di Terme Vigliatore. Alla quale Parmaliana cambiò il nome, intitolandola a Massimo D’Antona, dopo aver vinto il congresso nel 1999, con l’aiuto di amici e parenti, come accertato in sede giudiziaria».

E oggi come la pensa sul politico Parmaliana?

«Oggi assistiamo a una celebrazione del professore da parte di chi ha tutto l’interesse a tesserne le lodi, a cura di soggetti che – con opportune omissioni e dimenticanze – ne esaltano la figura umana ed accademica. È chiaro che tutti i suoi errori politici non trovano posto nelle ricostruzioni come quella di Repici».

Ricostruzione nella quale l’avvocato Repici colloca Calabrese dalla parte dei “cattivi”. Che ne pensa? In fondo Lei non ha avuto parte attiva nella vicenda-Cassata, anch’essa ormai conclusa dal punto di vista giudiziario…

«Del mio processo non si è mai parlato. Dell’assoluzione, men che meno. E lo stesso è capitato, per una vicenda del tutto analoga e complementare alla mia, al mio amico Salvatore Isgrò: anche lui venne querelato per diffamazione, anche lui è stato assolto. E i nostri nomi sono stati di nuovo “usati” all’interno della narrativa di Repici. Come se la figura postuma di Parmaliana potesse essere “danneggiata” da due vicende politiche – quella in cui era contrapposto a me e quella in cui era contrapposto a Isgrò – su entrambe le quali la Magistratura ha attestato la nostra correttezza».

Di conseguenza Lei crede che le critiche sue e di Isgrò al Parmaliana, oltre ad essere legittime sotto il profilo formale, fossero fondate dal punto di vista politico?

«Erano critiche che vertevano sui «presunti interessi personali (di Parmaliana, ndr) nell’approvazione del locale piano regolatore generale di Terme Vigliatore, alla contrapposizione alla candidatura ufficiale del partito, agli incarichi professionali ottenuti dall’assessorato regionale siciliano gestito dal centro-destra, alla stessa vicenda dell’espulsione del partito con la perdita dei relativi documenti, forse ad opera dello stesso interessato». Questo si legge sempre nella sentenza d’appello sul caso Isgrò. Su tali circostanze gli esecutori testamentari del professore preferiscono glissare. E continueranno a farlo».

Vicende politiche, insomma. Soltanto politiche.

«Eppure persino la Magistratura, nella sentenza di Corte d’Appello che riguardava Isgrò (2007, ndr), ha definito la condotta politica di Parmaliana «non sempre lineare e coerente nell’ottica di un militante di sinistra quale egli si professava»».

Lei ha letto il libro di Alfio Caruso, immagino…

«Ogni iniziativa culturale è da sostenere, da approvare. Credo che Caruso abbia errato nel sottovalutare o elidere alcune fonti sui personaggi e sulle vicende trattate. Fonti giudiziarie, intendo. Sul Parmaliana politico il giudizio del giornalista-scrittore è venato di parzialità: gli atti del processo Isgrò, iniziato nel 2001, sono stati ignorati. Eppure lì dentro c’è tanto, sulla Terme Vigliatore di quegli anni».

Conclusioni?

«È giusto dare rilievo alla figura dell’uomo Parmaliana, del docente universitario. Mitizzare la figura politica, no. Parmaliana era un uomo con pregi e difetti, come tutti».

Sulla vicenda Cassata?

«Non posso dire nulla. Non credo si conoscessero. Non conosco quali fossero i motivi della loro contrapposizione, non ho mai visto Cassata parlare con Parmaliana».

Quali sono le Sue opinioni sulle battaglie che il professor Parmaliana ha condotto prima del tragico epilogo della sua vita?

«Mi sembra di aver letto che fosse intenzione della sua famiglia di pubblicare tutti i documenti inediti del Parmaliana. Argomento, la mafia, le malversazioni nella pubblica amministrazione, le responsabilità della magistratura. Ad oggi non conosco alcuna denuncia fatta da lui, se non quelle contro i compagni di partito, tra i quali Isgrò e me medesimo».

L'estrema denuncia di Adolfo Parmaliana, feroce accusatore della connivenza tra cosche mafiose e amministrazione prima di togliersi la vita. In esclusiva per L'espresso, la lettera di addio.

"La mia ultima lettera": La trascrizione dell'ultima lettera del professor Parmaliana prima del suicidio.

"La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito di servitore dello Stato e docente universitario. Non posso consentire a questi soggetti di farsi gioco di me e di sporcare la mia immagine, non posso consentire che il mio nome appaia sul giornale alla stessa stregua di quello di un delinquente. Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi. Non glielo consentirò, rivendico con forza la mia storia, il mio coraggio e la mia indipendenza. Sono un uomo libero che in maniera determinata si sottrae al massacro ed agli agguati che il sistema sopraindicato vorrebbe tendergli. Chiedete all'Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al senatore Beppe Lumia chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all'Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo. Mi hanno tolto la serenità, la pace, la tranquillità, la forza fisica e mentale. Mi hanno tolto la gioia di vivere. Non riesco a pensare ad altro. Chiedo perdono a tutti per un gesto che non avrei pensato mai di dover compiere. Ai miei amati figli Gilda e Basilio, Gilduzza e Basy, luce ed orgoglio della mia vita, raccomando di essere uniti, forti, di non lasciarsi travolgere dai fatti negativi di non sconfortarsi, di studiare, di qualificarsi, di non arrendersi mai, di non essere troppo idealisti, di perdonarmi e di capire il mio stato d'animo: Vi guiderò con il pensiero, con tanto amore, pregherò per voi, gioirò e soffrirò con voi. Alla mia amatissima compagna di vita, alla mia Cettina, donna forte, coraggiosa, dolce, bella e comprensiva: ti chiedo di fare uno sforzo in più, di non piangere, di essere ancora più forte e di guidare i ns figli ancora con più amore, di essere più buona e più tenace di quanto non lo sia stato io. Ai miei fratelli, Biagio ed Emilio, chiedo di volersi sempre bene, di non dimenticarsi di me: vi ho voluto sempre bene, vi chiedo di assistere con cura e amore i ns genitori che ne hanno tanto bisogno. Alla mia bella mamma ed al mio straordinario papà: vi voglio tanto bene, vi mando un abbraccio forte, vi porto sempre nel mio cuore, siete una forza della natura, mi avete dato tanto di più di quanto meritavo. A tutti i miei parenti, ai miei cognati, ai miei zii, ai miei cugini, ai miei nipoti, a mia suocera: vi chiedo di stare vicini a Gilda, a Basilio ed a Cettina. Vi chiedo di sorreggerli. Ai miei amici sarò sempre grato per la loro vicinanza, per il loro affetto, per aver trascorso tante ore felici e spensierate. Alla mia università, ai miei studenti, ai miei collaboratori ed alle mie collaboratrici sarò sempre grato per la cura e la pazienza manifestatemi ogni giorno. Grazie. Quella era 1° mia vita. Ho trascorso 30 anni bellissimi dentro l'università innamorato ed entusiasta della mia attività di docente universitario e di ricercatore. I progetti di ricerca, la ricerca del nuovo, erano la mia vita. Quanti giovani studenti ho condotto alla laurea. Quanti bei ricordi. Ora un clan mi ha voluto togliere le cose più belle: la felicità, la gioia di vivere, la mia famiglia, la voglia di fare, la forza per guardare avanti. Mi sento un uomo finito, distrutto. Vi prego di ricordarmi con un sorriso, con una preghiera, con un gesto di affetto, con un fiore. Se a qualcuno ho fatto del male chiedo umilmente di volermi perdonare. Ho avuto tanto dalla vita. Poi, a 50 anni, ho perso la serenità per scelta di una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente. Questo sistema l'ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni. Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita."

Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-00288. Pubblicato il 8 ottobre 2008. Seduta n. 69. LUMIA - Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro della giustizia. - Premesso che, per quanto consta all’interrogante:

nella mattina del 2 ottobre 2008 il professore Adolfo Parmaliana, docente ordinario di Chimica industriale all’Università di Messina, cinquantenne, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto dal viadotto Patti Marina dell’autostrada Messina-Palermo, dopo aver lasciato la propria autovettura sulla corsia d’emergenza;

il professor Parmaliana era nato e viveva a Terme Vigliatore, paese di circa 7.000 abitanti confinante con Barcellona Pozzo di Gotto (Messina);

fin da ragazzo il professor Parmaliana aveva dispiegato un appassionato impegno politico, che lo aveva portato negli anni a militare nel Partito comunista italiano e poi, fino a pochi anni fa, ad assumere il ruolo di segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra;

la militanza politica e civile del professor Parmaliana è stata spesa sempre e coerentemente al servizio della difesa della legalità, della tutela del territorio, della ricerca della giustizia e della lotta contro la criminalità politica e le infiltrazioni della mafia in seno alle istituzioni;

per il suo atteggiamento integerrimo e coraggioso, il professor Parmaliana si è spesso ritrovato isolato a lottare contro poteri forti che condizionano il corretto andamento delle pubbliche amministrazioni e perfino degli organismi di controllo, in primis l’autorità giudiziaria;

in particolare, da molti anni e fino all’ultimo il professor Parmaliana ha lamentato l’inerzia di cui si è sempre resa responsabile la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto a fronte delle denunce che egli aveva nel tempo formulato circa i reati commessi da pubblici amministratori, professionisti e altri personaggi di rilievo di Terme Vigliatore;

delle inerzie degli organi giudiziari competenti il professor Parmaliana investì anche il Consiglio superiore della magistratura, cui inviò un esposto in data 3 dicembre 2001, con il quale rappresentò di aver più volte segnalato alla Procura di Barcellona reati di pubblica amministrazione e cointeressenze mafiose relative alla gestione dell’ente Terme e di avere, preso atto dell’immobilismo della Procura di Barcellona, interessato invano la Procura generale di Messina, nelle persone dell’allora dirigente dell’Ufficio e del sostituto dottor Antonio Franco Cassata, per sollecitare l’avocazione, e riferì altresì che l’avvocato Nello Cassata, figlio del dottor Cassata, aveva ricevuto incarichi professionali tra il 1999 ed il 2000 dal Comune di Terme Vigliatore;

in conseguenza di tale esposto, il professor Parmaliana l’11 marzo 2002 venne audito dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura nell’ambito del procedimento per incompatibilità ambientale allora pendente sul dottor Antonio Franco Cassata, poi – a parere dell’interrogante, con decisione errata – purtroppo archiviato, tanto che nella scorsa estate, pur a seguito di altro atto di sindacato ispettivo dell’interrogante (4-00105, Resoconto n. 13 del 4 giugno 2008), è stata deliberata la nomina del dottor Cassata il 29 luglio 2008 quale attuale Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina;

nel corso di quell’audizione al Consiglio superiore della magistratura, il professor Parmaliana ribadì le sue doglianze sulle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia nel suo territorio, sulle inerzie della Procura di Barcellona a fronte delle sue documentate denunce, sulle inerzie della Procura generale di Messina a fronte delle sue sollecitazioni all’avocazione delle indagini e, infine, sugli incarichi fiduciari conferiti dall’amministrazione comunale di Terme Vigliatore al figlio del dottor Cassata, avvocato Nello Cassata;

l'infaticabile attività di denuncia del professor Parmaliana sull’illegalità dominante nelle amministrazioni comunali succedutesi nel tempo a Terme Vigliatore trovò comunque positivo riscontro nel decreto del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, del dicembre 2005, con il quale venne disposto lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Terme Vigliatore per il condizionamento mafioso accertato dalla commissione prefettizia all’esito, tra l’altro, proprio delle segnalazioni del professor Parmaliana;

come risulta da plurime recenti fonti di stampa, in parallelo con l’inchiesta amministrativa sul Comune di Terme Vigliatore, si svilupparono delle indagini curate dai carabinieri della Compagnia di Barcellona Pozzo di Gotto, nel corso delle quali furono rilevate, in un’informativa denominata “Tsunami”, insieme a innumerevoli irregolarità amministrative e penali nella gestione del Comune, allarmanti condotte poste in essere, fra l’altro, proprio da due dei magistrati dei quali il professor Parmaliana aveva lamentato inerzie e omissioni, il dottor Olindo Canali, sostituto procuratore della Repubblica a Barcellona Pozzo di Gotto, ed il dottor Antonio Franco Cassata, attuale Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina;

anche in epoca successiva, il professor Parmaliana ha formulato numerose puntuali denunce sulle pesanti irregolarità che continuava a registrare nella gestione della cosa pubblica a Terme Vigliatore;

tuttavia, il professor Parmaliana fino all’ultimo ha continuato a registrare l’immobilismo della Procura di Barcellona;per converso, da ultimo il professor Parmaliana vide mutare la sua posizione da quella di indefesso ed integerrimo accusatore in quella di accusato;

nel settembre 2008, infatti, gli venne notificato un decreto di citazione a giudizio emesso dalla Procura di Barcellona per il delitto di diffamazione aggravata in danno di tale Domenico Munafò, attuale Presidente del Consiglio comunale di Terme Vigliatore e già vicesindaco nell’amministrazione comunale sciolta per mafia nel 2005;

le imputazioni di quel decreto sono tali e destano tale sgomento che ne è doveroso fare in questa sede una valutazione sostanziale al di fuori del competente ambito giudiziario e senza, quindi, intralciare l’autonomia e l’indipendenza degli organi competenti;

in particolare, con quell’atto la Procura di Barcellona ha addebitato al professor Parmaliana di aver compiuto il delitto di diffamazione con tre successive condotte e precisamente: per aver esultato al decreto del Presidente della Repubblica Ciampi con il quale venne sciolta per mafia l’amministrazione comunale, facendo affiggere nella sua veste di segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra un manifesto riportante il seguente testo: “Il Consiglio Comunale è stato sciolto per ingerenza della criminalità organizzata! Giustizia è stata fatta: la legalità ha vinto! Tanti dovrebbero scappare ... se avessero dignità”; per aver esultato al provvedimento emesso dal Tribunale amministrativo regionale di Catania con il quale era stato rigettato il ricorso presentato da alcuni esponenti dell’amministrazione infiltrata dalla mafia per l’annullamento del decreto di scioglimento del Presidente della Repubblica Ciampi, facendo affiggere nella sua veste di segretario della locale sezione dei Democratici di sinistra un manifesto riportante il seguente testo: “Rassegnatevi non siete legittimati a rappresentare le istituzioni. Il Tar ha respinto il ricorso proposto da alcuni ex Consiglieri Comunali ‘sciolti’ e da ex amministratori rimossi dal Presidente della Repubblica. Il Tar ha attestato la necessità e la giustezza del decreto presidenziale. Il ns. Comune è stato oggetto di infiltrazioni della criminalità organizzata. La protervia, l’arroganza, il disprezzo delle leggi e le amicizie politiche non hanno fatto breccia. La legalità continua a vincere”; infine, per un articolo del professor Parmaliana pubblicato sul sito Internet www.imgpress.it, nel quale, tra l’altro, era contenuto il seguente brano: “Sembra che stanti le palesi illegittimità tecniche e procedurali sia stato avviato il procedimento per l’annullamento in autotutela di alcuni piani di lottizzazione che vedono interessati ex amministratori rimossi e consiglieri sciolti sia come progettisti che come titolari dell’iniziativa edilizia. Pertanto qualche ex amministratore rimosso, coinvolto in tali lottizzazioni, ha partecipato all’Autorità Giudiziaria la vicenda biasimando anche la Commissione Straordinaria per non aver rimosso il Funzionario preposto. Sono evidenti l’imperizia e il disagio del tale; perché non ha promosso la rimozione del funzionario quando era in carica? Aveva evidenze di danno per la comunità e non è intervenuto? Perché sollecita la rimozione solo ora?”;

l’interrogante non può fare a meno di rilevare, peraltro, che per tale articolo l’imputazione è stata mossa solo al professor Parmaliana e non anche al giornalista responsabile della testata e gestore del sito, che materialmente aveva curato la pubblicazione dello scritto del professor Parmaliana, concorrendo nella divulgazione di esso e concorrendo quindi in ipotesi nell’eventuale reato;

il professor Parmaliana ha vissuto quel decreto di citazione a giudizio non solo come un’infamia ma anche come l’inizio della rappresaglia giudiziaria avviata contro di lui proprio dall’ufficio, la Procura di Barcellona, che era stato oggetto della maggior parte delle sue denunce;

come riportato dalla stampa, il professor Parmaliana, prima di togliersi la vita, ha lasciato in casa uno scritto nel quale ha spiegato le ragioni del suo drammatico gesto, fra le quali ci sarebbe, principalmente, proprio il decreto di citazione a giudizio dal quale era stato raggiunto;

come detto, il professor Parmaliana ha posto in essere il suicidio in territorio di Patti Marina e quindi nel circondario di competenza della Procura di Patti, circostanza che fa credere all’interrogante che egli per il suo gesto si sia scientemente allontanato dal comune di residenza, ricadente nel circondario della Procura di Barcellona, per scongiurare la competenza territoriale di tale ufficio giudiziario;

essendo stato, però, l’ultimo manoscritto del professor Parmaliana sequestrato nella sua casa di Terme Vigliatore, esso è stato immediatamente trasmesso per la convalida del sequestro alla Procura di Barcellona;

così come risulta personalmente all’interrogante, in quell’ufficio il manoscritto del professor Parmaliana è giunto quindi a conoscenza del suddetto dottor Olindo Canali, magistrato di turno alla Procura di Barcellona il giorno 2 ottobre 2008;

è con sconcerto, allora, che l’interrogante ha registrato nel pomeriggio del 3 ottobre scorso la comparsa sul sito giornalistico www.imgpress.it (lo stesso sul quale non raramente erano apparsi interventi del professor Parmaliana, ivi compreso quello per il quale era stato imputato) di una nota a firma del dottor Olindo Canali, con la quale lo stesso ha rappresentato ai lettori la propria versione sui suoi rapporti con il professor Parmaliana, affermando, tra l’altro, “ho fatto il possibile come magistrato per andare fino in fondo e cercare di capire le sue denunce” e “mi stimava”;

il giorno 5 ottobre il “Giornale di Sicilia” ha pubblicato un articolo sulla morte del professor Parmaliana dal titolo «Barcellona, la Procura sul caso Parmaliana – “Noi non facciamo inchieste sulla mafia”», nel quale sono state riportate le parole dell’attuale Procuratore capo di Barcellona (insediatosi da poco più di un mese e del tutto estraneo alle inerzie giudiziarie lamentate dal professor Parmaliana), che, al riguardo del decreto di citazione a giudizio che aveva colpito il professore, si è detto convinto – spiacevolmente, a parere dell’interrogante – che “il magistrato incaricato di valutare gli elementi a carico del professore, denunciato per diffamazione, abbia operato in massima serenità, prima di chiedere il rinvio a giudizio”;

l’immensa e commossa partecipazione popolare al funerale del professor Parmaliana, celebrato il 4 ottobre 2008, costringe l’interrogante a ritenere che i cittadini onesti hanno compreso e, seppure in modo postumo, condiviso le battaglie, le denunce e le valutazioni del professor Parmaliana sul malaffare nella politica locale, sulla complice inerzia praticata dai locali uffici giudiziari e sulla rappresaglia giudiziaria da lui subita,

si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo, per quanto di propria specifica competenza, non ritenga che debba essere disciplinarmente valutato il comportamento del dottor Canali, il quale, dopo aver avuto contezza in ragione del suo ruolo di magistrato di turno alla Procura di Barcellona del manoscritto lasciato dal professor Parmaliana (che da quasi un decennio lamentava le gravissime inerzie della Procura di Barcellona e, tra gli altri, personalmente del dottor Canali), ha provveduto a far pubblicare sul sito internet www.imgpress.it, ovvero lo stesso sul quale comparve lo scritto per il quale il professor Parmaliana era stato rinviato a giudizio, una sua nota nella quale quel magistrato ricostruisce a modo proprio il tenore dei suoi rapporti con il professor Parmaliana, come nell’intento di precostituire una personale difesa;

se non ritenga necessaria, improcrastinabile e doverosa l’adozione di attività ispettiva di propria competenza presso la Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto, al fine di poter assumere le eventuali necessarie determinazioni in materia disciplinare su tutti i fatti descritti in premessa.

Atto Camera Interpellanza urgente 2-00070 presentata da ANTONIO DI PIETRO giovedì 26 giugno 2008 nella seduta n.024;

Atto Senato Interrogazione a risposta scritta n. 4-00105 Presentata da GIUSEPPE LUMIA Pubblicato il 4 giugno 2008, Seduta n. 13

Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro della giustizia. – Premesso che, per quanto consta all’interrogante:

il giorno 21 maggio 2008 il quotidiano messinese “Gazzetta del Sud” ha dato notizia che il giorno prima la competente commissione del Consiglio superiore della Magistratura, con voto unanime, aveva proposto il dr. Antonio Franco Cassata per ricoprire l’incarico, che sarà lasciato scoperto a breve per il pensionamento del dottor Ennio D’Amico, di Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina; su tale nomina il Ministro della giustizia è ora chiamato ad esprimere il proprio concerto; il dottor Antonio Franco Cassata è ininterrottamente in servizio alla Procura generale di Messina, con funzioni di sostituto, dal 1989, ma non è solo la permanenza pressoché vitalizia, con l’assunzione della guida dell’ufficio, di quel magistrato alla Procura generale di Messina, di guisa che ne apparirebbe quasi “proprietario”, a suscitare insopprimibili perplessità sulla proposta avanzata;

del dottor Antonio Franco Cassata il Consiglio superiore della magistratura ebbe ad occuparsi in un procedimento avviato a carico di quel magistrato ai sensi dell’articolo 2 del regio decreto-legge 31 maggio 1946, n. 511, definito dal plenum del Consiglio, con voto a maggioranza, con l’archiviazione su conforme proposta della Prima commissione; nell’ambito di tale procedimento, tuttavia, erano emerse sul conto del dottor Antonio Franco Cassata circostanze che, pur ritenute allora inidonee al trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, non possono che destare apprensione;

il boss incontrastato della mafia barcellonese Giuseppe Gullotti, al momento in cui si rese responsabile, quale mandante (come riconosciuto con sentenza passata in giudicato), dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, avvenuto a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) l’8 gennaio 1993, era socio e frequentatore del circolo culturale “Corda fratres”, del quale il dottor Cassata, già presidente, era per sua stessa ammissione il principale animatore;

dello stesso circolo “Corda fratres”, insieme a numerosi esponenti della massoneria barcellonese, era socio il noto Rosario Cattafi, già indagato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta nell’indagine sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e via D’Amelio e, soprattutto, destinatario nel 2000 della misura di prevenzione antimafia della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, irrogatagli dal Tribunale di Messina, con provvedimento definitivo, per i suoi accertati legami con boss del calibro di Benedetto Santapaola, Pietro Rampulla, Angelo Epaminonda, Giuseppe Gullotti ed altri ancora;

durante la latitanza di Giuseppe Gullotti, sottrattosi ad una misura cautelare emessa nel procedimento relativo all’omicidio Alfano, il dottor Cassata nel settembre 1994 era stato avvistato da due carabinieri mentre conversava in strada con Venera Rugolo, figlia del vecchio boss barcellonese Francesco Rugolo e soprattutto moglie di Giuseppe Gullotti. Nei giorni successivi il dottor Cassata, presso il proprio ufficio, aveva esercitato pressioni nei confronti di uno dei due carabinieri che avevano redatto al riguardo apposita relazione di servizio, perché la relazione di servizio venisse soppressa, lamentandosi del comportamento dei militari. Innanzi al Consiglio superiore della magistratura il dottor Cassata ammise l’incontro con la moglie di Gullotti, adducendone l’occasionalità e giustificando di essersi fermato con la donna per fare una carezza al neonato, figlio del boss Gullotti e della signora, che si trovava nella carrozzina. Sennonché, dall’audizione dei due militari che avevano redatto la relazione di servizio, sentiti sia dal Consiglio superiore della magistratura sia dall’autorità giudiziaria, era emerso che il dottor Cassata e la moglie di Gullotti colloquiavano da soli e che non era presente alcuna carrozzina né, tanto meno, alcun infante;

nel 1974 il dottor Cassata era stato protagonista di un viaggio in auto a Milano in compagnia del boss Giuseppe Chiofalo. Tale circostanza, allora segnalata al Consiglio superiore della magistratura da un esposto del senatore barcellonese Carmelo Santalco, è stata confermata dallo stesso Chiofalo nel corso della deposizione da lui resa il 20 febbraio 2004 innanzi al Tribunale di Catania, prima sezione penale, nel processo a carico, fra gli altri, di alcuni magistrati messinesi (i dottori Giovanni Lembo e Marcello Mondello) e del boss messinese Luigi Sparacio;

il dottor Antonio Franco Cassata gestisce a Barcellona Pozzo di Gotto un museo etno-antropologico che riceve considerevoli finanziamenti dalla Regione Siciliana e da enti locali, quali il Comune di Barcellona Pozzo di Gotto e la Provincia regionale di Messina, che operano nel territorio del proprio ufficio giudiziario;

il dottor Cassata nel 1998 aveva esercitato pressioni nei confronti di un magistrato allora in servizio al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, il dottor Daniele Cappuccio, affinché questi rinviasse la trattazione dell’udienza preliminare di un processo a carico, fra gli altri, del consigliere comunale Giuseppe Cannata, al fine di consentire l’elezione dello stesso Cannata a vicepresidente del Consiglio comunale di Barcellona Pozzo di Gotto prima dell’eventuale rinvio a giudizio dello stesso per gravi reati;

il dottor Cassata nel 1997 intervenne anche, come risultò dall’intercettazione di una conversazione che coinvolgeva personalmente il magistrato, in una vicenda giudiziaria che riguardava un carabiniere che al tempo gli faceva da autista. Il dottor Cassata cercò di frenare le iniziative dell’ufficiale dei carabinieri che conduceva le indagini ed interloquì anche con un complice del proprio autista, al quale prospettò la necessità di intimidire la denunciante, proposito poi effettivamente praticato dal suo interlocutore, che venne processato, e patteggiò la pena, per il reato di minaccia nei confronti della denunciante di quella vicenda;

il 21 maggio 2002 il dottor Cassata produsse al Consiglio superiore della magistratura un articolo della “Gazzetta del Sud” di quel giorno dal titolo: “Gullotti voleva la morte del Procuratore Generale Cassata”, riportante le dichiarazioni spontanee rese il giorno prima al Tribunale di Catania da Luigi Sparacio, che aveva affermato che il dottor Cassata era inavvicinabile e per questo Gullotti nel 1990 lo voleva uccidere. Sennonché, nel prosieguo dello stesso processo, Luigi Sparacio, sottoponendosi ad esame, riferì che tutte le dichiarazioni spontanee precedentemente rese erano false e dolosamente mirate a destituire di fondamento l’impostazione accusatoria di quel processo, a carico, fra gli altri, del magistrato Giovanni Lembo, amico del dottor Cassata e dallo stesso dottor Cassata assistito in sede disciplinare innanzi al Consiglio superiore della magistratura (queste le testuali parole di Sparacio, nel corso dell’esame reso all’udienza del 5 novembre 2004: “se ho fatto quelle dichiarazioni è per mandare dei messaggi”);

come detto, il Consiglio superiore della magistratura nel 2003 archiviò il procedimento ex articolo 2 del regio decreto-legge 3.1 maggio 1946, n. 511, a carico del dottor Cassata, rinvenendo in quelle condotte soltanto «un atteggiamento ‘interventista’ del dott. Cassata in situazioni nelle quali le regole deontologiche avrebbero dovuto consigliargli di astenersi mantenendo un contegno consono alla funzione professionale svolta che impone riserbo e rispetto delle altrui sfere di competenza e libera determinazione». Occorre rilevare, peraltro, che il Consiglio superiore della magistratura non ebbe contezza dei riscontri, sopra succintamente indicati, emersi solo successivamente alle proprie determinazioni (viaggio a Milano in compagnia del mafioso Pino Chiofalo; false dichiarazioni di Luigi Sparacio circa un inesistente proposito del boss Gullotti di attentare alla vita del dottor Cassata);

è da ritenere che anche in occasione della recente deliberazione della commissione del Consiglio superiore della magistratura, che ha proposto il dottor Cassata come Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina, tale organo non abbia avuto contezza di nuove emergenze riguardanti il dottor Cassata stesso;

in particolare, l’interrogante deve ritenere che il Consiglio superiore della magistratura non ha avuto alcuna contezza di un’allarmante vicenda riportata, ormai molti mesi orsono, sul numero 6/2007 del periodico “Micromega”. Su tale rivista, nel corpo di un articolo intitolato “Dialogo tra una cittadina informata e un ministro al di sopra di ogni sospetto”, imperniato su un “dialogo” tra Sonia Alfano (figlia del giornalista ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto l’8 gennaio 1993) e il Ministro della giustizia pro tempore Clemente Mastella, si leggeva: «Vorrei ad esempio segnalare il caso di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Qualche anno fa un giovane sostituto procuratore, De Feis, in servizio proprio a Barcellona ha condotto insieme ai carabinieri un’indagine grazie alla quale sono state scoperte le intime frequentazioni tra il pubblico ministero di Barcellona, Olindo Canali, e il dottor Salvatore Rugolo, cognato del capomafia - attualmente in carcere - Giuseppe Gullotti. Nel corso dell’indagine, mentre emergeva sempre più nitido un quadro di allarmante contiguità tra apparati investigativi e personaggi legati alla criminalità, il pubblico ministero e i carabinieri ricevettero delle pressioni da parte di Franco Cassata, sostituto procuratore generale della Corte di assise e d’appello di Messina, da parte di Rocco Sisci, procuratore capo del tribunale di Barcellona, e dallo stesso Olindo Canali, affinché le indagini venissero stoppate. Dopo due anni di quell’indagine non si sa più nulla, nonostante sia ancora argomento quotidiano di discussione sia al Palazzo di giustizia, sia nella città. Una cosa è certa: il titolare dell’indagine, De Feis, non è più a Barcellona, così come è stato trasferito il capitano dei carabinieri Cristaldi, mentre sono ancora al loro posto sia il sostituto procuratore generale Franco Cassata sia Rocco Sisci e Olindo Canali». Quanto sopra riportato dalla rivista “Micromega” non è mai stato, fino ad oggi, smentito da alcuno degli interessati;

è da ritenere, sempre a giudizio dell’interrogante, che il Consiglio superiore della magistratura non ha avuto contezza dell’informativa o delle informative che su tali indagini sono state redatte dalla Compagnia dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto, né ha provveduto all’audizione del dottor Andrea De Feis, già pubblico ministero a Barcellona Pozzo di Gotto, e del capitano Domenico Cristaldi, già comandante della Compagnia dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto, circa i contenuti e gli sviluppi di quell’indagine, che prendeva spunto dall’ispezione prefettizia che aveva portato allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Terme Vigliatore (Messina), si chiede di sapere:

se, prima di esprimere il proprio concerto alla proposta di nomina del dottor Antonio Franco Cassata come Procuratore generale presso la Corte di appello di Messina non intenda verificare, entro il proprio specifico ambito di competenza, se il Consiglio superiore della magistratura, nell’effettuare tale proposta, abbia avuto contezza delle eventuali risultanze a carico del dottor Cassata emerse nell’indagine condotta nel 2005 dalla Compagnia dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto allora comandata dal dottor Domenico Cristaldi su delega dell’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto dottor Andrea De Feis;

se, una volta verificata la veridicità di quanto riportato in premessa, non ritenga doverosa l’adozione di attività ispettiva di propria competenza presso gli uffici giudiziari suddetti, al fine di poter assumere le eventuali necessarie determinazioni in materia disciplinare. 

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-05864 presentata da ANGELA NAPOLI giovedì 27 marzo 2003 nella seduta n.288.

ANGELA NAPOLI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:

fin dal 27 marzo 2000, con atto ispettivo n. 4-29179 l'interrogante ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti;

infatti, il tribunale di Messina è sede di inchiesta su alcuni magistrati catanesi; il tribunale di Reggio Calabria è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e catanesi; il tribunale di Catania è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e reggini;

all'interrogante appariva, ad esempio, già allora inquietante la circostanza che uno degli inquirenti catanesi, titolare delle indagini sui colleghi messinesi e reggini, fosse egli stesso indagato a Messina;

durante i lavori svolti dalla Commissione nazionale antimafia nella XIII Legislatura era già emerso il "caso Catania", con il coinvolgimento di magistrati della procura della Repubblica di Catania per i quali era stata aperta una fase di indagine da parte della procura della Repubblica di Messina;

la fine della XIII Legislatura ha impedito alla precedente Commissione nazionale antimafia di fare piena luce sulle dichiarazioni rese alla stessa da Giambattista Scidà, ex Presidente del tribunale dei minori di Catania e dal dottor Nicolò Marino relative ad ipotetiche collusioni tra alcuni magistrati catanesi con uomini politici ed uomini della criminalità organizzata;

il Presidente Scidà aveva, infatti, denunziato che "la procura di Catania avrebbe assunto una posizione di vero dominio, incamerando notizie di reato senza approfondirle" ed in particolare ha sottolineato il fatto che il processo sull'ospedale "Garibaldi", "sarebbe stato bloccato per mesi dal dottor Carlo Busacca, Procuratore capo presso il tribunale di Catania, allo scopo di non sottoporre ad indagini Ignazio Sciortino, cognato del sostituto procuratore Carlo Caponcello";

il dottor Nicolò Marino divenne, invece, vittima del "caso Catania", in quanto, da titolare dell'inchiesta sull'ospedale "Garibaldi", ha attenzionato la relativa Commissione anomalie incaricata di valutare le offerte per la gara, che avrebbe escluso irregolarmente la ditta Costanzo per aggiudicare l'appalto alla cooperativa rossa di Giulio Romagnoli;

della Commissione faceva parte anche Sciortino e mentre gli altri componenti furono arrestati, questo fu invece lasciato libero;

peraltro nel comune di San Giovanni La Punta Giuseppe Gennaro, procuratore aggiunto di Catania ha comprato una villa che, secondo un'informativa della polizia, gli sarebbe stata ceduta da un costruttore legato al clan Laudani;

così oggi a Messina sono in corso indagini sul Capo della procura di Catania Mario Busacca, sul procuratore aggiunto Giuseppe Gennaro e sul PM Carlo Caponcello, e contemporaneamente a Catania si celebrano processi a carico dell'ex sostituto procuratore della DNA, Giovanni Lembo e dell'ex Capo del GIP Marcello Mondello (vedi notizie stampa giugno-luglio 2002);

della procedura penale del conflitto insorto in seno agli uffici giudiziari catanesi è stata quindi interessata la procura della Repubblica di Messina che ha elevato imputazioni nei confronti del dottor Busacca, per le quali è stata successivamente richiesta l'archiviazione;

proseguono, invece, le indagini che riguardano il dottor Giuseppe Gennaro;

le reciprocità delle due procure di Catania e Messina sono state evidenziate anche dal fallimento "Ceruso C. e F. srl" in cui è stato coinvolto l'imprenditore Angelo Scammacca di Catania che aveva denunziato il magistrato della città Francesco D'Alessandro;

nell'esposto dello Scammacca è stato denunciato che il fallimento sarebbe stato trattato in modo illecito per favorire alcuni personaggi collusi con la mafia;

il giudice D'Alessandro, all'interno dello stesso fallimento, ha svolto le funzioni di giudice delegato, giudice istruttore e consigliere estensore della sentenza in appello;

il giudice D'Alessandro presiede il processo Lembo-Sparacio;

un procedimento nei confronti del giudice D'Alessandro, dopo essere transitato dalle procure di Messina e Reggio Calabria confluirà, per competenza, a Catania;

l'assemblea della camera penale di Catania ha chiesto, inoltre, un'ispezione alla procura della Repubblica in merito alla gestione del collaboratore di giustizia Angelo Mascali, il quale durante la sua collaborazione avrebbe continuato a controllare il racket delle estorsioni e dell'usura con alcuni familiari legati alla cosca Santapaola -:

se non intenda dover avviare urgentemente adeguate visite ispettive presso le procure di Catania, Messina e Reggio Calabria, così come già richiesto dall'interrogante con l'atto ispettivo n. 4-29179;

se non ritenga, altresì, di dover fornire all'interrogante ed alla Commissione nazionale antimafia le risultanze di precedenti visite ispettive effettuate presso le tre procure in questione;

se non ritenga, ancora, di voler salvaguardare l'autonomia e l'immagine della magistratura richiedendo gli opportuni interventi nei confronti di coloro che si rendono responsabili di tali situazioni a discapito della vera giustizia.(4-05864).